SENTENZA N. 69
ANNO 1976
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori giudici:
Prof. Paolo ROSSI, Presidente
Dott. Luigi OGGIONI
Avv. Angelo DE MARCO
Avv. Ercole ROCCHETTI
Prof. Enzo CAPALOZZA
Prof. Vincenzo Michele TRIMARCHI
Prof. Vezio CRISAFULLI
Dott. Nicola REALE
Avv. Leonetto AMADEI
Dott. Giulio GIONFRIDA
Prof. Edoardo VOLTERRA
Prof. Guido ASTUTI
Dott. Michele ROSSANO
Prof. Antonino DE STEFANO,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 11, secondo comma, del codice penale, promosso con ordinanza emessa il 30 aprile 1974 dalla Corte d'assise di Venezia nel procedimento penale a carico di Zennaro Giorgio, iscritta al n. 349 del registro ordinanze 1974 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 284 del 30 ottobre 1974.
Udito nella camera di consiglio del 15 gennaio 1976 il giudice relatore Guido Astuti.
Ritenuto in fatto
Nel corso di un procedimento penale a carico di Zennaro Giorgio la Corte di assise di Venezia ha sollevato, accogliendo l'eccezione proposta dalla difesa, questione di legittimità costituzionale dell'art. 11, secondo comma, del codice penale, in riferimento agli artt. 10, primo comma, e 24, secondo comma, della Costituzione.
La norma impugnata, nel prevedere la possibilità di rinnovamento del giudizio per determinati fatti che siano già stati giudicati all'estero, violerebbe il principio della irripetibilità del giudizio penale, la cui osservanza, quale norma internazionale generalmente riconosciuta, sarebbe imposta dall'art. 10 Cost., primo comma; ed inoltre si porrebbe in contrasto con gli artt. 2 e 24 Cost., che tutelano i diritti inviolabili dell'uomo, tra cui quello ad un "processo giusto".
L'ordinanza, a sostegno dell'esistenza di una norma internazionale generalmente riconosciuta di divieto del bis in idem, richiama la Convenzione europea dei diritti dell'uomo firmata a Roma il 4 novembre 1950 e ratificata con legge 4 agosto 1955, n. 848, il Patto internazionale dei diritti civili e politici, art. 14/7, firmato a New York il 6 dicembre 1966, sottoscritto dall'Italia il 18 gennaio 1967, ma non ratificato, e la Convenzione europea sul valore internazionale delle sentenze penali (art. 53), sottoscritta a l'Aja il 28 maggio 1970, ma non ratificata.
La questione sarebbe rilevante essendo già stato l'imputato giudicato ed assolto per i medesimi fatti, commessi a Copenaghen, dall'autorità giudiziaria danese.
Non vi é stata costituzione della parte privata né intervento del Presidente del Consiglio dei ministri.
Considerato in diritto
1. - Con l'ordinanza di rimessione viene sollevata, in riferimento agli artt. 10, primo comma, e 24, secondo comma, della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 11, secondo comma, del codice penale. Questa disposizione, per cui nei casi di reati commessi all'estero indicati negli artt. 7, 8, 9 e 10 dello stesso codice, "il cittadino o lo straniero, che sia stato giudicato all'estero, é giudicato nuovamente nello Stato, qualora il Ministro della giustizia ne faccia richiesta", violerebbe - secondo il giudice a quo - sia il principio del ne bis in idem, facente parte delle norme internazionali generalmente riconosciute la cui osservanza é imposta dall'art. 10, primo comma, della Costituzione, sia anche i principi del "processo giusto", da considerarsi tra i diritti inviolabili dell'uomo ai sensi degli artt. 2 e 24, secondo comma, della Costituzione.
L'ordinanza osserva al riguardo che "da una parte il Patto internazionale dei diritti civili e politici del 1966, all'art. 14/7, prevede il divieto del bis in idem come norma di carattere internazionale e pone detto divieto tra le garanzie fondamentali dell'uomo quale requisito del "processo giusto", dall'altra parte la Convenzione europea sul valore internazionale delle sentenze penali, all'art. 53, prevede espressamente la stessa garanzia, come é noto più pregnante quando la previa sentenza irrevocabile sia - come nel caso in esame - di assoluzione"; ed aggiunge che non dovrebbe attribuirsi rilievo alla circostanza che dette convenzioni non sono ancora operanti per non essere stati perfezionati i relativi strumenti di ratifica, dal momento che i principi del "processo giusto" sono stati recepiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali del 1950, ratificata dall'Italia con legge 4 agosto 1955, n. 848.
2. - La questione non é fondata. Questa Corte ha già avuto occasione di pronunciarsi sulla questione di legittimità del primo comma dell'art. 11 del codice penale, per cui nel caso di reati commessi nel territorio dello Stato "il cittadino o lo straniero é giudicato nello Stato, anche se sia stato giudicato all'estero". Anche per tale analoga ipotesi di rinnovamento del giudizio in Italia, era stata proposta la questione di costituzionalità in riferimento all'art. 10 della Costituzione; questione di cui fu ritenuta la non fondatezza con sentenza n. 48 del 1967, sulla base di motivi interamente validi ed applicabili anche in relazione al disposto del secondo comma dell'art. 11, che la Corte giudica meritevoli di piena conferma.
Fu osservato nella ricordata sentenza che il divieto del bis in idem con riferimento alle sentenze pronunciate all'estero non ha il valore di principio comune alla generalità degli ordinamenti statuali moderni, e non può pertanto considerarsi come una delle "norme del diritto internazionale generalmente riconosciute", a cui l'ordinamento italiano si conforma giusta il disposto dell'art. 10 della Costituzione. Per vero, la adozione del ne bis in idem come principio regolatore delle relazioni tra due giudizi di organi giurisdizionali appartenenti al medesimo ordinamento statuale, e il riconoscimento della sua validità anche nell'ordinamento internazionale per le sentenze dei tribunali internazionali ("come é richiesto, per i rapporti giuridici internazionali, dalle medesime esigenze che sono a fondamento del principio nei rapporti interni"), non comporta affatto quale logica conseguenza l'applicabilità del medesimo principio come norma generale regolatrice delle relazioni tra le competenze giurisdizionali e le decisioni in materia penale di organi giudiziari appartenenti ad ordinamenti diversi.
Al contrario, l'ordinamento italiano, come quelli della maggior parte degli Stati moderni, si ispira ai principi della territorialità ed obbligatorietà generale della legge penale, secondo i criteri stabiliti dagli artt. 6 e seguenti del codice penale; e in particolare prevede la punibilità anche dei delitti comuni commessi all'estero, sia da cittadini sia da stranieri, quando il reo sia presente nel territorio italiano, nei casi e alle condizioni indicate negli artt. 9 e 10, con la possibilità di rinnovamento del giudizio, indipendentemente dall'esito del processo già svoltosi all'estero, la cui sentenza, anche di proscioglimento, non ha efficacia preclusiva all'applicazione della legge penale italiana.
Questi principi, a cui si informano entrambe le disposizioni del primo e del secondo comma dell'art. 11, hanno una obbiettiva giustificazione nella difforme realtà della disciplina penale e processuale penale nei diversi ordinamenti giuridici positivi, nei quali "la valutazione sociale e politica dei fatti umani, in ispecie nel campo penale, si manifesta con variazioni molteplici e spesso profonde da Stato a Stato", con la conseguente tendenza a mantenere come regola, nell'autonomia dei singoli ordinamenti, il principio della territorialità. "Una efficacia preclusiva della sentenza penale in campo internazionale presupporrebbe d'altronde, oltre la già rilevata identità di riflessi sociali e politici, anche una assai larga uniformità di previsione delle varie fattispecie penali, e una pressoché identica valutazione, nella coscienza dei popoli, delle varie forme delittuose e della entità e pericolosità della delinquenza in ciascuno Stato: condizioni che non sussistono o non sussistono in misura adeguata. Il che spiega e dà fondamento attuale al permanere del principio della territorialità nelle varie legislazioni" (sentenza n. 48 del 1967).
3. - Il principio ne bis in idem non può dunque considerarsi, rispetto alle sentenze straniere, come principio generale di diritto riconducibile alla categoria delle norme del diritto internazionale generalmente riconosciuto, oggetto di recezione automatica ai sensi dell'art. 10 della Costituzione. Ciò é confermato dal fatto che solo ai nostri giorni questo principio é divenuto oggetto di accordi internazionali, e che la sua affermazione anche in via convenzionale ha finora incontrato difficoltà molteplici, pur nell'applicazione circoscritta alle sentenze in materia penale.
L'ordinanza di rimessione ricorda l'art. 14/7 del Patto internazionale sui diritti civili e politici di New York del 1966: ma il richiamo non é pertinente perché l'enunciativa di principio ivi contenuta concerne il divieto del bis in idem con riferimento ai rapporti tra le decisioni giudiziarie di un medesimo Stato, e non tra quelle di Stati diversi. Il principio non si rinviene né nella Convenzione di Roma per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali del 1950, né nel Protocollo addizionale alla Convenzione stessa, stipulato a Parigi nel 1952, e nemmeno nella Convenzione europea di assistenza giudiziaria in materia penale, firmata a Strasburgo nel 1959.
Solo la Convenzione europea sul valore internazionale delle sentenze penali, firmata all'Aja nel 1970, regola nelle due sezioni del tit. III l'applicazione del principio ne bis in idem (artt. 53-55), e la presa in considerazione delle sentenze penali straniere (artt. 56-57), riconoscendo all'art. 53, sotto precise condizioni e riserve, l'efficacia preclusiva del giudizio svoltosi in altro degli Stati contraenti.
Ma, a parte la circostanza che quest'ultima Convenzione non é stata ancora ratificata dall'Italia, e che l'Annesso I/f prevede la facoltà dei singoli Stati di accettare l'applicazione del tit. III solo per una delle due sezioni, occorre qui ricordare che queste convenzioni sono fonte di obblighi e responsabilità internazionali per gli Stati contraenti, ma non possono acquistare efficacia nell'ordinamento interno senza le necessarie norme di adattamento, la cui mancanza non comporta violazione né dell'art. 10, né di altri precetti costituzionali.
Questa Corte, nella ricordata sentenza n. 48 del 1967, ebbe già a dichiarare che "ponendosi in una prospettiva ideale, che già trova fervide iniziative e convinti sostenitori, si può auspicare per il futuro l'avvento di una forma talmente progredita di società di Stati da rendere possibile, almeno per i fondamentali rapporti della vita, una certa unità di disciplina giuridica e con essa una unità, e una comune efficacia, di decisioni giudiziarie". Ed é certo degna del migliore apprezzamento la sempre più chiara e sicura tendenza verso queste mete ideali di armonizzazione degli ordinamenti della giustizia penale, sostanziale e processuale, di cui offrono testimonianza le convenzioni internazionali dianzi ricordate, ed in particolare l'ultima dell'Aja del 1970. Si deve peraltro rilevare che alle enunciative di principio sull'efficacia delle sentenze penali straniere dovrebbero accompagnarsi, nell'assoluta mancanza di principi generali di diritto consuetudinario comunemente riconosciuti ed accettati, precise norme convenzionali regolatrici della competenza giurisdizionale dei diversi Stati in materia di repressione penale. In difetto di tali norme, e di criteri uniformi nella legislazione dei singoli Stati, appare evidente che non potrebbe ritenersi appagante, né sufficiente, il mero criterio temporale della prevenzione, collegata al fatto casuale che l'imputato si trovi in uno Stato o in un altro.
4. - A giudizio di questa Corte, non appare nemmeno giustificata l'affermazione dell'ordinanza di rimessione che la inosservanza del principio ne bis in idem, garanzia di processo giusto, lederebbe in ogni caso i diritti inviolabili dell'uomo, riconosciuti dall'art. 2 della Costituzione, e il diritto di difesa, sancito dall'art. 24. Le considerazioni già svolte consentono di escludere che quel principio, con riferimento all'efficacia delle sentenze penali straniere, debba essere riconosciuto come inerente ai diritti inviolabili della persona umana in base alla Convenzione europea del 1950 per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, ratificata dall'Italia con legge 4 agosto 1955, n. 848.
Non sembra nemmeno possibile considerare detto principio quale espressione di una insopprimibile esigenza di giustizia, in senso assoluto, sì da ravvisare nella sua inapplicabilità in determinate situazioni una violazione della garanzia costituzionale del diritto di difesa. É infatti necessario tener presente, di là dal fondamento sostanziale del principio, per cui non é giusto che uno stesso fatto possa essere punito due volte, il suo valore processuale, in funzione di esigenze non solo di giustizia ma anche di certezza giuridica: il ne bis in idem si ricollega infatti essenzialmente all'efficacia preclusiva del giudicato in senso formale o processuale. Le disposizioni dell'articolo 11, primo e secondo comma, del codice penale contengono solo una circoscritta deroga al principio processuale nei riguardi delle sentenze straniere concernenti determinate ipotesi di reati più rilevanti e, per i reati commessi all'estero, con l'ulteriore garanzia della richiesta di procedimento da parte del Ministro per la giustizia; mentre l'art. 138 dello stesso codice limita opportunamente gli effetti sostanziali di tale deroga, prescrivendo il computo della eventuale carcerazione preventiva o della pena già scontata all'estero.
Non sussiste comunque la pretesa violazione del diritto di difesa. Al proposito, non sarà superfluo ricordare come analogamente, nel nostro ordinamento, la preclusione sancita dall'art. 90 del codice di procedura penale non trovi applicazione, secondo l'interpretazione comunemente accolta, nell'ipotesi di concorso formale di reati, e come anche in tale ipotesi la reiterazione del processo in ordine ad uno stesso episodio, ma con riguardo ai diversi "fatti" in cui esso possa scindersi, non confligga con il diritto di difesa dell'imputato, "perché, nel caso, la tutela che a quel diritto é riservata, non viene limitata o esclusa in alcun modo", come questa Corte ha dichiarato con la sentenza n. 6 di quest'anno 1976.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 11, secondo comma, del codice penale, proposta, con l'ordinanza indicata in epigrafe, in riferimento agli articoli 10, primo comma, e 24, secondo comma, della Costituzione.
Così deciso in Roma, in camera di consiglio, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 25 marzo 1976.
Paolo ROSSI - Luigi OGGIONI - Angelo DE MARCO - Ercole ROCCHETTI - Enzo CAPALOZZA - Vincenzo Michele TRIMARCHI - Vezio CRISAFULLI - Nicola REALE - Leonetto AMADEI - Giulio GIONFRIDA - Edoardo VOLTERRA - Guido ASTUTI - Michele ROSSANO - Antonino DE STEFANO.
Arduino SALUSTRI - Cancelliere
Depositata in cancelleria l'8 aprile 1976.