Sentenza n. 16 del 1991

 

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SENTENZA N.16

ANNO 1991

 

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

 

composta dai signori:

prof. Giovanni CONSO                                  Presidente

 prof. Ettore GALLO                                      Giudice

 dott. Aldo CORASANITI                                  “

dott. Francesco GRECO                                      “                

prof. Gabriele PESCATORE                               “

avv. Ugo SPAGNOLI                                          “

prof. Francesco Paolo CASAVOLA                    “

prof. Antonio BALDASSARRE                         “

prof. Luigi MENGONI                                        “

prof. Enzo CHELI                                                “

dott. Renato GRANATA                                     “

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 26, primo comma, lett. a), della legge regionale della Lombardia 25 maggio 1983, n. 44 (Destituzione di diritto di dipendente regionale a seguito di condanna penale), promosso con ordinanza emessa il 29 marzo 1990 dal T.A.R. per la Lombardia sul ricorso proposto da Marro Dante contro la Regione Lombardia, iscritta al n. 537 del registro ordinanze 1990 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 36, prima serie speciale dell'anno 1990;

Udito nella camera di consiglio del 12 dicembre 1990 il Giudice relatore Ettore Gallo;

 

Ritenuto in fatto

 

1. - Con ordinanza 29 marzo 1990 il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia - Sezione terza - sollevava questione di legittimità costituzionale dell'art. 26, primo comma, lett. a), della legge regionale della Lombardia 25 maggio 1983, n. 44, in riferimento agli artt. 3 e 97 della Costituzione.

Riferiva il Tribunale nell'ordinanza che il Presidente della Regione aveva destituito, con decreto 18 marzo 1987, n. 3304, un funzionario della Regione perché condannato, con sentenza definitiva, per il delitto di truffa aggravata ai danni della Regione stessa, nonché di falso ideologico continuato in atto pubblico: reati comportanti la destituzione di diritto, ai sensi dell'art. 26 sopra citato.

Ricorreva, però, il funzionario deducendo come unico motivo l'illegittimità costituzionale della norma regionale posta a fondamento della sanzione espulsiva, perché non prevede un previo procedimento disciplinare. Il che rappresentava offesa al principio di cui all'art. 3 della Costituzione per carenza di qualunque criterio di adeguatezza di una sanzione unica e automatica alla varia gravità e natura degl'illeciti elencati dalla norma impugnata.

D'altra parte, l'allontanamento automatico di un dipendente, senza alcuna valutazione della rilevanza disciplinare del fatto commesso, non era nemmeno compatibile con il principio di buona amministrazione di cui all'art. 97 della Costituzione.

1.2. - Nelle more del giudizio, interveniva la sentenza 14 ottobre 1988, n. 971, di questa Corte che dichiarava l'illegittimità costituzionale di numerose norme statali di contenuto analogo a quello di cui all'art. 26 impugnato, e proprio nella parte in cui non prevedono l'apertura e lo svolgimento di un procedimento disciplinare in luogo della destituzione di diritto.

A seguito di ciò, i legislatori statale e regionale adeguavano i rispettivi ordinamenti alla detta pronuncia, con legge 7 febbraio 1990, n. 19, e con l. reg. 13 febbraio 1990, n. 10, abolendo l'istituto della destituzione di diritto e disponendo che il provvedimento di destituzione possa essere assunto solo a seguito di procedimento disciplinare.

Ambo le leggi, poi, prevedevano che i dipendenti, precedentemente destituiti di diritto, potevano essere riammessi in servizio, a domanda, previo procedimento disciplinare.

2. - Secondo l'ordinanza, tuttavia, tali eventi non avrebbero capacità d'influenzare il presente giudizio, né sul piano sostanziale né su quello processuale.

Non sul piano sostanziale, perché la citata sentenza di questa Corte, pur riguardando norme di analogo tenore, come l'art. 85, lett. a), del T.U. 10 gennaio 1957, n. 3, non ha travolto, però, l'art. 26 impugnato. Ben è vero che successivamente si è avuta l'abrogazione della norma, ad opera della citata legge regionale n. 10 del 1990, e prima ancora in virtù della richiamata legge statale n. 19 del 1990, ma queste leggi non producono effetti se non "ex nunc". Di qui la validità dei provvedimenti assunti sulla base della legge impugnata, e quindi anche della destituzione de qua.

Non sul piano processuale perché, nonostante la norma transitoria, la riammissione in servizio non consegue alla domanda ma soltanto all'esito favorevole del giudizio disciplinare: mentre l'eventuale declaratoria di illegittimità della norma, facendo decadere "ex tunc" il provvedimento destitutorio, consentirebbe al ricorrente di riassumere servizio, salvo l'esito del procedimento disciplinare.

Si tratterebbe - conclude l'ordinanza - di un'utilità autonoma e più ampia rispetto a quella assicurata dalla norma transitoria.

Nessuno è intervenuto o si è costituito nel giudizio innanzi alla Corte.

Considerato in diritto

 

1. - La questione sollevata è incentrata essenzialmente sulla rilevanza della richiesta declaratoria d'illegittimità della norma impugnata a fronte di una legge sopravvenuta, che non solo l'ha abrogata, ma ha anche predisposto un complesso di norme transitorie che consente a chi fosse stato destituito di diritto in precedenza di poter essere riassunto, a domanda, all'esito favorevole di un procedimento disciplinare.

2. - Come osserva esattamente l'ordinanza di rimessione, nonostante l'abrogazione della norma impugnata, persiste l'interesse del ricorrente ad ottenere la dichiarazione d'illegittimità della norma, che non è stata contemplata dalla sentenza 14 ottobre 1988, n. 971, di questa Corte. Proprio per questo, infatti, il provvedimento destitutorio assunto dalla Pubblica amministrazione, sulla base di una norma che all'epoca era ancora vigente, conserva tuttora la sua validità perché l'abrogazione della norma, sopravvenuta in epoca successiva, fa cessare la vigenza solo da quest'ultimo momento, e non elimina, perciò, il fondamento del provvedimento assunto in allora.

Ne consegue che, nonostante la citata sentenza di questa Corte, e la successiva abrogazione della norma impugnata da parte della legge regionale, il ricorrente conserva la situazione soggettiva di "destituito di diritto", e la norma transitoria gli consente soltanto di "chiedere" la riammissione in servizio, ma non di ottenerla, se non dopo avere favorevolmente superato il procedimento disciplinare. Procedimento che, fra termine per iniziarlo e termine per definirlo, può giungere a conclusione anche dopo 180 giorni, durante i quali il ricorrente resterebbe pur sempre nella condizione di "destituito di diritto".

Al contrario, ove la norma fosse dalla Corte delegittimata, cadrebbe al contempo "ex tunc" il provvedimento assunto sulla base della norma dichiarata illegittima, e il ricorrente si troverebbe di nuovo automaticamente in servizio, salva l'iniziativa della pubblica amministrazione in ordine al procedimento disciplinare.

Quand'anche fosse applicabile nei suoi confronti il terzo comma dell'art. 2 della legge reg. Lombardia 13 febbraio 1990, n. 10, secondo cui, quando vi sia stata sospensione cautelare dal servizio a causa del procedimento penale (e, nella specie, c'è stata), la stessa conserva efficacia, se non revocata, ciò non influirebbe sulla posizione giuridica di impiegato in costanza di rapporto di servizio, sia pure sospeso, sicuramente più favorevole rispetto a quella di impiegato destituito. La rilevanza, pertanto, non può essere negata.

3. - Nel merito, non può esservi dubbio che la norma denunciata presenti gli stessi aspetti di incompatibilità, rispetto all'art. 3 della Costituzione, che questa Corte ha rilevato nei riguardi dell'art. 85, lett. a), d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 (Statuto degli impiegati civili dello Stato), e delle altre norme di cui è stata dichiarata l'illegittimità costituzionale con la citata sentenza 14 ottobre 1988, n. 971, peraltro ribadita con la sentenza 31 gennaio 1990 n. 40. In ambo le decisioni, la nota dominante dell'incompatibilità costituzionale è stata ravvisata nell'automatismo della sanzione della "destituzione" che colpisce, senza alcuna distinzione, la molteplicità dei comportamenti possibili nell'area dello stesso illecito penale. Il che offende quel "principio di proporzione" che è alla base della razionalità che domina "il principio di eguaglianza", e che postula l'adeguatezza della sanzione al caso concreto. Adeguatezza che non può essere raggiunta se non attraverso la valutazione degli specifici comportamenti messi in atto nella commissione dell'illecito amministrativo, che soltanto il procedimento disciplinare consente.

L'automatismo della massima sanzione è, perciò, la causa prima dell'illegittimità della norma in riferimento all'art. 3 della Costituzione. La violazione di questo parametro, d'altra parte, è assorbente della incompatibilità che l'ordinanza denuncia anche in riferimento all'art. 97 della Costituzione, giacché, in questi casi, alla base dell'offesa ai valori di imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione c'è pur sempre quell'inadeguatezza al caso concreto che sostanzia la violazione del principio di eguaglianza.

 

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

Dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 26, primo comma, lett. a), della legge regionale della Lombardia 25 maggio 1983, n. 44.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'11 gennaio 1991.

 

Giovanni CONSO - Ettore GALLO - Aldo CORASANITI - Francesco GRECO - Gabriele PESCATORE - Ugo SPAGNOLI - Francesco Paolo CASAVOLA - Antonio BALDASSARRE - Luigi MENGONI -  Enzo CHELI - Renato GRANATA.

 

Depositata in cancelleria il 18 gennaio 1991.