Sentenza n.1 del 1969

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SENTENZA N. 1

 

ANNO 1969

 

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

 

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

 

 

composta dai signori Giudici:

 

Prof. Aldo SANDULLI, Presidente

 

Prof. Giuseppe BRANCA

 

Prof. Michele FRAGALI

 

Prof. Costantino MORTATI

 

Prof. Giuseppe CHIARELLI

 

Dott. Giuseppe VERZÌ

 

Dott. Giovanni BATTISTA BENEDETTI

 

Prof. Francesco PAOLO BONIFACIO

 

Dott. Luigi OGGIONI

 

Dott. Angelo DE MARCO

 

Avv. Ercole ROCCHETTI

 

Prof. Enzo CAPALOZZA

 

Prof. Vincenzo MICHELE TRIMARCHI

 

Prof. Vezio CRISAFULLI

 

Dott. Nicola REALE

 

ha pronunciato la seguente

 

 

 

SENTENZA

 

 

 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 571, primo comma, del Codice di procedura penale, modificato dall'art. 1 della legge 23 maggio 1960, n. 504, e delle disposizioni conseguenti, promosso con ordinanza emessa il 15 dicembre 1966 dal tribunale di Milano nel procedimento civile vertente tra Gazzola Ezio ed il Ministero di grazia e giustizia, iscritta al n. 23 del Registro ordinanze 1967 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 64 dell'11 marzo 1967.

 

Visti gli atti di costituzione di Gazzola Ezio e del Ministero di grazia e giustizia e l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri;

 

udita nell'udienza pubblica del 20 novembre 1968 la relazione del Giudice Vezio Crisafulli;

 

uditi gli avvocati Alfredo Spadaro e Mario Guttiers, per il Gazzola, ed il sostituto avvocato generale dello Stato Francesco Agrò, per il Ministro di grazia e giustizia e per il Presidente del Consiglio dei Ministri.

 

 

 

Ritenuto in fatto

 

 

 

1. - Nel corso di un procedimento civile promosso da Gazzola Ezio nei confronti del Ministero di grazia e giustizia il tribunale di Milano ha sollevato d'ufficio, con ordinanza emessa il 15 dicembre 1966, questione di legittimità costituzionale relativamente all'art. 571, primo comma, del Codice di procedura penale, così come modificato dall'art. 1 della legge 23 maggio 1960, n. 504, ed alle disposizioni conseguenti per contrasto con l'art. 24, quarto comma, della Costituzione.

 

L'ordinanza espone che l'attore, imputato del delitto di favoreggiamento alla prostituzione pluriaggravato (artt. 3, n. 8, 4, n. 2, e 7 della legge 20 febbraio 1958, n. 75), fu colpito da mandato di cattura emesso dal giudice istruttore presso il tribunale di Milano, successivamente scarcerato per concessione della libertà provvisoria e quindi assolto in dibattimento dallo stesso tribunale perché il fatto non sussiste, con sentenza in data 27 ottobre 1965, divenuta irrevocabile, che ha posto in rilievo che egli aveva "scontato a seguito di un mandato di cattura, che non doveva assolutamente essere emesso, cinque mesi di carcere preventivo che possono arrecare ad un uomo un danno incalcolabile" e che, nella specie, si trattava di una ipotesi estrema di errore giudiziario, per la "patologica interpretazione della norma giuridica". Il Ministero di grazia e giustizia, convenuto nel giudizio de quo per la condanna al pagamento di una somma a titolo di riparazione per la carcerazione sofferta, ha opposto che, allo stato attuale della legislazione (art. 571 del Cod. proc. pen. modificato dalla legge 23 maggio 1960, n. 504), il diritto alla riparazione é riconosciuto alle vittime degli errori giudiziari soltanto nel caso in cui il soggetto sia stato condannato con sentenza divenuta irrevocabile e successivamente la sua non colpevolezza sia stata riconosciuta in sede di revisione, mentre rimane escluso in ogni altra ipotesi.

 

Ciò premesso, per quanto riguarda la non manifesta infondatezza della questione sollevata, il tribunale esprime le considerazioni che seguono:

 

a) L'art. 24, ultimo comma, della Costituzione assicurerebbe al cittadino vittima di errori giudiziari un vero e proprio diritto soggettivo ad una "riparazione", intesa questa non come integrale risarcimento del danno sofferto, ma come un indennizzo per atto legittimo indipendentemente da ogni indagine sulla colpa del giudicante: per conseguenza, l'interessato può agire innanzi al giudice ordinario per la tutela di questo diritto direttamente riconosciutogli dal precetto costituzionale. La tesi sostenuta dalla Corte suprema di cassazione (Sez. un. civ., 30 giugno 1960, n. 1722) circa la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale relativa al vecchio testo dell'art. 571 del Cod. proc. pen. e basata sulla asserita natura programmatica e non precettiva della norma di cui all'art. 24 della Costituzione sarebbe, invece, da disattendere secondo il reiterato insegnamento della Corte costituzionale, per il quale la distinzione fra norme precettive e norme programmatiche "non é decisiva nei giudizi di legittimità costituzionale, potendo la illegittimità costituzionale di una legge derivare, in determinati casi, anche dalla sua non conciliabilità con norme che si dicono programmatiche" posto che, a parte quelle norme costituzionali che "si limitano a tracciare programmi generici di incerta e futura attuazione", non può contestarsi l'esistenza di norme programmatiche "le quali fissano principi fondamentali, che anche essi si riverberano sulla intera legislazione" (Corte cost., 14 giugno 1956, n. 1). Nel caso in esame non sembrerebbe dubbio che il quarto comma dell'art. 24 della Costituzione, stabilisca un principio fondamentale, come risulterebbe dalla sua collocazione fra le norme riguardanti "i diritti e doveri dei cittadini" e dal rapporto con le disposizioni contenute negli altri commi dello stesso articolo, per le quali non si é mai dubitato che costituiscono vincoli precisi per il legislatore.

 

b) Il rinvio operato dall'art. 24, quarto comma, della Costituzione, alla legge ordinaria abiliterebbe quest'ultima a regolare esclusivamente le "condizioni" e i "modi" per l'esercizio del diritto alla riparazione degli errori giudiziari: vale a dire, esemplificativamente, limiti di tempo per la proposizione della domanda, riconoscimento con pronuncia giudiziale della sussistenza dell'errore, ovvero forma e misura della riparazione, competenza e procedura; ma non anche i presupposti per l'esistenza del diritto, e cioè il concetto di "errore giudiziario", che non potrebbe quindi essere ristretto, ammettendosi il diritto in questione soltanto per alcuni errori e non per altri.

 

c) Costituirebbe "errore giudiziario" ogni provvedimento giurisdizionale che privi il cittadino di uno dei suoi diritti fondamentali (ad esempio, della libertà personale e dei beni) e che sia successivamente riconosciuto erroneo da altro, e definitivo, provvedimento giurisdizionale, senza che vi sia motivo per tracciare una distinzione fra i provvedimenti emessi nella forma della sentenza e quelli emessi in forma diversa come il mandato o l'ordine di cattura, e, nell'ambito delle sentenze, fra quelle irrevocabili ai sensi dell'art. 576 del Cod. proc. pen. e le altre: del resto, l'art. 111, secondo comma, della Costituzione, a maggiore tutela della libertà personale, parifica quanto ad impugnabilità le sentenze ai "provvedimenti sulla libertà personale".

 

d) L'art. 571 del Cod. proc. pen., nel testo modificato dalla legge 23 maggio 1960, n. 504, riservando il diritto alla riparazione solo a "chi é stato assolto, in sede di revisione, per effetto della sentenza della Corte di cassazione o del giudice di rinvio" limita il diritto stesso al caso che l'errore giudiziario sia stato commesso in una sentenza irrevocabile di condanna (art. 576 del Cod. proc. pen.) e riconosciuto poi attraverso un giudizio di revisione, mentre non sarebbe possibile ravvisare alcuna differenza qualitativa circa la sussistenza di un "errore" fra questa ipotesi e quelle di errore commesso in una qualsiasi pronunzia giurisdizionale e riconosciuto poi in un grado, od in una fase successiva del giudizio, fra le quali ultime sarebbe da comprendere anche il caso in esame, di errore commesso cioè dal giudice istruttore con la sentenza di rinvio a giudizio ed il mandato di cattura emesso contro l'imputato, riconosciuto poi attraverso l'assoluzione con formula piena nel dibattimento.

 

Sulla base di questi argomenti il giudice a quo prospetta come non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale relativa alla norma di cui all'art. 571 del Cod. proc. pen. ed alle disposizioni ad essa conseguenziali, come l'art. 574, che attribuisce la competenza a decidere sulla domanda di riparazione al giudice della revisione.

 

Per quanto concerne la rilevanza della questione proposta, il tribunale fa presente che dall'applicabilità o meno della norma limitativa impugnata nel giudizio in corso dipende il rigetto o l'accoglimento della domanda dell'attore diretta ad ottenere l'attribuzione di una somma a titolo di riparazione dell'errore giudiziario.

 

L'ordinanza é stata ritualmente notificata e comunicata, nonché pubblicata nella Gazzetta Ufficiale dell'11 marzo 1967, n. 64.

 

2. - Si sono costituiti in giudizio il Gazzola con atto depositato il 30 marzo 1967, il Ministero di grazia e giustizia in persona del Ministro protempore ed il Presidente del Consiglio dei Ministri, entrambi rappresentati dall'Avvocatura dello Stato, con atti depositati il 17 marzo 1967.

 

La difesa del Gazzola ribadisce e sviluppa gli argomenti già contenuti nell'ordinanza di rinvio, aggiungendo per quanto attiene alla competenza del giudice a quo che, trattandosi nella specie di un diritto soggettivo, questo non può che essere fatto valere innanzi "al giudice naturale, e cioé al tribunale in prime cure, tribunale giudicante in sede civile".

 

3. - La difesa del Ministero di grazia e giustizia illustra preliminarmente la vicenda processuale svoltasi innanzi al giudice di merito, al fine di sostenere che la domanda dell'attore tendente nell'atto di citazione ad una somma "a titolo di risarcimento danni economici e morali" "nello spirito dell'art. 24 della Costituzione e di una forma di interpretazione estensiva della normativa contenuta nella legge 23 maggio 1960, n. 504" é stata ampliata nella comparsa conclusionale in direzione dell'art. 28 della Costituzione ed in relazione ad una forma di responsabilità dello Stato per atti legittimi, pur se di carattere discrezionale, ma in nessun caso avrebbe potuto consentire al tribunale adito di pronunciarsi sulla questione sotto il profilo dell'art. 571 del Cod. proc. pen., che é riservata alla esclusiva competenza del giudice penale: la stessa ordinanza di rimessione, pur accennando alla eventuale illegittimità conseguenziale della norma sulla competenza, fonderebbe i dubbi sulla legittimità costituzionale della normativa impugnata nel fatto che essa esige un giudizio di revisione per la riparazione dell'errore giudiziario, non già nella attribuzione di competenza al giudice penale. Cosicché, una eventuale sentenza di accoglimento della Corte costituzionale sarebbe in ogni caso irrilevante, non potendo né attraverso l'eliminazione di una disposizione, né con una pronuncia "in quanto" o "nel senso e nei limiti" sanare l'originario difetto di giurisdizione.

 

Come ulteriore motivo di inammissibilità della questione in esame, l'Avvocatura di Stato deduce ancora che, se la competenza a decidere sulla riparazione degli errori giudiziari rimane incardinata in sede di revisione o, quanto meno, di impugnativa penale, la previsione di un indennizzo per detenzione preventiva darebbe luogo ad un problema insolubile, per difficoltà sia teoriche che pratiche. Una ipotetica decisione di accoglimento della Corte costituzionale non potrebbe, inoltre, consistere nella rimozione di un limite o di una eccezione in una legge potenzialmente idonea a coprire nella sua completezza l'ambito controverso, ma dovrebbe dar vita ad una legge nuova, ad una metamorfosi dell'istituto vigente, che, implicando l'esigenza di nuove o maggiori spese, si porrebbe in contrasto con il precetto dell'art. 81 della Costituzione. D'altra parte, il semplice annullamento della normativa impugnata non avrebbe rilevanza per la definizione del giudizio a quo. La questione sollevata sarebbe invece da risolvere, sempre ad avviso dell'Avvocatura, sulla base di alcuni insegnamenti contenuti nella sentenza n. 7 del 1967 della stessa Corte costituzionale, con la quale, negandosi il carattere meramente programmatico dell'art. 33 della Costituzione, si é ammesso che anche la norma precettiva possa necessitare di essere articolata in disposizioni ordinarie che la attuano; si é chiarito che un sindacato di legittimità costituzionale in tanto é possibile in quanto tali disposizioni di attuazione o contraddicono al comando costituzionale, o ne divergano in tutto od in parte, o ne distorcano lo scopo; e si é riconosciuto al tempo stesso al legislatore ordinario una sorta di potere discrezionale, procedente dalla ragion politica, di far uso del proprio giudizio nella determinazione delle fasi e dei tempi di attuazione del dettato costituzionale.

 

Nel merito la questione sarebbe infondata, in quanto, come emergerebbe dai lavori preparatori, il costituente nel formulare l'ultimo comma dell'art. 24 avrebbe preso le mosse dall'istituto della revisione del giudicato penale così come in quel tempo esistente, considerando cioé errore giudiziario soltanto quello in materia penale e non quello in materia civile, stabilendo che la riparazione dovesse perdere l'umiliante qualificazione "a titolo di soccorso" per assumere quella di indennizzo per responsabilità dello Stato, ma riservando all'apprezzamento del legislatore ordinario la configurazione e la disciplina di altre possibili ipotesi di errore, senza peraltro dettare in argomento a questi fini un'indicazione tassativa od un comando univoco.

 

Del resto - prosegue la difesa del Ministero di grazia e giustizia - il problema dell'indennizzo alla vittima di una sentenza di condanna ingiusta sarebbe concettualmente diverso da quello della detenzione preventiva di innocenti. Nel primo caso, infatti, non esistendo nel giudice alcun potere discrezionale, il diritto di libertà del cittadino non si affievolisce in interesse legittimo, cosicché, revocata la sentenza, esso esige come tale una riparazione; nel secondo caso, la incertezza sull'esistenza e sulla imputabilità del reato implica un apprezzamento discrezionale, se non addirittura di convenienza e di opportunità, sugli elementi di cui l'inquirente dispone in attesa che siano passati al vaglio dell'organo giudicante: apprezzamento che dà luogo ad un necessario affievolimento del diritto di libertà.

 

Non sarebbe dubbio, infine, ad avviso dell'Avvocatura, che l'espressione "errore giudiziario" nel suo preciso valore e significato tecnico sia stata intesa dalla dottrina e dalla giurisprudenza da quando l'Italia ha una codificazione penale con riferimento esclusivo all'errore accertato in sede di revisione.

 

4. - La stessa Avvocatura di Stato, nell'atto di intervento per il Presidente del Consiglio dei Ministri si riporta ampliandoli agli argomenti già svolti in difesa dell'Amministrazione di grazia e giustizia e rileva, in particolare, che il legislatore ordinario con la legge 23 maggio 1960, n. 504, si é proposto il fine di adeguare l'istituto della riparazione al precetto costituzionale, ma, pur ponendosi il problema che qui interessa, non ha ritenuto di ampliare il concetto di errore giudiziario nel senso voluto dal giudice a quo: sembrerebbe quindi azzardato attribuire al Parlamento la deliberata intenzione di creare una legge incostituzionale proprio nel momento in cui si accingeva ad armonizzare questo istituto con l'art. 24 della Costituzione. Aggiunge, da ultimo, che il concetto di errore giudiziario, come si é inteso nella normativa impugnata, non sarebbe peregrino, ma comune alla maggioranza dei Paesi stranieri, fra i quali anche quelli di sicura democrazia come la Gran Bretagna. Anche in questa sede le conclusioni dell'Avvocatura si sostanziano in una richiesta di inammissibilità, o comunque, di infondatezza della questione di legittimità costituzionale in oggetto.

 

5. - Con successiva memoria, depositata il 7 novembre 1968, la difesa del Gazzola insiste nelle deduzioni già svolte e nelle conclusioni già formulate. In particolare, con riferimento al problema della competenza del giudice a quo, ricorda che anche la norma di cui all'art. 574 Cod. proc. pen., attributiva della competenza a conoscere della riparazione per l'errore giudiziario al giudice penale, forma oggetto della questione sollevata e fa notare che l'attività giurisdizionale é unica e non pluralistica nell'ambito della giurisdizione ordinaria, per cui il giudice conosce di tutte le norme necessarie alla emanazione del provvedimento. Circa il merito della questione, argomenta dall'esame dei lavori preparatori in Assemblea costituente e dal contesto delle altre norme costituzionali sui diritti fondamentali che l'art. 24, comma quarto, della Costituzione concreta una ulteriore tutela della intangibilità dei diritti del cittadino, primo fra tutti quello della libertà individuale. Premessa, poi, la irrilevanza della distinzione fra norme precettive e programmatiche ai fin della dichiarazione di illegittimità costituzionale delle leggi ordinarie con esse contrastanti, sostiene che la norma in questione avrebbe comunque natura precettiva in quanto conferisce un diritto soggettivo al cittadino che abbia subito la violazione: per conseguenza, nel caso di una eventuale lacuna nella legislazione esistente, potrebbe fondarsi direttamente su di essa il titolo della riparazione. L'errore giudiziario, infatti, secondo Costituzione non sarebbe da intendere come errore di giudicato, ma costituirebbe l'attuazione di un principio innovatore in relazione ai diritti del cittadino ed alla responsabilità dello Stato nell'esercizio della sua attività giudicante, conformemente al tradizionale significato di questa espressione, sul quale non avrebbe inciso la normativa del codice penale del 1930 che, senza introdurre una diversa e più restrittiva concezione, si sarebbe unicamente limitata a disciplinare alcune ipotesi.

 

6. - Anche l'Avvocatura di Stato ha depositato in pari data, una memoria illustrativa, confermando gli argomenti e le conclusioni già precisate.

 

7. - All'udienza le parti hanno insistito nelle rispettive conclusioni.

 

 

 

Considerato in diritto

 

 

 

1. - Dev'essere disattesa l'eccezione di inammissibilità sollevata dall'Avvocatura dello Stato. Secondo la sua costante giurisprudenza questa Corte non può, infatti, sindacare la sussistenza dei presupposti processuali richiesti per la valida instaurazione del giudizio a quo, anche a prescindere dal rilievo che, nella specie, l'ordinanza di rimessione espressamente denuncia, tra l'altro, proprio l'art. 574 del Codice di procedura penale, che demanda la competenza a conoscere delle istanze di riparazione degli errori giudiziari al solo giudice di rinvio in sede di giudizio di revisione ovvero, nel caso di annullamento senza rinvio, alla Corte di cassazione penale.

 

2. - Nel merito, la questione non é fondata. L'ultimo comma dell'art. 24 della Costituzione enuncia un principio di altissimo valore etico e sociale, che va riguardato - sotto il profilo giuridico - quale coerente sviluppo del più generale principio di tutela dei "diritti inviolabili dell'uomo" (art. 2), assunto in Costituzione tra quelli che stanno a fondamento dell'intero ordinamento repubblicano, e specificantesi a sua volta nelle garanzie costituzionalmente apprestate ai singoli diritti individuali di libertà, ed anzitutto e con più spiccata accentuazione a quelli tra essi che sono immediata e diretta espressione della personalità umana. É nel quadro del sistema complessivamente risultante dagli accennati principi costituzionali, che la norma dell'art. 24, prescrivente che la legge debba determinare "le condizioni e i modi per la riparazione degli errori giudiziari", assume portata sostanzialmente innovatrice rispetto alla preesistente legislazione italiana, nella quale tale riparazione finiva per ridursi alla sola revisione della sentenza irrevocabile di condanna, che fosse posteriormente riconosciuta ingiusta, cui poteva tutt'al più accompagnarsi, in una ristretta serie di casi (che neppure coprivano l'intera area delle ipotesi di revisione), una "riparazione pecuniaria a titolo di soccorso", subordinata per giunta all'accertamento discrezionale dello stato di bisogno del richiedente o della di lui famiglia (art. 571 del Codice di procedura penale, nel testo originario).

 

Ciò premesso, deve tuttavia rilevarsi che, per la sua formulazione in termini estremamente generali, il principio della riparazione degli errori giudiziari postula l'esigenza di appropriati interventi legislativi, indispensabili per conferirgli concretezza e determinatezza di contorni, dandogli così pratica attuazione. Il diffuso convincimento di tale necessità traspare del resto, quando non é esplicitamente dichiarato, dagli stessi lavori parlamentari che sboccarono nella legge 23 maggio 1960, n. 504, di cui é questione nel presente giudizio, come pure dai progetti successivamente presentati e dalle relazioni illustrative dei proponenti.

 

Come chiaramente risulta dalle espressioni adoperate, infatti, l'ultimo comma dell'art. 24 é disposizione rivolta al legislatore, cui prescrive il raggiungimento di un certo fine e perciò l'adozione di discipline conformi al principio affermato e idonee a renderlo effettivamente operante. E poiché tale natura del principio enunciato nell'art. 24 non osta all'esercizio del sindacato di legittimità costituzionale, di competenza di questa Corte, deriva da quanto osservato che, ove la nuova disciplina legislativa fosse in contrasto con il principio stesso, dovrebb'essere dichiarata costituzionalmente illegittima. Ma una siffatta evenienza non ricorre nella specie.

 

3. - Invero, anche se fosse fondato l'assunto dal quale muove l'ordinanza del tribunale di Milano, che cioè il precetto costituzionale avrebbe fatto propria una lata nozione dell'errore giudiziario, comprensiva di ogni provvedimento dell'autorità giudiziaria, "che privi il cittadino di uno dei suoi diritti fondamentali (ad esempio, della libertà personale e dei beni) e che sia successivamente riconosciuto erroneo", non per questo verrebbe meno la necessità di dettare per le varie e più particolari ipotesi, pur rientranti tutte, stando all'assunto, entro un'unica figura complessiva, norme a ciascuno adeguate e perciò eventualmente differenziate (quanto meno limitatamente alle concrete modalità per l'esercizio del diritto alla riparazione), del tipo per l'appunto di quelle esemplificate nella stessa ordinanza al punto 2 della motivazione ("limiti di tempo per la proposizione della domanda, riconoscimento con pronuncia giudiziaria della sussistenza dell'errore, ... forma e misura della riparazione, competenza e procedura").

 

Ne segue che una legge che si limiti a dare attuazione parziale (o un inizio di attuazione) al principio costituzionale, non per questo può dirsi incostituzionale, purché - beninteso - non sia tale da precludere comunque ulteriori estensioni dell'istituto ad altre e diverse ipotesi, oltre quella regolata: circostanza, questa, che non si verifica nel caso della Novella del 1960, come venne anche esplicitamente affermato durante la discussione parlamentare del relativo disegno di legge (Atti Camera Deputati, II Legislatura, IV Commissione giustizia in sede legislativa, seduta del 3 dicembre 1958). Ché anzi, così stando le cose, la necessità poco sopra rilevata di norme legislative di attuazione, almeno e sicuramente per gli aspetti in largo senso strumentali, sta a mostrare come una eventuale dichiarazione di illegittimità costituzionale che si fondasse sulla sola parzialità della disciplina, rischierebbe intanto di condurre ad un regresso della situazione normativa, riaprendo un vuoto che non sarebbe colmabile in sede di interpretazione.

 

4. - Ma l'interposizione di norme legislative di attuazione si rivela, a ben guardare, necessaria anche per quel che concerne gli elementi sostanziali dell'istituto, poiché né la dizione testuale della norma né le risultanze dei lavori preparatori consentono di ritenere con sufficiente certezza che il Costituente abbia in realtà aderito all'una o all'altra nozione dell'errore giudiziario. É noto come si sia talvolta dubitato se l'ultimo comma dell'art. 24 abbia esclusivo riferimento alla materia penale (come potrebbe trarsi dagli atti della Costituente e sarebbe più conforme alla tradizione dottrinale) od invece si estenda all'intero campo della funzione giurisdizionale (argomentando invece dalla collocazione della norma nel contesto di un articolo che ha riguardo, in tutte le sue restanti disposizioni, a qualsiasi tipo e specie di giudizi).

 

Anche limitatamente alla materia penale, che sola viene in considerazione nel presente giudizio, così come sarebbe lecito affermare che, per l'art. 24, l'errore giudiziario meritevole di riparazione si risolva nel solo errore di giudicato, altrettanto infondato sarebbe all'opposto leggervi l'implicita prescrizione che la riparazione debba necessariamente spettare anche a chi sia stato riconosciuto innocente in istruttoria o a seguito di pubblico dibattimento, dopo aver subito una privazione di libertà personale.

 

Né argomento decisivo in favore della seconda alternativa potrebbe desumersi coordinando la disposizione dell'ultimo comma dell'art. 24 con l'art. 13, e sottolineandone in tal modo l'aspetto di rafforzamento ed ulteriore presidio delle garanzie della libertà personale, poiché lo stesso art. 13 riproporrebbe a sua volta il problema, che spetta al legislatore risolvere, se l'istituto della riparazione degli errori giudiziari debba restringersi ai casi di carcerazione ove intervenga o sia intervenuta sentenza irrevocabile di condanna, o debba invece comprendere qualunque caso di carcerazione preventiva, ingiustamente scontata.

 

 

 

PER QUESTI MOTIVI

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

 

 

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 571, primo comma, del Codice di procedura penale, così come modificato dall'art. 1 della legge 23 maggio 1960, n. 504, e delle disposizioni conseguenti, sollevata con ordinanza del 15 dicembre 1966 dal tribunale di Milano, in riferimento all'art. 24, quarto comma, della Costituzione.

 

 

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 15 gennaio 1969.

 

Aldo SANDULLI  -  Giuseppe BRANCA  -  Michele FRAGALI  -   Costantino MORTATI  -   Giuseppe CHIARELLI  -  Giuseppe VERZÌ  -  Giovanni BATTISTA BENEDETTI  -  Francesco PAOLO BONIFACIO  -  Luigi OGGIONI  -  Angelo DE MARCO  -  Ercole ROCCHETTI  -  Enzo CAPALOZZA  -  Vincenzo MICHELE TRIMARCHI  -  Vezio CRISAFULLI  -  Nicola REALE

 

 

Depositata in cancelleria il 24 gennaio 1969.