Sentenza n. 6 del 1976
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SENTENZA N. 6

ANNO 1976

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori giudici:

Dott. Luigi OGGIONI, Presidente

Avv. Angelo DE MARCO

Avv. Ercole ROCCHETTI

Prof. Enzo CAPALOZZA

Prof. Vincenzo Michele TRIMARCHI

Dott. Nicola REALE

Prof. Paolo ROSSI

Avv. Leonetto AMADEI

Dott. Giulio GIONFRIDA

Prof. Edoardo VOLTERRA

Prof. Guido ASTUTI

Dott. Michele ROSSANO

Prof. Antonino DE STEFANO,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 90 del codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il 2 aprile 1974 dal tribunale di Venezia nel procedimento penale a carico di Manzato Silvio, iscritta al n. 219 del registro ordinanze 1974 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 167 del 26 giugno 1974.

Udito nella camera di consiglio del 30 ottobre 1975 il Giudice relatore Ercole Rocchetti.

Ritenuto in fatto

Nel corso del procedimento penale a carico di Manzato Silvio imputato del delitto di ratto, e, per lo stesso fatto, già giudicato e condannato in primo e secondo grado per i reati di atti di libidine violenta e di atti osceni, il tribunale di Venezia ha proposto questione di legittimità costituzionale dell'art. 90 del codice di procedura penale (che sancisce il principio, in ordine al medesimo fatto, della inammissibilità di un secondo giudizio), sotto due distinti profili, deducendo rispettivamente la violazione dell'art. 24, secondo comma, e 3 della Costituzione.

Osserva, innanzi tutto, il giudice a quo che la interpretazione della giurisprudenza e della dottrina assolutamente prevalenti, secondo cui la preclusione dell'art. 90 non opera nella ipotesi di concorso formale di reati, viola il diritto di difesa dell'imputato in quanto incide sul suo interesse a non essere vessato più volte in relazione al medesimo fatto con distinte procedure giudiziarie, rimesse alla libera determinazione del pubblico ministero, che avrebbe così il potere di frazionare nel tempo la contestazione dei diversi reati, in contrasto con i principi dell'unità dell'azione penale e della eccezionalità dell'accusa suppletiva.

In secondo luogo, secondo il tribunale di Venezia, il requisito della irrevocabilità della sentenza precedente, espressamente richiesto dall'art. 90, vanificherebbe l'esigenza a cui tende il principio del ne bis in idem ponendosi in contrasto col principio di eguaglianza, perché non ci sarebbe ragione di regolare diversamente il caso in cui sia intervenuta sentenza irrevocabile e quello in cui la sentenza emessa irrevocabile non sia ancora divenuta.

L'ordinanza é stata ritualmente notificata comunicata e pubblicata.

Nel giudizio dinanzi alla Corte nessuna delle parti si é costituita, né é intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri: pertanto la causa viene discussa e decisa in camera di consiglio, ai sensi dell'art. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, primo comma, delle Norme integrative per i giudizi dinanzi alla Corte costituzionale.

Considerato in diritto

1. - Dispone l'art. 90 del codice di procedura penale che l'imputato condannato o prosciolto con sentenza divenuta irrevocabile non può essere sottoposto a procedimento penale per il medesimo fatto.

Secondo la interpretazione comunemente accolta, la norma in esame non si applica nel caso di concorso formale di reati, che si verifica quando (art. 81 c.p.), con una sola azione od omissione, vengono violate diverse disposizioni di legge. In tal caso, anche se l'azione é unica, gli eventi, che sono plurimi e diversi, danno ontologicamente luogo a più fatti, che possono anche essere separatamente perseguiti.

Chiamato a decidere se un imputato, che era stato condannato per atti di libidine violenti in persona di una minore degli anni quattordici, potesse in successivo giudizio essere chiamato a rispondere, in base allo stesso episodio, anche di ratto a fine di libidine, il tribunale di Venezia ha ritenuto che, nella specie, alla stregua dell'orientamento interpretativo dominante, dovesse ammettersi la possibilità di un separato e nuovo giudizio "per lo stesso fatto". Non condividendo, però, tale soluzione, il tribunale ha sollevato questione di legittimità costituzionale del citato art. 90, in riferimento agli artt. 24 e 3 della Costituzione.

Secondo il giudice a quo, la violazione dell'art. 24 sarebbe determinata dal disagio materiale e morale che subisce l'imputato, allorché é costretto a difendersi più volte per uno stesso fatto; l'art. 3, poi, sarebbe violato perché la norma denunciata, prevedendo la non reiterabilità del procedimento per uno stesso fatto solo per l'imputato condannato o prosciolto con sentenza divenuta irrevocabile, non la esclude anche quando la sentenza non sia ancora passata in giudicato.

2. - Entrambe le questioni non sono fondate.

Benché sia certamente opportuno che, per uno stesso fatto determinante più eventi criminosi, come per più fatti tra loro connessi, si celebri un unico processo - il che, del resto, dispongono precise norme processuali (artt. 45 e seguenti del c.p.p.) - non per questo può dirsi che, ove ciò non si verifichi, possa restarne violato l'art. 24, secondo comma, della Costituzione. É evidente, infatti, che se i giudizi, invece di essere riuniti, sono separati, il diritto di difesa é sempre rispettato, purché in ciascuno di essi si faccia applicazione di quelle norme che sono preordinate alla sua tutela.

In altri termini, la semplice reiterazione del processo in ordine a uno stesso episodio, ma con riferimento a più "fatti" in cui esso si scinda, non può influire sul diritto di difesa dell'imputato, perché, nel caso, la tutela che a quel diritto é riservata, non viene limitata od esclusa in alcun modo.

Né può dirsi che sia violato il principio di eguaglianza perché, nella sua funzione preclusiva alla reiterazione di un procedimento penale, la norma denunciata non equipara le due situazioni giuridiche, della sentenza divenuta irrevocabile rispetto a quella che tale ancora non sia. Dette situazioni sono profondamente differenziate sul piano giuridico e perciò il diverso trattamento é di per sé giustificato.

Tanto più, deve aggiungersi, che l'ordinamento processuale penale appresta, a tutela dell'unità del processo, altri istituti, dalla cui applicazione risulta oltremodo difficile che ad un procedimento terminato con sentenza, benché non ancora irrevocabile, altro ne possa seguire per lo stesso fatto, (artt. 45 c.p.p. citato, sulla connessione; 445 c.p.p. sulla contestazione di reati concorrenti; 447 sulla rimessione al P.M. ove il fatto risulti diverso da quello contestato ecc.). Nel caso poi di una difettosa applicazione della normativa connessa ai richiamati istituti, va ricordato che sussiste pur sempre il rimedio fornito dalla norma di chiusura dell'art. 579 c.p.p., il quale dispone che, quando più sentenze su un medesimo fatto e contro la stessa persona siano divenute irrevocabili, la Corte di cassazione deve provvedere a decidere quale tra esse debba essere eseguita, e ad annullare le altre.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 90 del codice di procedura penale, proposta, con l'ordinanza indicata in epigrafe, in riferimento agli artt. 24, secondo comma, e 3 della Costituzione.

Così deciso in Roma, in camera di consiglio, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 14 gennaio 1976.

Luigi OGGIONI - Angelo DE MARCO - Ercole ROCCHETTI - Enzo CAPALOZZA - Vincenzo Michele TRIMARCHI - Nicola REALE - Paolo ROSSI - Leonetto AMADEI -  Giulio GIONFRIDA - Edoardo VOLTERRA - Guido ASTUTI - Michele ROSSANO - Antonino DE STEFANO.

Arduino SALUSTRI – Cancelliere

 

Depositata in cancelleria il 15 gennaio 1976.