Ordinanza n. 150 del 1995

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ORDINANZA N.150

ANNO 1995

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

-     Prof. Antonio BALDASSARRE, Presidente

-     Prof. Vincenzo CAIANIELLO

-     Avv. Mauro FERRI

-     Prof. Luigi MENGONI

-     Prof. Enzo CHELI

-     Dott. Renato GRANATA

-     Prof. Giuliano VASSALLI

-     Prof. Francesco GUIZZI

-     Prof. Cesare MIRABELLI

-     Prof. Fernando SANTOSUOSSO

-     Avv. Massimo VARI

-     Dott. Cesare RUPERTO

-     Dott. Riccardo CHIEPPA

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 649 del codice di procedura penale, promossi con le ordinanze emesse il 12 aprile 1994, 28 aprile 1994, 31 maggio 1994, 17 maggio 1994 e il 28 giugno 1994 dal Tribunale militare di Padova, rispettivamente iscritte ai nn. 431, 432, 433, 484, 496, 497, 498 e 598 del registro ordinanze 1994 e pubblicate nelle Gazzette Ufficiali della Repubblica, nn. 30, 37, 38 e 42, prima serie speciale, dell'anno 1994.

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio del 5 aprile 1995 il Giudice relatore Antonio Baldassarre.

RITENUTO che il Tribunale militare di Padova, nel giudizio nei confronti di Yuri Sangalli -- già condannato con sentenza del 23 giugno 1992 per il reato di mancanza alla chiamata, in relazione alla omessa presentazione alle armi iniziata il 30 novembre 1991 e non ancora cessata alla data del giudizio, e, per questo, imputato del reato di cui all'art. 148, n. 2, del codice penale militare di pace (diserzione) per l'assenza proseguita dopo la condanna -- ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, 25, secondo comma, e 27, primo comma, della Costituzione, nei confronti dell'art. 649 del codice di procedura penale, nella parte in cui consente che per un unico reato permanente, per il quale la permanenza sia una o più volte giudizialmente interrotta, sia irrogabile un complessivo trattamento sanzionatorio superiore a quello edittalmente previsto per il reato medesimo; che il giudice a quo, premesso di condividere e di non voler contrastare l'orientamento unanime della giurisprudenza, secondo il quale i reati di assenza dal servizio sono reati permanenti (con la conseguenza che, una volta intervenuta la condanna, la permanenza viene interrotta e la condotta successiva dà luogo ad un nuovo reato), rileva che la ricostruzione della permanenza nei reati omissivi, accolta dalla giurisprudenza, pone seri problemi di legittimità costituzionale in relazione alle conseguenze che si determinano a seguito delle plurime condanne per le condotte illecite, conseguenze che, perdurando successivamente ad ogni giudizio per il configurarsi, ogni volta, di nuovi e autonomi reati della stessa specie, sono particolarmente gravi quando, come nel caso, la permanenza del reato può protrarsi per venticinque anni; che, pertanto, secondo il giudice a quo, la previsione della interruzione giudiziale della permanenza, che discende dall'art. 649 del codice di procedura penale, violerebbe le seguenti disposizioni costituzionali: a) l'art. 27, primo comma, in quanto la responsabilità penale dell'imputato non dipende sol tanto dal suo operato, ma anche dal funzionamento dell'apparato giudiziario militare; b) l'art. 25, secondo comma, in quanto la moltiplicazione dei giudizi comporta un innalzamento della pena edittale praticamente indeterminato sino al limite del triplo del massimo della pena edittale, previsto dall'art. 81 del codice penale; c) l'art. 3, in quanto, a parità di periodo di assenza dal servizio, il trattamento sanzionatorio complessivo viene a derivare dal grado di efficienza dell'apparato giudiziario competente a conoscere del reato nei vari autonomi episodi che si creano con l'interruzione giudiziale; che identiche questioni sono state sollevate dallo stesso Tribunale militare di Padova con altre sette ordinanze, emesse in altrettanti giudizi nei confronti di militari imputati di diserzione e in precedenza già condannati o per diserzione o per mancanza alla chiamata; che è intervenuto in tutti i giudizi il Presidente del Consiglio dei ministri, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile e comunque non fondata, in quanto l'art. 649 del codice di procedura penale non contiene affatto il principio della "interruzione giudiziale della permanenza", ma enuncia soltanto il principio del divieto di un secondo giudizio su un medesimo fatto, non potendosi, in ogni caso, considerare in alcun modo identico un fatto che, pur mantenendo inalterate le caratteristiche dell'elemento oggettivo, si collochi, tuttavia, in una dimensione temporale diversa rispetto a quella in cui si è verificato il fatto già giudicato; che, inoltre, ad avviso dell'Avvocatura dello Stato, appare del tutto contraddittoria la formulazione della questione, dal momento che i giudici a quibus, mentre contestano le conseguenze dell'interruzione giudiziale del reato permanente, nello stesso tempo affermano di condividere l'assunto secondo il quale la contestazione di un nuovo addebito dopo la condanna per il reato di mancanza alla chiamata o per quello di diserzione non comporterebbe alcuna violazione del principio del ne bis in idem, contenuto nell'art. 649 del codice di procedura penale.

CONSIDERATO che, poichè le ordinanze del Tribunale militare di Padova hanno sollevato questioni di legittimità costituzionale sulla medesima disposizione, i relativi giudizi vanno riuniti per essere decisi con un unico provvedimento; che, contrariamente a quanto mostrano di ritenere i giudici a quibus, l'effetto della interruzione giudiziale della permanenza non discende affatto dalla applicazione del principio contenuto nell'art. 649 del codice di procedura penale, dal momento che questa disposizione afferma soltanto il principio di civiltà giuridica, oltre che di generalissima applicazione, in forza del quale chi è stato prosciolto o condannato con sentenza divenuta irrevocabile non può essere di nuovo sottoposto a procedimento penale per il medesimo fatto, neppure se questo viene qualificato diversamente per il titolo, per il grado o per le circostanze; che, in realtà, l'effetto lamentato dai giudici a quibus discende dalla configurazione data dal legislatore ai reati di assenza dal servizio e dalle altre norme che disciplinano la prescrizione del reato permanente (art. 158 del codice penale e, soprattutto, art. 68 del codice penale militare di pace) e l'estinzione dell'obbligo del servizio militare (art. 9 del d.P.R. 14 febbraio 1964, n. 237); che, del resto, gli stessi giudici a quibus, mentre affermano di non contestare l'interpretazione, unanime nella giurisprudenza, circa la qualificazione dei reati di assenza dal servizio come reati permanenti, per i quali vale anche il principio della interruzione giudiziale, dubitano, poi, della legittimità costituzionale dell'art. 649 del codice di procedura penale, che, nel fissare il principio del ne bis in idem, non indica affatto quali siano gli elementi sulla cui base possa essere ritenuta l'identità del fatto, non potendosi, a tale fine, fare riferimento altro che alle singole norme incriminatrici; che, pertanto, la questione di legittimità costituzionale sollevata dai giudici a quibus, in quanto proposta nei confronti di una disposizione alla quale non può in alcun modo ricondursi l'interpretazione che gli stessi giudici intendono contestare, deve essere dichiarata manifestamente inammissibile.

Visti gli artt. 26 della legge 11 marzo 1953, n. 87 e 9, secondo comma, delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi, dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell'art. 649 del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 25, secondo comma, e 27, primo comma, della Costituzione, dal Tribunale militare di Padova con le ordinanze indicate in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 04/05/95.

Antonio BALDASSARRE, Presidente

Antonio BALDASSARRE, Redattore

Depositata in cancelleria il 05/05/95.