ORDINANZA N. 117
ANNO 2019
Commenti alla decisione di
I. Antonio Ruggeri, Ancora
un passo avanti della Consulta lungo la via del "dialogo” con le Corti europee
e i giudici nazionali (a margine di Corte cost. n. 117 del 2019), in questa
Studi 2019/II,
242
II. Stefano Catalano, Rinvio
pregiudiziale nei casi di doppia pregiudizialità. Osservazioni a margine
dell’opportuna scelta compiuta con l’ordinanza n. 117 del 2019 della Corte
costituzionale, per g.c. dell’Osservatorio
AIC
III. Giuditta Marra e Massimiliano Viola, La
doppia pregiudizialità in materia di diritti fondamentali, per g.c. di Diritto Penale Contemporaneo
IV. Adele Anzon Demmig, Applicazioni
virtuose della nuova "dottrina” sulla "doppia pregiudizialità” in tema di
diritti fondamentali (in margine alle decisioni nn. 112 e 117/2019), per
g.c. dell’Osservatorio AIC
V. Gino Scaccia, Alla
ricerca del difficile equilibrio fra applicazione diretta della Carta dei
diritti fondamentali dell’Unione europea e sindacato accentrato di legittimità
costituzionale. In margine all’ordinanza della Corte costituzionale n. 117 del
2019, per g.c. dell’Osservatorio
AIC
VI. Guerino Fares, Diritto
al silenzio, soluzioni interpretative e controlimiti: la Corte costituzionale
chiama in causa la Corte di giustizia, per g.c. di Dirittifondamentali.it
VII. Gino Scaccia, Corte
costituzionale e doppia pregiudizialità: la priorità del giudizio incidentale
oltre la Carta dei diritti?, per g.c. del Forum di Quaderni Costituzionali
REPUBBLICA
ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO
ITALIANO
composta dai
signori:
Presidente: Giorgio LATTANZI;
Giudici:
Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO,
Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO,
Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco
VIGANÒ, Luca ANTONINI,
ha pronunciato la
seguente
ORDINANZA
nel giudizio di
legittimità costituzionale dell’art. 187-quinquiesdecies del decreto
legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 (Testo unico delle disposizioni in materia
di intermediazione finanziaria, ai sensi degli articoli 8 e 21 della legge 6
febbraio 1996, n. 52), come introdotto dall’art. 9, comma 2, lettera b),
della legge 18 aprile 2005, n. 62 (Disposizioni per l’adempimento di obblighi
derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee. Legge
comunitaria 2004), promosso dalla Corte di cassazione, sezione seconda civile,
nel procedimento vertente tra il sig. D. B. e la Commissione nazionale per le
società e la borsa (CONSOB), con ordinanza
del 16 febbraio 2018, iscritta al n. 54 del registro ordinanze 2018 e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 14, prima serie
speciale, dell’anno 2018.
Visti l’atto di
costituzione del sig. D. B., nonché l’atto di intervento del Presidente del
Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza
pubblica del 5 marzo 2019 il Giudice relatore Francesco Viganò;
uditi l’avvocato
Renzo Ristuccia per il sig. D. B. e l’avvocato dello Stato Pio Giovanni Marrone
per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1.– Questa Corte è
chiamata a decidere su plurime questioni di legittimità costituzionale
sollevate dalla Corte di cassazione, sezione seconda civile, con ordinanza del
16 febbraio 2018 (r. o. n. 54 del 2018).
Per ciò che in
questa sede rileva, la Corte di cassazione chiede se l’art. 187-quinquiesdecies
del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 (Testo unico delle disposizioni
in materia di intermediazione finanziaria, ai sensi degli articoli 8 e 21 della
legge 6 febbraio 1996, n. 52), sia costituzionalmente legittimo nella parte in
cui sanziona la mancata ottemperanza nei termini alle richieste della
Commissione nazionale per le società e la borsa (CONSOB), ovvero la causazione
di un ritardo nell’esercizio delle sue funzioni, «anche nei confronti di colui
al quale la medesima CONSOB, nell’esercizio delle proprie funzioni di vigilanza,
contesti un abuso di informazioni privilegiate».
La Corte di
cassazione dubita che tale disposizione, in parte qua, contrasti con gli artt. 24, 111 e 117, primo comma, della
Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art 6 della Convenzione
per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU),
e all’art. 14, comma 3, lettera g), del Patto
internazionale relativo ai diritti civili e politici, nonché con gli artt. 11 e 117, primo comma, Cost.,
in relazione all’art. 47 della Carta
dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE).
2.– Il
procedimento pendente avanti alla Corte di cassazione trae a sua volta origine
da un procedimento sanzionatorio avviato dalla CONSOB nei confronti del sig. D.
B.
2.1.– Dagli atti
di causa risulta che, all’esito di tale procedimento, con delibera del 2 maggio
2012, la CONSOB aveva irrogato al sig. D. B. le seguenti sanzioni
amministrative:
a) una sanzione
pecuniaria di 200.000 euro in relazione all’illecito amministrativo di abuso di
informazioni privilegiate previsto dall’art. 187-bis, comma 1, lettera a), del
d.lgs. n. 58 del 1998, nella versione vigente all’epoca dei fatti, con riguardo
all’acquisto, effettuato dal sig. D. B. nel febbraio 2009, di 30.000 azioni di
una società quotata della quale era socio e consigliere di amministrazione,
sulla base del possesso dell’informazione privilegiata relativa all’imminente
lancio di un’offerta pubblica di acquisto di tale società, da lui promossa
assieme ad altri due soci della medesima società;
b) una sanzione
pecuniaria di 100.000 euro in relazione al medesimo illecito amministrativo
nell’ipotesi di cui all’art. 187-bis, comma 1, lettera c), sempre nella
versione vigente all’epoca dei fatti, per avere il sig. D. B. indotto una terza
persona ad acquistare azioni della società in questione, essendo in possesso
della menzionata informazione privilegiata;
c) una sanzione
pecuniaria di 50.000 euro in relazione all’illecito amministrativo di cui
all’art. 187-quinquiesdecies (Tutela dell’attività di vigilanza della Banca
d’Italia e della Consob) del d.lgs. n. 58 del 1998, nella versione vigente
all’epoca dei fatti, per avere rinviato più volte la data dell’audizione alla
quale era stato convocato e, una volta presentatosi alla stessa CONSOB, per
essersi rifiutato di rispondere alle domande che gli erano state rivolte;
d) la sanzione
accessoria della perdita temporanea dei requisiti di onorabilità per la durata
di diciotto mesi;
e) la confisca di
denaro o beni fino a concorrenza dell’importo di 149.760 euro, pari all’intero
valore delle azioni acquistate mediante la condotta descritta sub a).
Per le stesse
condotte di cui ai punti a) e b) dell’esposizione che precede, al sig. D. B.
era stato altresì contestato, in un separato procedimento penale, il delitto di
abuso di informazioni privilegiate previsto dall’art. 184 del d.lgs. n. 58 del
1998. Per tale delitto, il sig. D. B. ha concordato con il pubblico ministero
la pena, condizionalmente sospesa, di undici mesi di reclusione e 300.000 euro
di multa, applicata dal giudice per le indagini preliminari del Tribunale di
Milano il 18 dicembre 2013.
2.2. – Il sig. D.
B. aveva proposto opposizione avanti alla Corte d’appello di Roma avverso il
provvedimento sanzionatorio della CONSOB, allegando tra l’altro l’illegittimità
della sanzione irrogatagli ai sensi dell’art. 187-quinquiesdecies del d.lgs. n.
58 del 1998.
La Corte d’appello
di Roma aveva tuttavia rigettato l’opposizione, confermando così il
provvedimento sanzionatorio adottato dalla CONSOB, con sentenza depositata il
20 novembre 2013.
2.3.– Contro tale sentenza
il sig. D. B. aveva quindi proposto il ricorso per cassazione che ha dato
origine al presente procedimento incidentale di legittimità costituzionale.
3.– Come
anticipato, la Corte di cassazione dubita della legittimità costituzionale
dell’art. 187-quinquiesdecies del d.lgs. n. 58 del 1998, «nella parte in cui
detto articolo sanziona la condotta consistente nel non ottemperare
tempestivamente alle richieste della CONSOB o nel ritardare l’esercizio delle
sue funzioni anche nei confronti di colui al quale la medesima CONSOB,
nell’esercizio delle sue funzioni di vigilanza, contesti un abuso di
informazioni privilegiate», in ragione del possibile contrasto di tale
previsione con varie norme della Costituzione italiana e, mediatamente, con gli
artt. 6 CEDU e 47 CDFUE, nonché con l’art. 14 del Patto internazionale relativo
ai diritti civili e politici.
3.1.– Secondo la
Corte di cassazione, la disposizione censurata contrasterebbe anzitutto con
l’art. 24 Cost., il cui secondo comma recita: «La difesa è diritto inviolabile
in ogni stato e grado del procedimento».
Rileva la Corte di
cassazione che l’accertamento di un illecito amministrativo come quello di cui
è causa è, nell’ordinamento italiano, prodromico alla possibile irrogazione,
nei confronti di chi ne sia riconosciuto autore, sia di sanzioni propriamente
penali, sia di sanzioni amministrative di natura sostanzialmente "punitiva”;
ciò che si era appunto verificato nel caso di specie. Per tale ragione, il
soggetto al quale la CONSOB intenda addebitare la commissione di un tale
illecito amministrativo dovrebbe godere di tutte le garanzie inerenti al
diritto di difesa nei procedimenti penali, così come riconosciute dalla
giurisprudenza costituzionale sulla base dell’art. 24 Cost. Tra tali garanzie
si iscriverebbe, in particolare, il «diritto di non collaborare alla propria
incolpazione».
3.2.– In secondo
luogo, la disposizione censurata contrasterebbe con il «principio della parità
delle parti» nel processo, sancito dall’art. 111, secondo comma, Cost.
Rileva in
proposito la Corte di cassazione che «[i]l dovere di collaborare con la CONSOB
in capo a colui che dalla stessa CONSOB venga sanzionato per l’illecito
amministrativo di cui all’art. 187-bis [del d.lgs. n. 58 del 1998] non sembra
[…] compatibile con la posizione di parità che tale soggetto e la CONSOB
debbono rivestire nella fase giurisdizionale di impugnativa del provvedimento
sanzionatorio».
3.3.– In terzo
luogo, la Corte di cassazione dubita della compatibilità della disciplina
censurata con l’art. 117, primo comma, Cost., il quale stabilisce che «[l]a
potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della
Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli
obblighi internazionali», in ragione dell’incompatibilità di tale disciplina
con gli artt. 6 CEDU e 14 del Patto internazionale sui diritti civili e
politici.
Quanto all’art. 6
CEDU, la Corte di cassazione osserva che, secondo la costante giurisprudenza
della Corte europea dei diritti dell’uomo, il diritto di non cooperare alla
propria incolpazione e il diritto al silenzio – anche nell’ambito di
procedimenti amministrativi funzionali all’irrogazione di sanzioni aventi
natura sostanzialmente "punitiva” – debbano considerarsi come implicitamente riconosciuti
da tale norma convenzionale, situandosi anzi «al cuore della nozione di
processo equo».
Quanto poi al
Patto internazionale sui diritti civili e politici, la Corte di cassazione
osserva che l’art. 14, paragrafo 3, lettera g), di tale strumento riconosce
esplicitamente il diritto di ogni individuo accusato di un reato a «non essere
costretto a deporre contro se stesso o a confessarsi colpevole». Tale diritto
dovrebbe necessariamente essere riconosciuto anche a colui che sia sottoposto a
un’indagine condotta da un’autorità amministrativa, ma potenzialmente
funzionale all’irrogazione nei suoi confronti di sanzioni di carattere
"punitivo”.
3.4.– Infine, la
Corte di cassazione sospetta che la disciplina in esame violi il combinato
disposto dello stesso art. 117, primo comma, Cost. e dell’art. 11 Cost. (che
autorizza le «limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che
assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni»), in ragione
dell’incompatibilità di tale disciplina con l’art. 47, paragrafo 2, CDFUE.
Rilevato che
l’art. 187-quinquiesdecies, e più in generale l’intera disciplina del d.lgs. n.
58 del 1998, ricadono nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione
europea ai sensi dell’art. 51 CDFUE, il giudice a quo osserva che la formulazione
dell’art. 47, paragrafo 2, CDFUE è sostanzialmente sovrapponibile a quella
dell’art. 6, paragrafo 1, CEDU, e deve pertanto essere interpretata – secondo
quanto previsto dall’art. 52, paragrafo 3, CDFUE – in conformità
all’interpretazione della corrispondente previsione convenzionale, sopra
menzionata, fornita dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.
La Corte di
cassazione rileva, inoltre, che dalla stessa giurisprudenza della Corte di
giustizia UE in materia di tutela della concorrenza si evince il principio
secondo cui la Commissione non può imporre all’impresa l’obbligo di fornire
risposte attraverso le quali questa sarebbe indotta ad ammettere l’esistenza
della trasgressione, che deve invece essere provata dalla Commissione.
La Corte di
cassazione sottolinea, tuttavia, come dalla direttiva 2003/6/CE del Parlamento
europeo e del Consiglio, del 28 gennaio 2003, relativa all’abuso di
informazioni privilegiate e alla manipolazione del mercato (abusi di mercato) –
direttiva in attuazione della quale l’art. 187-quinquiesdecies è stato
introdotto nel d.lgs. n. 58 del 1998 – si evinca un generale obbligo di
collaborazione con l’autorità di vigilanza, la cui violazione deve essere
sanzionata dallo Stato membro ai sensi dell’art. 14, paragrafo 3, della direttiva
medesima; ed evidenzia come tale obbligo sia sancito anche dal recente
Regolamento (UE) n. 596/2014 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16
aprile 2014, relativo agli abusi di mercato (regolamento sugli abusi di
mercato) e che abroga la direttiva 2003/6/CE del Parlamento europeo e del
Consiglio e le direttive 2003/124/CE, 2003/125/CE e 2004/72/CE della
Commissione.
Tale
considerazione induce il giudice a quo a domandarsi se detto obbligo, ove
ritenuto applicabile anche nei confronti dello stesso soggetto nei cui
confronti si stia svolgendo l’indagine, sia compatibile con l’art. 47 CDFUE; e,
conseguentemente, se quest’ultimo osti a una disposizione nazionale che, come
l’art. 187-quinquiesdecies del d.lgs. n. 58 del 1998, presupponga un dovere di prestare
collaborazione alle indagini (e conseguentemente di sanzionare l’omessa
collaborazione) anche da parte de soggetto nei cui confronti la CONSOB stia
svolgendo indagini relative alla possibile commissione di un illecito punito
con sanzioni di carattere sostanzialmente penale.
3.5.– Rilevato,
dunque, che l’art. 187-quinquiesdecies del d.lgs. n. 58 del 1998 si espone a
dubbi di illegittimità costituzionale sotto il profilo della sua possibile
contrarietà a parametri costituzionali nazionali (artt. 24, secondo comma, e
111, secondo comma, Cost.), nonché sotto il profilo della sua possibile
incompatibilità con la CEDU e con la stessa CDFUE – incompatibilità dalla quale
deriverebbe pure, in via mediata, la sua illegittimità costituzionale in forza
degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost. –, la Corte di cassazione ritiene di
dover anzitutto sottoporre tali questioni all’esame di questa Corte.
Nell’ipotesi in
cui i dubbi di illegittimità costituzionale fossero dichiarati infondati, la
Corte di cassazione si riserva peraltro espressamente di misurarsi «con il
dovere, sulla stessa gravante ai sensi del terzo comma dell’articolo 267 TFUE,
di attivare il rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE (ove non già attivato
dalla stessa Corte costituzionale nel giudizio incidentale) e di dare al
diritto dell’Unione un’applicazione conforme alla decisione conseguentemente
adottata dalla Corte di giustizia».
4.– Si è
costituito in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato
e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni
sollevate siano dichiarate inammissibili o, comunque, infondate.
5.– Si è altresì
costituito in giudizio il sig. D. B., il quale ha invece sostenuto la
fondatezza delle questioni, in relazione a tutti i parametri sollevati.
6.– Non si è
costituita in giudizio la CONSOB, che pure era parte nel giudizio a quo.
Considerato in diritto
1.– Questa Corte
deve pronunciarsi sulla questione, formulata dalla Corte di cassazione, se
l’art. 187-quinquesdecies del d.lgs. n. 58 del 1998 sia costituzionalmente
illegittimo, nella parte in cui sanziona la mancata ottemperanza nei termini
alle richieste della Commissione nazionale per le società e la borsa (CONSOB),
ovvero la causazione di un ritardo nell’esercizio delle sue funzioni, «anche
nei confronti di colui al quale la medesima CONSOB, nell’esercizio delle
proprie funzioni di vigilanza, contesti un abuso di informazioni privilegiate».
Come risulta
dall’esposizione che precede, la questione è proposta in riferimento a una pluralità
di parametri, taluni dei quali di matrice nazionale (il diritto di difesa e il
principio della parità tra le parti nel processo, di cui rispettivamente agli
artt. 24, secondo comma, e 111, secondo comma, della Costituzione), altri di
matrice internazionale ed europea (il diritto a un processo equo, di cui agli
artt. 6 CEDU, 14 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e
politici, e 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea),
questi ultimi pure suscettibili di determinare l’illegittimità costituzionale
della disposizione censurata in forza degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost.
2.– Con
riferimento in particolare alle norme della CDFUE, questa Corte ha recentemente
affermato la propria competenza a vagliare gli eventuali profili di contrarietà
delle disposizioni di legge nazionali alle norme della Carta che il giudice
rimettente ritenga di sottoporle.
Ciò in quanto «[i]
principi e i diritti enunciati nella Carta intersecano in larga misura i
principi e i diritti garantiti dalla Costituzione italiana (e dalle altre
Costituzioni nazionali degli Stati membri). Sicché può darsi il caso che la
violazione di un diritto della persona infranga, ad un tempo, sia le garanzie
presidiate dalla Costituzione italiana, sia quelle codificate dalla Carta dei
diritti dell’Unione» (sentenza n. 269 del
2017, punto 5.2. del Considerato in diritto).
In tali ipotesi,
questa Corte – che è essa stessa «organo giurisdizionale» nazionale ai sensi
dell’art. 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE) – potrà
dunque valutare se la disposizione censurata violi le garanzie riconosciute, al
tempo stesso, dalla Costituzione e dalla Carta, attivando rinvio pregiudiziale
alla Corte di giustizia ogniqualvolta ciò sia necessario per chiarire il
significato e gli effetti delle norme della Carta; e potrà, all’esito di tale
valutazione, dichiarare l’illegittimità costituzionale della disposizione
censurata, rimuovendo così la stessa dall’ordinamento nazionale con effetti
erga omnes. Ciò fermo restando «che i giudici comuni possono sottoporre alla
Corte di giustizia dell’Unione europea, sulla medesima disciplina, qualsiasi
questione pregiudiziale a loro avviso necessaria» (sentenza n. 20 del
2019, punto 2.3. del Considerato in diritto), anche al termine del
procedimento incidentale di legittimità costituzionale; e fermo restando,
altresì, il loro dovere – ricorrendone i presupposti – di non applicare, nella
fattispecie concreta sottoposta al loro esame, la disposizione nazionale in
contrasto con i diritti sanciti dalla Carta (sentenza n. 63 del
2019, punto 4.3. del Considerato in diritto).
La sentenza n. 20 del
2019 ha ulteriormente chiarito, in proposito, che «[i]n generale, la
sopravvenienza delle garanzie approntate dalla CDFUE rispetto a quelle della
Costituzione italiana genera […] un concorso di rimedi giurisdizionali,
arricchisce gli strumenti di tutela dei diritti fondamentali e, per
definizione, esclude ogni preclusione». Tale concorso di rimedi consente in
effetti alla Corte costituzionale «di contribuire, per la propria parte, a
rendere effettiva la possibilità, di cui ragiona l’art. 6 del Trattato
sull’Unione europea (TUE) […] che i corrispondenti diritti fondamentali
garantiti dal diritto europeo, e in particolare dalla CDFUE, siano interpretati
in armonia con le tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri,
richiamate anche dall’art. 52, paragrafo 4, della stessa CDFUE come fonti
rilevanti» (punto 2.3. del Considerato in diritto).
Il tutto, come già
evidenziato dalla sentenza
n. 269 del 2017, «in un quadro di costruttiva e leale cooperazione fra i
diversi sistemi di garanzia, nel quale le Corti costituzionali sono chiamate a
valorizzare il dialogo con la Corte di giustizia (da ultimo, ordinanza n. 24 del
2017), affinché sia assicurata la massima salvaguardia dei diritti a
livello sistemico (art. 53 della CDFUE)» (punto 5.2. del Considerato in
diritto).
3.– Tutte le norme
della Costituzione, della CEDU, del Patto internazionale sui diritti civili e
politici e della CDFUE invocate dalla Corte di cassazione convergono nel
riconoscimento – esplicito, nel caso dell’art. 14 del Patto internazionale;
implicito, in tutti gli altri casi – del diritto della persona a non
contribuire alla propria incolpazione e a non essere costretta a rendere
dichiarazioni di natura confessoria (nemo tenetur se ipsum accusare).
Secondo la Corte
di cassazione, tale "diritto al silenzio” non potrebbe non estendersi anche ai
procedimenti di carattere formalmente amministrativo, ma funzionali
all’irrogazione di sanzioni di carattere sostanzialmente "punitivo”, come
quello previsto dall’art. 187-bis del d.lgs. n. 58 del 1998 (Abuso di
informazioni privilegiate), della cui violazione il sig. D. B. è stato ritenuto
responsabile dalla CONSOB in esito a un procedimento conclusosi con
l’irrogazione delle sanzioni già menzionate al punto 2.1. del Ritenuto in
fatto.
4.– Questa Corte
ritiene che il dubbio di legittimità costituzionale prospettato si risolva
essenzialmente nell’interrogativo se sia costituzionalmente legittimo
sanzionare, ai sensi dell’art. 187-quinquiesdecies del d.lgs. n. 58 del 1998,
chi si sia rifiutato di rispondere a domande dalle quali sarebbe potuta
emergere la propria responsabilità, nell’ambito di un’audizione disposta dalla
CONSOB nell’esercizio delle sue funzioni di vigilanza.
Non pare infatti a
questa Corte che il "diritto al silenzio”, fondato sulle norme costituzionali,
europee e internazionali invocate, possa di per sé legittimare il rifiuto del
soggetto di presentarsi all’audizione disposta dalla CONSOB, né il suo indebito
ritardo nel presentarsi alla stessa audizione, purché sia garantito –
diversamente da quanto avvenuto nel caso di specie – il suo diritto a non
rispondere alle domande che gli vengano rivolte durante l’audizione stessa. Di
quest’ultima garanzia, peraltro, nel caso di specie il sig. D. B. non
disponeva: ciò che potrebbe essere valorizzato dal giudice del procedimento
principale per concludere che egli non possa essere sanzionato né per il
silenzio serbato nell’audizione, né per il ritardo nel presentarsi
all’audizione stessa.
5.– Nella versione
applicabile ratione temporis ai fatti di cui è causa nel procedimento a quo,
l’art. 187-quinquiesdecies del d.lgs. n. 58 del 1998 prevedeva: «[f]uori dai
casi previsti dall’articolo 2638 del codice civile, chiunque non ottempera nei
termini alle richieste della CONSOB ovvero ritarda l’esercizio delle sue
funzioni è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da euro
cinquantamila ad euro un milione».
Tra le funzioni
attribuite alla CONSOB si annovera in particolare, ai sensi dell’art.
187-octies, comma 3, lettera c), del d.lgs. n. 58 del 1998, il potere di
«procedere ad audizione personale» nei confronti di «chiunque possa essere
informato sui fatti».
Il tenore
letterale dell’art. 187-quinquiesdecies del d.lgs. n. 58 del 1998, nella
versione vigente all’epoca dei fatti, si estende anche all’ipotesi in cui
l’audizione personale sia disposta nei confronti di colui che la CONSOB abbia
già individuato, sulla base delle informazioni in proprio possesso, come il
possibile autore di un illecito il cui accertamento ricade entro la sua
competenza. In particolare, la norma consente che costui venga punito con la
sanzione amministrativa pecuniaria da cinquantamila euro a un milione per il
fatto di essersi rifiutato di rispondere in sede di audizione personale disposta
dalla CONSOB.
6.– A identica
conclusione si deve pervenire oggi, sulla base dell’attuale formulazione
dell’art. 187-quinquiesdecies del d.lgs. n. 58 del 1998, come modificata dal
d.lgs. n. 129 del 2017, che al comma 1 prevede: «[f]uori dai casi previsti
dall’art. 2638 del codice civile, è punito ai sensi del presente articolo
chiunque non ottempera nei termini alle richieste della Banca d’Italia e della
CONSOB, ovvero non coopera con le medesime autorità al fine dell’espletamento
delle relative funzioni di vigilanza, ovvero ritarda l’esercizio delle stesse».
La novellata
formulazione dell’art. 187-quinquiesdecies del d.lgs. n. 58 del 1998, infatti,
si limita a esplicitare che l’illecito può essere commesso non solo da chi non
ottempera nei termini alle richieste delle autorità ovvero ne ritarda
l’esercizio delle funzioni, ma anche – più in generale – da chi non coopera con
le autorità medesime al fine dell’espletamento delle relative funzioni di
vigilanza. Anche sulla base della nuova disposizione, tuttavia, nessuna facoltà
di non rispondere è prevista per colui che sia già stato individuato dalla
CONSOB come il possibile autore di un illecito, il cui accertamento rientri
entro le competenze dell’autorità stessa.
7.– Occorre
pertanto stabilire se il "diritto al silenzio” evocato dalla Corte di
cassazione si applichi, oltre che nei procedimenti penali, anche nelle
audizioni personali disposte dalla CONSOB nell’ambito della propria attività di
vigilanza, che può preludere all’instaurazione di procedimenti sanzionatori di
natura "punitiva” nei confronti di chi sia individuato come autore di un
illecito.
Come osserva la
Corte di cassazione, nel senso di una risposta affermativa a tale quesito
depongono argomenti fondati sia sull’art. 24 della Costituzione italiana, sia
sull’art. 6 CEDU, come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.
7.1.– La costante
giurisprudenza di questa Corte ritiene che il "diritto al silenzio”
dell’imputato – pur non godendo di espresso riconoscimento costituzionale –
costituisca un «corollario essenziale dell’inviolabilità del diritto di
difesa», riconosciuto dall’art. 24 Cost. (ordinanze n. 202
del 2004, n.
485 e n. 291
del 2002). Tale diritto garantisce all’imputato la possibilità di rifiutare
di sottoporsi all’esame testimoniale e, più in generale, di avvalersi della
facoltà di non rispondere alle domande del giudice o dell’autorità competente
per le indagini.
Questa Corte non è
stata, sino ad oggi, chiamata a valutare se e in che misura tale diritto –
appartenente al novero dei diritti inalienabili della persona umana (sentenze n. 238 del
2014, n. 323
del 1989 e n.
18 del 1982), che caratterizzano l’identità costituzionale italiana – sia
applicabile anche nell’ambito di procedimenti amministrativi funzionali all’irrogazione
di sanzioni di natura "punitiva” secondo i criteri Engel.
Tuttavia, in
molteplici occasioni essa ha ritenuto che singole garanzie riconosciute nella
materia penale dalla CEDU e dalla stessa Costituzione italiana si estendano
anche a tale tipologia di sanzioni. Ciò è avvenuto, in particolare, in
relazione alle garanzie del divieto di retroattività delle modifiche
sanzionatorie in peius (sentenze n. 223 del
2018, n. 68
del 2017, n.
276 del 2016, n.
104 del 2014 e n. 196 del 2010),
della sufficiente precisione del precetto sanzionato (sentenze n. 121 del
2018 e n. 78
del 1967), nonché della retroattività delle modifiche sanzionatorie in
mitius (sentenza
n. 63 del 2019).
Inoltre, questa
Corte ha già più volte affermato che le sanzioni amministrative previste
nell’ordinamento italiano in materia di abuso di informazioni privilegiate
costituiscono, in ragione della loro particolare afflittività, misure di natura
"punitiva” (sentenze
n. 63 del 2019, n. 223 del 2018
e n. 68 del 2017),
così come – peraltro – ritenuto dalla stessa Corte di giustizia UE (Grande
sezione, sentenza
20 marzo 2018, in cause riunite C-596/16 e C-597/16, Di Puma e Consob,
paragrafo 38).
A tale conclusione
questa Corte è giunta valorizzando, in particolare, l’ammontare assai elevato
delle sanzioni previste in materia di abuso di informazioni privilegiate,
punibili oggi con una sanzione pecuniaria che può giungere, a carico di una
persona fisica, sino all’importo di cinque milioni di euro, aumentabili in
presenza di particolari circostanze fino al triplo, ovvero fino al maggiore
importo di dieci volte il profitto conseguito ovvero le perdite evitate per
effetto dell’illecito. Tali sanzioni pecuniarie sono, inoltre, affiancate dalle
sanzioni di carattere interdittivo previste dall’art. 187-quater del d.lgs. n.
58 del 1998, che limitano fortemente le opzioni professionali dei soggetti
colpiti dalla sanzione, e sono applicate congiuntamente alla confisca, diretta
e per equivalente, del profitto dell’illecito.
A fronte di simili
scenari sanzionatori, secondo la Corte di cassazione parrebbe plausibile il
riconoscimento, in favore di chi sia incolpato di un tale illecito, dei
medesimi diritti di difesa che la Costituzione italiana riconosce alla persona
sospettata di avere commesso un reato, e in particolare del diritto a non
essere costretto – sotto minaccia di una pesante sanzione pecuniaria, come
quella applicata al ricorrente nel giudizio a quo – a rendere dichiarazioni
suscettibili di essere utilizzate successivamente come elementi di prova a
proprio carico.
E ciò anche in
relazione al rischio che, per effetto dell’obbligo di cooperazione con
l’autorità di vigilanza attualmente sancito dal diritto derivato dell’Unione
europea, il sospetto autore di un illecito amministrativo avente natura
"punitiva” possa altresì contribuire, di fatto, alla formulazione di un’accusa
in sede penale nei propri confronti. Nell’ordinamento italiano, l’abuso di
informazioni privilegiate è, infatti, previsto al tempo stesso come illecito
amministrativo (art. 187-bis del d.lgs. n. 58 del 1998) e come illecito penale
(art. 184 del d.lgs. n. 58 del 1998); e i relativi procedimenti possono essere
attivati e proseguiti parallelamente (come è in effetti accaduto nei confronti
del sig. D. B.), nei limiti in cui ciò sia compatibile con il diritto al ne bis
in idem (Corte di giustizia, Grande sezione, sentenza
20 maggio 2018, in causa C-537/16, Garlsson Real Estate SA e altri,
paragrafi 42-63).
Infatti, per
quanto nell’ordinamento italiano non sia consentito utilizzare nel processo
penale le dichiarazioni rese all’autorità amministrativa senza le garanzie del
diritto di difesa, tra cui segnatamente l’avvertimento circa la facoltà di non
rispondere, è ben possibile che tali dichiarazioni – ottenute dall’autorità
amministrativa mediante la minaccia di sanzione per il caso di mancata
cooperazione – possano in concreto fornire all’autorità stessa informazioni
essenziali in vista dell’acquisizione di ulteriori elementi di prova della
condotta illecita, destinati a essere utilizzati anche nel successivo processo
penale contro l’autore della condotta.
7.2.– I dubbi
sollevati dalla Corte di cassazione sono confortati anche dalla giurisprudenza
della Corte europea dei diritti dell’uomo concernente l’art. 6 CEDU.
Nonostante
l’assenza di un riconoscimento esplicito del diritto in questione nel testo
della Convenzione (a differenza di quanto accade nell’art. 14, paragrafo 3,
lettera g), del Patto internazionale sui diritti civili e politici), la Corte
di Strasburgo ha in plurime occasioni affermato che il «diritto a restare in
silenzio e a non contribuire in alcun modo alla propria incriminazione» (Corte
EDU, sentenza 25 febbraio
1993, Funke contro Francia, paragrafo 44) si colloca al cuore della nozione
di "equo processo” proclamata dall’art. 6, paragrafo 1, CEDU (ex multis, Corte
EDU, sentenza 5 aprile
2012, Chambaz contro Svizzera, paragrafo 52). Tale diritto è, infatti,
finalizzato a proteggere l’accusato da indebite pressioni dell’autorità volte a
provocarne la confessione (sentenza
8 febbraio 1996, John Murray contro Regno Unito, paragrafo 45). Nella
valutazione della Corte EDU, inoltre, il diritto in questione è strettamente
connesso alla presunzione di innocenza di cui all’art. 6, paragrafo 2, CEDU (sentenze 21 dicembre 2000,
Heaney e McGuinnes contro Irlanda, paragrafo 40; 17 dicembre 1996, Saunders
contro Regno Unito, paragrafo 68).
Il diritto in
esame è stato, d’altra parte, più volte ritenuto violato in relazione a
soggetti sanzionati dall’ordinamento nazionale per non avere fornito risposte
ad autorità amministrative nell’ambito di procedimenti di accertamento di
violazioni di natura amministrativa (Corte EDU, 4 ottobre 2005, Shannon contro Regno Unito,
paragrafi 38-41; sentenza
5 aprile 2012, Chambaz contro Svizzera, paragrafi 50-58).
In particolare, è
stata riscontrata la violazione dell’art. 6 CEDU in un caso in cui un soggetto,
nei cui confronti era pendente un’indagine amministrativa relativa a illeciti
tributari, aveva reiteratamente omesso di rispondere alle richieste di
chiarimenti formulate dall’autorità che stava conducendo l’indagine, ed era
stato punito per questa sua condotta con sanzioni pecuniarie (Corte EDU, sentenza 3 maggio 2001, J. B.
contro Svizzera, paragrafi 63-71). In quest’ultimo caso, decisiva è stata
la considerazione della natura "punitiva”, secondo i criteri Engel, delle
sanzioni applicabili dall’autorità amministrativa alle violazioni tributarie
oggetto dell’indagine. Secondo l’apprezzamento della Corte, tale natura
"punitiva” chiamava infatti in causa l’intero spettro delle garanzie assicurate
dalla CEDU per la materia penale, compresa quella del "diritto al silenzio” da
parte di chi sia incolpato di avere commesso un illecito.
Pare pertanto che,
anche secondo la Corte EDU, il diritto a non cooperare alla propria
incolpazione e a non essere costretto a rendere dichiarazioni di natura
confessoria, riconducibile all’art. 6 CEDU, comprenda il diritto di chiunque
sia sottoposto a un procedimento amministrativo, che potrebbe sfociare nella
irrogazione di sanzioni di carattere "punitivo” nei propri confronti, a non
essere obbligato a fornire all’autorità risposte dalle quali potrebbe emergere
la propria responsabilità, sotto minaccia di una sanzione in caso di
inottemperanza.
8. – Ai fini della
decisione dell’incidente di legittimità costituzionale sottoposto all’esame di
questa Corte, occorre peraltro considerare – come correttamente messo in
evidenza dalla Corte di cassazione – che l’art. 187-quinquiesdecies del d.lgs.
n. 58 del 1998, in questa sede censurato, è stato introdotto nell’ordinamento
italiano in esecuzione di uno specifico obbligo posto dalla direttiva
2003/6/CE; e che tale disposizione costituisce, oggi, la puntuale attuazione di
un’analoga disposizione del regolamento (UE) n. 596/2014, che ha abrogato la
direttiva medesima.
8.1.– Più in
particolare, l’art. 14, paragrafo 3, della direttiva 2003/6/CE prevedeva: «[g]li
Stati membri fissano le sanzioni da applicare per l’omessa collaborazione alle
indagini di cui all’articolo 12».
A sua volta,
l’art. 12, paragrafo 2, lettera b), della medesima direttiva prevedeva che alle
autorità competenti dei singoli Stati membri fosse conferito quantomeno il
potere, nell’esercizio della loro attività di vigilanza e di indagine, di
«richiedere informazioni a qualsiasi persona, incluse quelle che intervengono
successivamente nella trasmissione degli ordini o nell’esecuzione delle operazioni
in questione, e ai loro mandanti e, se necessario, convocare e procedere
all’audizione di una persona».
Il combinato disposto
degli artt. 12 e 14 della direttiva sembrava, dunque, imporre agli Stati il
dovere di sanzionare in via amministrativa – e fatto salvo il possibile ricorso
a sanzioni penali per la medesima condotta (art. 14, paragrafo 1, della
direttiva in esame) – anche chi, avendo materialmente compiuto operazioni
qualificabili come illecite, o avendo dato l’ordine di compierle, si rifiutasse
di rispondere alle domande postegli dall’autorità di vigilanza in sede di
audizione, dalle quali potesse emergere la propria responsabilità per un
illecito il cui accertamento rientra nella sua competenza.
8.2.– Oggi, l’art.
30, paragrafo 1, lettera b), del regolamento (UE) n. 596/2014 stabilisce
analogamente che, fatti salvi le sanzioni penali e i poteri di controllo delle
autorità competenti a norma dell’art. 23, gli Stati membri provvedono affinché
le autorità competenti abbiano il potere di adottare le sanzioni amministrative
e altre misure amministrative adeguate per l’«omessa collaborazione o il
mancato seguito dato nell’ambito di un’indagine, un’ispezione o una richiesta
di cui all’articolo 23, paragrafo 2».
A sua volta,
l’art. 23, paragrafo 2, lettera b), del medesimo regolamento stabilisce che le
autorità competenti debbano disporre dei poteri «di richiedere o esigere
informazioni da chiunque, inclusi coloro che, successivamente, partecipano alla
trasmissione di ordini o all’esecuzione delle operazioni di cui trattasi,
nonché i loro superiori e, laddove opportuno, convocarli allo scopo di ottenere
delle informazioni».
Anche sulla base
delle normative dell’Unione attualmente vigenti, dunque, parrebbe sussistere a
carico dello Stato membro un dovere di sanzionare il silenzio serbato in sede
di audizione da parte di chi abbia posto in essere operazioni che integrano illeciti
sanzionabili dalla medesima autorità, ovvero da parte di chi abbia dato
l’ordine di compiere tali operazioni.
9.– Da tutto ciò
consegue che una eventuale dichiarazione di illegittimità costituzionale in
parte qua dell’art. 187-quinquiesdecies del d. lgs. n. 58 del 1998 rischierebbe
di porsi in contrasto con il diritto dell’Unione, e in particolare con
l’obbligo che discende oggi dall’art. 30, paragrafo 1, lettera b), del
regolamento (UE) n. 596/2014, obbligo di cui il menzionato art. 187-quinquesdecies
costituisce attuazione.
Peraltro, tale
obbligo – così come quello che discendeva in passato dall’art. 14, paragrafo 3,
della direttiva 2003/6/CE – potrebbe risultare di dubbia compatibilità con gli
artt. 47 e 48 CDFUE, i quali pure sembrano riconoscere un diritto fondamentale
dell’individuo a non contribuire alla propria incolpazione e a non essere
costretto a rendere dichiarazioni di natura confessoria, nei medesimi limiti
desumibili dall’art. 6 CEDU e dall’art. 24 della Costituzione italiana.
9.1.– A questa
Corte è nota la copiosa giurisprudenza della Corte di giustizia UE formatasi in
materia di diritto al silenzio e illeciti anticoncorrenziali. Tale
giurisprudenza riconosce, in linea di principio, la necessità di tutelare i
diritti della difesa dei soggetti che potrebbero essere incolpati di un
illecito, ma al tempo stesso afferma la sussistenza di un «obbligo di attiva
collaborazione» incombente su tali soggetti. Questi ultimi, secondo quanto
affermato dalla Corte di giustizia, non solo devono «tenere a disposizione
della Commissione tutte le informazioni riguardanti l’oggetto dell’indagine» (sentenza
18 ottobre 1989, in causa C-374/87, Orkem, paragrafo 27; nello stesso
senso, sentenza
29 giugno 2006, in causa C-301/04 P, SGL Carbon AG, paragrafo 40) e
«soddisfare le richieste della stessa di produzione di documenti preesistenti»,
ma sono altresì obbligati a «rispondere ai quesiti di mero fatto posti dalla
Commissione» (Tribunale di primo grado, sentenza
20 febbraio 2001, in causa I-112/98, Mannesmannröhren-Werke AG, paragrafi
77-78; nello stesso senso, sentenza
SGL Carbon AG, cit., paragrafi 44-49). Secondo tale giurisprudenza,
l’obbligo di risposta ai quesiti posti dalla Commissione non sarebbe contrario
al diritto di difesa, né al diritto a un processo equo, in quanto «nulla
impedisce al destinatario di dimostrare, in un momento successivo nell’ambito
del procedimento amministrativo o nel corso di un procedimento dinanzi al
giudice comunitario, nell’esercizio dei suoi diritti di difesa, che i fatti
esposti nelle risposte […] hanno un significato diverso da quello considerato
dalla Commissione» (Tribunale di primo grado, sentenza
20 febbraio 2001, in causa I-112/98, Mannesmannröhren-Werke AG, paragrafi
77-78; nello stesso senso, Corte di giustizia, 29
giugno 2006, in causa C-301/04 P, SGL Carbon AG, paragrafi 44-49). L’unico
limite al dovere di rispondere che incombe sulle imprese interessate è
rappresentato dal divieto per la Commissione di «imporre all’impresa l’obbligo
di fornire risposte attraverso le quali questa sarebbe indotta ad ammettere
l’esistenza della trasgressione, che deve invece essere provata dalla
Commissione» (Corte di giustizia, sentenza
18 ottobre 1989, in causa C-374/87, Orkem, paragrafo 35; nello stesso
senso, sentenza
24 settembre 2009, nelle cause riunite C-125/07 P, C-133/07 P, C-135/07 P e
C-137/07 P, Erste Group Bank AG, paragrafo 271; sentenza
25 gennaio 2007, in causa C-407/04 P, Dalmine, paragrafo 34; sentenza
29 giugno 2006, in causa C-301/04 P, SGL Carbon AG, paragrafo 42).
In tal modo, la
Corte di giustizia UE esclude che i diritti della difesa nell’ambito dei
procedimenti sanzionatori in materia di concorrenza possano considerarsi lesi
dall’obbligo a carico di un’impresa, che potrebbe successivamente essere
incolpata dell’illecito, di fornire informazioni inerenti a circostanze di
fatto suscettibili di essere utilizzate a fondamento di un’accusa formulabile
nei suoi confronti. Secondo tale giurisprudenza, una violazione dei diritti
della difesa parrebbe dunque sussistere soltanto laddove all’impresa vengano
poste domande miranti, in sostanza, a ottenerne la confessione relativa alla
commissione dell’illecito; fermo restando, però, il dovere dell’impresa, in
linea di principio, di rispondere alle domande della Commissione.
9.2.– Tuttavia,
tale giurisprudenza – formatasi con riguardo a persone giuridiche e non
fisiche, e in larga misura in epoca antecedente all’adozione della CDFUE e all’attribuzione
alla stessa del medesimo valore giuridico dei trattati – appare a questa Corte
difficilmente conciliabile con il carattere "punitivo” – riconosciuto dalla
stessa Corte di giustizia nella già ricordata sentenza
Di Puma – delle sanzioni amministrative previste nell’ordinamento italiano
in materia di abuso di informazioni privilegiate, che parrebbe suggerire la
necessità di riconoscere all’autore dell’illecito una garanzia analoga a quella
che gli viene riconosciuta in materia penale. È evidente, infatti, che ritenere
sussistente – al pari di quanto avviene nel diverso ambito degli illeciti
concorrenziali – un obbligo del trasgressore di rispondere a quesiti di mero
fatto, salva la possibilità di dimostrare successivamente che i fatti esposti
«hanno un significato diverso» da quello considerato dall’autorità competente,
si risolve in una limitazione significativa della portata del principio nemo
tenetur se ipsum accusare, il quale implica normalmente, in materia penale, il
diritto dell’interessato a non fornire alcun contributo dichiarativo – nemmeno
indiretto – alla propria incolpazione.
Tale
giurisprudenza, inoltre, non appare a questa Corte compiutamente in linea con
la poc’anzi analizzata giurisprudenza della Corte europea dei diritti
dell’uomo, che pare invece riconoscere un’estensione ben maggiore al diritto al
silenzio dell’incolpato, anche nell’ambito di procedimenti amministrativi
funzionali all’irrogazione di sanzioni di natura "punitiva”.
9.3.– D’altra
parte, la questione se gli artt. 47 e 48 CDFUE, alla luce della rammentata
giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo concernente l’art. 6
CEDU, impongano di riferire tale diritto anche a procedimenti amministrativi
suscettibili di sfociare nell’irrogazione di sanzioni di natura "punitiva”, non
risulta essere stata mai affrontata dalla Corte di giustizia UE.
Né il diritto
derivato dell’Unione europea ha offerto sinora una risposta a tale questione,
che è anzi stata lasciata intenzionalmente (considerando n. 11) aperta dalla
direttiva (UE) 2016/343 del Parlamento e del Consiglio, del 9 marzo 2016, sul
rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di
presenziare al processo nei procedimenti penali.
10.– Nel già
ricordato spirito di leale cooperazione tra corti nazionali ed europee nella
definizione di livelli comuni di tutela dei diritti fondamentali – obiettivo
questo di primaria importanza in materie oggetto di armonizzazione normativa,
come quella all’esame – questa Corte, prima di decidere sulla questione di
legittimità costituzionale ad essa sottoposta, ritiene necessario sollecitare
un chiarimento, da parte della Corte di giustizia UE, sull’esatta interpretazione
ed eventualmente sulla validità, alla luce degli artt. 47 e 48 CDFUE, dell’art.
14, paragrafo 3, della direttiva 2003/6/CE in quanto tuttora applicabile
ratione temporis, nonché dall’art. 30 paragrafo 1, lettera b), del regolamento
(UE) n. 596/2014.
10.1.– Anzitutto,
occorre chiarire se le disposizioni menzionate della direttiva 200376/CE e del
regolamento (UE) n. 596/2014 debbano essere interpretate nel senso che
consentono allo Stato membro di non sanzionare chi si rifiuti di rispondere a
domande dell’autorità competente dalle quali possa emergere la sua
responsabilità per un illecito punito con sanzioni penali o con sanzioni
amministrative di natura "punitiva”. Ciò anche in relazione all’inciso
«conformemente al[l’]ordinamento nazionale» degli Stati membri di cui all’art.
14, paragrafo 1, della direttiva, e all’inciso «conformemente al diritto
nazionale» di cui all’art. 30, paragrafo 1, del regolamento, incisi che
parrebbero far salva in ogni caso la necessità di rispettare gli standard di
tutela dei diritti fondamentali riconosciuti dagli ordinamenti degli Stati
membri, nell’ipotesi in cui essi fossero più elevati di quelli riconosciuti a
livello del diritto dell’Unione.
Nel caso di una
risposta affermativa a tale quesito, infatti, la dichiarazione di illegittimità
costituzionale in parte qua dell’art. 187-quinquesdecies del d.lgs. n. 58 del
1998 sollecitata dalla Corte di cassazione – fondata sul diritto fondamentale
della persona a non essere costretto a rendere dichiarazioni di natura confessoria
– non si porrebbe in contrasto con il diritto dell’Unione.
10.2.–
Nell’ipotesi, invece, di una risposta negativa da parte della Corte di
giustizia a tale primo quesito, si chiede alla stessa Corte stessa se le
disposizioni menzionate della direttiva 2003/6/CE e del regolamento (UE) n.
596/2014 siano compatibili con gli artt. 47 e 48 della Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione europea, anche alla luce della giurisprudenza della
Corte europea dei diritti dell’uomo in materia di art. 6 CEDU e delle tradizioni
costituzionali comuni agli Stati membri, nella misura in cui impongono di
sanzionare anche chi si rifiuti di rispondere a domande dell’autorità
competente dalle quali possa emergere la propria responsabilità per un illecito
punito con sanzioni penali e/o con sanzioni amministrative di natura
"punitiva”.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dispone di sottoporre alla Corte di
giustizia dell’Unione europea, in via pregiudiziale ai sensi e per gli effetti
dell’art. 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE), come
modificato dall’art. 2 del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007 e
ratificato dalla legge 2 agosto 2008, n. 130, le seguenti questioni
pregiudiziali:
a) se l’art. 14,
paragrafo 3, della direttiva 2003/6/CE, in quanto tuttora applicabile ratione
temporis, e l’art. 30, paragrafo 1, lettera b), del regolamento (UE) n.
596/2014 debbano essere interpretati nel senso che consentono agli Stati membri
di non sanzionare chi si rifiuti di rispondere a domande dell’autorità competente
dalle quali possa emergere la propria responsabilità per un illecito punito con
sanzioni amministrative di natura "punitiva”;
b) se, in caso di
risposta negativa a tale prima questione, l’art. 14, paragrafo 3, della
direttiva 2003/6/CE, in quanto tuttora applicabile ratione temporis, e l’art.
30, paragrafo 1, lettera b), del Regolamento (UE) n. 596/2014 siano compatibili
con gli artt. 47 e 48 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea,
anche alla luce della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo
in materia di art. 6 CEDU e delle tradizioni costituzionali comuni agli Stati
membri, nella misura in cui impongono di sanzionare anche chi si rifiuti di
rispondere a domande dell’autorità competente dalle quali possa emergere la
propria responsabilità per un illecito punito con sanzioni amministrative di
natura "punitiva”;
2) sospende il presente giudizio sino alla
definizione della suddetta questione pregiudiziale;
3) ordina la trasmissione di copia della
presente ordinanza, unitamente agli atti del giudizio, alla cancelleria della
Corte di giustizia dell’Unione europea.
Così deciso in
Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 6 marzo
2019.
F.to:
Giorgio LATTANZI,
Presidente
Francesco VIGANÒ,
Redattore
Roberto MILANA,
Cancelliere
Depositata in
Cancelleria il 10 maggio 2019.