Sentena n. 39 del 1994

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SENTENZA N. 39

ANNO 1994

 

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Presidente

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA

Giudici

Prof. Gabriele PESCATORE

Avv. Ugo SPAGNOLI

Prof. Antonio BALDASSARRE

Prof. Vincenzo CAIANIELLO

Avv. Mauro FERRI

Prof. Luigi MENGONI

Prof. Enzo CHELI

Dott. Renato GRANATA

Prof. Giuliano VASSALLI

Prof. Francesco GUIZZI

Prof. Cesare MIRABELLI

Prof. Fernando SANTOSUOSSO

Avv. Massimo VARI

Dott. Cesare RUPERTO

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 4 bis della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nel testo sostituito dall'art. 15, primo comma, prima parte, del decreto-legge 8 giugno 1992, n.306 (Modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa), convertito nella legge 7 agosto 1992, n. 356 e dell'art. 2, primo comma, del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152 (Provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalità organizzata e di trasparenza e buon andamento dell'attività amministrativa), convertito nella legge 12 luglio 1991, n.203, nonchè del combinato disposto delle due predette norme, promossi con ordinanze emesse il 4 marzo 1993 (n. 3 ordinanze) dal Tribunale di sorveglianza di Bari, il 6 aprile 1993 dal Tribunale di sorveglianza di L'Aquila ed il 29 giugno 1993 dal Tribunale di sorveglianza della Corte di Appello di Potenza, rispettivamente iscritte ai nn. 363, 364, 365, 424 e 613 del registro ordinanze 1993 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 28, 35 e 42, prima serie speciale, dell'anno 1993.

Visti l'atto di costituzione di Strangio Sebastiano nonchè gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 15 dicembre 1993 il Giudice relatore Ugo Spagnoli.

Ritenuto in fatto

l.- Con tre ordinanze recanti identica motivazione emesse il 4 marzo 1993 (r.o. nn. 363, 364 e 365/1993) nel corso di procedure di ammissione alla semilibertà ed alla liberazione condizionale di condannati (anche) per il delitto di cui all'art. 630 cod. pen., il Tribunale di sorveglianza di Bari ha sollevato una questione di legittimità costituzionale dell'art. 4 bis, primo comma, primo periodo, della legge 26 luglio 1975, n. 354, nel testo modificato con l'art. 15, primo comma, del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, come convertito con la legge 7 agosto 1992, n. 356, nella parte in cui stabilisce che ai detenuti per i delitti ivi indicati le predette misure possono essere concesse solo se essi collaborano con la giustizia a norma dell'art. 58 ter della medesima legge n. 354 del 1975, ravvisandone il contrasto con gli artt. 27, terzo comma, 3, primo comma e 25, secondo comma, Cost..

In riferimento al primo parametro, il giudice a quo osserva che la collaborazione con la giustizia può mancare per cause indipendenti dalla volontà degli interessati (ad es., perchè ben poco sapevano dell'organizzazione criminale o perchè i fatti sono già stati rapidamente e compiutamente accertati), sicchè il privare costoro della possibilità di provare ciò lederebbe il diritto alla verifica del proprio stadio di risocializzazione che la giurisprudenza di questa Corte (sentenza n. 204 del 1974) ritiene implicito nell'art. 27, terzo comma, Cost..

L'art. 3 Cost., poi, sarebbe violato, sia perchè la norma parifica chi può prestare la collaborazione con la giustizia a chi è, senza sua colpa, nell'impossibilità di prestarla, sia perchè, attraverso la minaccia di un trattamento punitivo deteriore, costringe alla delazione ed espone ad eventuali ritorsioni i condannati per determinati delitti, mentre il comune cittadino è tenuto a denunziare solo quelli contro la personalità dello Stato puniti con l'ergastolo (art. 364 cod.pen.).

Sarebbe violato, infine, anche il principio di irretroattività di cui all'art. 25, secondo comma, Cost., dato che questo dovrebbe comportare che possa essere conosciuto ante delictum il complessivo regime punitivo stabilito per un determinato reato, mentre la norma si applica anche a chi lo abbia commesso prima della sua entrata in vigore.

2.- Con ordinanza del 6 aprile 1993, il Tribunale di sorveglianza dell'Aquila (r.o. n. 424/1993) ha sollevato, in riferimento agli artt. 25, secondo comma e 27, terzo comma, Cost., una questione di legittimità costituzionale dell'art. 2, primo comma, della legge 12 luglio 1991, n.203 nella parte in cui, stabilendo che per i condannati (tra l'altro) per il delitto di cui all'art. 630 cod. pen. la concessione della liberazione condizionale è subordinata ai presupposti di cui all'art. 4 bis della legge n.354 del 1975, prevede - per effetto della modifica di tale articolo introdotta con l'art. 15 della legge n. 356 del 1992 - che detto beneficio non possa essere concesso ai detenuti che non collaborano con la giustizia.

La circostanza che tale divieto operi retroattivamente violerebbe, secondo il giudice a quo, l'art. 25, secondo comma, Cost. in quanto tale principio impedirebbe l'applicazione retroattiva di norme di diritto sostanziale meno favorevoli e fra queste andrebbero incluse quelle che influiscono sulla qualità e quantità della pena da scontare.

L'art. 27, terzo comma, Cost., a sua volta, sarebbe violato in quanto, ad avviso del rimettente, il ravvedimento del condannato non può aprioristica mente escludersi in caso di mancata collaborazione, la quale può viceversa essere prestata per fini del tutto estranei alla rieducazione.

3.- Il Tribunale di sorveglianza della Corte d'appello di Potenza, a sua volta, dubita, con ordinanza del 29 giugno 1993 (r.o. n. 613/1993), della legittimità costituzionale del combinato disposto dell'art. 4 bis, primo comma, prima parte, della legge 26 luglio 1975, n. 354, come modificato dall'art.15 del decreto-legge n. 306 del 1992, come convertito con la legge n. 356 del 1992 e 2, primo comma, del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152, convertito con la legge 12 luglio 1991, n. 203, nella parte in cui precludono la concessione della liberazione condizionale ai condannati per determinati reati (nella specie, quello di cui all'art. 630 cod. pen.) che non collaborano con la giustizia.

Pur dando atto che, secondo una pronuncia della Corte di cassazione (sez. I, 13 novembre 1992, n. 4676), l'ambito di applicazione della prima di tali norme sarebbe limitato alle misure ivi espressamente indicate, il Tribunale ritiene che la seconda contenga un rinvio formale all'art. 4 bis e che pertanto la modifica di tale norma si estenda automaticamente alla liberazione condizionale. A ritenere altrimenti, vi sarebbe un'irragionevole differenziazione tra detto beneficio ed altri più limitati.

Ciò premesso, il giudice a quo ritiene che sarebbe violato l'art. 3 Cost. perchè la norma parifica chi non intende collaborare e chi si trova nell'impossibilità di prestare collaborazione (per aver avuto nella vicenda un ruolo secondario, o per essere stata questa già chiarita).

Sarebbe violato, inoltre, il principio di irretroattività della legge penale (art. 25, secondo comma, Cost.).

Questo dovrebbe, infatti, ritenersi operante anche per le norme che incidono sul quantum e sul quomodo della pena a partire dal momento in cui essa inizia ad essere espiata, perchè è proprio in questo momento che prende via quel patto tra lo Stato e il condannato, al quale quest'ultimo aderisce proprio perchè consapevole che l'impegno sul versante del trattamento rieducativo comporterà anche un riesame qualitativo e quantitativo della pretesa punitiva.

Il Tribunale rimettente ritiene, infine, violato l'art. 27, terzo comma, Cost., perchè il diritto al riesame del conseguimento della finalità rieducativa della pena (sentenza n. 204 del 1974, cit.) viene fatto dipendere da una condizione (la collaborazione con la giustizia) che, dipendendo essenzialmente da motivi di convenienza processuale, non sempre equivale a ravvedimento ed è estranea ai progressi compiuti nel processo di risocializzazione. Nè a ciò porrebbero sufficiente rimedio, secondo il Tribunale, le ipotesi di collaborazione c.d. ridotta introdotte in sede di conversione nell'impugnato art. 15, primo comma.

4.- Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, ha chiesto che le questioni di cui ai punti 2 e 3 siano dichiarate infondate alla stregua di quanto deciso con la sentenza di questa Corte n. 306 del 1993.

Nei giudizi di cui al punto 1 ha sostenuto l'inammissibilità delle censure ex artt. 3 e 27, terzo comma, Cost. alla luce di quanto statuito nella predetta sentenza (punto 11 della parte motiva), rilevando che il giudice a quo non ha mosso specifici rilievi circa la ristrettezza delle ipotesi di cui al secondo periodo del comma 1 dell'impugnato art. 4 bis nè ha evidenziato, ai fini della rilevanza, l'ulteriore requisito della prova certa dell'inesistenza di collegamenti con la criminalità organizzata.

Inammissibile per difetto di rilevanza sarebbe anche la censura ex art. 25 Cost., dato che nei casi di specie il detenuto non sembrerebbe aver espiato i due terzi della pena prima dell'entrata in vigore del decreto-legge n. 306 del 1993 e quindi aver maturato il diritto al beneficio della semilibertà.

Nel giudizio di cui al punto 2 si è costituita - a mezzo dell'avv.Franca Vacca - la parte privata Strangio Sebastiano, che ha aderito alle conclusioni dell'ordinanza di rimessione.

Considerato in diritto

l.- Le ordinanze propongono questioni identiche o analoghe ed è perciò opportuna la riunione dei relativi giudizi.

2.- Con le ordinanze indicate in epigrafe, i Tribunali di sorveglianza di Bari, L'Aquila e Potenza dubitano, rispettivamente, della legittimità costituzionale:

dell'art.4 bis della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nel testo sostituito dall'art. 15, primo comma, prima parte, del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, convertito nella legge 7 agosto 1992, n.356;

dell'art. 2, primo comma, del decreto-legge 13 maggio 1991, n.152, convertito nella legge 12 luglio 1991, n. 203;

ovvero del combinato disposto delle predette disposizioni, nella parte in cui stabiliscono che ai condannati per de terminati delitti di criminalità organizzata (nei casi di specie, art. 630 cod. pen.) la liberazione condizionale e la semilibertà possono essere concesse solo se essi collaborano con la giustizia a norma dell'art. 58 ter ord. penit..

La norma risultante dalle predette disposizioni contrasterebbe, ad avviso dei giudici a quibus:

- con l'art. 3, primo comma, Cost., perchè la norma parifica chi può prestare la collaborazione e chi è nell'impossibilità di prestarla e costringe alla delazione gli autori di determinati reati (mentre il comune cittadino è tenuto a denunciare solo quelli di cui all'art. 364 cod.pen.);

- con l'art. 25, secondo comma, Cost., dato che si applica anche ai reati commessi prima della sua entrata in vigore e che il principio di irretroattività della legge penale dovrebbe comportare che le norme (di diritto sostanziale) che modificano la quantità e qualità della pena da scontare non possono subire variazioni in peius a partire dal tempo del commesso reato (Tribunale di sorveglianza di Bari) ovvero dall'inizio dell'espiazione della pena (Tribunale di sorveglianza della Corte di Appello di Potenza);

- con l'art. 27, terzo comma, Cost. perchè il diritto al riesame del conseguimento della finalità rieducativa della pena (sentenza n. 204 del 1974) viene fatto dipendere da una condizione (collaborazione con la giustizia) che può essere estranea al percorso rieducativo e dipendere da ragioni di convenienza processuale e perchè esclude aprioristicamente il ravvedimento in caso di mancata collaborazione e non consente di provare l'impossibilità di prestarla.

3.- I giudici a quibus muovono - esplicitamente, o implicitamente - dal presupposto che le restrizioni introdotte dall'art.15, primo comma, della legge n. 356 del 1992 si applichino - anche se in esso non ve ne è testuale menzione - all'istituto della liberazione condizionale, in virtù del rinvio (formale) all'art. 4 bis ord.penit. contenuto nell'art. 2, primo comma, della legge n. 203 del 1991, a tenore del quale "I condannati per i delitti indicati nel comma 1 dell'articolo 4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, possono essere ammessi alla liberazione condizionale solo se ricorrono i relativi presupposti previsti dallo stesso comma per la concessione dei benefici ivi indicati".

Tale opzione interpretativa deve essere condivisa perchè, pur se inizialmente contrastata da un'isolata pronuncia della Corte di cassazione, è stata poi fatta propria dalla successiva giurisprudenza della medesima Corte ed è suffragata dalla dottrina.

4.- Questa Corte, con la sentenza n. 306 del 1993 - successiva alle ordinanze di rimessione - ha già esaminato quasi tutte le censure che queste prospettano. Ha ritenuto infondate quelle che, in riferimento agli artt. 3, primo comma e 27, terzo comma, Cost., fanno leva sulla possibile estraneità al percorso rieducativo della collaborazione con la giustizia, sulla mancata distinzione tra i casi di possibilità o impossibilità di prestarla e sulla preclusione alla prova di quest'ultima circostanza; non senza, però, talune essenziali precisazioni (cfr. par.11) - che qui si ribadiscono - desunte dalle innovazioni apportate dalla legge di conversione al testo dell'art. 4 bis, primo comma, introdotto con l'art. 15 del decreto-legge n. 306 del 1992. I giudici a quibus non prospettano profili nè svolgono argomentazioni nuove, sicchè l'unico tratto differenziale è dato dal fatto che le ordinanze coinvolgono il citato art. 4 bis in quanto riferito all'istituto della liberazione condizionale. Poichè ciò, secondo quando si è premesso, non muta i termini della problematica e non può quindi dar luogo a valutazioni diverse, anche le questioni qui in esame vanno dichiarate non fondate.

Ad identica conclusione deve pervenirsi in ordine alla dedotta violazione dell'art. 25, secondo comma, Cost., dato che anche per le ordinanze in discorso valgono i rilievi e le considerazioni svolte nella predetta sentenza (cfr. par. 12).

Infondata è, infine, anche la censura (nuova) con cui il Tribunale di sorveglianza di Bari lamenta che la norma impugnata "costringa" alla delazione attraverso la minaccia di un trattamento punitivo deteriore e differenzi gli autori di determinati reati dai comuni cittadini, tenuti alla denuncia dei soli delitti contro la personalità dello Stato puniti con l'ergastolo.

L'incentivo alla collaborazione con la giustizia che la norma impugnata persegue non può infatti qualificarsi come "costrizione" a tale comportamento, che il detenuto è libero di non adottare; e la condizione di condannato per delitti di criminalità organizzata non è certo comparabile con quella del comune cittadino.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi, dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli articoli: 4 bis della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nel testo sostituito dall'art. 15, primo comma, prima parte del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306 (Modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa), come convertito con la legge 7 agosto 1992, n. 356; 2, primo comma, del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152 (Provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalità organizzata e di trasparenza e buon andamento dell'attività amministrativa), convertito con la legge 12 luglio 1991, n. 203; nonchè del combinato disposto delle due predette norme, in riferimento agli artt.3, primo comma, 25, secondo comma e 27, terzo comma, della Costituzione, sollevate, rispettivamente, dai Tribunali di sorveglianza di Bari, L'Aquila e Potenza con le ordinanze indicate in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 07/02/94.

Francesco Paolo CASAVOLA, Presidente

Ugo SPAGNOLI, Redattore

Depositata in cancelleria il 17/02/94.