SENTENZA N. 268
ANNO 2016
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Paolo GROSSI Presidente
- Alessandro CRISCUOLO Giudice
- Giorgio LATTANZI ”
- Aldo CAROSI ”
-Marta CARTABIA ”
- Mario Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Giuliano AMATO ”
- Silvana SCIARRA ”
- Daria de PRETIS ”
- Nicolò ZANON ”
- Franco MODUGNO ”
- Augusto Antonio BARBERA ”
- Giulio PROSPERETTI ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale degli articoli 866, comma 1, 867, comma 3, e 923, comma 1, lettera i), del decreto legislativo 15 marzo 2010, n. 66 (Codice dell’ordinamento militare), promossi dal Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia con ordinanza del 26 giugno 2015 e dal Tribunale amministrativo regionale per la Campania con ordinanza del 5 novembre 2015 iscritte, rispettivamente, al n. 246 del registro ordinanze 2015 e al n. 78 del registro ordinanze 2016 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 47, prima serie speciale, dell’anno 2015 e n. 16, prima serie speciale, dell’anno 2016.
Visto l’atto di costituzione di D. M. nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 19 ottobre 2016 il Giudice relatore Marta Cartabia;
uditi l’avvocato Marco Zambelli per D.M. e l’avvocato dello Stato Massimo Giannuzzi per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 26 giugno 2015, iscritta al r.o. n. 246 del 2015, il Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, ha sollevato, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli articoli 866, comma 1, 867, comma 3, e 923 (recte: 923, comma 1, lettera i), del decreto legislativo 15 marzo 2010, n. 66 (Codice dell’ordinamento militare).
Le norme impugnate prevedono che: «La perdita del grado, senza giudizio disciplinare, consegue a condanna definitiva, non condizionalmente sospesa, per reato militare o delitto non colposo che comporti la pena accessoria della rimozione o della interdizione temporanea dai pubblici uffici, oppure una delle pene accessorie di cui all’articolo 19, comma 1, numeri 2) e 6) del codice penale» (art. 866, comma 1); «se la perdita del grado consegue a condanna penale, la stessa decorre dal passaggio in giudicato della sentenza» (art. 867, comma 3); «1. Il rapporto di impiego del militare cessa per una delle seguenti cause: [omissis] i) perdita del grado» (art. 923, comma 1).
Il giudice a quo dubita che il combinato disposto delle citate disposizioni violi l’art. 3 Cost., sia sotto il profilo della ragionevolezza della scelta operata dal legislatore, in quanto sproporzionata, sia sotto il profilo del principio di uguaglianza, in quanto riserva un identico trattamento a situazioni strutturalmente diverse, equiparando gli effetti dell’interdizione perpetua a quelli dell’interdizione temporanea dai pubblici uffici.
1.1.– In particolare, il rimettente ha precisato di essere investito del ricorso proposto da D.M. per l’annullamento del decreto del Direttore della III Divisione della Direzione Generale per il personale militare del Ministero della Difesa, con il quale è stata disposta, ai sensi degli artt. 866, comma 1, 867, comma 3 e 923 del d.lgs. n. 66 del 2010, la perdita del grado e la contestuale cessazione del rapporto d’impiego del militare.
Il provvedimento è stato emesso dall’amministrazione in quanto divenuta definitiva la condanna di D.M. a due anni, sei mesi e venti giorni di reclusione, con contestuale interdizione temporanea dai pubblici uffici per una durata pari a quella della pena principale inflitta, costituendo la perdita del grado e la cessazione del rapporto d’impiego effetto automatico dell’applicazione in sede penale della predetta pena accessoria.
1.2.– In punto di rilevanza, il rimettente ha osservato come soltanto l’eventuale accoglimento della questione di legittimità costituzionale, sollevata sui citati artt. 866, comma 1, 867, comma 3 e 923 del d.lgs. n. 66 del 2010, consentirebbe al Tribunale di annullare il provvedimento impugnato, che si basa sull’applicazione delle predette disposizioni ed è immune da ulteriori vizi formali e sostanziali.
Al riguardo viene altresì precisato che, conformemente al consolidato orientamento del Consiglio di Stato, la perdita di grado e la cessazione del rapporto d’impiego costituiscono effetto indiretto delle pene accessorie applicate in sede penale, con la conseguenza che deve applicarsi la disciplina vigente al momento dell’emanazione del provvedimento ablativo (cioè i citati artt. 866, comma 1, 867, comma 3 e 923), non quella vigente al momento della commissione dei fatti di reato (artt. 12, lettera f e 34, numero 7, della legge 18 ottobre 1961, n. 1168, recante «Norme sullo stato giuridici dei vice brigadieri e dei militari di truppa dell’Arma dei carabinieri»).
1.3.– In punto di non manifesta infondatezza, il rimettente ha osservato quanto segue.
1.3.1.– Il rimettente ritiene, in primo luogo, che le norme impugnate violino l’art. 3 Cost. sotto il profilo della ragionevolezza, richiamando la giurisprudenza costituzionale secondo cui è illegittima la destituzione dal rapporto di impiego senza il previo filtro del procedimento disciplinare (vengono citate le sentenze n. 971 del 1988, n. 40 del 1990, n. 415, n. 104 e n. 16 del 1991, n. 134 del 1992, n. 197 del 1993 e n. 363 del 1996).
Più precisamente il giudice a quo considera estensibili al caso di specie i principi affermati dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 363 del 1996, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 34, numero 7, della l. n. 1168 del 1961, secondo cui alla pena accessoria della rimozione conseguiva l’automatica cessazione del rapporto d’impiego.
La circostanza che in quel caso la cessazione del rapporto d’impiego conseguisse alla pena accessoria militare della rimozione, e non alla pena accessoria dell’interdizione temporanea dei pubblici uffici, non viene infatti ritenuta tale da poter discriminare le due fattispecie. Si osserva che, in entrambi i casi, la perdita del grado con cessazione del rapporto consegue a sanzioni penali accessorie (la prima a reato militare e la seconda a reato comune) in modo automatico, in conseguenza della definitività della sentenza che le applica. A maggior ragione, poi, dovrebbe riconoscersi l’irragionevolezza dell’attuale disciplina in quanto la rimozione è perpetua, mentre l’interdizione temporanea è per definizione non definitiva.
In questo modo, prosegue il rimettente, si colpiscono, senza possibilità di alcuna distinzione, la molteplicità dei comportamenti possibili nell’area degli illeciti penali cui consegue l’interdizione temporanea dai pubblici uffici, pregiudicando il principio di proporzione tra misure e fatti concreti cui conseguono.
1.3.2.– Il giudice a quo ritiene che l’art. 3 Cost. sia violato anche sotto il profilo del necessario rispetto del principio di uguaglianza, perché equipara, ai fini della perdita del grado con cessazione del rapporto d’impiego, gli effetti dell’interdizione perpetua a quelli dell’interdizione temporanea dai pubblici uffici: mentre la prima pregiudica in radice qualsiasi ripresa del rapporto, la seconda è per definizione provvisoria, di tal che si riserva un medesimo trattamento a situazioni strutturalmente dissimili.
Secondo il rimettente, tale valutazione non cambia anche se rapportata alla più recente evoluzione normativa in materia di reati contro la pubblica amministrazione, in quanto l’estinzione del rapporto di lavoro e di impiego del dipendente di pubbliche amministrazioni ed enti pubblici consegue soltanto, ai sensi dell’art. 32-quinquies cod. pen., alla condanna alla reclusione per un tempo non inferiore a tre anni e unicamente per determinati reati contro la pubblica amministrazione, mentre lo stesso automatismo è previsto per la perdita del grado anche in caso di condanne inferiori a tre anni e per la generalità dei reati.
2.– Con memoria depositata il 22 ottobre 2015, si è costituito D.M. e, insistendo per l’accoglimento delle prospettate questioni di legittimità costituzionale, ha sottolineato che l’ordinanza di rimessione ha colmato le lacune motivazionali che avevano indotto la Corte costituzionale a dichiarare inammissibile, con la sentenza n. 276 del 2013, analoga questione sollevata in precedenza con ordinanza di altro Tribunale.
In particolare, ad avviso della parte privata, l’attuale ordinanza di rimessione ricostruisce con completezza il quadro normativo, esplicita le ragioni per le quali le ragioni di illegittimità, valide in generale per il pubblico impiego, si estendano anche agli appartenenti ai ruoli dell’Arma dei carabinieri, e tiene adeguatamente conto della più recente evoluzione normativa in materia di reati contro la pubblica amministrazione, dettagliatamente illustrando le condivisibili ragioni per le quali le disposizioni impugnate debbano ritenersi violare l’art. 3 Cost., sia sotto il profilo della ragionevolezza, sia sotto quello del principio di uguaglianza.
3.– Con atto depositato il 15 dicembre 2015, è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha chiesto di dichiarare infondate le sollevate questioni di legittimità costituzionale.
In particolare, la difesa dello Stato ha osservato come sia inidoneo a dimostrare l’assunta irragionevolezza della disciplina il generico riferimento ad una giurisprudenza costituzionale formatasi in un contesto normativo diverso dall’attuale, che è caratterizzato da una maggiore severità, ai sensi del novellato art. 32-quinquies cod. pen., delle conseguenze sul rapporto di pubblico impiego delle sanzioni accessorie consistenti nell’interdizione temporanea dai pubblici uffici.
Perfettamente coerente, e in linea con l’indirizzo espresso da questo nuovo contesto normativo, dovrebbe quindi considerarsi la disciplina censurata, come tale esente da ogni vizio, di irragionevolezza o disuguaglianza.
4.– Con ordinanza del 5 novembre 2015 (r.o. n. 78 del 2016), il Tribunale amministrativo regionale per la Campania ha sollevato questione di legittimità costituzionale degli artt. 866, comma 1, 867, comma 3 e 923, comma 1 (recte: 923, comma 1, lettera i), del d.lgs. n. 66 del 2010, per violazione degli artt. 3, 4, 24, secondo comma, 35 e 97 Cost.
4.1.– Il giudice a quo ha premesso di essere investito del ricorso proposto da T.M. per l’annullamento del decreto del Direttore della III Divisione della Direzione Generale per il personale militare del Ministero della Difesa, con il quale è stata disposta, ai sensi degli artt. 866, comma 1, 867, comma 3 e 923 del d.lgs. n. 66 del 2010, la perdita del grado e la contestuale cessazione del rapporto d’impiego del militare. Il provvedimento impugnato è stato emesso sulla base della sentenza n. 1354 del 14 maggio 2012 con la quale la Corte di appello di Napoli ha sostituito con la pena pecuniaria di euro 3.040,00 di multa, revocando il beneficio della sospensione condizionale, la pena detentiva di mesi due e giorni venti di reclusione, inflitta all’imputato, unitamente alla pena accessoria dell’interdizione temporanea dai pubblici uffici, con sentenza n. 7 del 15 gennaio 2009 del Giudice dell’udienza preliminare di Nola. L’imputazione per la quale l’imputato è stato condannato è quella di cui agli artt. 110 e 323 cod. pen., per avere intenzionalmente procurato a un terzo, nella sua qualità di pubblico ufficiale, l’indebito vantaggio consistito nella mancata elevazione del verbale di contravvenzione per non avere il terzo indossato la cintura di sicurezza.
4.2.– Lo stesso rimettente ha escluso vizi di legittimità formale, ritenendo così la rilevanza della questione di legittimità costituzionale sulle disposizioni di cui agli artt. 866, comma 1, 867, comma 3 e 923, comma 1 del d.lgs. n. 66 del 2010, in quanto il provvedimento amministrativo impugnato costituisce atto dovuto, a contenuto vincolato proprio dalle predette disposizioni: conseguentemente solo la dichiarazione di illegittimità costituzionale delle medesime potrebbe consentire l’accoglimento del ricorso presentato.
4.3.– In punto di non manifesta infondatezza il rimettente ha osservato quanto segue, ritenendo in tal modo di colmare le lacune motivazionali che hanno portato la Corte costituzionale a dichiarare inammissibile, con la sentenza n. 276 del 2013, analoga questione sollevata in precedenza da altro giudice.
4.3.1.– In particolare, il giudice a quo ritiene violato il canone di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost.
Sarebbe violato in primo luogo il principio, stabilito dalla Corte, secondo cui una presunzione assoluta deve considerarsi arbitraria se non risponde a dati di esperienza generalizzati, riassunti nella formula dell’id quod plerumque accidit e, quindi, se sia possibile formulare agevolmente ipotesi di accadimenti contrari alla generalizzazione posta a base della presunzione stessa (vengono citate le sentenze n. 185 del 2015, n. 232 e n. 213 del 2013, n. 231 e n. 164 del 2011, n. 265 e n. 139 del 2010). Proprio l’indiscriminata ampiezza del presupposto cui viene collegata la misura espulsiva dall’Arma dei carabinieri dimostrerebbe la sua inidoneità a fondare una adeguata presunzione assoluta di riprorevolezza o indegnità morale.
Il rimettente ha ricordato come la Corte costituzionale abbia da tempo affermato il principio secondo cui, nel campo della potestà disciplinare come nell’area penale, sussiste l’esigenza di esclusione di sanzioni rigide, imponendo l’art. 3 Cost. una gradualità sanzionatoria che assicuri adeguatezza tra illecito e irroganda sanzione (viene richiamata la sentenza n. 270 del 1986).
Corollario di tale principio viene ritenuto quello della necessaria mediazione del procedimento disciplinare, che ha portato la Corte costituzionale, con la sentenza n. 971 del 1988, a dichiarare l’illegittimità della destituzione di diritto, che era prevista dall’art. 85, lettera a), del decreto del Presidente della Repubblica 10 gennaio 1957, n. 3 (Testo unico delle disposizioni concernenti gli impiegati civili dello Stato).
Il vulnus rappresentato dall’automatismo della massima sanzione disciplinare, senza possibilità di discriminare tra i molteplici possibili comportamenti, è stato ribadito da molteplici ulteriori sentenze della Corte (segnatamente vengono richiamate le sentenze n. 40 e n. 158 del 1990, n. 16 e n. 104 del 1991, n. 197 del 1993, n. 363 del 1996), fino a che il legislatore – con l’art. 9 della legge 7 febbraio 1990, n. 19 (Modifiche in tema di circostanze, sospensione condizionale della pena e destituzioni dei pubblici dipendenti) – ha espunto dall’ordinamento la destituzione del pubblico dipendente a seguito di condanna penale, abrogando ogni contraria disposizione.
Tale assetto normativo è poi stato confermato dalla legge 27 marzo 2001, n. 97 (Norme sul rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare ed effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche), nonché dal decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150 (Attuazione della legge 4 marzo 2009, n. 15, in materia di ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e di efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni).
Assodato, dunque, il principio del divieto di automatismi sanzionatori a seguito di condanna penale, sussistente nei rapporti tra procedimento penale e disciplinare, il giudice rimettente ha rilevato come nella specie venga in rilievo il più specifico problema degli (eventuali) effetti destitutori di una pena accessoria interdittiva.
Sul punto, ha ricordato il giudice a quo, la Corte costituzionale con la sentenza n. 286 del 1999 ha ritenuto legittima la previsione di detto effetto destitutorio in rapporto all’interdizione perpetua dai pubblici uffici.
Tuttavia, mentre l’interdizione perpetua risulta strutturalmente incompatibile con qualsiasi prosecuzione del rapporto d’impiego pubblico, non così può ritenersi per l’interdizione temporanea, caratterizzata ontologicamente dalla sua provvisorietà.
D’altro canto, la Corte costituzionale, con specifico riguardo alla perdita del grado dei militari appartenenti all’Arma dei carabinieri, ha già ritenuto necessaria la mediazione di un procedimento disciplinare anche nel caso di applicazione della pena accessoria della rimozione, che nell’ordinamento militare è una sanzione interdittiva addirittura di carattere permanente, dichiarando illegittime le norme che la prevedevano (sentenza n. 363 del 1996).
Da questo punto di vista, la provvisorietà strutturale della pena accessoria dell’interdizione temporanea dai pubblici uffici porterebbe, ad avviso del rimettente, a ritenere a maggior ragione estensibile alla disciplina qui scrutinata i principi affermati dalla Corte costituzionale con la citata sentenza n. 363 del 1996 a proposito della pena accessoria militare della rimozione, con riferimento alla disciplina previgente.
Del resto, ha osservato il giudice a quo, anche il novellato art. 32-quinquies cod. pen. subordina pur sempre l’estinzione del rapporto d’impiego, conseguente alla pena accessoria dell’interdizione temporanea dai pubblici uffici, alla presenza di ulteriori presupposti (rappresentati da determinati e qualificati titoli di reato e da una pena principale non inferiore a due anni di reclusione) che, per la specificità del titolo e la gravità concreta del fatto, consentano di giustificare l’esclusione del procedimento disciplinare per la sanzione espulsiva.
Secondo il rimettente, proprio l’assenza di tali ulteriori presupposti per l’appartenente all’Arma dei carabinieri e l’abnormità delle conseguenze dovute all’indiscriminata latitudine dei comportamenti per i quali può intervenire l’interdizione temporanea, determinano, con riferimento alla disciplina sospettata d’illegittimità, il venir meno di quel necessario rapporto di congruità e di intrinseca ragionevolezza tra misura ed esigenze da tutelare, che deve sussistere ai sensi dell’art. 3 Cost.
In realtà, lo stesso caso concreto sottoposto all’esame del giudice a quo evidenzia un’ipotesi di particolare levità che rende chiara l’esigenza della mediazione di un procedimento disciplinare attraverso il quale valutare la portata del concreto comportamento realizzato, in rapporto all’effetto destitutorio che se ne vuole far derivare, fornendo così un agevole esempio contrario che smentisce la generalizzazione posta a base della presunzione assoluta che determina l’automatismo espulsivo ai sensi degli artt. 866, comma 1, 867, comma 3 e 923, comma 1, del d.lgs. n. 66 del 2010.
4.3.2.– Il giudice a quo ritiene che la disciplina in esame violi anche il principio di uguaglianza codificata dall’art. 3 Cost., in quanto equipara ai fini dell’automatismo espulsivo situazioni strutturalmente diverse quali l’interdizione temporanea e quella perpetua.
Né tale ingiustificata omologazione, secondo il rimettente, potrebbe trovare spiegazione nel particolare status militare del carabiniere, tanto più che viene posta in discussione non la possibilità di prevedere una misura espulsiva, ma il modo in cui si perviene a tale risultato, attraverso un automatismo che esclude il procedimento disciplinare, riservando così ai carabinieri un trattamento deteriore che la Corte costituzionale aveva già ritenuto non giustificato dal loro status di militari (viene citata la sentenza n. 126 del 1995).
Del resto, osserva il giudice a quo, la disparità di trattamento risulta particolarmente evidente nel caso di specie dove l’episodio concreto, che ha portato alla condanna, afferisce ad attribuzioni di polizia stradale, come tali esercitate anche da personale non militare, che non incorrerebbe in simile automatismo.
4.3.3.– Ad avviso del giudice rimettente le norme censurate violano anche il diritto di difesa garantito dall’art. 24, secondo comma, Cost., in quanto precludono all’interessato ogni possibilità di far valere le proprie ragioni in relazione alla misura espulsiva dall’Arma dei carabinieri, ragioni che avrebbero potuto trovare adeguato spazio nel solo procedimento disciplinare, escluso invece in radice dal ricordato automatismo.
4.3.4.– Il giudice a quo ritiene, inoltre, che le norme censurate pregiudichino il diritto al lavoro dell’interessato, tutelato dagli artt. 4 e 35 Cost., posto che la cessazione del rapporto di impiego, in considerazione della marcata connotazione specialistica dell’attività svolta, impedirebbe ogni plausibile possibilità di reinserimento nel mondo del lavoro.
4.3.5.– Secondo il rimettente, infine, l’automatismo precluderebbe ogni possibile valutazione della pubblica amministrazione sulla possibilità di una proficua prosecuzione del rapporto d’impiego, così da incidere sul buon andamento dell’amministrazione militare sotto il profilo della migliore utilizzazione delle risorse professionali e da violare il canone previsto dall’art. 97 Cost.
5.– Con atto depositato il 10 maggio 2016, è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha chiesto di respingere le sollevate questioni di legittimità costituzionale.
Secondo la difesa dello Stato il rimettente non avrebbe tenuto conto dell’orientamento espresso dalla Corte, per il quale misure espulsive, come quelle in esame, possono essere giustificate dall’esigenza di dare attuazione alle pene accessorie previste dal legislatore penale.
La ragionevolezza della previsione del meccanismo espulsivo, anche in presenza di una interdizione temporanea dai pubblici uffici, sarebbe dimostrata dalla peculiarità dello status di militare del carabiniere, il cui comportamento deve essere sempre improntato alla massima rettitudine e onestà, così da rendere impensabile la riammissione in servizio dopo il periodo di interdizione temporanea conseguito alla condanna penale, non condizionalmente sospesa, di per sé dimostrativa del disvalore sociale della condotta, così da giustificare l’estromissione del suo autore dall’Arma dei carabinieri.
Ingiustificato sarebbe poi il richiamo al diritto al lavoro, posto che tale diritto non è incompatibile con la necessità di assicurare al datore di lavoro l’adozione di misure rigorose per salvaguardare il buon andamento e l’efficienza dell’amministrazione.
Ciò dimostrerebbe altresì l’inconferenza del richiamo al principio di cui all’art. 97 Cost., posto che la normativa denunciata risulta funzionale proprio a garantire il buon andamento della pubblica amministrazione.
Quanto, infine, alla dedotta violazione del diritto di difesa ex art. 24, secondo comma, Cost., l’Avvocatura generale dello Stato ha osservato che, seguendo la tesi del rimettente, qualsiasi provvedimento vincolato della pubblica amministrazione determinerebbe un vulnus costituzionale: l’assurdità della predetta conclusione dimostrerebbe, pertanto, l’infondatezza della censura.
Considerato in diritto
1.– Con ordinanza del 26 giugno 2015 il Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia ha sollevato, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli articoli 866, comma 1, 867, comma 3 e 923 (recte: 923, comma 1, lettera i, del decreto legislativo 15 marzo 2010, n. 66 (Codice dell’ordinamento militare).
Secondo la prospettazione del rimettente, per effetto delle disposizioni impugnate, il passaggio in giudicato della sentenza di condanna, non condizionalmente sospesa, per delitto non colposo che comporti la pena accessoria della interdizione temporanea dai pubblici uffici, determina la perdita del grado senza giudizio disciplinare; a sua volta, la perdita del grado è causa automatica di cessazione del rapporto di impiego del militare.
La disciplina in esame violerebbe l’art. 3 Cost. sotto molteplici profili: anzitutto, sarebbe frutto di una scelta legislativa incongrua e sproporzionata, come tale del tutto irragionevole; inoltre, essa riserverebbe un identico trattamento, la cessazione automatica del rapporto di impiego, a situazioni strutturalmente diverse, per di più equiparando gli effetti della interdizione temporanea a quelli della interdizione perpetua dai pubblici uffici.
2.– Con ordinanza del 5 novembre 2015, il Tribunale amministrativo regionale per la Campania ha sollevato questione di legittimità costituzionale delle medesime disposizioni contenute negli artt. 866, comma 1, 867, comma 3 e 923, comma 1 (recte: 923, comma 1, lettera i), del d.lgs. n. 66 del 2010, per violazione degli artt. 3, 24, secondo comma, 4, 35 e 97 Cost.
Il giudice a quo ritiene che la disciplina in esame sia intrinsecamente irragionevole, perché prevedendo, a determinate condizioni, l’automatica perdita del grado senza procedimento disciplinare – la quale, a sua volta, è causa di automatica cessazione del rapporto di impiego – violerebbe il principio di gradualità e proporzione delle sanzioni.
La violazione sarebbe particolarmente evidente nella specie sottoposta a giudizio, in cui l’espulsione automatica del militare è conseguente ad una condanna per abuso lieve di ufficio, per non avere l’interessato elevato una contravvenzione stradale consistente nel mancato utilizzo delle cinture di sicurezza.
L’automatismo della cessazione dal servizio determinerebbe, inoltre, una violazione del principio di uguaglianza. Si verificherebbe, infatti, una ingiustificata disparità di trattamento tra il militare che incorra nella ricordata sanzione penale accessoria temporanea, per la quale è previsto un automatismo espulsivo, rispetto allo stesso militare che sia soggetto all’analoga sanzione penale militare accessoria della rimozione, per la quale la perdita del grado e la cessazione dal servizio sono invece subordinate alle valutazioni da compiersi in un procedimento disciplinare. Parimenti ingiustificata sarebbe poi la disparità di trattamento rispetto al pubblico impiegato la cui posizione, per analoga interdizione temporanea dai pubblici uffici, dovrebbe invece essere vagliata in procedimento disciplinare all’uopo previsto dalla legge.
Oltre ai ricordati profili di violazione dell’art. 3 Cost., il rimettente ravvisa altresì la contestuale violazione: dell’art. 24, secondo comma, Cost., in quanto l’automatismo della perdita del grado e la conseguente cessazione dal servizio impedirebbero all’interessato qualsiasi difesa in merito all’applicazione delle ricordate misure disciplinari; degli artt. 4 e 35 Cost., in quanto il predetto automatismo finirebbe per pregiudicare il diritto al lavoro; dell’art. 97 Cost., in quanto il medesimo automatismo pregiudicherebbe il buon andamento della pubblica amministrazione, impedendo all’amministrazione interessata ogni valutazione sulla perdurante opportunità della permanenza in servizio e, quindi, sulla migliore utilizzazione delle risorse professionali.
3.– In via preliminare deve osservarsi che le questioni sollevate con le due descritte ordinanze hanno ad oggetto le medesime disposizioni e lamentano la violazione di parametri almeno parzialmente coincidenti. Ai fini di una decisione congiunta è perciò opportuna la riunione dei relativi giudizi.
4.– Sempre in via preliminare, deve osservarsi, che la costituzione della parte privata D.M. è pienamente ammissibile, in quanto si tratta di parte nel giudizio a quo.
5.– Non sono state eccepite, né risultano, cause di inammissibilità delle sollevate questioni, dovendosi escludere che le ordinanze introduttive del presente giudizio soffrano delle medesime carenze che hanno indotto questa Corte, con la sentenza n. 276 del 2013, a dichiarare inammissibile analoga questione sollevata sul solo art. 866 del d.lgs. n. 66 del 2010, per incompleta ricostruzione del quadro normativo e insufficienza di motivazione.
Invero, entrambi i Tribunali rimettenti si sono confrontati con la precedente sentenza di inammissibilità e hanno colmato le numerose lacune che avevano allora indotto questa Corte a ritenere che la questione di legittimità non fosse sufficientemente precisata nei suoi termini essenziali, né fosse sufficientemente sorretta da un adeguato iter argomentativo, alla luce della complessità del quadro normativo in cui la disposizione censurata doveva essere collocata.
Non così nel caso oggi all’esame della Corte. I giudici rimettenti hanno ricostruito con completezza il quadro normativo di riferimento, anche alla luce delle più recenti evoluzioni legislative, hanno dato adeguato conto della giurisprudenza costituzionale e comune sul tema, si sono fatti carico delle necessarie precisazioni in ordine alle peculiarità delle funzioni dell’Arma dei carabinieri, attinenti alla pubblica sicurezza e all’ordine pubblico, e hanno precisato l’oggetto della questione, individuandolo nelle disposizioni, congiuntamente interpretate, di cui agli art. 866, comma 1, 867, comma 3 e 923 del citato d.lgs. n. 66 del 2010.
Al riguardo deve solo osservarsi che, in riferimento a quest’ultima disposizione, la censura non investe l’intero articolo, ma deve essere circoscritta al solo comma 1, lett. i). Tra le numerose cause di cessazione del rapporto di impiego enumerate nell’intero corpo dell’art. 923, viene in rilievo, nel presente giudizio, solo quella connessa alla «perdita del grado», indicata appunto al comma 1, lett. i), come si evince inequivocabilmente dalla puntuale motivazione delle due ordinanze di rimessione. Ad essa, dunque, deve limitarsi il giudizio di questa Corte.
6.– Nel merito la questione è fondata in riferimento all’art. 3 Cost., sia per contrasto con il fondamentale canone di ragionevolezza e proporzionalità, a cui tutte le leggi debbono conformarsi, sia per violazione del principio di eguaglianza.
6.1.– Le disposizioni impugnate prevedono un caso di automatica cessazione del rapporto di pubblico impiego, applicabile al personale militare.
Per effetto del congiunto operare delle disposizioni censurate – artt. 866, comma 1, 867, comma 3 e 923, comma 1, lettera i), del d.lgs. n. 66 del 2010 – il militare che abbia subito una condanna penale, non condizionalmente sospesa, per la quale è prevista la pena accessoria della interdizione temporanea dai pubblici uffici, cessa automaticamente e definitivamente dal servizio a partire dal passaggio in giudicato della sentenza di condanna. Infatti, l’art. 923, comma 1, lettera i) stabilisce la cessazione dal servizio del militare in caso di «perdita del grado». A sua volta, ai sensi dell’art. 866, comma 1, la «perdita del grado» consegue, «senza giudizio disciplinare», alla condanna definitiva, non condizionalmente sospesa, per delitto non colposo che comporti l’interdizione temporanea dai pubblici uffici. In proposito, l’art. 867, comma 3, precisa che la perdita del grado decorre dal passaggio in giudicato della sentenza di condanna.
L’esplicita previsione che la cessazione dal servizio avviene «senza giudizio disciplinare» (art. 866, comma 1) e con decorrenza dal «passaggio in giudicato» della sentenza penale di condanna (art. 867, comma 3) attesta inequivocabilmente il carattere automatico della misura destitutoria.
6.2.– La giurisprudenza costituzionale è costante nell’affermare l’illegittimità costituzionale dell’automatica destituzione da un pubblico impiego a seguito di sentenza penale, senza la mediazione del procedimento disciplinare.
Questa Corte ha, infatti, chiarito che la sanzione disciplinare va graduata, di regola, nell’ambito dell’autonomo procedimento a ciò preposto, secondo criteri di proporzionalità e adeguatezza al caso concreto, e non può pertanto costituire l’effetto automatico e incondizionato di una condanna penale (sentenze n. 234 del 2015, n. 2 del 1999, n. 363 del 1996, n. 220 del 1995, n. 197 del 1993, n. 16 del 1991, n. 158 del 1990, n. 971 del 1988 e n. 270 del 1986), neppure quando si tratti di rapporto di servizio del personale militare (ad esempio, sentenze n. 363 del 1996 e n. 126 del 1995).
Solo eccezionalmente l’automatismo potrebbe essere giustificato: segnatamente quando la fattispecie penale abbia contenuto tale da essere radicalmente incompatibile con il rapporto di impiego o di servizio, come ad esempio quella sanzionata anche con la pena accessoria dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici ex art. 28, secondo comma, cod. pen. (sentenze n. 286 del 1999 e n. 363 del 1996) o dell’estinzione del rapporto di impiego ex art. 32-quinquies cod. pen.
Queste ragioni di incompatibilità assoluta con la prosecuzione del rapporto di impiego – che giustifica l’automatismo destitutorio non come sanzione disciplinare, ma come effetto indiretto della pena già definitivamente inflitta – non sussiste in relazione all’interdizione temporanea dai pubblici uffici ex art. 28, terzo comma, cod. pen., connotata per definizione da un carattere provvisorio e, quindi, tale da non escludere la prosecuzione del rapporto momentaneamente interrotto.
Da qui l’intrinseca irrazionalità della disciplina censurata che collega automaticamente – senza possibilità di alcuna valutazione discrezionale sulla proporzionale graduazione della sanzione disciplinare nel caso concreto – una grave conseguenza irreversibile ad una misura temporanea che, di per sé, non la implica necessariamente.
6.3.– Né si versa, nella specie, in un caso in cui l’automatismo destitutorio si giustifica in vista della necessità di tutelare la collettività dalla pericolosità sociale del condannato, quale già accertata nel procedimento penale.
Vero è che questa Corte, in nome di tale esigenza di protezione della collettività, ha ritenuto non illegittima la previsione – contenuta nell’art. 8, comma 1, lettera c), del d.P.R. 25 ottobre 1981, n. 737 (Sanzioni disciplinari per il personale dell’Amministrazione di pubblica sicurezza e regolamentazione dei relativi procedimenti) – dell’automatica cessazione dal servizio del personale appartenente all’amministrazione di pubblica sicurezza a cui, in sede penale, sia stata applicata una misura di sicurezza personale (così, ad esempio, nella sentenza n. 112 del 2014).
È altresì vero, però, che la misura di sicurezza ha come presupposto necessario della sua applicazione l’accertamento in concreto della pericolosità sociale della persona che vi è soggetta. Sicché la Corte ha ritenuto non irragionevole la scelta del legislatore di prevedere una presunzione assoluta di incompatibilità con il rapporto di servizio nell’ambito dell’amministrazione della pubblica sicurezza, della persona sottoposta a misura di sicurezza personale.
L’interdizione temporanea dai pubblici uffici – di cui si tratta nel caso sottoposto all’attuale giudizio della Corte costituzionale – non è, invece, una misura di sicurezza che si applica esclusivamente a persone socialmente pericolose, ma è soltanto una pena accessoria.
6.4. Una presunzione assoluta (nella specie di incompatibilità con il rapporto di servizio) deve poi essere rispettosa dei canoni esplicitati dalla Corte in proposito.
Secondo la costante giurisprudenza costituzionale, infatti, «le presunzioni assolute, specie quando limitano un diritto fondamentale della persona, violano il principio di eguaglianza, se sono arbitrarie e irrazionali, cioè se non rispondono a dati di esperienza generalizzati, riassunti nella formula dell’id quod plerumque accidit», con la conseguenza che «l’irragionevolezza della presunzione assoluta si può cogliere tutte le volte in cui sia “agevole” formulare ipotesi di accadimenti reali contrari alla generalizzazione posta a base della presunzione stessa» (ex multis, sentenze n. 185 del 2015, n. 232 e n. 213 del 2013, n. 182 e n. 164 del 2011, n. 265 e n. 139 del 2010).
Tali principi sono violati dalle disposizioni sottoposte allo scrutinio della Corte nel giudizio in esame.
Nella specie, proprio in uno dei procedimenti a quibus (r.o. n. 78 del 2016), si rinviene una chiara esemplificazione di un accadimento reale che smentisce la generalizzazione legislativa. Si tratta, segnatamente, di un militare condannato alla pena detentiva di mesi due e giorni venti di reclusione per abuso lieve d’ufficio. Nel caso di specie, il condannato, agendo nella sua qualità di pubblico ufficiale, ha procurato intenzionalmente a un terzo (conducente di un’auto) un indebito vantaggio, consistente nella mancata elevazione del verbale di contravvenzione stradale, per non avere questi indossato la cintura di sicurezza. Nella sentenza definitiva di condanna, con la quale la pena detentiva è stata sostituita con quella pecuniaria, sono stati evidenziati gli elementi di tenuità del fatto e lieve offensività in concreto, che contrastano con l’abnormità delle conseguenze derivanti dall’applicazione della massima sanzione disciplinare, basata sulla mera presunzione di pericolosità o indegnità del pubblico ufficiale.
Dunque, a causa dell’ampiezza dei presupposti a cui viene collegata l’automatica cessazione dal servizio, le disposizioni impugnate non possono validamente fondare, in tutti i casi in esse ricompresi, una presunzione assoluta di inidoneità o indegnità morale o, tanto meno, di pericolosità dell’interessato, tale da giustificare una sanzione disciplinare così grave come la perdita del grado con conseguente cessazione dal servizio.
L’automatica interruzione del rapporto di impiego è, infatti, suscettibile di essere applicata a una troppo ampia generalità di casi, rispetto ai quali è agevole formulare ipotesi in cui essa non rappresenta una misura proporzionata rispetto allo scopo perseguito.
Di qui, l’irragionevolezza delle disposizioni oggetto di giudizio, e la conseguente violazione dell’art. 3 Cost. sotto questo profilo.
6.5.– La disciplina censurata viola anche il principio di uguaglianza, in quanto sottopone a un ingiustificato trattamento deteriore l’appartenente all’Arma dei carabinieri rispetto ai dipendenti dello Stato e di altre amministrazioni pubbliche.
Per questi ultimi, infatti, il legislatore aveva disposto il radicale divieto di «destituzioni di diritto» per condanna penale, in virtù dell’art. 9 della legge 7 febbraio 1990, n. 19 (Modifiche in tema di circostanze, sospensione condizionale della pena e destituzione dei pubblici dipendenti).
Successivamente sono intervenute altre disposizioni, tra le quali si deve ricordare l’art. 32-quinquies cod. pen., inserito dall’art. 5 della legge 27 marzo 2001, n. 97 (Norme sul rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare ed effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche), modificato dall’art. 1, comma 75, lettera b), della legge 6 novembre 2012, n. 190 (Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione) e, poi, dall’art. 1 della legge 27 maggio 2015, n. 69 (Disposizioni in materia di delitti contro la pubblica amministrazione, di associazioni di tipo mafioso e di falso in bilancio). La disposizione stabilisce che in casi tassativamente indicati si applica la cessazione automatica del rapporto di impiego, peraltro non come sanzione disciplinare, ma come pena accessoria. In particolare, si deve trattare di condanne per i delitti di cui agli articoli 314, primo comma, 317, 318, 319, 319-ter, 319-quater, primo comma, e 320 cod. pen., per i quali sia stata in concreto inflitta la pena della reclusione per un tempo non inferiore a due anni. L’art. 32-quinquies cod. pen. ha, pertanto, una portata applicativa ben circoscritta e delimitata da precisi requisiti qualitativi e quantitativi, che non può in alcun modo essere assimilata all’ampiezza delle fattispecie che possono determinare la cessazione del rapporto di servizio del personale militare ai sensi degli impugnati artt. 866, 867 e 923 del Codice dell’ordinamento militare.
Per i casi non rientranti nel citato art. 32-quinquies cod. pen., l’art. 5, comma 4, della legge n. 97 del 2001 prevede, invece, l’instaurazione di un apposito procedimento disciplinare.
Anche tale disparità di trattamento non trova ragionevole giustificazione, considerato che questa Corte ha già avuto occasione di affermare che il peculiare status dei militari, che pure esige il rispetto di severi codici di rettitudine e onestà, non può costituire di per sé una valida ragione a sostegno di una discriminazione del personale militare rispetto agli impiegati civili dello Stato sotto il profilo delle garanzie procedimentali poste a presidio del diritto di difesa, che risultano altresì strumentali al buon andamento dell’amministrazione militare (sentenza n. 126 del 1995).
Di qui anche la conseguente violazione degli artt. 24 e 97 Cost.
7.– Le rilevate ragioni di illegittimità costituzionale assumono rilievo assorbente degli ulteriori parametri dedotti.
Per Questi Motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
dichiara l’illegittimità costituzionale degli articoli 866, comma 1, 867, comma 3 e 923, comma 1, lettera i), del decreto legislativo 15 marzo 2010, n. 66 (Codice dell’ordinamento militare), nella parte in cui non prevedono l’instaurarsi del procedimento disciplinare per la cessazione dal servizio per perdita del grado conseguente alla pena accessoria della interdizione temporanea dai pubblici uffici.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 ottobre 2016.
F.to:
Paolo GROSSI, Presidente
Marta CARTABIA, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 15 dicembre 2016.