ORDINANZA N. 136
ANNO 2017
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Paolo GROSSI Presidente
Alessandro CRISCUOLO Giudice
- Giorgio LATTANZI ”
- Aldo CAROSI ”
- Marta CARTABIA ”
- Mario Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
-- Silvana SCIARRA ”
- Daria de PRETIS ”
- Nicolò ZANON ”
- Franco MODUGNO ”
- Augusto Antonio BARBERA ”
- Giulio PROSPERETTI ”
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 275, comma 3, del codice di procedura penale, promosso dalla Corte d’appello di Torino nel procedimento penale a carico di F. C., con ordinanza del 14 giugno 2016, iscritta al n. 181 del registro ordinanze 2016 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 39, prima serie speciale, dell’anno 2016.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio dell’8 marzo 2017 il Giudice relatore Giorgio Lattanzi.
Ritenuto che, con ordinanza del 14 giugno 2016 (r.o. n. 181 del 2016), la Corte d’appello di Torino ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 13, primo comma, e 27, secondo comma, della Costituzione, una questione di legittimità costituzionale dell’art. 275, comma 3, del codice di procedura penale, «nella parte in cui nel prevedere che quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto di cui all’art. 416-bis c.p.p. [recte: c.p.] è applicata la misura della custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari, non fa salva, altresì, l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure»;
che, come premette la Corte rimettente, il difensore dell’imputato, giudicato e condannato, con sentenza del 22 febbraio 2016, per il reato di cui all’art. 416-bis del codice penale, e sottoposto alla misura cautelare della custodia in carcere, ha chiesto la sostituzione di questa misura con quella degli arresti domiciliari, «eventualmente assistita dal divieto di comunicare con persone diverse dai familiari conviventi e con applicazione di mezzi elettronici di controllo cui l’istante ha prestato il consenso»;
che l’art. 275, comma 3, cod. proc. pen., nella nuova formulazione introdotta dalla legge 16 aprile 2015, n. 47 (Modifiche al codice di procedura penale in materia di misure cautelari personali. Modifiche alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di visita a persone affette da handicap in situazione di gravità), pone una presunzione assoluta di adeguatezza della sola misura della custodia cautelare in carcere quando esistono gravi indizi di colpevolezza relativi al delitto di cui all’art. 416-bis cod. pen. e non sono stati acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari;
che secondo il giudice a quo il novellato art. 275, comma 3, cod. proc. pen., nel limitare la presunzione assoluta ai reati previsti dagli artt. 270, 270-bis e 416-bis cod. pen., aveva adeguato il dettato normativo alle pronunce di questa Corte, trasformando per gli altri reati precedentemente previsti dalla stessa disposizione la presunzione di adeguatezza della custodia in carcere da assoluta in relativa, superabile se vengono acquisiti elementi specifici dai quali risulta che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con misure diverse dalla custodia in carcere;
che la Corte rimettente, dopo aver brevemente ripercorso l’evoluzione legislativa dell’art. 275, comma 3, cod. proc. pen. e le pronunce di questa Corte relative ai diversi reati ivi previsti, si è soffermata sulla decisione concernente i delitti aggravati dall’uso del metodo mafioso o dalla finalità di agevolazione mafiosa (sentenza n. 57 del 2013) e su quella in materia di concorso esterno in associazione mafiosa (sentenza n. 48 del 2015), fattispecie ritenute “contigue” a quella dell’art. 416-bis cod. pen.;
che questa Corte, a parere del giudice rimettente, con una valutazione comparativa contenuta in obiter dicta, avrebbe fatto salva la presunzione assoluta di adeguatezza della sola custodia in carcere per il reato di associazione di tipo mafioso, considerando le caratteristiche del reato associativo in questione, ritenute di per sé sole sufficienti a giustificare tale presunzione;
che questa valutazione dovrebbe essere «rivisitata e rimodulata» alla stregua, sia delle innovazioni apportate dalla legge n. 47 del 2015 circa i criteri applicativi delle misure cautelari, sia delle pronunce di questa Corte intervenute sull’art. 275, comma 3, cod. proc. pen., e in particolare di quelle da ultimo citate, accomunate dal richiamo alla necessaria proporzionalità delle misure, alla luce del principio del minimo sacrificio necessario, e dal rilievo che l’eterogeneità dei casi concreti non giustificherebbe un’applicazione generalizzata della «presunzione assoluta del regime cautelare speciale» previsto dalla disposizione in questione;
che, pur considerando la peculiarità del vincolo che caratterizza il reato di associazione di tipo mafioso e la sua gravità indiscussa, sarebbe illogico non consentire al giudice di riconoscere una diversa graduazione di pericolosità tra le condotte dei vari associati;
che lo stesso legislatore avrebbe operato «una prima differenziazione di posizioni», prevedendo pene edittali diverse per i meri partecipi, da un lato, e per le persone che rivestono posizioni apicali, dall’altro, pur applicandosi a tutti indiscriminatamente, con una presunzione assoluta, la medesima misura cautelare;
che non risponderebbe ai canoni della congruità e dell’adeguatezza e non sarebbe rispettosa del principio del minor sacrificio possibile nell’adozione di misure limitative della libertà personale l’equiparazione di posizioni che per le loro caratteristiche potrebbero essere differenti, sì da escludere che il giudice possa valutare in concreto la pericolosità delle diverse condotte e applicare per ciascuna di esse la misura più idonea a soddisfare le specifiche esigenze preventive;
che non sarebbe fondata l’affermazione secondo cui solamente la misura carceraria potrebbe troncare il vincolo associativo che caratterizza il reato in questione, posto che misure minori, eventualmente cumulate tra loro, secondo le ultime disposizioni normative, o corredate da particolari prescrizioni, potrebbero recidere, sospendere o ridurre al minimo tale vincolo;
che il principio costituzionale della minor compressione possibile dei diritti fondamentali, tra i quali va considerato in primo luogo quello della libertà individuale, e il criterio base dell’ordinamento, secondo cui il carcere deve costituire l’extrema ratio, riaffermato dalla legge n. 47 del 2015, non potrebbero subire una compressione indiscriminata ed assoluta, neppure a fronte di fattispecie criminose richiedenti il massimo del rigore, laddove le esigenze cautelari possano essere altrimenti salvaguardate;
che pertanto la norma censurata violerebbe l’art. 3 Cost., dato l’irrazionale assoggettamento a un medesimo regime cautelare di situazioni che possono presentarsi diverse sotto il profilo oggettivo e soggettivo;
che tale norma inoltre violerebbe l’art. 13, primo comma, Cost., per i principi ivi affermati in tema di libertà personale, e l’art. 27, secondo comma, Cost., in relazione alla funzione che deve essere attribuita alla custodia cautelare;
che in punto di rilevanza la Corte rimettente ritiene che le esigenze cautelari non siano venute meno, tenuto conto, sia della perdurante operatività dell’associazione, la quale non aveva cessato di esistere nonostante gli arresti di numerosi sodali, sia dei legami dell’imputato con le altre persone appartenenti all’associazione;
che tuttavia, considerati il lungo periodo di carcerazione già subita (circa tre anni e otto mesi), il ruolo non apicale svolto dall’imputato, l’assenza di responsabilità per reati-fine, la precedente incensuratezza, e la disponibilità della convivente ad accoglierlo in casa, a parere del giudice rimettente, le esigenze cautelari potrebbero essere adeguatamente soddisfatte con la misura meno gravosa degli arresti domiciliari, corredata da meccanismi di controllo e da adeguate prescrizioni di non comunicazione con l’esterno;
che è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o comunque infondata;
che l’Avvocatura generale ha eccepito l’inammissibilità, data l’assoluta carenza di descrizione della fattispecie concreta oggetto del giudizio a quo;
che il giudice rimettente avrebbe richiamato genericamente nel provvedimento la condanna per il delitto dell’art. 416-bis cod. pen., senza indicare la condotta contestata, carenza questa assai rilevante, dato che il dubbio di costituzionalità sarebbe principalmente basato sulla ritenuta omologazione sotto l’aspetto cautelare di condotte tra loro diverse e diversamente sanzionate;
che nel merito la questione non sarebbe fondata;
che infatti la norma censurata trarrebbe origine dalle particolari esigenze di prevenzione speciale relative all’attività mafiosa;
che l’associazione di tipo mafioso costituisce un sodalizio criminoso fortemente radicato nel territorio, caratterizzato da inscindibili collegamenti personali e dotato di peculiare forza intimidatrice, e che sul piano cautelare l’appartenenza ad esso può essere contrastata solo dalla custodia in carcere;
che altre misure cautelari non sarebbero in grado di garantire il controllo sulla persona imputata di tale reato.
Considerato che, con ordinanza del 14 giugno 2016, la Corte d’appello di Torino ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 13, primo comma, e 27, secondo comma, della Costituzione, una questione di legittimità costituzionale dell’art. 275, comma 3, del codice di procedura penale, «nella parte in cui nel prevedere che quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto di cui all’art. 416-bis c.p.p. [recte: c.p.] è applicata la misura della custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari, non fa salva, altresì, l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure»;
che secondo il giudice rimettente la norma censurata violerebbe l’art. 3 Cost., dato l’irrazionale assoggettamento ad un medesimo regime cautelare di situazioni che possono presentarsi diverse sotto il profilo oggettivo e soggettivo;
che tale norma violerebbe anche l’art. 13, primo comma, Cost., per i principi ivi affermati in materia di libertà personale, e l’art. 27, secondo comma, Cost., in relazione alla funzione che deve essere attribuita alla custodia cautelare;
che l’Avvocatura generale dello Stato ha eccepito l’inammissibilità della questione per l’assoluta carenza di descrizione della fattispecie concreta oggetto del giudizio a quo, e nel merito ne ha sostenuto la non fondatezza;
che l’eccezione di inammissibilità è priva di fondamento;
che il collegio rimettente, pur avendo inizialmente richiamato in modo generico solo l’art. 416-bis del codice penale, nell’illustrare poi le ragioni che dovrebbero sorreggere la questione di legittimità costituzionale, ha dato ulteriori informazioni sulle caratteristiche dell’associazione, sulla sua attuale operatività, sui suoi collegamenti con la «casa madre», sulla condotta contestata all’imputato e sui suoi legami con gli altri membri dell’organizzazione criminosa, sì da delineare un quadro fattuale e processuale idoneo a dimostrare la rilevanza della questione sollevata;
che la questione, pur ammissibile, è manifestamente infondata;
che l’art. 4, comma 1, della legge n. 47 del 2015, sostituendo il secondo periodo del comma 3 dell’art. 275 cod. proc. pen., ha limitato la presunzione assoluta di adeguatezza della sola custodia in carcere ai reati di cui agli artt. 270, 270-bis e 416-bis cod. pen., mentre per gli altri reati oggetto della disposizione previgente ha previsto una presunzione relativa, stabilendo che possono essere applicate anche misure cautelari personali diverse dalla custodia in carcere, quando in concreto risultano sufficienti a soddisfare le esigenze cautelari;
che in tal modo il legislatore ha recepito la giurisprudenza di questa Corte, la quale, dapprima con la sentenza n. 265 del 2010 e successivamente con varie altre, ha dichiarato, rispetto ad alcuni delitti, costituzionalmente illegittimo l’art. 275, comma 3, cod. proc. pen., nella parte in cui – nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari – non faceva salva, altresì, l’ipotesi in cui fossero stati acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risultava che le esigenze cautelari potevano essere soddisfatte con altre misure;
che questa Corte, in più occasioni e fin dalla pronuncia n. 265 del 2010, ha delineato la ratio giustificativa del particolare regime stabilito per gli imputati del reato previsto dall’art. 416-bis cod. pen., rilevando che l’appartenenza a un’associazione di tipo mafioso implica, nella generalità dei casi e secondo una regola di esperienza sufficientemente condivisa, un’esigenza cautelare che può essere soddisfatta solo con la custodia in carcere, non essendo le misure «minori» sufficienti a troncare i rapporti tra l’indiziato e l’ambito delinquenziale di appartenenza in modo da neutralizzarne la pericolosità (sentenza n. 265 del 2010);
che tale ratio è stata ribadita anche nella sentenza relativa ai delitti aggravati dall’uso del metodo mafioso o dalla finalità di agevolazione mafiosa (sentenza n. 57 del 2013) e in quella relativa al concorso esterno nell’associazione di tipo mafioso (sentenza n. 48 del 2015), che hanno riguardato fattispecie “contigue” a quella dell’art. 416-bis cod. pen., ma non caratterizzate da un’uguale esigenza;
che questa Corte nelle pronunce concernenti il previgente art. 275, comma 3, cod. proc. pen. ha sempre effettuato una comparazione tra gli altri reati previsti da tale disposizione e oggetto delle varie questioni di legittimità costituzionale, da un lato, e l’associazione di tipo mafioso, dall’altro, rimarcando di volta in volta la diversità di quest’ultima;
che, in particolare, nel delineare la differenza tra il delitto di associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti e quello di associazione di tipo mafioso, questa Corte, dopo aver rilevato che il secondo delitto, pur essendo come il primo di natura associativa, è «normativamente connotato – di riflesso ad un dato empirico-sociologico – come quello in cui il vincolo associativo esprime una forza di intimidazione e condizioni di assoggettamento e di omertà, che da quella derivano, per conseguire determinati fini illeciti», ha aggiunto che la sua «[c]aratteristica essenziale è proprio tale specificità del vincolo, che, sul piano concreto, implica ed è suscettibile di produrre, da un lato, una solida e permanente adesione tra gli associati, una rigida organizzazione gerarchica, una rete di collegamenti e un radicamento territoriale e, dall’altro, una diffusività dei risultati illeciti, a sua volta produttiva di accrescimento della forza intimidatrice del sodalizio criminoso»;
che inoltre «[s]ono tali peculiari connotazioni a fornire una congrua “base statistica” alla presunzione considerata, rendendo ragionevole la convinzione che, nella generalità dei casi, le esigenze cautelari derivanti dal delitto in questione non possano venire adeguatamente fronteggiate se non con la misura carceraria, in quanto idonea – per valersi delle parole della Corte europea dei diritti dell’uomo – “a tagliare i legami esistenti tra le persone interessate e il loro ambito criminale di origine”, minimizzando “il rischio che esse mantengano contatti personali con le strutture delle organizzazioni criminali e possano commettere nel frattempo delitti” (sentenza 6 novembre 2003, Pantano contro Italia)» (sentenza n. 231 del 2011);
che, nell’effettuare la comparazione tra i vari reati indicati dall’art. 275, comma 3, cod. proc. pen., nella previgente formulazione, e quello dell’art. 416-bis cod. pen., questa Corte si è generalmente riferita alla fattispecie della partecipazione all’associazione di tipo mafioso;
che l’elemento in grado di legittimare costituzionalmente la presunzione assoluta di adeguatezza della sola custodia in carcere è rappresentato infatti dallo stabile inserimento nell’associazione di tipo mafioso, il quale, per le caratteristiche del vincolo, capace di permanere inalterato nonostante le vicende personali dell’associato e di mantenerne viva la pericolosità, fa ritenere che questa non sia adeguatamente fronteggiabile con misure cautelari «minori» (sentenza n. 265 del 2010);
che la diversa graduazione di gravità e di pericolosità tra le condotte dei singoli appartenenti all’associazione rileva ai fini della determinazione della pena da irrogare in concreto, ma non incide sulle esigenze cautelari, perché anche la semplice partecipazione è idonea, per le connotazioni criminologiche del fenomeno mafioso, a giustificare la presunzione sulla quale si basa la norma in questione;
che in questa prospettiva non ha rilievo la distinzione tra la posizione del partecipe e quella degli associati con ruoli apicali, perché, quali che siano le specifiche condotte dei diversi associati e i ruoli da loro ricoperti nell’organizzazione criminale, il dato che rileva, e che sotto l’aspetto cautelare li riguarda tutti ugualmente, è costituito dal tipo di vincolo che li lega nel contesto associativo, vincolo che fa ritenere la custodia in carcere l’unica misura in grado di «troncare i rapporti tra l’indiziato e l’ambito delinquenziale di appartenenza, neutralizzandone la pericolosità» (sentenza 265 del 2010);
che deve pertanto escludersi che la norma censurata comporti ingiustificatamente, in violazione dell’art. 3 Cost., l’assoggettamento di condotte diverse alla stessa regola cautelare;
che le ragioni giustificatrici di tale regola rendono evidente anche l’infondatezza delle censure svolte con riferimento agli artt. 13 e 27 Cost.
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 1, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 275, comma 3, del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 13, primo comma, e 27, secondo comma, della Costituzione, dalla Corte d’appello di Torino, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l’8 marzo 2017.
F.to:
Paolo GROSSI, Presidente
Giorgio LATTANZI, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 12 giugno 2017.