Sentenza n. 213 del 2013

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SENTENZA N. 213

ANNO 2013

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-           Franco                         GALLO                                            Presidente

-           Luigi                            MAZZELLA                                      Giudice

-           Gaetano                       SILVESTRI                                             ”

-           Sabino                         CASSESE                                                ”

-           Giuseppe                     TESAURO                                               ”

-           Paolo Maria                 NAPOLITANO                                       ”

-           Giuseppe                     FRIGO                                                     ”

-           Alessandro                  CRISCUOLO                                          ”

-           Paolo                           GROSSI                                                   ”

-           Giorgio                        LATTANZI                                              ”

-           Marta                           CARTABIA                                             ”

-           Sergio                          MATTARELLA                                       ”

-           Mario Rosario              MORELLI                                                ”

-           Giancarlo                     CORAGGIO                                            ”

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’articolo 275, comma 3, del codice di procedura penale, come modificato dall’articolo 2, comma 1, del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori), convertito, con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2009, n. 38, promosso dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Bologna nel procedimento penale a carico di C.A. con ordinanza del 21 giugno 2012, iscritta al n. 253 del registro ordinanze 2012 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 45, prima serie speciale, dell’anno 2012.

Udito nella camera di consiglio del 19 giugno 2013 il Giudice relatore Giuseppe Frigo.

Ritenuto in fatto

Con ordinanza del 21 giugno 2012, il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Bologna ha sollevato, in riferimento agli articoli 3, 13, primo comma, e 27, secondo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 275, comma 3, del codice di procedura penale, come modificato dall’articolo 2 del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori), convertito, con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2009, n. 38, nella parte in cui – nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto di cui all’articolo 630 del codice penale, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari – non fa salva, altresì, l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure.

Il giudice a quo premette di dover decidere su un’istanza di sostituzione della misura della custodia cautelare in carcere con quella degli arresti domiciliari, proposta da una persona imputata, in concorso con altri, del delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione (art. 630 cod. pen.) e per esso condannata in primo grado, nelle forme del giudizio abbreviato, alla pena di otto anni di reclusione, previa concessione dell’attenuante del fatto di lieve entità, di cui all’art. 311 cod. pen.

Dalle risultanze processuali sarebbe emerso che la vittima del sequestro era stata prelevata con la forza nei pressi dell’abitazione da quattro persone, che l’avevano costretta a salire su un’autovettura. I sequestratori avevano quindi richiesto, tramite telefono cellulare, alla compagna del sequestrato, quale condizione per la liberazione, la restituzione della somma di tremila euro, pagata come corrispettivo per la cessione di sostanza stupefacente, rivelatasi poi essere solo «acqua e sapone», in precedenza effettuata dalla stessa compagna dell’offeso. La privazione della libertà era durata, peraltro, solo poche ore, giacché il sequestrato era stato prontamente liberato grazie all’intervento delle forze dell’ordine, che avevano proceduto all’arresto in flagranza dei quattro sequestratori.

Nel convalidare l’arresto, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Pistoia aveva applicato la custodia cautelare in carcere solo a due degli indagati, ritenendo adeguata la misura degli arresti domiciliari per gli altri, tra cui l’attuale istante, stante il ruolo minore svolto nella vicenda, e declinando al tempo stesso la competenza a favore del Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Bologna. Su richiesta del pubblico ministero bolognese, quest’ultimo Giudice aveva quindi rinnovato, ai sensi dell’art. 27 cod. proc. pen., le misure cautelari disposte dal giudice dichiaratosi incompetente, applicando, peraltro, a tutti gli indagati la custodia in carcere, sul rilievo che il sequestro di persona a scopo di estorsione rientra tra i reati per i quali l’art. 275, comma 3, cod. proc. pen. prevede che, in presenza di esigenze cautelari, debba essere necessariamente disposta la misura di massimo rigore.

Ciò premesso, il giudice a quo rileva che le esigenze cautelari, pur non essendo venute meno, potrebbero essere adeguatamente fronteggiate con la misura degli arresti domiciliari, tenuto conto del ruolo «defilato» avuto dall’istante nell’episodio criminoso e della sua condizione di incensurato. All’accoglimento dell’istanza di sostituzione della misura in atto osterebbe, tuttavia, il disposto dell’art. 275, comma 3, cod. proc. pen., così come modificato dall’art. 2 del decreto-legge n. 11 del 2009, in forza del quale, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza per una serie di reati – tra cui quello di sequestro di persona a scopo di estorsione (evocato tramite il rinvio all’art. 51, comma 3-bis, cod. proc. pen.) – «è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari».

Secondo il rimettente, tale preclusione – non superabile tramite una interpretazione costituzionalmente orientata, stante l’univocità del testo normativo – si porrebbe in contrasto con gli artt. 3, 13, primo comma, e 27, secondo comma, Cost.

Al riguardo, il giudice a quo rileva come la Corte costituzionale – con la sentenza n. 265 del 2010 e plurime decisioni successive – abbia già dichiarato costituzionalmente illegittima, per violazione dei medesimi parametri, la norma censurata, nella parte in cui non consentiva l’adozione di misure cautelari diverse da quella carceraria in relazione a tutta una serie di ipotesi criminose.

Le medesime considerazioni poste a base di tali decisioni – sinteticamente ripercorse nell’ordinanza di rimessione – varrebbero anche in rapporto al delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione, che non potrebbe essere assimilato, sotto il profilo che interessa, ai delitti di mafia, in rapporto ai quali la Corte – con l’ordinanza n. 450 del 1995 – ha ritenuto giustificabile la presunzione assoluta di adeguatezza della sola custodia cautelare in carcere.

L’originaria previsione dell’art. 630 cod. pen. è stata, in effetti, oggetto di numerose modifiche legislative, intese per lo più ad inasprire il trattamento sanzionatorio della fattispecie criminosa a fronte dello straordinario incremento, registratosi negli anni 1970-1980, dei sequestri di persona a scopo di estorsione realizzati da pericolose organizzazioni criminali in vista del conseguimento di ingentissimi profitti e caratterizzati da privazioni della libertà protratte per anni, oltre che da episodi di efferata crudeltà nei confronti delle vittime. Alla luce di un consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, rientrerebbero tuttavia nel campo applicativo della norma incriminatrice anche ipotesi diverse e assai meno gravi di quelle ora indicate, quale la privazione della libertà di una persona finalizzata a conseguire – come nel caso oggetto del giudizio a quo – il pagamento di un debito derivante da un pregresso rapporto di natura illecita.

Proprio in base a tale considerazione, la Corte costituzionale ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 630 cod. pen., nella parte in cui non prevede una circostanza attenuante per i fatti «di lieve entità», corrispondente a quella prefigurata dall’art. 311 cod. pen. in rapporto al delitto – strutturalmente omologo, ma che aggredisce interessi di rango più elevato – del sequestro di persona a scopo di terrorismo o di eversione. La stessa Corte costituzionale avrebbe, dunque, già riconosciuto che possono esservi sequestri di persona a scopo di estorsione «di lieve entità» per le modalità esecutive del fatto e il danno arrecato alla vittima. In tali casi – nei quali l’azione criminosa può essere frutto di iniziative contingenti, che non implicano un’organizzazione di persone e di mezzi e che recano solo una limitata offesa ai beni protetti (libertà personale e patrimonio) – la sottrazione al giudice della possibilità di applicare misure cautelari diverse da quella carceraria risulterebbe priva di base razionale.

Per questo verso, la norma censurata violerebbe, dunque, sia l’art. 3 Cost., tenuto conto anche del fatto che la presunzione assoluta di adeguatezza della sola misura carceraria non è prevista in rapporto a reati di maggior disvalore e più severamente puniti (quali la strage o l’omicidio pluriaggravato); sia gli artt. 13, primo comma, e 27, secondo comma, Cost., in quanto detta presunzione assoluta non risulterebbe basata sulla specificità della fattispecie penale di riferimento e impedirebbe al giudice di tenere conto delle particolarità del caso concreto, in contrasto con il principio del «minimo sacrificio necessario».

Considerato in diritto

1.– Il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Bologna dubita della legittimità costituzionale dell’articolo 275, comma 3, del codice di procedura penale, come modificato dall’articolo 2 del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori), convertito, con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2009, n. 38, nella parte in cui non consente di applicare misure cautelari diverse e meno afflittive della custodia in carcere alla persona raggiunta da gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione (art. 630 del codice penale).

Il giudice a quo reputa estensibili ai procedimenti relativi a detto reato le considerazioni che hanno già indotto questa Corte a dichiarare costituzionalmente illegittima la norma censurata in rapporto a numerose altre figure criminose. Al pari di queste ultime, neppure il delitto previsto dall’art. 630 cod. pen. potrebbe essere assimilato ai delitti di mafia, in relazione ai quali la Corte ha ritenuto giustificabile la presunzione assoluta di adeguatezza della sola custodia cautelare in carcere, stabilita dalla disposizione sottoposta a scrutinio. Alla luce dei correnti indirizzi giurisprudenziali, infatti, il sequestro di persona a scopo estorsivo può essere integrato da fattispecie concrete di disvalore fortemente differenziato, tanto sul piano delle modalità della condotta che dell’offesa agli interessi protetti, le quali potrebbero bene proporre anche esigenze cautelari suscettibili di essere soddisfatte con misure diverse dalla custodia carceraria.

La presunzione censurata si porrebbe, di conseguenza, in contrasto – conformemente a quanto già deciso dalla Corte – con i principi di eguaglianza e di ragionevolezza (art. 3 Cost.) e di inviolabilità della responsabilità penale (art. 13, primo comma, Cost.), nonché con la presunzione di non colpevolezza (art. 27, secondo comma, Cost.).

2.– La questione è fondata.

Come ricorda il giudice a quo, la norma denunciata è già stata oggetto di plurime dichiarazioni di illegittimità costituzionale di questa Corte, nella parte in cui prefigura una presunzione assoluta – anziché soltanto relativa – di adeguatezza della sola custodia cautelare in carcere a soddisfare le esigenze cautelari nei confronti della persona raggiunta da gravi indizi di colpevolezza per una serie di delitti. Ciò è avvenuto, in particolare, con riguardo ai delitti a sfondo sessuale di cui agli artt. 600-bis, primo comma, 609-bis e 609-quater cod. pen. (sentenza n. 265 del 2010); all’omicidio volontario (sentenza n. 164 del 2011); alla fattispecie associativa di cui all’art. 74 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, recante il «Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza» (sentenza n. 231 del 2011); all’associazione per delinquere finalizzata alla commissione dei delitti previsti dagli artt. 473 e 474 cod. pen. (sentenza n. 110 del 2012).

Ad analoga declaratoria di illegittimità costituzionale la Corte è pervenuta, altresì, successivamente all’ordinanza di rimessione, con riguardo ai procedimenti per i delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416-bis cod. pen., ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dal medesimo articolo (sentenza n. 57 del 2013).

È stata dichiarata, inoltre, costituzionalmente illegittima, nei medesimi termini, l’omologa presunzione assoluta sancita dall’art. 12, comma 4-bis, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), nei confronti della persona gravemente indiziata di taluno dei delitti di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, previsti dal comma 3 del medesimo art. 12 (sentenza n. 331 del 2011).

3.– Nelle decisioni ora citate, questa Corte ha rilevato come, alla luce dei principi costituzionali di riferimento – segnatamente, il principio di inviolabilità della libertà personale (art. 13, primo comma, Cost.) e la presunzione di non colpevolezza (art. 27, secondo comma, Cost.) – la disciplina delle misure cautelari debba essere ispirata al criterio del «minore sacrificio necessario»: la compressione della libertà personale va contenuta, cioè, entro i limiti minimi indispensabili a soddisfare le esigenze cautelari del caso concreto. Ciò impegna il legislatore, da una parte, a strutturare il sistema cautelare secondo il modello della «pluralità graduata», predisponendo una gamma di misure alternative, connotate da differenti gradi di incidenza sulla libertà personale; dall’altra, a prefigurare criteri per scelte «individualizzanti» del trattamento cautelare, parametrate sulle esigenze configurabili nelle singole situazioni concrete. Canoni ai quali non contraddice la disciplina generale del codice di procedura penale, basata sulla tipizzazione di un «ventaglio» di misure di gravità crescente (artt. 281-285) e sulla correlata enunciazione del principio di «adeguatezza» (art. 274, comma 1), alla luce del quale il giudice è tenuto a scegliere la misura meno afflittiva tra quelle astrattamente idonee a soddisfare le esigenze cautelari ravvisabili nel caso concreto e, conseguentemente, a far ricorso alla misura “massima” (la custodia in carcere) solo quando ogni altra misura risulti inadeguata (art. 275, comma 3, primo periodo).

4.– Discostandosi in modo marcato da tale regime, il novellato art. 275, comma 3, cod. proc. pen. sottrae, per converso, al giudice ogni potere di scelta, vincolandolo a disporre la misura maggiormente rigorosa, senza alcuna possibile alternativa, allorché la gravità indiziaria attenga a determinate fattispecie di reato. Siffatta soluzione normativa si traduce in una valutazione legale di idoneità della sola custodia carceraria a fronteggiare le esigenze cautelari (presunte, a loro volta, iuris tantum).

A tale proposito, questa Corte ha, peraltro, ribadito che «le presunzioni assolute, specie quando limitano un diritto fondamentale della persona, violano il principio di eguaglianza, se sono arbitrarie e irrazionali, cioè se non rispondono a dati di esperienza generalizzati, riassunti nella formula dell’id quod plerumque accidit. In particolare, l’irragionevolezza della presunzione assoluta si coglie tutte le volte in cui sia “agevole” formulare ipotesi di accadimenti reali contrari alla generalizzazione posta alla base della presunzione stessa» (sentenze n. 331, n. 231 e n. 164 del 2011, n. 265 e n. 139 del 2010).

L’evenienza ora indicata era puntualmente riscontrabile in rapporto alla presunzione assoluta in questione, nella parte in cui risultava riferita ai delitti dianzi elencati. A dette figure delittuose non poteva, infatti, estendersi la ratio giustificativa del regime derogatorio, precedentemente ravvisata dalla Corte in rapporto ai delitti di mafia (i soli considerati dall’art. 275, comma 3, cod. proc. pen. prima della novella del 2009) (ordinanza n. 450 del 1995): ossia che dalla struttura stessa della fattispecie e dalle sue connotazioni criminologiche – legate alla circostanza che l’appartenenza ad associazioni di tipo mafioso implica un’adesione permanente ad un sodalizio criminoso di norma fortemente radicato nel territorio, caratterizzato da una fitta rete di collegamenti personali e dotato di particolare forza intimidatrice – deriva, nella generalità dei casi e secondo una regola di esperienza generalmente condivisa, una esigenza cautelare alla cui soddisfazione sarebbe adeguata solo la custodia in carcere (non essendo le misure “minori” sufficienti a troncare i rapporti tra l’indiziato e l’ambito delinquenziale di appartenenza, neutralizzandone la pericolosità).

Connotazioni analoghe non erano riscontrabili in rapporto alle figure criminose sopra elencate. Pur nella loro indubbia gravità e riprovevolezza – destinata a pesare opportunamente nella determinazione della pena inflitta all’autore, quanto ne sia riconosciuta in via definitiva la colpevolezza – i suddetti delitti abbracciano, infatti, ipotesi concrete marcatamente eterogenee tra loro e suscettibili soprattutto di proporre, in un numero non marginale di casi, esigenze cautelari adeguatamente fronteggiabili con misure diverse e meno afflittive di quella carceraria.

Questa Corte ha ritenuto, quindi, che l’art. 275, comma 3, cod. proc. pen. violasse, in parte qua, sia l’art. 3 Cost., per l’ingiustificata parificazione dei procedimenti relativi ai reati considerati a quelli concernenti i delitti di mafia, nonché per l’irrazionale assoggettamento a un medesimo regime cautelare delle diverse ipotesi concrete riconducibili ai relativi paradigmi punitivi; sia l’art. 13, primo comma, Cost., quale referente fondamentale del regime ordinario delle misure cautelari privative della libertà personale; sia, infine, l’art. 27, secondo comma, Cost., per essere attribuiti alla coercizione processuale tratti funzionali tipici della pena.

5.– Alle medesime conclusioni deve pervenirsi anche in rapporto al delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione, al quale il regime cautelare speciale è esteso dal secondo periodo dell’art. 275, comma 3, cod. proc. pen. tramite il richiamo “mediato” alla norma processuale di cui all’art. 51, comma 3-bis, cod. proc. pen.

Questa Corte ha avuto già modo di rilevare, ad altro fine, come l’attuale assetto sanzionatorio del delitto considerato – caratterizzato da una risposta punitiva edittale di eccezionale asprezza (reclusione da venticinque a trenta anni, quanto all’ipotesi semplice) – rappresenti l’epilogo di una serie di interventi normativi, risalenti agli anni 1974-1980 e aventi i tratti tipici della legislazione “emergenziale”. Detti interventi costituirono la risposta normativa al rilevante allarme sociale generato «dallo straordinario, inquietante incremento, in quel periodo, dei sequestri di persona a scopo estorsivo, operati da pericolose organizzazioni criminali, con efferate modalità esecutive (privazione pressoché totale della libertà di movimento della vittima, sequestri protratti per lunghissimi tempi, invio di parti anatomiche del sequestrato ai familiari come mezzo di pressione) e richieste di riscatti elevatissimi». Come attesta l’esperienza giudiziaria, tuttavia, la descrizione del fatto incriminato dall’art. 630 cod. pen. – rimasta invariata rispetto alle origini («chiunque sequestra una persona allo scopo di conseguire, per sé o per altri, un ingiusto profitto come prezzo della liberazione») – si presta «a qualificare penalmente anche episodi marcatamente dissimili, sul piano criminologico e del tasso di disvalore, rispetto a quelli avuti di mira dal legislatore dell’emergenza»: episodi «che – a fronte della marcata flessione dei sequestri di persona a scopo estorsivo perpetrati “professionalmente” dalla criminalità organizzata, registratasi a partire dalla seconda metà degli anni ’80 […] – hanno finito, di fatto, per assumere un peso di tutto rilievo, se non pure preponderante, nella più recente casistica dei sequestri estorsivi» (sentenza n. 68 del 2012).

Rientra in tale ambito, tra le altre, l’ipotesi – oggetto del giudizio a quo – del sequestro di persona effettuato al fine di ottenere una prestazione patrimoniale, pretesa sulla base di un pregresso rapporto di natura illecita con la vittima: ipotesi che – secondo un indirizzo ormai costante della giurisprudenza di legittimità, dopo l’intervento chiarificatore delle Sezioni unite della Corte di cassazione (sentenza 17 dicembre 2003-20 gennaio 2004, n. 962) – è idonea ad integrare il delitto in questione, ricorrendo il requisito dell’«ingiustizia» del profitto perseguito dall’agente, dato che la pretesa che egli mira a soddisfare è sfornita di tutela legale, in quanto avente titolo in un negozio con causa illecita.

In queste e consimili evenienze, «il fatto criminoso può assumere, tuttavia – e non di rado assume – connotati ben diversi da quelli delle manifestazioni criminose che il legislatore degli anni dal 1974 al 1980 intendeva contrastare: ciò, sia per la più o meno marcata “occasionalità” dell’iniziativa delittuosa (la quale spesso prescinde da una significativa organizzazione di uomini e di mezzi); sia per l’entità dell’offesa recata alla vittima, quanto a tempi, luoghi e modalità di privazione della libertà personale; sia, infine, per l’ammontare delle somme pretese quale prezzo della liberazione» (sentenza n. 68 del 2012).

Proprio sulla scorta di tali rilievi, la Corte ha, quindi, dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 630 cod. pen., nella parte in cui – diversamente da quanto stabilito dall’art. 311 cod. pen. in rapporto al delitto, strutturalmente omologo, di sequestro di persona a scopo terroristico o eversivo – non prevedeva una diminuzione della pena «quando per la natura, la specie, i mezzi, le modalità o circostanze dell’azione, ovvero per la particolare tenuità del danno o del pericolo, il fatto risulti di lieve entità» (sentenza n. 68 del 2012).

6.– Le considerazioni ora ricordate, svolte in sede di scrutinio del trattamento sanzionatorio della fattispecie criminosa, valgono anche ad escludere che la presunzione assoluta di adeguatezza della sola custodia carceraria, sancita in rapporto a detta fattispecie dalla norma denunciata, possa ritenersi sorretta da una congrua “base statistica”. Pur nella particolare gravità che il fatto assume nella considerazione legislativa, anche nel caso in esame detta presunzione non può considerarsi, infatti, rispondente a un dato di esperienza generalizzato, ricollegabile alla «struttura stessa» e alle «connotazioni criminologiche» della figura criminosa.

Dal paradigma legale tipico esula, in specie, il necessario collegamento dell’agente con una struttura associativa permanente. Alla luce della descrizione del fatto incriminato, non è neppure escluso che questo possa costituire frutto di iniziativa meramente individuale. Ma quando pure – come avviene nella generalità dei casi – il sequestro risulti ascrivibile ad una pluralità di persone, esso può comunque mantenere un carattere puramente episodico od occasionale, basarsi su una organizzazione solo rudimentale di mezzi e recare una limitata offesa agli interessi protetti (libertà personale e patrimonio): evenienze che – stando a quanto si riferisce nell’ordinanza di rimessione – si sarebbero, del resto, verificate nel caso oggetto del giudizio a quo.

In sostanza, dunque, la fattispecie criminosa cui la presunzione è riferita può assumere le più disparate connotazioni concrete: dal fatto commesso “professionalmente” e con modalità efferate da organizzazioni criminali rigidamente strutturate e dotate di ingenti dotazioni di mezzi e di uomini; all’illecito realizzato una tantum da singoli o da gruppi di individui, quale reazione ad una altrui condotta apprezzata come scorretta (nella specie, una patita truffa “in re illicita”) e al solo fine di eliderne le conseguenze patrimoniali (nella specie, recuperare la modesta somma versata dai sequestratori al truffatore). Dal che deve conclusivamente inferirsi che in un numero non trascurabile di casi le esigenze cautelari potrebbero trovare risposta in misure diverse e meno afflittive della custodia carceraria.

7.– Come già precisato da questa Corte, ciò che vulnera i valori costituzionali non è la presunzione in sé, ma il suo carattere assoluto, che implica una indiscriminata e totale negazione di rilievo al principio del «minore sacrificio necessario». Di contro, la previsione di una presunzione solo relativa di adeguatezza della custodia carceraria – atta a realizzare una semplificazione del procedimento probatorio suggerita da aspetti ricorrenti del fenomeno criminoso considerato, ma comunque superabile da elementi di segno contrario – non eccede i limiti di compatibilità costituzionale, rimanendo per tal verso non censurabile l’apprezzamento legislativo circa la ordinaria configurabilità di esigenze cautelari nel grado più intenso (sentenze n. 57 del 2013, n. 110 del 2012, n. 331, n. 231 e n. 164 del 2011, n. 265 del 2010).

L’art. 275, comma 3, secondo periodo, cod. proc. pen. va dichiarato, pertanto, costituzionalmente illegittimo nella parte in cui – nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto di cui all’articolo 630 del codice penale, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari – non fa salva, altresì, l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l’illegittimità costituzione dell’articolo 275, comma 3, secondo periodo, del codice di procedura penale, come modificato dall’articolo 2 del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori), convertito, con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2009, n. 38, nella parte in cui – nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto di cui all’articolo 630 del codice penale, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari – non fa salva, altresì, l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 3 luglio 2013.

F.to:

Franco GALLO, Presidente

Giuseppe FRIGO, Redattore

Gabriella MELATTI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 18 luglio 2013.