SENTENZA N. 255
ANNO 2006
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai Signori:
- Annibale MARINI Presidente
- Franco BILE Giudice
- Giovanni Maria FLICK "
- Francesco AMIRANTE "
- Ugo DE SIERVO "
- Romano VACCARELLA "
- Paolo MADDALENA "
- Alfio FINOCCHIARO "
- Alfonso QUARANTA "
- Franco GALLO "
- Luigi MAZZELLA "
- Gaetano SILVESTRI "
- Sabino CASSESE "
- Maria Rita SAULLE "
- Giuseppe TESAURO "
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, della legge 1° agosto 2003, n. 207 (Sospensione condizionata dell’esecuzione della pena detentiva nel limite massimo di due anni), promosso con ordinanza del 28 settembre 2005 dal Magistrato di sorveglianza di Venezia, iscritta al n. 581 del registro ordinanze 2005 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 51, prima serie speciale, dell’anno 2005.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 5 aprile 2006 il Giudice relatore Alfio Finocchiaro.
Ritenuto in fatto
1. – Con ordinanza del 28 settembre 2005 il Magistrato di sorveglianza di Venezia ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, della legge 1° agosto 2003, n. 207 (Sospensione condizionata dell’esecuzione della pena detentiva nel limite massimo di due anni), in riferimento agli articoli 3, 27, terzo comma, 79, primo comma, e 102, primo comma, della Costituzione, nella parte in cui prevede come automatica ed obbligatoria la concessione della sospensione condizionata dell’esecuzione della pena, non consentendo al giudice di sorveglianza alcuna valutazione di merito, pur essendo norma compresa in una legge non approvata secondo le modalità prescritte dalla Costituzione per l’emanazione di un provvedimento di indulto.
Riferisce il rimettente che, nel procedimento sull’istanza di sospensione condizionata dell’esecuzione della pena presentata da Michele Minuzzo, sussistono tutti i requisiti di legittimità previsti dall’art. 1 della legge n. 207 del 2003 e che la norma è applicabile al condannato, che risultava trovarsi, al momento dell’entrata in vigore della legge, nelle condizioni previste dall’art. 7 per essere ammesso al beneficio.
L’odierno istante, con ordinanza del Tribunale di sorveglianza di Venezia, è stato ammesso al beneficio della semilibertà.
Con successiva ordinanza, lo stesso Tribunale ha revocato la semilibertà, per avere il condannato più volte violato le prescrizioni del programma di trattamento, dimostrando in tal modo «il mancato raggiungimento di quel grado minimo di maturità che è indispensabile possedere per la corretta fruizione di una misura alternativa», nonché rendendo palese «la propria inidoneità alla prosecuzione del trattamento». L’intervenuta revoca di una misura alternativa comporta la soggezione del condannato alle preclusioni stabilite dall’art. 58-quater, secondo comma, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), ovverosia l’impossibilità di accedere per un periodo minimo di tre anni ad altre misure alternative, nonché ai benefici penitenziari dei permessi premio e dell’ammissione al lavoro all’esterno.
Secondo il rimettente, però, il fallimento del trattamento extramurario non può in alcun modo essere valorizzato ai fini della decisione sull’odierna istanza.
Non è, infatti, applicabile al beneficio oggi richiesto la menzionata preclusione, in quanto la legge istitutiva del cosiddetto “indultino” ha espressamente richiamato le norme dell’ordinamento penitenziario che ha inteso estendere al nuovo beneficio, mentre non ha richiamato la norma di cui all’art. 58-quater, secondo comma, della legge n. 354 del 1975, che non può essere estesa in via interpretativa, trattandosi di norma di stretta interpretazione in quanto sfavorevole al reo.
Prima della sentenza della Corte costituzionale n. 278 del 2005, la giurisprudenza di legittimità considerava la norma di cui all’art. 1, comma 3, lettera d), della legge n. 207 del 2003 il fondamento normativo dell’efficacia preclusiva dell’intervenuta revoca di una misura alternativa ai fini della concessione della sospensione condizionata dell’esecuzione della pena.
Dopo la declaratoria di illegittimità della predetta norma è venuto meno il fondamento normativo dell’orientamento prevalente e, pertanto, l’intervenuta revoca di una misura alternativa non può più essere considerata causa di inammissibilità dell’istanza di sospensione condizionata dell’esecuzione della pena.
Nel procedimento a quo, la recentissima revoca e l’accertata inidoneità al trattamento extramurario, oltre a non integrare un presupposto ostativo, non possono neppure essere tenute in considerazione ai fini del rigetto dell’istanza, non essendo demandata al giudice di sorveglianza alcuna valutazione di merito dall’art. 1 della legge n. 207 del 2003, che prevede l’obbligatoria concessione del beneficio ove sussistano i requisiti di legittimità ivi previsti, in quanto la formulazione della norma, che testualmente dispone: «è sospesa per la parte residua la pena ...», anziché «può essere sospesa», non lascia dubbi.
Ritiene il rimettente che la disposizione attribuisce al sistema una connotazione estremamente criticabile, e che, pertanto, debba essere sollevata d’ufficio questione di legittimità costituzionale della norma, per contrasto con gli artt. 3, 27, terzo comma, 79, primo comma, e 102, primo comma, della Costituzione, ravvisandosene la rilevanza e la non manifesta infondatezza.
La questione è rilevante, ai fini della pronuncia del giudice a quo sull’istanza, essendo ineliminabile l’applicazione della norma nell’iter logico-giuridico che il rimettente deve percorrere per la decisione conclusiva dell’odierno procedimento, trovandosi il condannato nelle condizioni previste dall’art. 1 della legge n. 207 del 2003 per l’ammissione alla sospensione condizionata della pena, pur avendo subìto colpevolmente da brevissimo tempo, per lo stesso titolo esecutivo, la revoca della più restrittiva delle misure alternative, così dimostrando l’incapacità di gestire una misura ben più contenitiva del beneficio oggi richiesto.
In punto di non manifesta infondatezza, si osserva che il nuovo istituto introdotto nel sistema dalla legge n. 207 del 2003, di non facile inquadramento sistematico, è connotato dal tendenziale automatismo della concessione, non essendo demandato al giudice di sorveglianza alcun prudente apprezzamento sul raggiungimento da parte del condannato di un grado di rieducazione adeguato al beneficio richiesto e sulla conseguente idoneità rieducativa di quest’ultimo, né sulla idoneità a prevenire il pericolo di recidiva, ma esclusivamente l’accertamento della sussistenza dei requisiti di legittimità previsti dalla legge; da qui le evidenti affinità della sospensione condizionata con la misura clemenziale dell’indulto, con la quale il nuovo beneficio ha anche in comune la disciplina della revoca a causa della commissione di un delitto non colposo entro il termine previsto dalla legge, nonché l’estinzione della pena nel caso opposto.
Confermano tale assunto anche la natura di beneficio extra ordinem dell’“indultino” (derivante dai limiti temporali stabiliti dall’art. 7 della legge n. 207 del 2003) e la ratio di deflazione carceraria, ampiamente resa nota dal dibattito parlamentare e politico che ha preceduto l’emanazione della predetta legge.
Irrilevante, ai fini dell’inquadramento sistematico del nuovo istituto è, invece, ad avviso del giudice a quo, la circostanza che l’“indultino” abbia come contenuto una serie di obblighi e prescrizioni in gran parte mutuati dalla più ampia delle misure alternative, ovvero l’affidamento in prova al servizio sociale, misura con la quale il beneficio condivide altri aspetti di disciplina, quali la sottoscrizione del verbale delle prescrizioni, la competenza del magistrato di sorveglianza sulle modifiche delle prescrizioni e in ordine ai provvedimenti di cui agli artt. 51-bis e 51-ter della legge n. 354 del 1975.
L’“indultino”, infatti, nonostante tali richiami di disciplina nella fase esecutiva, non può essere considerato una misura alternativa alla detenzione stante il ricordato automatismo del procedimento di concessione e l’assenza di alcuno spazio per una valutazione in termini di meritevolezza del beneficio, elementi che lo rendono del tutto affine a una misura di clemenza. Quest’ultima, infatti, non ha alcuna efficacia rieducativa, ma risponde a scelte di politica criminale, e limita il ruolo del giudice a un mero accertamento dei requisiti di legittimità previsti dalla legge. Anche l’indulto, peraltro, può essere sottoposto a condizioni od obblighi, alla cui violazione consegue la revoca del beneficio. A ben vedere, il rapporto di affinità appare tale da configurare un’identità di ratio legis. L’introduzione di una misura di clemenza avrebbe, però, doverosamente richiesto un formale provvedimento di indulto, approvato con le forme previste dalla Costituzione, ovverosia con legge deliberata a maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna Camera, in ogni suo articolo e nella votazione finale, requisito formale di cui la legge n. 207 del 2003 è, invece, priva, con conseguente contrasto con l’art. 79, primo comma, della Costituzione.
Anche a non voler considerare la sospensione condizionata della pena una misura di clemenza, tale da richiedere un formale provvedimento di indulto, la norma censurata non si sottrae, comunque, ai dubbi di legittimità costituzionale.
L’introduzione del nuovo istituto rappresenta, infatti, un punto di rottura dell’armonia del vigente sistema dell’esecuzione penitenziaria, che prima dell’entrata in vigore della legge n. 207 del 2003 aveva una sua logica coerenza, in quanto incentrato sui principi del finalismo rieducativo della pena, dell’individualizzazione del trattamento e della progressività trattamentale.
Conformemente a tali principi, ai quali è improntato tutto il settore dell’esecuzione penale, la concessione di ogni misura alternativa o beneficio premiale previsto dall’ordinamento penitenziario deve essere preceduta, oltre che dall’accertamento della sussistenza dei requisiti di legittimità di volta in volta prescritti dalla legge, anche da una valutazione del giudice sul raggiungimento da parte del condannato di uno stadio del percorso rieducativo adeguato al beneficio richiesto, e sulla conseguente idoneità rieducativa di quest’ultimo, nonché, nel caso di benefici comportanti l’uscita del detenuto dal carcere, sull’idoneità a prevenire il pericolo di fuga e di recidiva.
Nelle proprie decisioni, il giudice di sorveglianza deve aver riguardo ai risultati del trattamento individualizzato e verificare la sussistenza delle condizioni per un adeguato reinserimento sociale, al fine di garantire la proporzionalità e l’individualizzazione del trattamento sanzionatorio, oltre che 1’ineludibile finalità rieducativa della pena.
Ogni istituto previsto dal sistema ha, poi, una funzione pedagogico-propulsiva, quale incentivo per il condannato a migliorare la sua adesione al trattamento, nonché come momento di verifica per l’eventuale ammissione a benefici più ampi. Tale funzione degli istituti di risocializzazione consente di individuare una «progressione nella premialità, cui fa da contrapposto una regressione nella medesima nel caso di mancato rispetto delle prescrizioni dei benefici già concessi o di altre irregolarità comportamentali».
Espressione normativa della biunivoca correlazione che deve necessariamente stabilirsi tra la progressione (o regressione) nel trattamento rieducativo e la risposta conseguente sul piano dell’accesso agli istituti di risocializzazione è la menzionata norma di cui al comma 2 dell’art. 58-quater della legge n. 354 del 1975, che prescrive, in caso di regressione di tale gravità da dare luogo alla revoca di una misura alternativa alla detenzione, il divieto di concessione di benefici per un periodo di tre anni dalla data del provvedimento di revoca.
Con l’introduzione nel sistema penitenziario della sospensione condizionata della parte finale dell’esecuzione della pena detentiva, invece, ogni valutazione finalizzata all’individualizzazione del trattamento rieducativo è preclusa al giudice di sorveglianza, il quale, accertata la sussistenza dei requisiti di legittimità, deve automaticamente concedere il beneficio.
Nel nuovo sistema, pertanto, può essere ammesso all’“indultino”, ovvero ad un beneficio di notevole portata, il condannato che non abbia mai ottenuto, per la mancata adesione al trattamento e la condotta irregolare tenuta nel corso dell’esecuzione, l’ammissione a una misura alternativa, neppure più blanda (quale la detenzione domiciliare o la semilibertà), né alcun tipo di beneficio, pur se di minore portata, come la liberazione anticipata, l’ammissione ai permessi premio, al lavoro all’esterno. Il condannato che abbia subito colpevolmente la revoca di una misura alternativa, come l’istante nel giudizio a quo, deve essere obbligatoriamente scarcerato, in presenza dei requisiti di legge e su presentazione dell’istanza da parte dell’interessato, e ottenere, per tale via, una misura più ampia di quella che si è appena rivelata inidonea, nonché di quelle che gli sono precluse per tre anni ai sensi dell’art. 58-quater, secondo comma, della legge n. 354 del 1975, senza che il giudice di sorveglianza possa in alcun modo vagliare il comportamento tenuto nel corso della precedente misura, e neppure il comportamento successivo alla revoca, gli eventuali progressi nel trattamento, il grado di rieducazione nel frattempo raggiunto, i risultati del trattamento individualizzato, la sussistenza delle condizioni per il reinserimento sociale e la rieducazione del condannato, con particolare riguardo ai bisogni della personalità di quest’ultimo. Censurabile appare l’instaurazione di un sistema rigido che preclude al giudice di verificare il percorso rieducativo compiuto dal condannato, nell’ambito del quale la revoca di una misura alternativa non può non assumere indubbio rilievo.
Ne consegue, per il giudice a quo, il contrasto della norma censurata con l’art. 27, terzo comma, della Costituzione per la lesione dei principi di proporzionalità e individualizzazione della pena, di progressività trattamentale e finalismo rieducativo della pena, del tutto ignorati dalla nuova legge, che non consente alcuna prognosi di idoneità rieducativa in relazione al grado di rieducazione raggiunto e ai progressi compiuti dal condannato nel corso del trattamento, né una prognosi di idoneità preventiva, e inoltre per il suo automatismo che svilisce l’efficacia pedagogico-propulsiva degli altri istituti previsti dall’ordinamento penitenziario, privando il sistema di efficacia deterrente in caso di violazioni o abusi commessi nel corso dell’esecuzione.
Va, al riguardo, ricordato – secondo il rimettente – che la Corte costituzionale ha affermato che, pur potendo il legislatore, di volta in volta, nei limiti della ragionevolezza, far tendenzialmente prevalere l’una o l’altra delle finalità della pena (afflittiva, retributiva, rieducativa), nessuna delle finalità assegnate alla pena dalla Costituzione deve, però, risultare obliterata (sentenza n. 306 del 1993).
Nella disposizione censurata, la prognosi di idoneità preventiva, generalmente demandata alla magistratura di sorveglianza, è sostituita da una valutazione legale di non pericolosità in base al tipo di reato commesso.
Se tale tipizzazione, sia pure non condivisibile in quanto non esaustiva delle ipotesi di pericolosità sociale, che andrebbe valutata caso per caso e in concreto dal giudice, può essere ritenuta indicativa di una qualche preoccupazione del legislatore di non trascurare del tutto la finalità preventiva della pena (intento che pare cogliersi anche nella previsione delle prescrizioni di cui all’art. 4 e delle altre condizioni ostative previste alle lettere b e c del comma 3 dell’art. l della legge n. 207 del 2003), risulta, invece, del tutto obliterata la funzione rieducativa della pena, e appaiono violati i canoni della proporzionalità e individualizzazione del trattamento, oltre che della progressività trattamentale.
La stessa Corte costituzionale ha avuto modo di affermare (sia pure con riferimento a diverse previsioni restrittive introdotte per i condannati per reati di particolare allarme sociale) che «la tipizzazione per titoli di reato non appare lo strumento più idoneo per realizzare appieno i principi di proporzione e individualizzazione della pena che caratterizzano il trattamento penitenziario» (sentenza n. 445 del 1997).
La previsione della obbligatoria concessione del beneficio sulla sola base dell’assenza di situazioni ritenute in astratto dal legislatore sintomatiche di pericolosità sociale, appare sottendere una presunzione legale di non necessità, per i condannati che si trovano nelle condizioni per godere del beneficio, di un trattamento rieducativo individualizzato, proporzionato e improntato a criteri di progressività, con lesione dell’art. 27, terzo comma, della Costituzione.
Alla luce delle considerazioni che precedono, viene anche rilevata l’irragionevolezza di un sistema che, a fronte di determinati comportamenti del condannato, tali da determinare la revoca di una misura alternativa, gli preclude l’accesso per un certo tempo a determinati benefici, ma nel contempo gli consente, in presenza di requisiti formali, di accedere a un beneficio più ampio di quello appena dimostratosi inidoneo e dei benefici la cui concessione gli è preclusa, senza che possa essere in alcun modo valutato quello stesso comportamento precedentemente sanzionato con la revoca. L’automatismo del sistema introdotto dalla legge n. 207 del 2003, non temperato da alcuna valutazione di merito del giudice, contrasterebbe, pertanto, con l’art. 3 della Costituzione sotto il profilo della ragionevolezza e appare censurabile anche sotto il profilo della razionale uniformità del trattamento normativo, in quanto, in presenza dello stesso presupposto (un fatto colpevole sanzionato con la revoca), l’ordinamento impone, da una parte, al giudice il divieto di concedere altri benefici per tre anni (art. 58-quater, secondo comma, della legge n. 354 del 1975), mentre, dall’altra, gli impedisce di tenere in debita considerazione lo stesso fatto, imponendogli, per converso, l’obbligo di concedere un beneficio extramurario della massima portata.
La rinuncia dello Stato all’applicazione della pena, dopo la condanna irrevocabile, deve essere esercitata nelle forme previste dalla Costituzione, ovverosia con la maggioranza dei due terzi prevista dall’art. 79 della Costituzione.
Non è sottaciuto, infine, che il denunciato automatismo, che impone al giudice l’obbligo di ammettere una persona condannata a una pena detentiva legalmente inflitta a un ampio beneficio extramurario previa la mera verifica della sussistenza dei requisiti previsti dalla legge, senza alcuna valutazione di merito, priva l’attività del giudice chiamato a decidere sull’istanza di qualsivoglia contenuto giurisdizionale, con conseguente lesione dell’art. 102, primo comma, della Costituzione.
2. – Si è costituito in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura dello Stato, chiedendo che la questione venga dichiarata inammissibile o infondata.
Secondo la difesa erariale, infatti, l’ordinanza di rimessione si è semplicemente limitata ad affermare che sussistono tutti i requisiti di legittimità di cui all’art. 1 della legge n. 207 del 2003 per la concessione del beneficio, senza esplicitarli.
Nel merito, secondo l’Avvocatura, la relazione al progetto di legge sull’“indultino” sarebbe chiara sui principi sottesi all’intervento legislativo: risolvere l’insostenibilità del sovraffollamento carcerario, per migliorare le condizioni di detenzione – che attualmente non assicurano il rispetto della dignità della persona – e garantire, al contempo, le esigenze di tutela della collettività. La sospensione dell’esecuzione della pena è accompagnata da precise prescrizioni che, solo se adempiute dal condannato, porterebbero all’estinzione della pena. Dunque il c.d. “indultino” ha finalità di ovviare al sovraffollamento carcerario (che rappresenta un grave ostacolo alla funzione rieducativa) e punta alla salvaguardia della dignità della persona umana, senza però dimenticare il fine del recupero sociale del condannato: questi, infatti, vede sostituito un trattamento penale scarsamente significativo (detenzione non superiore a due anni) con un altro trattamento di durata assai più lunga (cinque anni) che ha la funzione di stimolo all’astenersi dall’infrangere ulteriormente la normativa penale, con conseguente esclusione di qualsiasi irrazionalità che possa comportare una violazione dell’art. 3 della Costituzione.
La difesa erariale richiama poi la sentenza n. 278 del 2005, secondo cui rientra nella discrezionalità del legislatore modulare in vario modo i benefici da concedere ai condannati, con l’unico limite della non manifesta irragionevolezza.
Sarebbe infine escluso il contrasto con l’art. 102 della Costituzione, in quanto l’attività del magistrato di sorveglianza, nell’applicazione del beneficio, mantiene pur sempre un contenuto giurisdizionale, perchè il giudice deve dapprima accertare la presenza dei presupposti per la concessione, e poi valutare se le prescrizioni sono state rispettate, al fine dell’eventuale revoca del beneficio.
Considerato in diritto
1. – Il Magistrato di sorveglianza di Venezia dubita della legittimità costituzionale dell’art. 1 della legge 1° agosto 2003, n. 207 (Sospensione condizionata dell’esecuzione della pena detentiva nel limite massimo di due anni), nella parte in cui, al ricorrere dei requisiti di cui all’art. 1, obbliga il magistrato di sorveglianza a concedere il beneficio della sospensione condizionata della pena anche nel caso in cui ritenga il condannato immeritevole di tale beneficio: per violazione dell’art. 3 della Costituzione, per l’irragionevolezza di un sistema basato su un automatismo che, a fronte di determinati comportamenti del condannato, tali da determinare la revoca di una misura alternativa e la preclusione per un certo tempo di determinati benefici, al contempo gli consenta, in presenza di requisiti formali, di accedere a un beneficio più ampio di quello appena dimostratosi inidoneo, senza che possa essere in alcun modo valutato quello stesso comportamento precedentemente sanzionato con la revoca; per violazione dell’art. 27, terzo comma, della Costituzione, perché, ponendosi in contrasto con i principi del finalismo rieducativo della pena, dell’individualizzazione del trattamento e della progressività trattamentale, la pena non avrebbe alcuna funzione rieducativa o preventiva, non disponendo il giudice di sorveglianza di alcun potere di apprezzamento discrezionale sulla concessione del beneficio; per violazione dell’art. 79, primo comma, della Costituzione, in quanto la norma in questione, pur prevedendo nella sostanza un indulto (perché attribuisce il beneficio della sospensione della pena indistintamente a tutti, purché ricorrano determinate condizioni e purché siano osservate determinate prescrizioni), non è stata deliberata con le relative forme previste dalla Costituzione, ovverosia a maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna Camera, in ogni suo articolo e nella votazione finale; per violazione, infine, dell’art. 102 della Costituzione, perché il denunciato automatismo, che impone al giudice l’obbligo di ammettere una persona condannata a una pena detentiva legalmente inflitta a un ampio beneficio extramurario previa la mera verifica della sussistenza dei requisiti previsti dalla legge, senza alcuna valutazione di merito, priva l’attività del giudice chiamato a decidere sull’istanza di qualsivoglia contenuto giurisdizionale.
2. – La questione è fondata.
L’art. 1 della legge n. 207 del 2003, nella sua originaria formulazione, prevedeva, al comma 1, che «nei confronti del condannato che ha scontato almeno la metà della pena detentiva è sospesa per la parte residua la pena nel limite di due anni, salvo quanto previsto dai commi 2 e 3» e stabiliva, fra l’altro, al comma 3, che «la sospensione non si applica: [...] d) quando la persona condannata è stata ammessa alle misure alternative alla detenzione».
La disposizione determinava una irragionevole disparità di trattamento fra il condannato il quale, perché “meritevole”, fosse stato ammesso a misure alternative alla detenzione e il condannato il quale – o perché “immeritevole” o per il fatto di non versare nelle condizioni oggettive per avanzare la relativa richiesta – non fosse stato ammesso al godimento di tali misure, dal momento che il primo non poteva godere del beneficio della sospensione condizionata della pena residua, mentre il secondo otteneva prima la sospensione della pena, e poi, se non avesse commesso entro cinque anni delitti non colposi con una condanna non inferiore a sei mesi di detenzione, l’estinzione della pena stessa.
Sulla base di tale irragionevolezza, questa Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 3, lettera d), «non potendo la circostanza dell’ammissione o meno a misure alternative alla detenzione costituire un discrimine per il godimento del beneficio della sospensione condizionata della pena (c.d. “indultino”), e ciò soprattutto ove si tenga presente che di quest’ultimo verrebbero a godere condannati ritenuti non meritevoli di misure alternative e non anche quelli che sono stati giudicati meritevoli di tali misure» (sentenza n. 278 del 2005).
A seguito di questo intervento ablativo, la sospensione condizionata della parte finale della pena detentiva deve ora essere concessa a tutti i condannati (purché rispondano a determinati requisiti, quali il non essere recidivi o il non essere stati condannati per determinati reati) a prescindere da un giudizio di meritevolezza del beneficio da parte del magistrato di sorveglianza.
È vero che l’art. 4 della legge n. 207 del 2003 attribuisce al magistrato di sorveglianza un significativo potere di graduare le prescrizioni cui il condannato deve ottemperare durante il periodo in cui la pena è condizionatamente sospesa in relazione alla personalità dello stesso; ma è anche vero che tale potere incide solo sulle modalità di godimento del beneficio del c.d. “indultino”, e non anche sull’an della sua concessione, che è invece obbligatoria anche per soggetti che non abbiano dato prova di meritare un trattamento extramurario.
Questa Corte, con giurisprudenza costante, ha affermato il principio secondo cui la tipizzazione per titoli di reato non è lo strumento più idoneo per realizzare appieno i principi di proporzionalità e di individualizzazione della pena che caratterizzano il trattamento penitenziario (sentenze n. 445 del 1997; n. 504 del 1995; n. 306 del 1993) e che a loro volta discendono dagli artt. 27, primo e terzo comma, e 3 della Costituzione (sentenze n. 203 del 1991 e n. 50 del 1980), nel senso che eguaglianza di fronte alla pena significa proporzione della medesima alle personali responsabilità ed alle esigenze di risposta che ne conseguono (sentenze n. 349 del 1993 e n. 299 del 1992).
Per l’attuazione di tali principi, ed in funzione della risocializzazione del reo, è necessario assicurare progressività trattamentale e flessibilità della pena (sentenze n. 445 del 1997 e 306 del 1993) e, conseguentemente, un potere discrezionale al magistrato di sorveglianza nella concessione dei benefici penitenziari (sentenza n. 504 del 1995).
È del tutto evidente, infatti, che la generalizzata applicazione del trattamento di favore previsto dalla disposizione censurata, nell’assegnare un identico beneficio a condannati che presentino fra loro differenti stadi di percorso di risocializzazione, compromette, ad un tempo, non soltanto il principio di uguaglianza, finendo per omologare fra loro, senza alcuna plausibile ratio, situazioni diverse, ma anche la stessa funzione rieducativa della pena, posto che il riconoscimento di un beneficio penitenziario che non risulti correlato alla positiva evoluzione del trattamento, compromette inevitabilmente l’essenza stessa della progressività, che costituisce il tratto saliente dell’iter riabilitativo.
L’automatismo che si rinviene nella norma denunciata è sicuramente in contrasto con i principi di proporzionalità e individualizzazione della pena come precisati dalla richiamata giurisprudenza e va, pertanto, dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, della legge 1° agosto 2003, n. 207, in riferimento agli articoli 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, nella parte in cui non prevede che il giudice di sorveglianza possa negare la sospensione condizionata dell’esecuzione della pena detentiva al condannato quando ritiene il beneficio non adeguato alle finalità previste dall’art. 27, terzo comma, della Costituzione.
L’accoglimento della questione di costituzionalità in riferimento ai rilevati parametri comporta l’assorbimento delle ulteriori censure.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, della legge 1° agosto 2003, n. 207 (Sospensione condizionata dell’esecuzione della pena detentiva nel limite massimo di due anni), nella parte in cui non prevede che il giudice di sorveglianza possa negare la sospensione condizionata dell’esecuzione della pena detentiva al condannato quando ritiene il beneficio non adeguato alle finalità previste dall’art. 27, terzo comma, della Costituzione.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21 giugno 2006.
F.to:
Annibale MARINI, Presidente
Alfio FINOCCHIARO, Redattore
Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 4 luglio 2006.