SENTENZA N. 5
ANNO 2014
Commenti
alla decisione di
I. Marco Scoletta, La
sentenza n. 5/2014 della Corte costituzionale: una nuova importante restrizione
delle "zone franche” dal sindacato di legittimità nella materia penale, in Diritto Penale Contemporaneo
II. Fabio Pacini, Abrogatio” non petita, accusatio manifesta: la
Corte costituzionale interviene sulle vicende del d.lgs. n. 43 del 1948, in Federalismi.it
III. Marco Scoletta,
La
sentenza n. 5/2014 della Corte costituzionale: una nuova importante restrizione
delle "zone franche” dal sindacato di legittimità nella materia penale, in Forum di Quaderni Costituzionali
IV. Andrea Lollo, La
giurisprudenza costituzionale sul sindacato delle "norme penali più favorevoli”
ad una svolta. La Corte adotta un paradigma "sostanziale” ed estende
(giustamente) il sindacato di costituzionalità ai casi di violazione della
legge di delega. (Osservazioni minime a margine di Corte cost.
n. 5 del 2014), per g.c. dell’Osservatorio AIC
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
composta dai signori:
- Gaetano SILVESTRI Presidente
- Luigi MAZZELLA Giudice
- Sabino CASSESE ”
- Giuseppe TESAURO ”
- Paolo
Maria NAPOLITANO ”
- Giuseppe FRIGO ”
- Alessandro CRISCUOLO ”
- Paolo GROSSI ”
- Giorgio LATTANZI ”
- Aldo CAROSI ”
- Marta CARTABIA ”
- Sergio MATTARELLA ”
- Mario
Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Giuliano AMATO ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità
costituzionale dell’art. 1 del decreto
legislativo 13 dicembre 2010, n. 213 (Modifiche ed integrazioni al decreto
legislativo 1° dicembre 2009, n. 179, recante disposizioni legislative statali
anteriori al 1° gennaio 1970, di cui si ritiene indispensabile la permanenza in
vigore); in via subordinata dell’art. 14, commi 14 e 18, della legge
28 novembre 2005, n. 246 (Semplificazione e riassetto normativo per l’anno
2005); in via conseguenziale dell’art. 2268, comma 1, numero 297), del decreto
legislativo 15 marzo 2010, n. 66 (Codice dell’ordinamento militare), promossi
dal Tribunale ordinario di Verona con ordinanza
del 25 febbraio 2012 e dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale
ordinario di Treviso con ordinanza
del 9 maggio 2012, iscritte ai nn. 201 e 229 del registro ordinanze 2012 e
pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 39 e 42, prima
serie speciale, dell’anno 2012.
Udito nella camera di consiglio del 6 novembre
2013 il Giudice relatore Giorgio Lattanzi.
Ritenuto in
fatto
1.– Il
Tribunale ordinario di Verona, con ordinanza emessa il 25 febbraio 2012 e
pervenuta a questa Corte il 21 agosto 2012 (r.o. n. 201 del 2012), ha
sollevato, in riferimento agli artt. 76, 18 e 25, secondo comma, della
Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 1 del
decreto legislativo 13 dicembre 2010, n. 213 (Modifiche ed integrazioni al
decreto legislativo 1° dicembre 2009, n. 179, recante disposizioni legislative
statali anteriori al 1° gennaio 1970, di cui si ritiene indispensabile la
permanenza in vigore), nella parte in cui modifica il decreto legislativo 1°
dicembre 2009, n. 179 (Disposizioni legislative statali anteriori al 1° gennaio
1970, di cui si ritiene indispensabile la permanenza in vigore, a norma
dell’articolo 14 della legge 28 novembre 2005, n. 246), espungendo dalle norme
mantenute in vigore il decreto legislativo 14 febbraio 1948, n. 43 (Divieto
delle associazioni di carattere militare); il Tribunale, in via subordinata, ha
sollevato, in riferimento all’art. 76 Cost.,
questioni di legittimità costituzionale dell’art. 14, commi 14 e 18, della
legge 28 novembre 2005, n. 246 (Semplificazione e riassetto normativo per
l’anno 2005) e, per l’effetto, del d.lgs.
n. 213 del 2010, nella parte in cui modifica il d.lgs. n. 179 del 2009,
espungendo dalle norme mantenute in vigore il d.lgs. n. 43 del 1948.
Con la medesima ordinanza, il Tribunale
ordinario di Verona ha «consequenzialmente» sollevato, in riferimento agli
artt. 76, 18 e 25, secondo comma, Cost., questione di legittimità
costituzionale dell’art. 2268 del decreto legislativo 15 marzo 2010, n. 66
(Codice dell’ordinamento militare), nella parte in cui, al numero 297) del
comma 1, abroga il d.lgs. n. 43 del 1948; il medesimo Tribunale, in via
subordinata, ha sollevato, in riferimento all’art. 76 Cost., questioni di
legittimità costituzionale dell’art. 14, comma 14, della legge n. 246 del 2005
e, per l’effetto, dell’art. 2268 del d.lgs. n. 66 del 2010, nella parte in cui,
al numero 297) del comma 1, abroga il d.lgs. n. 43 del 1948.
Il giudice rimettente riferisce di
essere investito della trattazione di un procedimento penale nei confronti di
varie persone imputate del reato previsto dall’art. 3 (rectius: art. 1) del d.lgs. n. 43 del
Nell’udienza del 10 dicembre 2010 il
Tribunale ordinario di Verona, dopo avere accertato che con l’art. 2268 del
d.lgs. n. 66 del 2010 era stata abrogata la norma sanzionatoria, aveva
sollevato questione di legittimità costituzionale, ritenendo che «ciò fosse
avvenuto in totale assenza di una valida delega al Governo per realizzare
quell’abrogazione», e, come ricorda il Tribunale, dopo tre giorni dalla
proposizione di quella questione, il Governo, con il d.lgs. n. 213 del 2010,
aveva nuovamente «abrogato» il d.lgs. n. 43 del 1948, «espungendo la norma
dall’elenco delle disposizioni che lo stesso Governo, con il precedente decreto
legislativo n. 179 del 2009, aveva espressamente deliberato di mantenere in
vigore».
In seguito alla «nuova ed autonoma
abrogazione» del d.lgs. n. 43 del 1948,
Il Tribunale ritiene che il Governo
abbia adottato il nuovo decreto legislativo senza averne il potere. Pertanto,
una volta dichiarata l’illegittimità costituzionale del d.lgs. n. 213 del 2010, nella parte in cui
modifica il d.lgs. n. 179 del 2009, espungendo dalle norme mantenute in vigore
il d.lgs. n. 43 del 1948, tornerebbe ad essere rilevante l’originaria questione
di legittimità attinente all’art. 2268 del d.lgs. n. 66 del 2010, nella parte
in cui ha abrogato il citato d.lgs. n. 43 del 1948.
Come ricorda il Tribunale rimettente,
con l’art. 14, comma 14, della legge n. 246 del 2005, il legislatore ha
delegato il Governo ad adottare, con le modalità di cui all’art. 20 della legge
15 marzo 1997, n. 59 (Delega al Governo per il conferimento di funzioni e
compiti alle regioni ed enti locali, per la riforma della Pubblica Amministrazione
e per la semplificazione amministrativa), e successive modificazioni, «decreti
legislativi che individuano le disposizioni statali, pubblicate anteriormente
al 1° gennaio 1970, anche se modificate con provvedimenti successivi, delle
quali si ritiene indispensabile la permanenza in vigore», stabilendo al
successivo comma 14-ter che «decorso
un anno dalla scadenza del termine di cui al comma 14, ovvero del maggior
termine previsto dall’ultimo periodo del comma 22, tutte le disposizioni
legislative statali non comprese nei decreti legislativi di cui al comma 14,
anche se modificate con provvedimenti successivi, sono abrogate».
Il comma 14 dell’art. 14 della legge n.
246 del 2005 stabilisce che l’esercizio della delega, avente ad oggetto
l’individuazione delle norme da mantenere in vigore, deve avvenire entro
ventiquattro mesi dalla scadenza del termine di cui al comma 12, consistente, a
sua volta, in «ventiquattro mesi dalla data di entrata in vigore» della legge
n. 246 del 2005, vale a dire dal 16 dicembre 2005, con conseguente
individuazione del 16 dicembre 2009 quale termine finale.
Con il d.lgs. n. 179 del 2009 il Governo
ha elencato le leggi dello Stato anteriori al 1970 delle quali era
«indispensabile la permanenza in vigore», e tra queste, al numero 1001
dell’Allegato 1 al citato decreto, ha indicato il d.lgs. n. 43 del 1948.
Il successivo intervento, operato con il
d.lgs. n. 213 del 2010 sul d.lgs. n. 179 del 2009 per modificarne il contenuto,
sarebbe del tutto illegittimo per l’assenza di una delega al Governo ad
abrogare leggi o provvedimenti già sottratti all’effetto abrogativo del comma
14-ter dell’art. 14 della legge n.
246 del 2005. L’individuazione da parte del Governo di un provvedimento del
quale era «indispensabile la permanenza in vigore» avrebbe impedito che quel testo normativo
fosse travolto dall’effetto abrogativo previsto dal citato comma 14-ter. Conseguentemente solo il
legislatore, con una legge, avrebbe poi potuto disporne l’abrogazione.
Secondo il giudice rimettente, il potere
esercitato dal Governo, volto a "ritornare” sulle determinazioni già adottate
con il d.lgs. n. 179 del 2009, non potrebbe trovare la sua fonte di
legittimazione nella delega all’epoca attribuita dal comma 14 dell’art. 14
della legge n. 246 del 2005, perché quel potere era conferito per un termine
complessivo di quattro anni, spirato nel dicembre 2009, vale a dire pochi
giorni dopo l’adozione del decreto legislativo n. 179 del 2009. Quindi, nel
dicembre 2010, allorché era stato adottato il d.lgs. n. 213 del 2010, il
Governo non avrebbe avuto alcun potere di modificare il contenuto del decreto
legislativo n. 179 del 2009.
Né il potere del Governo di abrogare un
provvedimento legislativo già sottratto all’effetto abrogativo del comma 14-ter dell’art. 14 della legge n. 246 del
2005 potrebbe «discendere» dal successivo comma 18, disposizione citata
nell’art. 1 del d.lgs. n. 213 del 2010.
Il comma 18, infatti, non consentirebbe
all’esecutivo di «intervenire nuovamente sulla scelta operata
nell’individuazione delle norme per le quali era "indispensabile la permanenza
in vigore” e sottratte all’effetto abrogativo altrimenti conseguente», ma si
limiterebbe a consentire interventi integrativi, di riassetto o correttivi
rispetto alle norme mantenute in vigore e alle norme adottate per ragioni di
semplificazione e di riassetto delle stesse leggi.
La conferma di ciò deriverebbe, oltre
che dal chiaro tenore del comma 18, dal fatto che il comma 14 fissa un termine
preciso e definito per l’individuazione delle norme da mantenere in vigore o da
lasciar perire, «mentre se si ammettesse che nel diverso e più ampio termine di
cui al comma 18 il Governo avesse ancora la medesima facoltà, il termine di cui
al comma 14 non avrebbe avuto alcun significato».
La riprova ulteriore del ragionamento
del giudice rimettente emergerebbe dalla previsione del comma 14-ter dell’art. 14 della legge n. 246 del
2005, il quale stabilisce inderogabilmente l’abrogazione delle norme non
mantenute in vigore «decorso un anno dalla scadenza del termine di cui al comma
14».
Tale abrogazione si verificherebbe un
anno prima della scadenza del termine di cui al comma 18, con l’effetto che se
si ritenesse ancora possibile per il Governo, nel termine ulteriore del comma
18, modificare le scelte compiute entro il termine di cui al comma 14,
«l’elenco delle leggi destinate all’abrogazione o al mantenimento verrebbe ad
essere definito addirittura successivamente alla scadenza del termine di cui al
comma 14-ter, cui la legge delega
ricollega l’effetto abrogativo o di mantenimento in vigore».
Gli interventi consentiti dal comma 18
sarebbero solo di adeguamento e armonizzazione della disciplina in vigore
(conservata in vigore o successiva al 1970), in quanto tale disposizione
prevede che il Governo agisca nel rispetto "esclusivamente” dei criteri dettati
dal comma 15 e «non già dei criteri di cui al comma 14, che sono proprio quelli
dettati per guidare il Governo nella scelta delle leggi da mantenere in
vigore».
In conclusione, secondo il giudice a quo, il legislatore delegante ha
inteso assegnare al delegato un primo termine di 48 mesi per compiere le scelte
relative all’individuazione delle norme anteriori al 1970 da mantenere in
vigore e un secondo termine, di ulteriori 24 mesi, per gli interventi di
semplificazione e armonizzazione della normativa mantenuta in vigore e di
quella successiva al 1970.
In via subordinata, qualora si ritenesse
la permanenza in capo al Governo di un potere di abrogazione in virtù dei
citati commi 14 e 18 della legge n. 246 del 2005, si dovrebbe ritenere
l’illegittimità costituzionale di tali disposizioni, per contrasto con l’art.
76 Cost., con conseguente illegittimità della disposizione abrogatrice prevista
dal d.lgs. n. 213 del 2010, per assenza di delega. La norma costituzionale consentirebbe
infatti di delegare il potere legislativo al Governo solo previa fissazione di
principi e criteri direttivi e per oggetti definiti, e il comma 18, riferendosi
ai soli criteri del comma 15, non detterebbe alcun criterio «realmente
effettivo nel guidare il Governo nell’intervento di selezione delle norme da
mantenere in vigore o lasciar cadere, atteso che […] neppure richiama i
criteri, di per sé minimali, di cui al comma 14», lasciando così l’esecutivo
totalmente libero di individuare le norme da abrogare o da mantenere in vigore.
Ritenendo, invece, che l’intervento di
successivo ripensamento dovesse essere almeno rispettoso dei criteri di cui al
comma 14, non potrebbero essere trascurate, in via ulteriormente subordinata,
«la genericità anche dei criteri elencati in detto comma» e l’assenza di
oggetti definiti.
Ciò lascerebbe al Governo una totale
discrezionalità, che contrasterebbe con l’art. 76 Cost., «fatto tanto più grave
ove, come nel caso di specie, il legislatore delegato utilizzi questa ampia
discrezionalità per andare ad attingere norme che sono comunque poste a
presidio di valori costituzionali, atteso che indubbiamente il decreto
legislativo n. 43 del 1948 dà attuazione all’art. 18, comma 2, della
Costituzione, sanzionando penalmente il divieto ivi previsto».
In ordine alla rilevanza e
all’ammissibilità della questione di legittimità costituzionale, il rimettente
osserva che, se la norma abrogatrice del reato fosse legittima, «il presente
procedimento si dovrebbe concludere con una sentenza immediata di
improcedibilità per intervenuta abrogazione», mentre, in caso contrario,
«dovrebbe proseguire per pervenire ad una pronuncia di merito, anche
eventualmente in applicazione dell’art. 2 cod. pen.».
Muovendo dall’analisi della
giurisprudenza costituzionale in tema di sindacato di legittimità sulle norme
penali di favore, tra le quali non rientrerebbe il caso in esame di una norma
direttamente e integralmente abrogativa di una fattispecie di reato, il giudice
a quo rileva, poi, come non sia
condivisibile l’esclusione, in tali ultime ipotesi, del sindacato della Corte
costituzionale, in quanto in tal modo residuerebbero aree dell’ordinamento
sottratte al controllo di costituzionalità, con il paradosso per cui «scelte
legislative di abrogazione di reati offensivi di valori costituzionalmente
protetti o di diritti inviolabili dell’uomo non potrebbero mai essere sindacate
dal giudice delle leggi».
In ogni caso, sottolinea il Tribunale
rimettente, anche «ritenendo che la riserva di legge di cui all’art. 25,
secondo comma, Cost., precluda alla Corte costituzionale un sindacato sulle
leggi abrogative di reati», tale orientamento non potrebbe trovare applicazione
nel caso di specie, in cui «la pronuncia che è richiesta alla Corte è diretta
espressamente a riaffermare il principio di riserva di legge di cui all’art.
25, secondo comma, Cost., violato proprio dall’illegittimo intervento di un
organo diverso dal Parlamento». Diversamente si produrrebbe l’effetto di
legittimare «la violazione del medesimo principio ad opera del Governo in
carenza assoluta del relativo potere», con effetti assai più gravi di quelli
impediti, riguardo al decreto-legge non convertito, dalla sentenza di questa
Corte n. 51 del 1985. Se in quella sede si è privato di effetti il
decreto-legge non convertito, «perché senza conversione non è parificabile ad
un atto legislativo, tanto più deve essere precluso ad un atto di valore ancora
inferiore, come un decreto legislativo adottato senza delega, di esplicare
effetti abrogativi».
Alla dichiarazione di illegittimità
costituzionale del d.lgs. n. 213 del 2010, laddove «abroga il mantenimento in
vigore del reato» oggetto del procedimento a
quo, disposto con il d.lgs. n. 179 del 2009, conseguirebbe «la necessità di
confrontarsi con la permanenza in vigore dell’ulteriore norma abrogatrice dello
stesso reato, attuata con il precedente decreto legislativo n. 66 del 2010».
Rispetto alla questione di legittimità
costituzionale dell’art. 2268 del d.lgs. n. 66 del 2010, nella parte in cui ha
abrogato l’intero d.lgs. n. 43 del 1948, il Tribunale riporta integralmente il
contenuto della precedente ordinanza di rimessione, letta in udienza il 10
dicembre 2010.
Sintetizzando le argomentazioni a
sostegno della censura, il giudice rimettente sottolinea l’insussistenza in
capo al Governo del potere di abrogare il d.lgs. n. 43 del
Ad avviso del Tribunale rimettente, il
d.lgs. n. 66 del 2010 trova la propria legittimazione nell’art. 14, commi 14 e
15, della legge n. 246 del 2005.
In particolare, il comma 15 stabilisce
che i decreti legislativi di cui al citato comma 14 provvedono, altresì, alla
semplificazione o al riassetto della materia che ne è oggetto, nel rispetto dei
principi e criteri direttivi di cui all’art. 20 della legge n. 59 del 1997,
anche al fine di armonizzare le disposizioni mantenute in vigore con quelle
pubblicate successivamente alla data del 1° gennaio 1970.
Ciò posto, secondo il rimettente, «il
Governo non aveva il potere di abrogare» il
d.lgs. n. 43 del 1948, né in forza della delega di cui al comma 14, né
sulla base di quella di cui al comma 15 del citato art. 14 della legge n. 246
del 2005.
Rispetto alla delega di cui all’art. 14,
comma 14, il potere delegato si sarebbe esaurito con l’emanazione del d.lgs. n.
179 del 2009, che aveva mantenuto in vigore il d.lgs. n. 43 del 1948. D’altra
parte «la delega era stata conferita al solo scopo di selezionare le norme da
mantenere in vigore e, una volta compiuta questa selezione, non vi era alcuno
spazio nella delega per un successivo intervento abrogativo». L’abrogazione del
d.lgs. n. 43 del 1948 non sarebbe stata consentita nemmeno dal criterio di cui
alla lettera b) del comma 14 dell’art.
In via subordinata, il Tribunale
rimettente solleva la questione di legittimità costituzionale dell’art. 14,
comma 14, della legge n. 246 del 2005 per violazione dell’art. 76 Cost., con
conseguente illegittimità costituzionale della norma abrogatrice – l’art. 2268
del d.lgs. n. 66 del 2010 – in esame: la legge delega sarebbe «totalmente muta
in ordine al settore nel quale il Governo è chiamato a legiferare, in quanto a
fronte di una deliberata abrogazione di tutte le norme anteriori ad una certa
data senza distinzione di materie, il Governo è stato delegato a scegliere
quali pregresse discipline normative mantenere in vigore»; inoltre, secondo il
giudice a quo, i principi e i criteri
direttivi indicati nella legge delega sarebbero del tutto privi del requisito
della determinazione, risolvendosi in gran parte (e, forse, con la sola
esclusione del criterio dettato dalla lettera c del comma
In ordine all’insussistenza del potere
abrogativo del d.lgs. n. 43 del
Dalla delega in esame, dunque, non
discenderebbe il potere di abrogare il d.lgs.
n. 43 del 1948, la cui disciplina, con particolare riferimento alla
fattispecie incriminatrice oggetto del giudizio a quo, non troverebbe alcuna regolamentazione nel Codice
dell’ordinamento militare, sicché rispetto a quella fattispecie «non si sono
realizzati né un riassetto normativo né tanto meno una codificazione, ma
semplicemente se ne è disposta l’abrogazione, con l’effetto di rendere lecito
un comportamento prima penalmente punito». Né potrebbe sostenersi, sottolinea
il giudice rimettente, che l’abrogazione in esame sia stata imposta o consentita
da esigenze di coordinamento o di armonizzazione con altre previsioni contenute
nel Codice dell’ordinamento militare, sia perché la materia da quest’ultimo
regolata sarebbe diversa da quella di cui al d.lgs. n. 43 del 1948, sia perché
la fattispecie incriminatrice in esame non si porrebbe in contrasto con alcuna
previsione del codice; pertanto, secondo il giudice a quo, «va esclusa in radice la possibilità che con quel Codice il
legislatore delegato potesse abrogare il decreto legislativo 14 febbraio 1948 n.
43», che non riguarda «l’organizzazione, le funzioni e l’attività della difesa
e sicurezza militare e delle Forze armate», ma detta una disposizione
direttamente attuativa del precetto costituzionale di cui all’art. 18 Cost.
Il Tribunale rimettente aggiunge che, se
l’art. 18 Cost. «non impone la previsione di una sanzione e, men che meno, di
una sanzione penale», l’abrogazione della norma che costituisce la concreta
attuazione del precetto costituzionale, tuttavia, farebbe sì che la condotta,
pur vietata dalla Costituzione, diventi «lecita per l’ordinamento penale, non
essendo sanzionata da altre norme penali». Ne consegue, nella prospettazione
del giudice a quo, che «la scelta di
sanzionare o meno quel divieto e la selezione degli interventi sanzionatori più
adeguati tanto più non può essere compiuta dal Governo senza una delega
specifica sul punto. E per la stessa ragione non può qui essere invocata la
possibilità di una lettura ampia dei criteri direttivi».
In ordine alla rilevanza e
all’ammissibilità della questione di legittimità costituzionale, il giudice
rimettente ribadisce quanto già esposto rispetto alla questione concernente
l’art. 1 del d.lgs. n. 213 del 2010.
2.– Con
ordinanza emessa il 9 maggio 2012 e pervenuta a questa Corte il 2 ottobre 2012
(r.o. n. 229 del 2012), il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale
ordinario di Treviso ha sollevato, in riferimento agli artt. 76, 3, 18 e 25,
secondo comma, Cost., questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2268 del
d.lgs. n. 66 del 2010, nella parte in cui, al numero 297) del comma 1, abroga
il d.lgs. n. 43 del 1948, e dell’art. 1 del d.lgs. n. 213 del 2010, nella parte
in cui modifica il d.lgs. n. 179 del 2009, espungendo dalle norme mantenute in
vigore il d.lgs. n. 43 del 1948.
Con la medesima ordinanza il giudice a quo ha sollevato, in via subordinata,
questioni di legittimità costituzionale, per violazione dell’art. 76 Cost.,
dell’art. 14, commi 14 e 14-ter,
della legge n. 246 del 2005 e, per l’effetto, dell’art. 2268 del citato d.lgs.
n. 66 del 2010, nella parte in cui, al numero 297) del comma 1, abroga il
d.lgs. n. 43 del 1948, ed inoltre, sempre in via subordinata, ha sollevato, in
riferimento all’art. 76 Cost., questioni di legittimità costituzionale dell’art.
14, commi 14, 14-ter e 18 della legge
n. 246 del 2005, e, per l’effetto, dell’art. 1 del d.lgs. n. 179 del 2009,
nella parte in cui espunge dalle norme mantenute in vigore il d.lgs. n. 43 del
1948.
Il giudice a quo procede nei confronti di più persone imputate del reato
previsto dall’art. 1 del d.lgs. n. 43 del 1948, per la «formazione del corpo
paramilitare denominato "Polisia Veneta”, dotata di un inquadramento e
ordinamento gerarchico interno in tutto analogo a quello militare», e gli
argomenti addotti a sostegno delle questioni sono analoghi a quelli esposti
nell’ordinanza del Tribunale di Verona.
Ricorda il Giudice dell’udienza
preliminare del Tribunale di Treviso di aver sollevato, in data 21 gennaio
2011, per l’asserito contrasto con gli artt. 76, 18 e 25, secondo comma, Cost.,
questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2268 del d.lgs. n. 66 del
2010, nella parte in cui, al numero 297) del comma 1, abroga il d.lgs. n. 43
del 1948, per mancanza di una valida delega e violazione della riserva di
legge, e, in via subordinata, dell’art. 14, commi 14 e 14-ter, della legge n. 246 del 2005.
Con il d.lgs. n. 213 del 2010, il
Governo ha nuovamente abrogato il d.lgs. n. 43 del 1948, espungendolo
dall’elenco delle disposizioni che lo stesso Governo, con il precedente d.lgs.
n. 179 del 2009, attuativo della legge delega n. 246 del 2005, aveva stabilito
di mantenere in vigore, e, in seguito a tale abrogazione,
Ricorda, ancora, il giudice a quo che il 27 marzo 2012 è entrato in
vigore il decreto legislativo 24 febbraio 2012, n. 20 (Modifiche ed integrazioni
al decreto legislativo 15 marzo 2010, n. 66, recante codice dell’ordinamento
militare, a norma dell’ articolo 14, comma 18, della legge 28 novembre 2005, n.
246), il quale, all’art.
Il giudice rimettente osserva che l’art.
9 del d.lgs. n. 20 del
Diverso sarebbe l’effetto della
dichiarazione di illegittimità costituzionale, la quale «limiterebbe
l’efficacia depenalizzante della norma abrogatrice ai "fatti concomitanti”, la
cui irrilevanza penale sarebbe comunque salvaguardata dal principio di
irretroattività sfavorevole, mentre per "i fatti pregressi”, come quelli
oggetto del presente giudizio, si riespanderebbe l’efficacia punitiva della
norma penale illegittimamente abrogata vigente al tempus commissi delicti».
Gli effetti retroattivi in malam partem, derivanti dalla
caducazione ex tunc della norma
abrogatrice dichiarata costituzionalmente illegittima, non potrebbero porsi in
contrasto con il principio di retroattività della lex mitior, in quanto la portata costituzionale del principio di
retroattività favorevole sarebbe strettamente legata all’esistenza di una lex mitior legittima, cioè validamente
emanata nel rispetto di tutti i vincoli costituzionali (è citata la sentenza della
Corte costituzionale n. 394 del 2006).
L’abrogazione del d.lgs. n. 43 del 1948
ad opera dell’art. 2268, comma 1, numero 297), del d.lgs. n. 66 del 2010, non
sarebbe stata possibile, in quanto il decreto legislativo abrogato era stato
espressamente fatto salvo dal d.lgs. n. 179 del 2009, che dava attuazione
all’art. 18, secondo comma, Cost., secondo cui «sono proibite le associazioni
segrete e quelle che perseguono, anche indirettamente, scopi politici mediante
organizzazioni di carattere militare». Il d.lgs. n. 66 del 2010, abrogando
espressamente il decreto che sanzionava penalmente coloro che promuovono,
costituiscono, organizzano, dirigono o aderiscono ad associazioni paramilitari,
non lo avrebbe sostituito «con altre disposizioni facendo così mancare sul
punto una disciplina costituzionalmente necessaria a salvaguardia di valori e
libertà costituzionali».
Ciò posto, secondo il giudice
rimettente, il controllo di legittimità costituzionale non potrebbe negarsi
«quando vi sia una scelta del legislatore delegato che esuli completamente
dalla delega ricevuta», perché non vi osterebbe il principio della riserva di legge
in materia penale, dato che la sua violazione sarebbe avvenuta da parte
dell’esecutivo, disconoscendo «il monopolio parlamentare nelle scelte penali».
Nel caso di specie, l’art. 76 Cost.
risulterebbe violato, perché l’abrogazione del
d.lgs. n. 43 del 1948 è avvenuta in mancanza di una espressa delega
legislativa al Governo, in quanto la legge delegante non conteneva la
previsione dell’abrogazione, attribuendo solo un compito ricognitivo delle
norme esistenti. Inoltre, ad avviso del giudice dell’udienza preliminare, con
il d.lgs. n. 179 del 2009, il Governo ha indicato le disposizioni di legge
anteriori al 1970 di cui era indispensabile la permanenza in vigore,
esercitando il potere delegatogli, sicché questo potere era venuto meno al
momento dell’emanazione del d.lgs. n. 66 del 2010. Infine, abrogando il reato
di costituzione di associazioni di carattere militare, il legislatore avrebbe
violato i limiti della delega, in quanto tale incriminazione non rientrava
nella materia «ordinamento militare», oggetto di delega.
Quanto alla questione di legittimità
costituzionale dell’art. 1, comma 1, lettera b), del d.lgs. n. 213 del 2010, osserva il giudice a quo che il termine per l’esercizio
della delega, fissato dal comma 14 dell’art.
In attuazione del comma 14 dell’art. 14,
con cui erano stati indicati i principi e i criteri direttivi ai quali il
legislatore delegato si doveva attenere per individuare le norme da mantenere
in vigore, il Governo aveva adottato il d.lgs. n. 179 del 2009, con cui aveva
elencato le leggi dello Stato anteriori al 1970 delle quali era indispensabile
la permanenza in vigore, e tra queste, al numero 1001 dell’Allegato 1, il
d.lgs. n. 43 del 1948.
Il 16 dicembre 2010 è entrato in vigore
il d.lgs. n. 213 del 2010, che ha modificato e integrato il d.lgs. n. 179 del
2009, disponendo l’espunzione dall’Allegato 1 al detto decreto di varie
disposizioni legislative statali, tra le quali, al numero 1001 dell’elenco,
figura il d.lgs. n. 43 del 1948.
Questo provvedimento sarebbe illegittimo
per la mancanza di una delega al Governo ad abrogare leggi o provvedimenti già
sottratti all’effetto abrogativo del comma 14-ter dell’art. 14 della legge n. 246 del 2005. Solo il Parlamento,
con un successivo provvedimento, avrebbe potuto disporne l’abrogazione, ma non
il Governo, essendo, peraltro, già spirato il termine di quattro anni
decorrente dal 16 dicembre 2005, data di entrata in vigore della legge n. 246
del 2005. Né il potere del Governo potrebbe discendere dal comma 18 dell’art.
14 della legge n. 246 del 2005, citato nel corpo dell’art. 1 del d.lgs. n. 213
del 2010. Tale comma, infatti, si limiterebbe a consentire interventi
integrativi, di riassetto o correttivi rispetto alle norme mantenute in vigore
e alle norme adottate per ragioni di semplificazione e di riassetto delle
stesse leggi, e non attribuirebbe al legislatore delegato il potere di
individuare nuovamente le norme «la cui permanenza in vigore sia
indispensabile».
In via subordinata, il giudice
rimettente solleva questione di legittimità costituzionale dell’art. 14, comma
18, della legge n. 246 del 2005, per violazione dell’art. 76 Cost., con
«conseguente illegittimità costituzionale della disposizione abrogatrice» del
d.lgs. n. 213 del 2010, impugnata in via principale, per assenza di delega. Il
citato comma 18, limitandosi a richiamare i criteri di cui al comma 15, non
detterebbe nessun criterio effettivo per guidare il Governo nell’intervento di
selezione delle norme da mantenere in vigore.
Sempre in via subordinata, «nel caso in
cui si dovesse ritenere che il potere di abrogazione sussista in capo al
Governo in base a dette disposizioni», il giudice a quo solleva, in riferimento all’art. 76 Cost., questione di
legittimità costituzionale dell’art. 14, commi 14 e 14-ter, della legge n. 246 del 2005, così come modificata dalla
legge 18 giugno 2009, n. 69
(Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività
nonché in materia di processo civile).
La legge delega non specificherebbe il
settore nel quale il Governo è delegato ad esercitare la funzione legislativa, «limitandosi
a indicare una totale abrogazione di norme anteriori a una data, senza
distinzione di materie», e non enuncerebbe principi e criteri direttivi
sufficientemente determinati.
Ugualmente, secondo il giudice a quo, non sarebbe «possibile sostenere
che il potere di abrogazione derivi dal comma 15 dell’art. 14 della legge n.
246 del
La questione sarebbe rilevante nel
giudizio principale, perché se la norma impugnata fosse legittima il
procedimento penale dovrebbe concludersi con una sentenza di proscioglimento
per abolitio criminis, laddove, in
caso contrario, dovrebbe proseguire per pervenire a una pronuncia di merito.
Considerato
in diritto
1.– Il
Tribunale ordinario di Verona ha sollevato, in riferimento agli artt. 76, 18 e
25, secondo comma, della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale:
1) dell’art. 1 del decreto legislativo 13 dicembre 2010, n. 213 (Modifiche ed
integrazioni al decreto legislativo 1° dicembre 2009, n. 179, recante
disposizioni legislative statali anteriori al 1° gennaio 1970, di cui si
ritiene indispensabile la permanenza in vigore), nella parte in cui modifica il
decreto legislativo 1° dicembre 2009, n. 179 (Disposizioni legislative statali
anteriori al 1° gennaio 1970, di cui si ritiene indispensabile la permanenza in
vigore, a norma dell’articolo 14 della legge 28 novembre 2005, n. 246),
espungendo dalle disposizioni mantenute in vigore il decreto legislativo 14
febbraio 1948, n. 43 (Divieto delle associazioni di carattere militare); 2)
«consequenzialmente» dell’art. 2268 del decreto legislativo 15 marzo 2010, n.
66 (Codice dell’ordinamento militare), nella parte in cui, al numero 297) del
comma 1, abroga il d.lgs. n. 43 del 1948. Il medesimo Tribunale dubita, in via
subordinata e in riferimento all’art. 76 Cost., della legittimità
costituzionale dell’art. 14, commi 14 e 18, della legge 28 novembre 2005, n.
246 (Semplificazione e riassetto normativo per l’anno 2005).
Secondo il
giudice rimettente, l’art. 1 del d.lgs. n. 213 del 2010 violerebbe l’art. 76
Cost., perché è stato adottato in assenza di una delega che autorizzasse il
Governo ad abrogare leggi o provvedimenti già sottratti, ad opera del d.lgs. n.
179 del 2009, all’effetto abrogativo previsto dal comma 14-ter dell’art. 14 della legge n. 246 del 2005.
Il termine per
l’esercizio della delega di cui al comma 14 dell’art. 14 della legge n. 246 del
2005, peraltro, era scaduto nel dicembre 2009, ossia prima dell’adozione del
decreto delegato.
Il potere
esercitato dal Governo con la norma censurata non sarebbe potuto «discendere»
neanche dal comma 18 del medesimo art. 14 della legge n. 246 del
Alla
dichiarazione di illegittimità costituzionale del d.lgs. n. 213 del 2010,
laddove «abroga il mantenimento in vigore del reato» oggetto del procedimento a quo, conseguirebbe, secondo il
Tribunale rimettente, «la necessità di confrontarsi con la permanenza in vigore
dell’ulteriore norma abrogatrice dello stesso reato, attuata con il precedente
d.lgs. n. 66 del 2010».
Anche l’art.
2268, comma 1, numero 297), del d.lgs. n. 66 del 2010 sarebbe in contrasto con
l’art. 76 Cost., perché il Governo non avrebbe avuto il potere di abrogare il
d.lgs. n. 43 del 1948, che peraltro era stato fatto espressamente salvo dal
d.lgs. n. 179 del 2009.
Il d.lgs. n.
43 del 1948, inoltre, non rientrerebbe nella materia dell’ordinamento militare
oggetto del decreto delegato e, comunque, non sarebbe stato obsoleto, in quanto
espressione del divieto costituzionale di associazioni che perseguono scopi
politici mediante organizzazioni di carattere militare (art. 18 Cost.).
Il giudice a quo dubita della legittimità
costituzionale della norma impugnata, anche in relazione all’art. 14, comma 15,
della legge n. 246 del
Ancora, il
Tribunale rimettente ritiene non manifestamente infondata la questione di
legittimità costituzionale sollevata con riferimento all’art. 18 Cost., in
quanto l’abrogazione della norma, che costituisce la concreta attuazione del
divieto costituzionale di associazioni che perseguono scopi politici mediante
organizzazioni di carattere militare, fa sì che la condotta, pur vietata dalla
Costituzione, diventi «lecita per l’ordinamento penale, non essendo sanzionata
da altre norme penali».
Sarebbe
violato, infine, l’art. 25, secondo comma, Cost., in quanto la carenza assoluta
del potere abrogativo in capo al Governo determinerebbe la violazione del
principio della riserva di legge in materia penale.
In via
subordinata, qualora si ritenesse la permanenza in capo al Governo di un potere
di abrogazione in virtù dei citati commi 14 e 15 dell’art. 14 della legge n.
246 del 2005, si dovrebbe riconoscere l’illegittimità costituzionale di tali
disposizioni in quanto sarebbero in contrasto con l’art. 76 Cost., per la
genericità dei princìpi e dei criteri direttivi e per la mancata indicazione di
oggetti definiti.
2.– Il Giudice dell’udienza preliminare del
Tribunale ordinario di Treviso dubita, del pari, in riferimento agli artt. 76,
3, 18 e 25, secondo comma, Cost., della legittimità costituzionale dell’art.
2268 del d.lgs. n. 66 del 2010, nella parte in cui, al numero 297) del comma 1,
abroga il d.lgs. n. 43 del 1948, e dell’art. 1 del d.lgs. n. 213 del 2010,
nella parte in cui modifica il d.lgs. n. 179 del 2009, espungendo dalle
disposizioni mantenute in vigore il d.lgs. n. 43 del 1948.
Il giudice
rimettente, con riferimento agli artt. 18, 25, secondo comma, e 76 Cost., ha
mosso censure analoghe a quelle sollevate dal Tribunale di Verona.
A suo avviso,
le norme impugnate violerebbero anche l’art. 3 Cost., in quanto il legislatore
delegato ha operato scelte «che non sono supportate e giustificate da nessuna
ragione creando una disparità di trattamento».
Con la
medesima ordinanza il giudice a quo
ha poi sollevato, in via subordinata e in riferimento all’art. 76 Cost.,
questione di legittimità costituzionale dell’art. 14, commi 14, 14-ter e 18, della legge n. 246 del 2005,
per la genericità dei princìpi e dei criteri direttivi e per la mancata
indicazione di oggetti definiti.
3.– Questa Corte ritiene opportuno ricostruire le vicende da cui traggono
origine le odierne ordinanze di rimessione.
Il
legislatore, con l’art. 14, comma 14, della legge n. 246 del 2005, aveva
delegato il Governo ad adottare, con le modalità di cui all’art. 20 della legge
15 marzo 1997, n. 59 (Delega al Governo per il conferimento di funzioni e
compiti alle regioni ed enti locali, per la riforma della Pubblica
Amministrazione e per la semplificazione amministrativa), e successive
modificazioni, «decreti legislativi che individuano le disposizioni legislative
statali, pubblicate anteriormente al 1° gennaio 1970, anche se modificate con
provvedimenti successivi, delle quali si ritiene indispensabile la permanenza
in vigore», stabilendo, al successivo comma 14-ter, che, «decorso un anno dalla scadenza del termine di cui al
comma 14, ovvero del maggior termine previsto dall’ultimo periodo del comma 22,
tutte le disposizioni legislative statali non comprese nei decreti legislativi
di cui al comma 14, anche se modificate con provvedimenti successivi, sono
abrogate». L’esercizio della delega per l’individuazione delle norme da
mantenere in vigore sarebbe, quindi, dovuto avvenire entro il 16 dicembre 2009.
Con il d.lgs. n. 179 del 2009 il Governo aveva esercitato la delega, individuando le disposizioni legislative da mantenere in vigore, tra le quali era compreso il d.lgs. n. 43 del 1948, sul divieto delle associazioni di carattere militare che perseguono, anche indirettamente, scopi politici, ma di questo decreto legislativo, successivamente, con l’art. 2268 del d.lgs. n. 66 del 2010 (Codice dell’ordinamento militare), era stata disposta l’abrogazione.
Per contestare tale abrogazione, il Tribunale di Verona che, in riferimento all’azione dell’associazione denominata "Camicie verdi”, stava giudicando varie persone imputate del reato previsto dall’art. 1 del d.lgs. n. 43 del 1948, aveva sollevato una questione di legittimità costituzionale. Dopo tre giorni dalla sua proposizione, però, il Governo, con il d.lgs. n. 213 del 2010, aveva replicato l’abrogazione del d.lgs. n. 43 del 1948, espungendolo dalle disposizioni che, con il d.lgs. n. 179 del 2009, aveva in precedenza stabilito di mantenere in vigore.
Questa Corte, considerato lo ius superveniens che aveva reiterato
l’effetto abrogativo, aveva disposto la restituzione degli atti al giudice a quo, ritenendo che spettasse a questo
la valutazione circa la perdurante rilevanza e non manifesta infondatezza delle
questioni sollevate.
A sua volta, il Giudice dell’udienza
preliminare del Tribunale di Treviso, che stava giudicando varie persone per la
«formazione del corpo paramilitare denominato "Polisia Veneta”», aveva
sollevato, in riferimento agli artt. 76, 18 e 25, secondo comma, Cost.,
questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2268 del d.lgs. n. 66 del
2010, nella parte in cui, al numero 297) del comma 1, abroga il d.lgs. n. 43
del 1948, e, in via subordinata, in riferimento all’art. 76 Cost., dell’art.
14, commi 14 e 14-ter, della legge n.
246 del 2005.
Di tali questioni questa Corte, con l’ordinanza n. 341
del 2011, aveva dichiarato la manifesta inammissibilità, perché il giudice a quo non aveva valutato gli effetti
dell’art. 1 del d.lgs. n. 213 del 2010, intervenuto prima dell’ordinanza di
rimessione.
4.– Le
ordinanze del Tribunale di Verona e del Giudice dell’udienza preliminare del
Tribunale di Treviso concernono le stesse norme e propongono questioni
analoghe, perciò i relativi procedimenti vanno riuniti, per essere definiti con
un’unica decisione. Infatti, entrambi i giudici hanno sollevato, oltre alle
questioni che avevano già proposto, relative all’art. 2268 del d.lgs. n. 66 del
2010, anche questioni di legittimità costituzionale relative all’art. 1 del
d.lgs. n. 213 del 2010, nella parte in cui ha modificato il d.lgs. n. 179 del
2009, espungendo dalle disposizioni mantenute in vigore il d.lgs. n. 43 del
1948.
5.– Il giorno precedente a quello della pronuncia
dell’ordinanza del Tribunale di Verona, avvenuta il 25 febbraio 2012, è
intervenuto il decreto legislativo 24 febbraio 2012, n. 20 (Modifiche ed
integrazioni al decreto legislativo 15 marzo 2010, n. 66, recante codice
dell’ordinamento militare, a norma dell’articolo 14, comma 18, della legge 28
novembre 2005, n. 246), pubblicato nella Gazzetta
Ufficiale n. 60 del 12 marzo 2012 ed entrato in vigore il 27 marzo 2012,
con cui il legislatore, in attuazione dell’art. 14, commi 14, 15 e 18 della
legge n. 246 del
Il Tribunale
di Verona non ha potuto prendere in considerazione questa disposizione, perché
l’ordinanza di rimessione è precedente alla sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale, mentre il Giudice
dell’udienza preliminare del Tribunale di Treviso ne ha tenuto conto,
affermando che il ripristino della fattispecie abrogata non è sufficiente a rendere
irrilevanti le questioni di legittimità costituzionale delle leggi abrogatrici
«in quanto l’assetto punitivo estenderebbe retroattivamente i suoi effetti
favorevoli di abolitio criminis in
forza della regola della lex intermedia favorevole di cui all’art. 2,
comma 4, cod. pen.».
L’affermazione
del giudice rimettente è plausibile, perché può ben ritenersi che il citato ius superveniens, ripristinando una fattispecie incriminatrice precedentemente
abrogata, non possa determinare la reviviscenza di un reato raggiunto
dall’effetto abrogativo. In questo senso è anche la giurisprudenza della Corte
di cassazione, che, nel caso di successione di leggi penali, ritiene debba
applicarsi quella che prevede il trattamento più favorevole per il reo, anche
se la legge più recente ha ripristinato una legge anteriore che quella più
favorevole aveva modificato (sentenze 7 luglio 2009, n. 35079 e 21 settembre
2007, n. 38548).
La nuova normativa, pertanto, non incide
sull’ammissibilità delle questioni sollevate dal Tribunale di Verona, né impone
la restituzione degli atti al Giudice
dell’udienza preliminare del Tribunale di Treviso.
5.1.– Questa Corte, in numerose occasioni, ha
ritenuto inammissibili questioni di legittimità costituzionale di norme penali
la cui caducazione avrebbe determinato un trattamento deteriore per l’imputato.
I giudici
rimettenti non ignorano le ragioni di tali decisioni ma ritengono che nel caso
in esame quelle ragioni non sussistano. Essi infatti ricordano che secondo la
giurisprudenza costituzionale il principio della riserva di legge in materia
penale, posto dall’art. 25, secondo comma, Cost., impedisce a questa Corte
interventi in malam partem, rimessi
esclusivamente al potere legislativo, ma sostengono che nel caso in esame sia
proprio quel principio a giustificare una pronuncia di illegittimità
costituzionale, perché le norme impugnate sarebbero state adottate dal Governo
in mancanza della necessaria delega e quindi sarebbero state introdotte
nell’ordinamento in violazione della riserva di legge.
La tesi dei giudici rimettenti sull’ammissibilità delle questioni proposte è condivisibile, ma occorrono in proposito alcuni chiarimenti, perché la giurisprudenza di questa Corte in materia si è andata nel tempo evolvendo e precisando, ed è alla luce di questa evoluzione che tali questioni vanno ora considerate.
L’inammissibilità del sindacato sulle norme penali più favorevoli era stata originariamente argomentata considerando che una questione finalizzata a una pronuncia in malam partem sarebbe stata priva di rilevanza, dato il principio di irretroattività delle norme penali sfavorevoli. Infatti, si era affermato, «i principi generali vigenti in tema di non retroattività delle sanzioni penali più sfavorevoli al reo, desumibili dagli artt. 25, secondo comma, della Costituzione, e 2 del codice penale, impedirebbero in ogni caso che una eventuale sentenza, anche se di accoglimento, possa produrre un effetto pregiudizievole per l’imputato nel processo penale pendente innanzi al giudice a quo» (sentenza n. 85 del 1976).
Successivamente però questa Corte ha riconosciuto «che la retroattività della legge più favorevole non esclude l’assoggettamento di tutte le norme giuridiche di rango primario allo scrutinio di legittimità costituzionale: "Altro […] è la garanzia che i principi del diritto penale-costituzionale possono offrire agli imputati, circoscrivendo l’efficacia spettante alle dichiarazioni d’illegittimità delle norme penali di favore; altro è il sindacato cui le norme stesse devono pur sempre sottostare, a pena di istituire zone franche del tutto impreviste dalla Costituzione, all’interno delle quali la legislazione ordinaria diverrebbe incontrollabile” (sentenza n. 148 del 1983 e sul punto, sostanzialmente nello stesso senso, sentenza n. 394 del 2006)» (sentenza n. 28 del 2010).
Il mutato orientamento sulla rilevanza non ha comportato automaticamente l’ammissibilità delle questioni relative alle norme penali più favorevoli, perché si è ritenuto che a una pronuncia della Corte in malam partem fosse comunque di ostacolo il principio sancito dall’art. 25, secondo comma, Cost., il quale «demanda in via esclusiva al legislatore la scelta dei fatti da sottoporre a pena e delle sanzioni loro applicabili, impedendo alla Corte di creare nuove fattispecie criminose o estendere quelle esistenti a casi non previsti, ovvero anche di incidere in peius sulla risposta punitiva o su aspetti comunque inerenti alla punibilità (ex plurimis, sentenza n. 394 del 2006; ordinanze n. 204, n. 66 e n. 5 del 2009)» (ordinanza n. 285 del 2012).
Non sono però
mancati casi in cui
Un’altra
decisione significativa è la n. 28 del 2010, con la quale
Questa decisione può costituire un utile punto di riferimento perché, come nel presente giudizio, anche se per una ragione diversa, il vizio del decreto legislativo traeva origine dalla carenza di potere del Governo che aveva adottato la normativa impugnata.
5.2.– Il difetto di delega denunciato dai giudici rimettenti, se esistente, comporterebbe un esercizio illegittimo da parte del Governo della funzione legislativa. L’abrogazione della fattispecie criminosa mediante un decreto legislativo, adottato in carenza o in eccesso di delega, si porrebbe, infatti, in contrasto con l’art. 25, secondo comma, Cost., che demanda in via esclusiva al Parlamento, in quanto rappresentativo dell’intera collettività nazionale, la scelta dei fatti da sottoporre a pena e delle sanzioni loro applicabili, precludendo al Governo scelte di politica criminale autonome o contrastanti con quelle del legislatore delegante. Se si escludesse il sindacato costituzionale sugli atti legislativi adottati dal Governo anche nel caso di violazione dell’art. 76 Cost., si consentirebbe allo stesso di incidere, modificandole, sulle valutazioni del Parlamento relative al trattamento penale di alcuni fatti.
Deve quindi concludersi che, quando, deducendo la violazione dell’art. 76 Cost., si propone una questione di legittimità costituzionale di una norma di rango legislativo adottata dal Governo su delega del Parlamento, il sindacato di questa Corte non può essere precluso invocando il principio della riserva di legge in materia penale. Questo principio rimette al legislatore, nella figura appunto del soggetto-Parlamento, la scelta dei fatti da sottoporre a pena e delle sanzioni da applicare, ed è violato qualora quella scelta sia invece effettuata dal Governo in assenza o fuori dai limiti di una valida delega legislativa.
La verifica
sull’esercizio da parte del Governo della funzione legislativa delegata
diviene, allora, strumento di garanzia del rispetto del principio della riserva
di legge in materia penale, sancito dall’art. 25, secondo comma, Cost., e non
può essere limitata in considerazione degli eventuali effetti che una sentenza
di accoglimento potrebbe produrre nel giudizio a quo. Si rischierebbe altrimenti, come già rilevato in altre
occasioni da questa Corte, di creare zone franche dell’ordinamento, sottratte
al controllo di costituzionalità, entro le quali sarebbe di fatto consentito al
Governo di effettuare scelte politico-criminali, che
Per superare il paradosso ed evitare al tempo stesso eventuali effetti impropri di una pronuncia in malam partem, «occorre quindi distinguere tra controllo di legittimità costituzionale, che non può soffrire limitazioni, se ritualmente attivato secondo le norme vigenti, ed effetti delle sentenze di accoglimento nel processo principale, che devono essere valutati dal giudice rimettente secondo i principi generali che reggono la successione nel tempo delle leggi penali» (sentenza n. 28 del 2010).
È da
aggiungere che, secondo il consolidato orientamento di questa Corte, «le
questioni incidentali di legittimità sono ammissibili "quando la norma
impugnata è applicabile nel processo d’origine e, quindi, la decisione della
Corte è idonea a determinare effetti nel processo stesso; mentre è totalmente
ininfluente sull’ammissibilità della questione il "senso” degli ipotetici
effetti che potrebbero derivare per le parti in causa da una pronuncia sulla
costituzionalità della legge” (sentenza n. 98 del
1997)» (sentenza n. 294 del
2011). Compete, dunque, ai giudici rimettenti valutare le
conseguenze applicative che potranno derivare da una eventuale pronuncia di accoglimento,
mentre deve escludersi che vi siano ostacoli all’ammissibilità delle proposte questioni di legittimità costituzionale.
6.– Una volta riconosciutane l’ammissibilità, deve
essere esaminata, in primo luogo, la questione relativa all’art. 2268, comma 1,
numero 297), del d.lgs. n. 66 del 2010, perchè se la norma censurata risultasse
immune da vizi di costituzionalità, essendosi prodotto l’effetto abrogativo del
d.lgs. n. 43 del 1948 da essa stabilito, diventerebbero prive di rilevanza le
ulteriori questioni e in particolare quella relativa all’art. 1 del d.lgs. n.
213 del 2010, che avrebbe ad oggetto
l’ulteriore abrogazione di una norma non più in vigore.
6.1.– La questione di legittimità costituzionale
dell’art. 2268 del d.lgs. n. 66 del 2010, nella parte in cui, al numero 297)
del comma 1, abroga il d.lgs. n. 43 del 1948, è fondata.
6.2.– Il d.lgs. n. 66 del 2010 è stato adottato, secondo quanto espressamente
indicato nel suo preambolo, sulla base dell’art. 14, commi 14 e 15, della legge
n. 246 del 2005, e ad avviso dei giudici rimettenti queste norme non davano al
Governo il potere di abrogare il d.lgs. n. 43 del 1948, sul divieto delle
associazioni di carattere militare, del quale, con il d.lgs. n. 179 del 2009,
era stata in precedenza stabilita la permanenza in vigore.
In effetti, il comma 14 non prevede alcun diretto potere
abrogativo, ma conferisce al Governo solo la delega ad individuare gli atti
normativi da sottrarre alla clausola "ghigliottina” contenuta nell’art. 14,
comma 14-ter, della legge n. 246 del
2005, potere che, come si è detto, era stato già esercitato con il d.lgs. n.
179 del 2009.
È quindi fondata la tesi dei giudici a quibus, secondo cui il Governo, al
momento dell’adozione del d.lgs. n. 66 del 2010, aveva già esercitato, rispetto
al d.lgs. n. 43 del 1948, il potere normativo attribuitogli con il comma 14, né
poteva ritenersi consentito, in base al comma citato, il nuovo e contrario
esercizio della delega, il quale, anziché in un effetto di salvaguardia
dell’efficacia, era sfociato in un’espressa abrogazione.
Anche se fosse stato riconosciuto al
Governo dal comma 14 un potere direttamente abrogativo, poi, dovrebbe ritenersi
che mancavano le condizioni per esercitarlo nei confronti del d.lgs. n. 43 del
1948, dato che, in base ai criteri indicati in tale comma, si trattava di un
testo normativo del quale era indispensabile la permanenza in vigore.
Con il citato comma 14 il Governo era stato
delegato ad individuare le disposizioni da mantenere in vigore, che non
avessero subito un’abrogazione tacita o implicita (lettera a) e non avessero esaurito la loro funzione, o fossero prive di
effettivo contenuto normativo, o fossero comunque obsolete (lettera b), e nessuna di queste condizioni
poteva riferirsi al d.lgs. n. 43 del
Ugualmente, non può ritenersi che si trattasse di disposizione priva di un effettivo contenuto normativo od obsoleta: il d.lgs. n. 43 del 1948, infatti, è coevo alla Costituzione e costituisce l’immediata attuazione dell’art. 18, secondo comma, Cost. L’atto normativo in questione, in coerenza con la previsione della Carta costituzionale, si prefigge di impedire attività idonee a influenzare e pregiudicare la formazione democratica delle convinzioni politiche dei cittadini, anche se non riconducibili a violazioni delle comuni norme penali, il che implica la sussistenza di un effettivo contenuto normativo di rilevanza costituzionale e fa escludere l’obsolescenza della disciplina. Del resto la perdurante attualità del decreto legislativo n. 43 del 1948 è confermata, se ce ne fosse bisogno, dalla sua reintroduzione ad opera del d.lgs. n. 20 del 2012.
È da aggiungere che se, come si ritiene, la ratio dell’incriminazione delle associazioni di carattere militare per scopi politici, come anche quella dell’art. 18, secondo comma, Cost., risiede nell’esigenza di salvaguardare la libertà del processo di decisione politica, la norma impugnata risulta chiaramente in contrasto con il criterio della lettera c) del citato comma 14, volto ad assicurare la permanenza in vigore «delle disposizioni la cui abrogazione comporterebbe lesione dei diritti costituzionali».
6.3.– Il preambolo del d.lgs. n. 66 del 2010, come si è già ricordato, indica, tra le fonti della delega, oltre al comma 14, anche il comma 15 della legge n. 246 del 2005, il quale stabilisce che «I decreti legislativi di cui al comma 14 provvedono altresì alla semplificazione o al riassetto della materia che ne è oggetto, nel rispetto dei principi e criteri direttivi di cui all’articolo 20 della legge 15 marzo 1997, n. 59, e successive modificazioni, anche al fine di armonizzare le disposizioni mantenute in vigore con quelle pubblicate successivamente alla data del 1° gennaio 1970».
Neppure questa disposizione, però, avrebbe potuto giustificare l’abrogazione del d.lgs. n. 43 del 1948.
La delega del comma 15, infatti, era diretta alla semplificazione e al riassetto normativo delle disposizioni legislative anteriori al 1° gennaio 1970 mantenute in vigore all’esito delle operazioni "salva-leggi”, da armonizzare, eventualmente, con la legislazione successiva, e in questo contesto la norma abrogatrice posta dall’art. 2268, comma 1, numero 297), del d.lgs. n. 66 del 2010 non può trovare alcuna legittimazione, anche perché il d.lgs. n. 43 del 1948 non rientra nella materia dell’ordinamento militare regolata dallo stesso decreto legislativo n. 66 del 2010.
Dal tenore letterale dell’art. 1 di questo
decreto risulta, infatti, chiaramente che le associazioni di carattere militare
per scopi politici non rientrano nella materia oggetto del riassetto normativo,
e, quindi, anche nell’ipotesi in cui si ritenesse consentita dal comma 15
l’espressa abrogazione di testi legislativi, ivi compresi quelli di cui era
stata già disposta la permanenza in vigore, dovrebbe concludersi che non sarebbe
stata possibile l’abrogazione del d.lgs. n. 43 del 1948, per l’estraneità della materia regolata da
questo rispetto all’ordinamento militare che aveva formato oggetto del
riassetto.
In proposito è
importante ricordare che, in un comunicato del 22 ottobre 2010 del Ministero
della difesa, il Ministro aveva reso noto che l’inserimento del d.lgs. n. 43
del 1948 tra le norme da abrogare elencate nell’art. 2268 del d.lgs. n. 66 del
2010 era erroneo. Conseguentemente l’Ufficio legislativo del Ministero della difesa
ne aveva «proposto la correzione con procedura di rettifica di errore materiale
da pubblicare nella Gazzetta Ufficiale», ma questa soluzione non era stata
«condivisa dall’Ufficio legislativo del Dipartimento per
La norma censurata, quindi, eccede anche l’ambito della delega conferita dal comma 15, giacché «la finalità fondamentale di semplificazione, che costituiva la ratio propria della legge n. 246 del 2005, era quella di creare insiemi normativi coerenti, a partire da una risistemazione delle norme vigenti, sparse e non coordinate, apportando quelle modifiche rese necessarie dalla composizione unitaria delle stesse» (sentenza n. 80 del 2012), mentre l’abrogazione di norme penali incriminatrici solo apparentemente connesse con la materia oggetto del riassetto normativo si colloca evidentemente su un altro piano e richiede scelte di politica legislativa, che, seppur per grandi linee, devono provenire dal Parlamento.
Chiarito perciò che la norma in questione non potrebbe rientrare nell’ambito di un’operazione di semplificazione o di riassetto dell’ordinamento militare, deve anche considerarsi che il comma 15 dell’art. 14 della legge n. 246 del 2005, riguardando i «decreti legislativi di cui al comma 14» dello stesso articolo, in nessun caso potrebbe giustificare l’abrogazione di una legge della quale, a norma del comma 14, dovrebbe essere invece assicurata la permanenza in vigore.
6.4.– Una terza delega è contenuta nell’art. 14, comma 14-quater, della legge n. 246 del 2005, il quale stabilisce che «Il Governo è altresì delegato ad adottare, entro il termine di cui al comma 14-ter, uno o più decreti legislativi recanti l’abrogazione espressa, con la medesima decorrenza prevista dal comma 14-ter, di disposizioni legislative statali ricadenti tra quelle di cui alle lettere a) e b) del comma 14, anche se pubblicate successivamente al 1° gennaio 1970».
Il preambolo del d.lgs. n. 66 del 2010 non richiama il comma 14-quater; tuttavia, dai lavori preparatori, emerge che il legislatore delegato ha inteso attuare anche la delega prevista da questo comma, individuando e abrogando espressamente le disposizioni legislative ormai inutili, e nel parere reso sullo schema del decreto legislativo in esame il Consiglio di Stato, per indicarne la base normativa, ha fatto espresso riferimento anche al comma 14-quater, oltre che ai commi 14 e 15.
Neppure questa disposizione di delega però, pur prevedendo espressamente un potere abrogativo, può giustificare l’abrogazione del d.lgs. n. 43 del 1948, perché il comma 14-quater dà mandato al Governo di abrogare «le disposizioni legislative statali ricadenti fra quelle di cui alle lettere a) e b) del comma 14», vale a dire quelle «oggetto di abrogazione tacita o implicita» e quelle che «abbiano esaurito la loro funzione o siano prive di effettivo contenuto normativo o siano comunque obsolete», e in queste categorie, come si è già visto, non può in alcun modo rientrare il decreto legislativo che vieta le associazioni di carattere militare per scopi politici.
6.5.– Alla luce delle considerazioni svolte nei paragrafi precedenti, si deve concludere che, per la carenza della necessaria delega legislativa, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2268 del d.lgs. n. 66 del 2010, nella parte in cui, al numero 297) del comma 1, abroga il d.lgs. n. 43 del 1948, è fondata.
Sono conseguentemente assorbiti gli altri profili di illegittimità costituzionale prospettati dai giudici rimettenti.
7.– Resta da esaminare la questione relativa all’art. 1 del d.lgs. n. 213 del 2010, nella parte in cui modifica il d.lgs. n. 179 del 2009, espungendo, con l’Allegato B, dalle norme mantenute in vigore dall’Allegato 1 del citato d.lgs. n. 179 del 2009, il d.lgs. n. 43 del 1948.
Anche in questo caso le censure dei giudici
rimettenti si appuntano, innanzitutto, sulla violazione dell’art. 76 Cost., sul
presupposto che la reiterata abrogazione del d.lgs. n. 43 del 1948 sarebbe
avvenuta in carenza di delega.
L’art. 1 del
d.lgs n. 213 del 2010 dispone che, «Ai fini e per gli effetti dell’articolo 14,
commi 14, 14-ter e 18, della legge 28
novembre 2005, n. 246, e successive modificazioni, al decreto legislativo 1°
dicembre 2009, n. 179, sono apportate le seguenti modificazioni: a) l’Allegato 1 è integrato dalle
disposizioni legislative statali, pubblicate anteriormente al 1° gennaio 1970,
inserite nell’Allegato A al presente decreto; b) dall’Allegato 1 sono espunte le disposizioni legislative statali
indicate nell’Allegato B al presente decreto; c) le voci di cui all’Allegato C al presente decreto sostituiscono
le corrispondenti voci dell’Allegato 1». Insomma questa disposizione, svolgendo
un’opera integrativa da un lato e riduttiva dall’altro, con l’Allegato A ha
aggiunto alcune disposizioni legislative a quelle mantenute in vigore dal
d.lgs. n. 179 del 2009, mentre con l’allegato B ne ha espunte altre.
Il d.lgs. n.
213 reca la data del 13 dicembre 2010, e, poiché il 16 dicembre 2009 il termine
della delega prevista dal comma 14 dell’art.14 della legge n. 246 del 2005 era
ormai decorso, è al comma 18 dello stesso articolo che occorre fare riferimento
per individuare la fonte del potere esercitato nell’occasione dal Governo.
Questo comma stabilisce che «Entro due anni dall’entrata in vigore dei decreti
legislativi di cui al comma 14, possono essere emanate, con uno o più decreti
legislativi, disposizioni integrative, di riassetto o correttive,
esclusivamente nel rispetto dei principi e criteri direttivi di cui al comma 15
e previo parere della Commissione di cui al comma 19».
Riconducendo a
questa disposizione l’art. 1 del d.lgs. n. 213 del 2010, gli si deve
riconoscere un carattere "integrativo”, relativamente alla lettera a), e "correttivo”, relativamente alla
lettera b), con l’avvertenza che
l’integrazione e la correzione non sarebbero potute avvenire senza osservare i
criteri di delega del comma 14.
Infatti il
comma 18, che si collega ai «decreti legislativi di cui al comma 14» e fa
riferimento ai «principi e criteri direttivi di cui al comma 15», costituisce
il prolungamento nel tempo, con alcune specificità, delle deleghe contenute nei
due commi anzidetti. In particolare è il
comma 14 che segna il discrimine tra le disposizioni legislative da mantenere
in vigore e quelle da abrogare, sicché neppure dal comma 18 potrebbe derivare
al Governo il potere di disporre l’abrogazione di disposizioni che, come quella
del d.lgs. n. 43 del 1948, sarebbero invece, per il comma 14, dovute rimanere
in vigore.
Perciò deve
concludersi che il Governo non poteva espungere dal d.lgs. n. 179 del 2009 la
disposizione del d.lgs. n. 43 del 1948, sul divieto delle associazioni di
carattere militare per scopi politici, di cui aveva legittimamente disposto il
mantenimento in vigore.
Ciò chiarito, si deve concludere che
anche la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1 del d.lgs. n. 213
del 2010, nella parte in cui modifica il d.lgs. n. 179 del 2009, espungendo,
con l’Allegato B, dalle norme mantenute in vigore dall’Allegato 1 del citato
d.lgs. n. 179 del 2009, il d.lgs. n. 43 del 1948, è fondata per carenza di
delega legislativa.
Sono conseguentemente assorbiti gli altri profili di illegittimità costituzionale prospettati dai giudici rimettenti.
8.– Va pertanto dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 2268 del d.lgs. n. 66 del 2010, nella parte in cui, al numero 297) del comma 1, abroga il d.lgs. n. 43 del 1948 e dell’art. 1 del d.lgs. n. 213 del 2010, nella parte in cui modifica il d.lgs. n. 179 del 2009, espungendo, con l’Allegato B, dalle norme mantenute in vigore dall’Allegato 1 del citato d.lgs. n. 179 del 2009, il d.lgs. n. 43 del 1948, per violazione dell’art. 76 della Costituzione.
Sono assorbite le questioni di legittimità costituzionale sollevate in via subordinata.
Per questi
motivi
riuniti i giudizi,
1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 2268 del decreto legislativo 15 marzo 2010, n. 66 (Codice dell’ordinamento militare), nella parte in cui, al numero 297) del comma 1, abroga il decreto legislativo 14 febbraio 1948, n. 43 (Divieto delle associazioni di carattere militare);
2) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 1 del decreto legislativo 13 dicembre 2010, n. 213 (Modifiche ed integrazioni al decreto legislativo 1° dicembre 2009, n. 179, recante disposizioni legislative statali anteriori al 1° gennaio 1970, di cui si ritiene indispensabile la permanenza in vigore), nella parte in cui modifica il decreto legislativo 1° dicembre 2009, n. 179 (Disposizioni legislative statali anteriori al 1° gennaio 1970, di cui si ritiene indispensabile la permanenza in vigore, a norma dell’articolo 14 della legge 28 novembre 2005, n. 246), espungendo dalle norme mantenute in vigore il decreto legislativo 14 febbraio 1948, n. 43 (Divieto delle associazioni di carattere militare).
Così deciso in Roma, nella sede della
Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 15 gennaio 2014.
F.to:
Gaetano SILVESTRI, Presidente
Giorgio LATTANZI, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 23 gennaio 2014.