SENTENZA N. 28
ANNO 1969
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
Prof. Aldo SANDULLI, Presidente
Prof. Giuseppe BRANCA
Prof. Michele FRAGALI
Prof. Costantino MORTATI
Prof. Giuseppe CHIARELLI
Dott. Giuseppe VERZÌ
Dott. Giovanni BATTISTA BENEDETTI
Prof. Francesco PAOLO BONIFACIO
Dott. Luigi OGGIONI
Dott. Angelo DE MARCO
Avv. Ercole ROCCHETTI
Prof. Enzo CAPALOZZA
Prof. Vincenzo MICHELE TRIMARCHI
Prof. Vezio CRISAFULLI
Dott. Nicola REALE
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 553, n. 2, del Codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il 7 dicembre 1967 dalla Corte di cassazione - sezione terza penale - nel procedimento di revisione di decreti penali emanati a carico di Tiozzo Alberto, iscritta al n. 24 del Registro ordinanze 1968 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 84 del 30 marzo 1968.
Udita nella camera di consiglio del 30 gennaio 1969 la relazione del Giudice Nicola Reale.
Ritenuto in fatto
Con ricorso depositato il 16 giugno 1966 il signor Alberto Tiozzo propose istanza di revisione riguardo a due decreti penali in data 11 novembre 1965, divenuti esecutivi, con i quali il pretore di Vicenza lo aveva condannato all'ammenda complessiva di lire 121.000, in quanto colpevole di varie contravvenzioni, per omesso versamento di contributi assicurativi e previdenziali e per aver mancato di adempiere a comunicazioni e registrazioni per un lavoratore dipendente.
Il ricorrente giustificava l'istanza esponendo che lo stesso fatto posto a fondamento dei predetti decreti di condanna, l'esistenza cioè di un rapporto di lavoro subordinato, era stato dichiarato non sussistente con la sentenza pronunziata, il 26 gennaio 1966, dal medesimo giudice: sentenza di assoluzione in palese contrasto con i precedenti decreti e tale, quindi, da legittimare la revisione, ai sensi dell'art. 554 del Codice di procedura penale.
In via preliminare, peraltro, il Tiozzo denunziava l'illegittimità costituzionale della norma di cui all'art. 553, n. 2, del Codice di procedura penale, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, in quanto essa ammette la revisione in materia contravvenzionale soltanto a favore dei condannati per contravvenzione, che, in conseguenza della condanna, siano stati dichiarati contravventori abituali o professionali, e preclude quindi, nel caso di specie, la possibilità dell'annullamento dei ricordati decreti di condanna.
La Corte di cassazione, sezione terza penale, con ordinanza 7 dicembre 1967, ha ritenuto la questione, nei termini anzidetti, non manifestamente infondata. Ha osservato che l'istituto della revisione, come mezzo straordinario di impugnazione contro sentenze irrevocabili di condanna, ha lo scopo di riparare un errore giudiziario, così come previsto dall'art. 24, ultimo comma, della Costituzione, e che, in riferimento appunto a questa finalità, sembra dubbia la compatibilità col principio costituzionale di eguaglianza (art. 3 Cost.) della disposizione dell'art. 553, n. 2, del Codice di procedura penale, in quanto essa limita ai soli contravventori abituali e professionali la legittimazione a chiedere la revisione senza una logica e razionale giustificazione.
L'ordinanza é stata notificata al ricorrente e al Presidente del Consiglio dei Ministri il 6 febbraio 1968, al Pubblico Ministero il 7 febbraio successivo; é stata comunicata ai Presidenti della Camera dei Deputati e del Senato il 3 febbraio 1968 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 84 del 30 marzo 1968.
In difetto di costituzioni nell'attuale giudizio, la questione, ai sensi dell'art. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 e dell'art. 9, primo comma, delle Norme integrative 24 marzo 1956, é stata esaminata da questa Corte in camera di consiglio.
Considerato in diritto
L'art. 553 del Codice di procedura penale ammette, in ogni tempo e nei casi determinati dalla legge, la revisione delle sentenze di condanna, divenute irrevocabili, nel n. I indistintamente a favore dei condannati per delitto e nel n. 2 a favore dei soli condannati per contravvenzione, che in conseguenza della condanna siano stati dichiarati contravventori abituali o professionali.
Questo limite, apposto in materia contravvenzionale alla legittimazione al ricorso per la revisione, é denunziato, con l'ordinanza della Corte di cassazione, per i seguenti motivi.
Sul presupposto che l'istituto della revisione, come mezzo di impugnazione straordinaria contro le sentenze irrevocabili di condanna, ha lo scopo di riparare un errore giudiziario, così come previsto dall'art. 24, ultimo comma, della Costituzione, la Corte esprime il dubbio che, condizionandosi ad una qualità personale dell'interessato la facoltà di esercitare il diritto di impugnazione, rimanga violato il principio dell'eguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge (art. 3 della Costituzione).
La norma impugnata, secondo la Corte di cassazione, importa disparità di trattamento in danno dei soggetti condannati per contravvenzione, tanto nei confronti di coloro che, dopo analoga condanna, sono anche dichiarati contravventori abituali o professionali (nei casi rispettivamente stabiliti dagli artt. 104 e 105 del Codice penale), quanto nei confronti delle persone giudicate colpevoli di delitti ed ammesse indiscriminatamente a proporre l'istanza di revisione.
Ciò, si aggiunge, senza che la differenza di trattamento risponda a criteri di razionalità e ad obiettivi presupposti logici.
La questione é fondata.
L'istituto della revisione si pone nel sistema delle impugnazioni penali quale mezzo straordinario di difesa del condannato ed é preordinato alla riparazione degli errori giudiziari, mediante l'annullamento di sentenze di condanna, che siano riconosciute ingiuste posteriormente alla formazione del giudicato.
Esso risponde all'esigenza, di altissimo valore etico e sociale, di assicurare, senza limiti di tempo ed anche quando la pena sia stata espiata o sia estinta, la tutela dell'innocente, nell'ambito della più generale garanzia, di espresso rilievo costituzionale, accordata ai diritti inviolabili della personalità.
La revisione é necessariamente subordinata a condizioni, limitazioni e cautele, nell'intento di contemperarne le finalità con l'interesse, fondamentale in ogni ordinamento, alla certezza e stabilità delle situazioni giuridiche ed alla intangibilità delle pronunzie giurisdizionali di condanna, che siano passate in giudicato.
Ma l'evoluzione della nostra legislazione positiva dimostra una graduale estensione delle categorie dei soggetti in favore dei quali la revisione dei giudicati penali é stata ammessa, sul riflesso di un sempre più accentuato favor per la tutela degli interessi materiali e morali di chi sia stato a torto condannato.
Il detto rimedio, previsto come eccezionale nel Codice di rito del 1865, acquistò, nel Codice di procedura penale del 1913, la figura di mezzo di impugnazione, ancorché straordinario, di tutte le sentenze di condanna irrevocabili per delitto.
E soltanto il legislatore del 1930 ne estese l'ambito di applicazione ai condannati a titolo contravvenzionale, nei limiti sopra ricordati.
Dai lavori preparatori risulta che tali limiti erano intesi la non provocare giudizi di revisione per reati lievissimi, non importanti alcuna menomazione morale, mentre ad altri pregiudizi avrebbe potuto sopperire la concessione della grazia.
L'estensione dell'istituto, a favore dei condannati dichiarati contravventori abituali o professionali, venne spiegata, d'altra parte, con la gravità di tale dichiarazione, per gli effetti ad essa conseguenti.
Dopo l'entrata in vigore della Costituzione (a parte la legge 23 maggio 1960, n. 504, che ha dettato nuove norme solo in materia di riparazione degli errori giudiziari accertati in sede di revisione), l'istituto ha subito modifiche per effetto della legge 18 giugno 1955, n. 517, e della successiva legge 14 maggio 1965, n. 481, che, fra l'altro, ha ampliato il numero dei casi di revisione e i limiti di essa (artt. 554 e 555).
Ma le innovazioni non hanno riguardato l'art. 553, n. 2, e, quindi, é rimasta ferma l'esclusione, dal diritto all'accertamento dell'errore giudiziario, di coloro che siano stati condannati per contravvenzione e non siano stati dichiarati, in conseguenza, contravventori abituali o professionali.
Orbene tale esclusione appare in evidente violazione del principio di eguaglianza (art. 3, primo comma, della Costituzione).
Se, infatti, per una esigenza di giustizia sostanziale (che ha riflesso nei principi enunciati nell'art. 24, quarto comma, Cost.) l'istituto della revisione é stato positivamente preordinato anche a tutela di coloro che siano stati ingiustamente condannati per contravvenzione, la restrizione contenuta nella norma impugnata, in danno della parte più numerosa dei condannati predetti, appare evidentemente non sorretta da motivi razionali e logicamente rispondenti ad una obiettiva diversità di situazioni.
É appena il caso di ricordare che il legislatore, di fronte alle difficoltà di stabilire un criterio sostanziale di differenziazione fra delitti e contravvenzioni, ritenne opportuno adottare il criterio meramente estrinseco e formale della diversa specie di pena principale stabilita per ciascuna delle due categorie (art. 39 Cod. pen.): l'arresto e l'ammenda per le contravvenzioni.
Tali sanzioni possono, in concreto, risultare di notevole gravità, ove se ne considerino la natura e i limiti quantitativi nonché le altre conseguenze previste dalla legge penale.
Con l'arresto, la restrizione della libertà personale del condannato può giungere sino ad un massimo di tre anni, aumentabili sino a cinque e a sei anni, se concorrono, rispettivamente, più circostanze aggravanti o più reati.
D'altra parte l'ammenda (convertibile in arresto fino ad un massimo di due anni e, in caso di concorso di reati, di tre anni), può ascendere alla somma di lire 400.000, aumentabile fino al triplo per le condizioni economiche del reo e può non essere limitata nelle ipotesi di determinazione proporzionale del suo ammontare, mentre dei massimi molto elevati risultano preveduti anche da leggi speciali.
La condanna per contravvenzione può importare pene accessorie, le quali incidono gravemente sulla sfera soggettiva del condannato, come la sospensione dall'esercizio da una professione o da un'arte e la pubblicazione della sentenza di condanna nonché, in casi determinati, altre che sono proprie dei delitti.
E può, altresì, avere effetti sul giudizio circa la capacità dell'imputato a commettere ulteriori infrazioni, nei casi di recidiva, o per l'applicazione di una misura di sicurezza, come la libertà vigilata, che, talora, é comminata indipendentemente dalla declaratoria di abitualità o professionalità nel reato.
Detta condanna é inoltre soggetta, salvo alcuni temperamenti, ad iscrizione nel casellario giudiziale e comporta, con l'obbligo delle spese processuali, anche quello (enunciato nell'art. 185 Cod. pen.) delle restituzioni e del risarcimento del danno, nei casi in cui il fatto accertato ne abbia arrecato a terzi.
Le situazioni, conseguenti all'applicazione delle norme sopra menzionate, dimostrano come in molti casi, diversi da quelli contemplati dal legislatore nell'art. 553, n. 2, del Codice di procedura penale, la condanna per contravvenzione possa causare serio pregiudizio non solo alla libertà e al patrimonio, ma anche alla onorabilità e alla dignità morale e sociale dei soggetti.
Beni morali che devono essere tutelati di fronte alla riprovazione sociale, la quale, anche indipendentemente dalla specie e dalla misura della pena inflitta, accompagna la dichiarazione giudiziale di colpevolezza in ordine a taluni reati contravvenzionali.
Tale riprovazione é determinata da valutazioni etico-sociali della condotta dei soggetti, in quanto ritenuta lesiva di principi fondamentali della civile convivenza, quali ad esempio la pubblica fede, la incolumità individuale, la pubblica salute e il buon costume, che risultano salvaguardati anche nei confronti di mere situazioni di pericolo e per fini di prevenzione, da norme ipotizzanti reati contravvenzionali, contenute nel Codice penale e in leggi speciali.
Dalle considerazioni che precedono emerge che la discriminazione operata dal legislatore in danno di alcune categorie di condannati per contravvenzione, come eccezione all'esercizio del diritto di veder riconosciuta la propria innocenza, anche avverso le risultanze di un giudicato e quale che sia il reato per cui é intervenuta condanna, lede il principio di eguaglianza, in quanto non ha alcuna apprezzabile rispondenza alla realtà e non é basata su presupposti logici ed obiettivi, che valgano a giustificarne l'adozione.
Pertanto la norma dell'art. 553, n. 2, del Codice di procedura penale va dichiarata costituzionalmente illegittima, nella parte in cui limita il diritto di chiedere la revisione di condanna per contravvenzione al solo caso che, in conseguenza di essa, il condannato sia stato dichiarato contravventore abituale o professionale.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 553, n. 2, del Codice di procedura penale limitatamente alle parole: "se in conseguenza di essa il condannato é stato dichiarato contravventore abituale o professionale".
Così deciso in Roma, in camera di consiglio, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 14 febbraio 1969.
Aldo SANDULLI - Giuseppe BRANCA - Michele FRAGALI - Costantino MORTATI - Giuseppe CHIARELLI - Giuseppe VERZÌ - Giovanni BATTISTA BENEDETTI - Francesco PAOLO BONIFACIO - Luigi OGGIONI - Angelo DE MARCO - Ercole ROCCHETTI - Enzo CAPALOZZA - Vincenzo MICHELE TRIMARCHI - Vezio CRISAFULLI - Nicola REALE
Depositata in cancelleria il 5 marzo 1969.