SENTENZA N. 104
ANNO 2014
Commento alla decisione di
Flavio Guella
(per g.c.
del Forum di Quaderni
Costituzionali)
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Gaetano SILVESTRI Presidente
- Luigi MAZZELLA Giudice
- Sabino CASSESE ”
- Giuseppe TESAURO ”
- Paolo
Maria NAPOLITANO ”
- Giuseppe FRIGO ”
- Alessandro CRISCUOLO ”
- Paolo GROSSI ”
- Giorgio LATTANZI ”
- Aldo CAROSI ”
- Marta CARTABIA ”
- Sergio MATTARELLA ”
- Mario
Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
ha pronunciato la
seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 2, 3, 4, 7, 11 e 18 della legge
della Regione autonoma Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste 25 febbraio 2013, n. 5 (Modificazioni alla legge
regionale 7 giugno 1999, n. 12 recante "Principi e direttive per l’esercizio
dell’attività commerciale”), promosso dal
Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso
notificato il 9-14 maggio 2013, depositato in cancelleria il 14 maggio 2013 ed
iscritto al n. 60 del registro ricorsi 2013.
Visto l’atto di
costituzione della Regione autonoma Valle d’Aosta;
udito nell’udienza
pubblica dell’11 marzo 2014 il Giudice relatore Paolo Maria Napolitano;
uditi l’avvocato dello Stato Diana Ranucci per il Presidente
del Consiglio dei ministri e l’avvocato Francesco Saverio Marini per la Regione
autonoma Valle d’Aosta.
Ritenuto in fatto
1.– Con ricorso iscritto al n. 60 del registro ricorsi dell’anno
2013, il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha promosso
questioni di legittimità costituzionale aventi ad oggetto gli artt. 2, 3, 4, 7,
11 e 18 della legge della Regione autonoma Valle d’Aosta/Vallée
d’Aoste 25 febbraio 2013, n. 5 (Modificazioni alla
legge regionale 7 giugno 1999, n. 12 recante "Principi e direttive per
l’esercizio dell’attività commerciale”).
Il ricorrente premette che l’art. 3, primo comma, lettera a), della legge
costituzionale 26 febbraio 1948, n. 4 (Statuto speciale per la Valle d’Aosta),
attribuisce alla Regione potestà legislativa di integrazione e di attuazione
delle leggi della Repubblica in materia di commercio e che ai sensi dell’art. 2
del medesimo statuto, tale potestà deve esplicarsi nel rispetto della
Costituzione, dei principi dell’ordinamento giuridico della Repubblica e degli
obblighi internazionali. Osserva, inoltre, come in forza dell’art. 10 della legge
costituzionale 18 ottobre 2001,
n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione), la Regione deve ritenersi titolare della competenza residuale in materia
di commercio.
Ciò considerato, l’Avvocatura rileva
che l’art. 2 della legge reg. n. 5 del 2013 inserisce nella legge della Regione
autonoma Valle d’Aosta 7 giugno 1999, n. 12 (Principi e direttive per
l’esercizio dell’attività commerciale), l’art. 1-bis il quale attribuisce alla Giunta regionale, sentite le
associazioni delle imprese esercenti il commercio maggiormente rappresentative
in ambito regionale, il compito di individuare, sulla base di criteri oggettivi
e trasparenti, gli indirizzi per il conseguimento degli obiettivi di equilibrio
della rete distributiva, in rapporto alle diverse categorie e dimensioni degli
esercizi, con particolare riguardo alle grandi strutture di vendita, tenuto
conto della specificità dei singoli territori e dell’interesse dei consumatori
alla qualità, alla varietà, all’accessibilità e alla convenienza dell’offerta.
Ad avviso del ricorrente, tale
disposizione, sarebbe suscettibile di reintrodurre surrettiziamente limiti
all’accesso e all’esercizio di attività economiche dal momento che il criterio
in base al quale la Giunta deve determinare gli indirizzi («obiettivi di
equilibrio della rete distributiva») sarebbe talmente generico da lasciare a
detto organo una discrezionalità troppo ampia, che quindi renderebbe possibile
l’introduzione di vincoli quantitativi alla apertura di esercizi commerciali
non giustificati da esigenze di tutela della salute, dei lavoratori, dei beni
culturali e del territorio, richiamate dal comma 1-bis dell’art. 1 della legge reg. n. 12 del 1999.
Per tale ragione la disposizione,
potendo determinare una ingiustificata limitazione alla apertura di nuovi
esercizi commerciali, si porrebbe in contrasto con i principi di tutela della
concorrenza e del mercato, in violazione dell’art. 117, secondo comma,
lettera e), della Costituzione.
L’Avvocatura censura inoltre l’art. 3
della legge reg. n. 5 del 2013, il quale sostituisce l’art. 3 della legge reg.
n. 12 del 1999 che disciplina i requisiti di accesso e di esercizio delle
attività commerciali. La disposizione in parola prescrive che per lo
svolgimento di attività commerciale nel settore merceologico alimentare, anche
laddove effettuata nei confronti di una determinata cerchia di persone, è
necessario il possesso di uno dei requisiti professionali di cui all’art. 71,
comma 6, del decreto legislativo 26 marzo 2010, n. 59 (Attuazione della
direttiva 2006/123/CE relativa ai servizi nel mercato interno).
Tale ultima disposizione – rileva il
ricorrente – è stata modificata dall’art. 8 del decreto legislativo 6 agosto
2012, n. 147 (Disposizioni integrative e correttive del decreto legislativo 26
marzo 2010, n. 59, recante attuazione della direttiva 2006/123/CE, relativa ai
servizi nel mercato interno). Nella nuova formulazione, la norma statale non
richiede più per lo svolgimento di attività di vendita di prodotti alimentari e
di somministrazione di alimenti e bevande, effettuate non al pubblico ma nei
confronti di una cerchia ristretta di persone (spacci interni) il possesso di
determinati requisiti professionali.
La disposizione regionale continuando
invece a richiederne il possesso anche per tale tipologia di attività,
contrasterebbe con la normativa nazionale posta a tutela della concorrenza,
così violando l’art.
117, secondo comma, lettera e), Cost.
È impugnato, ancora, l’art. 4 della
legge reg. n. 5 del 2013 il quale introduce l’art. 3-bis nella legge reg. n. 12 del 1999. Esso disciplina gli orari di
apertura e chiusura delle attività di commercio al dettaglio, in armonia con
quanto disposto dall’art. 3, comma 1, lettera d-bis), del decreto-legge
4 luglio 2006, n. 223 (Disposizioni urgenti per il rilancio economico e
sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica,
nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all’evasione fiscale),
convertito, con modificazioni, dall’art. 1 della legge 4 agosto 2006, n. 248.
Tuttavia la disposizione regionale
esclude dal proprio ambito di operatività le attività commerciali che si
svolgono su area pubblica. In tal modo, ad avviso dell’Avvocatura, essa si
porrebbe in contrasto con quanto statuito dall’art. 28, comma 13, del decreto
legislativo 31 marzo 1998, n. 114 (Riforma della disciplina relativa al settore
del commercio, a norma dell’articolo 4, comma 4, della legge 15 marzo 1997, n.
59), come modificato dal d.lgs. n. 59 del 2010, in forza del quale eventuali
limiti temporali possono essere posti solo per esigenze di sostenibilità
ambientale o sociale e non già per ragioni economiche.
Pertanto, l’art. 4 sarebbe
illegittimo per violazione dell’art. 117, secondo comma,
lettera e), Cost. nella parte in cui esclude dalla applicazione delle norme di
liberalizzazione degli orari di apertura e chiusura delle attività commerciali
quelle su area pubblica.
Anche l’art. 7 della legge reg. n. 5
del 2013 violerebbe l’art.
117, secondo comma, lettera e), Cost.
Tale disposizione, nel sostituire l’art. 5 della legge reg. n. 12 del 1999, il
quale disciplina le medie e grandi strutture di vendita, al comma 4 stabilisce
che per i centri di vendita con superficie superiore a 1.500 metri quadrati il
rilascio dell’autorizzazione all’apertura, al trasferimento di sede e
all’ampliamento della superficie è subordinato al parere della struttura
regionale competente in materia di commercio, che attesta la conformità
dell’attività oggetto della richiesta agli indirizzi di cui all’art. 1-bis, introdotto dall’art. 2 della legge
in esame.
Anche questa norma presenterebbe i
medesimi vizi evidenziati con riguardo all’art. 1-bis della legge reg. n. 12 del 1999 dal momento che essa sarebbe
suscettibile di limitare ingiustificatamente l’apertura di nuovi esercizi
commerciali e di medie e/o grandi strutture di vendita, in violazione dei principi
di tutela della concorrenza e del mercato e quindi in violazione dell’art. 117,
secondo comma, lettera e), Cost.
È impugnato, altresì, l’art. 11 della
legge censurata il quale stabilisce il divieto, nei centri storici, di apertura
e trasferimento di sede delle grandi strutture commerciali. Tale divieto, il
quale è prescritto in via assoluta e riferito non solo all’ipotesi di apertura,
ma anche di trasferimento di sede, sarebbe eccessivamente restrittivo e,
quindi, anticoncorrenziale, in violazione dell’art. 117, secondo comma,
lettera e), Cost.
Ad avviso del ricorrente le
disposizioni della legge regionale incidono sulla sfera di «tutela della
concorrenza» di competenza esclusiva dello Stato. Osserva infatti l’Avvocatura
che «in materia di apertura degli esercizi pubblici di vendita al dettaglio, la
molteplicità di discipline a livello locale in materia non può che produrre
distorsione del mercato, con evidente danno per l’utenza».
Infine, è stato impugnato l’art. 18
della legge reg. n. 5 del 2013, il quale stabilisce che varie disposizioni
contenute nella medesima legge, ivi comprese quelle che inaspriscono le
sanzioni amministrative conseguenti a violazioni, si applicano anche ai
procedimenti in corso alla data di entrata in vigore della legge stessa.
Il ricorrente ritiene che tale
disposizione contrasterebbe con il principio tempus regit actum il
quale, nell’ambito del diritto sanzionatorio amministrativo, comporta che la sanzione
da irrogarsi sia quella applicabile sulla base della norma vigente nel tempo in
cui fu commesso l’illecito, sia in ipotesi di previsione più sfavorevole che
favorevole. Pertanto, essa violerebbe gli artt. 25 e 117, secondo comma,
lettera l), Cost. «con riferimento a quanto ribadito dalla disposizioni dell’art.
11 delle disposizioni sulla legge in generale (preleggi) anteposte al Codice
civile, in base al quale la legge non dispone che per l’avvenire».
2.– Si è costituita in giudizio la Regione autonoma Valle d’Aosta la quale ha
chiesto il rigetto delle censure.
Riguardo all’impugnato art. 2, la
difesa regionale osserva che si tratta di una norma meramente procedurale che
non pone alcun limite quantitativo alla apertura di nuovi esercizi commerciali,
ma attribuisce un mero potere di indirizzo alla Giunta regionale, al quale non
sarebbe connesso alcun potere sanzionatorio o inibitorio. Inoltre, il comma 1-bis dell’art. 1 della stessa legge
chiarisce che l’apertura, il trasferimento e l’ampliamento di superficie degli
esercizi commerciali non sono soggetti a contingenti numerici, a limiti
territoriali, a vincoli merceologici o di qualsiasi altra natura. D’altra
parte, l’eventuale violazione di questa norma sarebbe al più sindacabile
davanti al giudice amministrativo.
Inoltre, l’attribuzione di tale
potere di indirizzo alla Giunta sarebbe rispettoso della tutela della
concorrenza in quanto basato su parametri oggettivi.
Infine, le censure non terrebbero
conto delle competenze legislative della Regione in materia di commercio. La
disposizione impugnata non avrebbe finalità di regolare la concorrenza, ma solo
di assicurare una equilibrata razionalizzazione della rete distributiva in
rapporto alle varie categorie e dimensioni degli esercizi commerciali.
Riguardo alle censure concernenti
l’art. 3, la difesa regionale sostiene che l’abrogazione da parte del
legislatore nazionale delle norme che prescrivono il possesso dei requisiti di
cui all’art. 71, comma 6, del d.lgs. n. 59 del 2010 non comporterebbe
automaticamente l’illegittimità delle norme regionali che continuino a
prevederli, posto che la direttiva 12 dicembre 2006, n. 2006/123/CE (Direttiva
del Parlamento europeo e del Consiglio relativa ai servizi nel mercato
interno), lascerebbe libertà ai legislatori statali e regionali, di mantenere
la previsione di tali requisiti per il settore merceologico alimentare.
Inoltre, l’abrogazione dei requisiti
in parola da parte del legislatore statale avrebbe rimesso al legislatore
regionale, nell’esercizio delle sue competenze in materia di commercio, il
potere discrezionale di individuare i requisiti per esercitare una determinata
attività commerciale.
Infondata sarebbe, altresì, la
censura concernente l’art. 4 in quanto con tale disposizione il legislatore
regionale non avrebbe affatto disciplinato l’attività commerciale su area
pubblica, limitandosi solo ad escluderla dal suo ambito di applicazione. Per
tale ragione non avrebbe introdotto alcun limite al suo esercizio.
Ma anche a voler ritenere
diversamente, la Regione osserva come tale tipo di attività, essendo
strettamente correlata all’uso di una proprietà pubblica, richiederebbe una
disciplina speciale. Lo stesso art. 28, comma 13, del d.lgs. n. 114 del 1998
consentirebbe alle Regioni e agli enti locali di stabilire limiti e modalità di
utilizzo delle aree pubbliche in quanto a disponibilità limitata.
In ordine alle censure aventi ad
oggetto l’art. 7, la difesa richiama le argomentazioni già svolte con riguardo
alle censure relative all’art. 2 della legge regionale.
Quanto all’art. 11 della legge
regionale, la resistente osserva come tale disposizione, nel vietare nei centri
storici l’apertura o il trasferimento di sede delle grandi strutture
commerciali, costituirebbe esercizio non solo della potestà esclusiva in
materia di commercio, ma anche di quella in materia di pianificazione
territoriale e di governo del territorio prevista dallo statuto. Al riguardo,
la difesa regionale richiama la giurisprudenza della Corte di giustizia
dell’Unione europea (sentenza
22 ottobre 2009, in causa C-348/08, Choque Cabrera) che ha riconosciuto la legittimità di
limitazioni all’accesso al mercato giustificate da motivi imperativi di
interesse generale, purché non sorrette da ragioni puramente economiche.
Pertanto, le limitazioni poste dalla norma in parola sarebbero conformi alla
giurisprudenza comunitaria.
Infine, la censura avente ad oggetto
l’art. 18 sarebbe inammissibile o infondata.
Tale disposizione avrebbe infatti una
valenza solo procedimentale non introducendo alcun effetto retroattivo nella
disciplina sanzionatoria, in quanto le sanzioni in essa previste regolano le
fattispecie che si sono verificate sotto la sua vigenza.
3.– In prossimità dell’udienza
pubblica, la Regione ha depositato una memoria nella quale, oltre a ribadire le
proprie difese, ha richiamato il parere reso dall’Autorità garante della
concorrenza e del mercato in data 11 dicembre 2013, in ordine alla modifica
dell’art. 31, comma 2, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni
urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici),
convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 22 dicembre
2011, n. 214, ad opera dell’art. 30, comma 5-ter, del decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69 (Disposizioni urgenti
per il rilancio dell’economia), convertito, con modificazioni, dall’art. 1,
comma 1, della legge 9 agosto 2013, n. 98.
Si afferma che in tale parere
l’Autorità avrebbe chiarito che le Regioni potranno legittimamente introdurre
restrizioni per quanto riguarda le aree di insediamento di attività produttive
o commerciali, purché siano rispettose del principio di non discriminazione e
giustificate dal perseguimento di un interesse pubblico costituzionalmente
rilevante.
Considerato in diritto
1.– Il Presidente del Consiglio dei
ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, con il
ricorso indicato in epigrafe ha promosso questioni di legittimità
costituzionale degli artt. 2, 3, 4, 7, 11 e 18 della legge della Regione
autonoma Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste
25 febbraio 2013, n. 5 (Modificazioni alla legge regionale 7 giugno 1999, n. 12
recante "Principi e direttive per l’esercizio dell’attività commerciale”), in
riferimento agli artt. 25 e 117, secondo comma, lettere l) ed e), della
Costituzione.
Il ricorrente impugna innanzitutto
l’art. 2 della legge reg. n. 5 del 2013, il quale nell’inserire l’art. 1-bis nella legge della Regione autonoma
Valle d’Aosta 7 giugno 1999, n. 12 (Principi e direttive per l’esercizio
dell’attività commerciale), attribuisce alla Giunta regionale il compito di
individuare, sentite le associazioni delle imprese, gli indirizzi per il
conseguimento degli obiettivi di equilibrio della rete distributiva in rapporto
alle diverse categorie e alla dimensione degli esercizi, tenendo conto anche
dell’interesse dei consumatori alla qualità, alla varietà, all’accessibilità e
alla convenienza dell’offerta. Ritiene l’Avvocatura dello Stato che tale
disposizione violerebbe l’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost. in quanto riconoscerebbe alla
Giunta regionale una discrezionalità troppo ampia, suscettibile di limitare
ingiustificatamente l’apertura di nuovi esercizi commerciali e di medie e/o
grandi strutture di vendita per tutelare «non meglio specificati obiettivi di
equilibrio della rete distributiva».
L’Avvocatura censura, inoltre, l’art.
3 della legge reg. n. 5 del 2013, il quale ha sostituito l’art. 3 della legge
reg. n. 12 del 1999, stabilendo che anche per l’esercizio dell’attività
commerciale nel settore merceologico alimentare effettuata nei confronti di una
determinata cerchia di persone è necessario il possesso di uno dei requisiti
professionali previsti dall’art. 71, comma 6, del decreto legislativo 26 marzo
2010, n. 59 (Attuazione della direttiva 2006/123/CE relativa ai servizi nel
mercato interno). In tal modo la disposizione in parola violerebbe l’art. 117,
secondo comma, lettera e), Cost. in
quanto si porrebbe in contrasto con l’art. 71, comma 6, del d.lgs. n. 59 del
2010, il quale, a seguito delle modifiche introdotte dall’art. 8 del decreto
legislativo 6 agosto 2012, n. 147 (Disposizioni integrative e correttive del
decreto legislativo 26 marzo 2010, n. 59, recante attuazione della direttiva
2006/123/CE, relativa ai servizi nel mercato interno), non richiede più il
possesso di tali requisiti per le attività commerciali nel settore merceologico
alimentare effettuate nei confronti di una determinata cerchia di persone.
È altresì impugnato l’art. 4 della
legge reg. n. 5 del 2013, il quale, nell’inserire l’art. 3-bis nella legge reg. n. 12 del 1999, dispone che le attività
commerciali siano svolte senza il rispetto di orari di apertura o di chiusura e
senza obblighi di chiusura domenicale e festiva o della mezza giornata
infrasettimanale, «Fatta eccezione per l’attività di commercio su area
pubblica». Tale disposizione, nell’escludere dall’ambito della liberalizzazione
degli orari di apertura e chiusura il commercio su area pubblica, violerebbe
l’art. 117, secondo comma, lettera e),
Cost. ponendosi in contrasto con le disposizioni,
preposte alla tutela della concorrenza, contenute nell’art. 28, comma 13, del
decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 114 (Riforma della disciplina relativa al
settore del commercio, a norma dell’articolo 4, comma 4, della legge 15 marzo
1997, n. 59), per il quale sono ammissibili limitazioni solo per esigenze di
sostenibilità ambientale o sociale.
Ad avviso del ricorrente, anche l’art.
7 della legge reg. n. 5 del 2013 violerebbe l’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost. Esso infatti, nel sostituire
l’art. 5 della legge reg. n. 12 del 1999, introdurrebbe l’obbligo
dell’autorizzazione per l’apertura, il trasferimento di sede e l’ampliamento
della superficie di una media o grande struttura di vendita, e subordinerebbe
il rilascio dell’autorizzazione per i centri di vendita con superficie
superiore a 1.500 metri quadrati al parere della struttura regionale competente
in materia di commercio che attesta la conformità dell’attività agli indirizzi
individuati dalla Giunta regionale previsti dall’art. 1-bis. In tal modo la disposizione impugnata limiterebbe
ingiustificatamente l’apertura di nuovi esercizi commerciali e di medie e/o
grandi strutture di vendita.
È impugnato, altresì, l’art. 11 della
legge reg. n. 5 del 2013, il quale ponendo il divieto, nei centri storici, di
apertura e trasferimento di sede delle grandi strutture commerciali
contrasterebbe con l’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost. in quanto, introducendo una
preclusione assoluta e riferita non solo alla apertura ma anche al
trasferimento di sede, sarebbe eccessivamente restrittivo e dunque
anticoncorrenziale.
Infine il ricorrente censura l’art.
18 della legge reg. n. 5 del 2013, il quale stabilisce che le disposizioni
contenute nella legge medesima, ivi comprese quelle che inaspriscono le
sanzioni amministrative, trovano applicazione anche nei procedimenti in corso
alla data di entrata in vigore della legge stessa. Tale previsione
contrasterebbe con gli artt. 25 e 117, secondo comma, lettera l), Cost. in
quanto violerebbe il principio generale del tempus regit actum
ribadito anche dall’art. 11 delle preleggi in base al quale la legge non
dispone che per l’avvenire.
2.– La questione di legittimità costituzionale dell’art. 2 della legge reg.
Valle d’Aosta n. 5 del 2013 è fondata.
L’art. 1, comma 1-bis, della legge reg. n. 12 del 1999,
introdotto dall’art. 1, comma 2, della legge censurata, dispone che
«l’apertura, il trasferimento di sede e l’ampliamento della superficie di nuovi
esercizi commerciali sul territorio regionale non sono soggetti a contingenti
numerici, a limiti territoriali, a vincoli merceologici o di qualsiasi altra
natura, e possono essere vietati o limitati esclusivamente quando siano in
contrasto con la normativa in materia di tutela della salute, dei lavoratori,
dei beni culturali, del territorio e dell’ambiente, ivi incluso l’ambiente
urbano con particolare riferimento alla tutela e allo sviluppo equilibrato
dello spazio vitale urbano e alla necessità di uno sviluppo organico e
controllato del territorio e del traffico, secondo quanto stabilito […] dagli
indirizzi regionali volti a promuovere e a mantenere un mercato distributivo
aperto per la tutela della collettività dei consumatori».
Il ricorrente ha impugnato l’art. 2
della legge reg. n. 5 del 2013 il quale inserisce l’art. 1-bis nella legge reg. n. 12 del 1999. Esso dispone che: «La Giunta
regionale, con propria deliberazione e sentite le associazioni delle imprese
esercenti il commercio maggiormente rappresentative in ambito regionale,
definisce gli indirizzi di cui all’articolo 1, comma 1-bis, per la determinazione, sulla base di criteri e parametri
oggettivi e nell’osservanza dei vincoli di cui al medesimo articolo, degli
obiettivi di equilibrio della rete distributiva in rapporto alle diverse
categorie e alla dimensione degli esercizi, con particolare riguardo alle
grandi strutture di vendita, tenuto conto della specificità dei singoli territori
e dell’interesse dei consumatori alla qualità, alla varietà, all’accessibilità
e alla convenienza dell’offerta».
2.1.– La disposizione in parola incide sulla materia della «tutela della
concorrenza» spettante, ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., alla competenza esclusiva del
legislatore statale.
Com’è noto, infatti, la recente
giurisprudenza costituzionale ha affermato che la nozione di concorrenza
«riflette quella operante in ambito comunitario e comprende: a) sia gli
interventi regolatori che a titolo principale incidono sulla concorrenza, quali
le misure legislative di tutela in senso proprio, che contrastano gli atti ed i
comportamenti delle imprese che incidono negativamente sull’assetto
concorrenziale dei mercati e che ne disciplinano le modalità di controllo,
eventualmente anche di sanzione; b) sia le misure legislative di promozione,
che mirano ad aprire un mercato o a consolidarne l’apertura, eliminando
barriere all’entrata, riducendo o eliminando vincoli al libero esplicarsi della
capacità imprenditoriale e della competizione tra imprese, rimuovendo cioè, in
generale, i vincoli alle modalità di esercizio delle attività economiche (ex multis:
sentenze n. 270
e n. 45 del 2010,
n. 160 del 2009,
n. 430 e n. 401 del 2007)».
Inoltre, la Corte ha affermato che la materia «tutela della concorrenza», dato
il suo carattere finalistico, non è una materia di estensione certa o
delimitata, ma è configurabile come trasversale, «corrispondente ai mercati di
riferimento delle attività economiche incise dall’intervento e in grado di
influire anche su materie attribuite alla competenza legislativa, concorrente o
residuale, delle regioni» (così, tra le più recenti, sentenza n. 38 del
2013; si veda, inoltre, la sentenza n. 299 del
2012).
Dalla natura trasversale della
competenza esclusiva dello Stato in materia di «tutela della concorrenza» la
Corte ha tratto la conclusione «che il titolo competenziale
delle Regioni a statuto speciale in materia di commercio non è idoneo ad
impedire il pieno esercizio della suddetta competenza statale e che la
disciplina statale della concorrenza costituisce un limite alla disciplina che
le medesime Regioni possono adottare in altre materie di loro competenza»
(sentenze n. 38 del
2013 e n.
299 del 2012).
Espressione della competenza
legislativa esclusiva dello Stato in questa materia è stato ritenuto l’art. 31,
comma 2, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la
crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con
modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 22 dicembre 2011, n. 214. Tale
disposizione detta una disciplina di liberalizzazione e di eliminazione di
vincoli all’esplicarsi dell’attività imprenditoriale nel settore commerciale
stabilendo che «costituisce principio generale dell’ordinamento nazionale la
libertà di apertura di nuovi esercizi commerciali sul territorio senza
contingenti, limiti territoriali o altri vincoli di qualsiasi altra natura,
esclusi quelli connessi alla tutela della salute, dei lavoratori,
dell’ambiente, ivi incluso l’ambiente urbano, e dei beni culturali».
2.2.– Il censurato art. 2 della legge reg. n. 5 del 2013 conferisce alla Giunta
regionale un potere di indirizzo volto alla determinazione di obiettivi di
equilibrio della rete distributiva in rapporto alle diverse categorie e alla
dimensione degli esercizi. La previsione e la conformazione di tale potere è
tale da consentire alla Giunta di incidere e condizionare l’agire degli
operatori sul mercato, incentivando o viceversa limitando l’apertura degli
esercizi commerciali in relazione alle diverse tipologie merceologiche, alle
loro dimensioni, ovvero al territorio. È evidente, dunque, che la previsione in
esame, autorizzando la Giunta "a definire indirizzi” per assicurare
l’equilibrio della rete distributiva, consente alla Regione interventi che ben
possono risolversi in limiti alle possibilità di accesso sul mercato degli operatori
economici. Ma – come già rilevato da questa Corte – è ancor prima la stessa
attribuzione di un tale potere alla Giunta regionale in una materia devoluta
alla competenza legislativa esclusiva dello Stato a determinare la lesione
dell’art. 117, secondo comma, lettera e),
Cost. (sentenza n. 38 del 2013).
Pertanto deve essere dichiarata
l’illegittimità costituzionale dell’art. 2 della legge reg. n. 5 del 2013.
3.– Al riconoscimento della illegittimità costituzionale della disposizione
ora esaminata segue la fondatezza della censura avente ad oggetto l’art. 7
della legge reg. n. 5 del 2013 il quale disciplina le medie e grandi strutture
di vendita.
Il comma 1 di tale disposizione
subordina l’apertura, il trasferimento di sede e l’ampliamento della superficie
di una media o grande struttura di vendita ad apposita «autorizzazione
rilasciata, nel rispetto delle determinazioni assunte nel piano regolatore
generale comunale urbanistico e paesaggistico (PRG) e degli indirizzi di cui
all’articolo 1-bis, dallo sportello
unico competente per territorio ai sensi dell’articolo 10 della legge regionale
n. 12/2011».
Il comma 4, impugnato dallo Stato,
stabilisce che: «Limitatamente alle strutture con superficie di vendita
complessiva superiore a 1.500 metri quadrati, l’autorizzazione di cui al comma
1 è subordinata al parere della struttura regionale competente in materia di
commercio, rilasciato entro trenta giorni dalla richiesta e attestante la conformità
agli indirizzi di cui all’articolo 1-bis.
Decorso inutilmente il predetto termine, il parere si intende favorevolmente
espresso».
Tale disposizione, dunque, fa
dipendere il rilascio dell’autorizzazione alla apertura delle indicate
strutture di vendita dall’attestazione della conformità agli indirizzi definiti
dalla Giunta regionale ai sensi dell’art. 1-bis
della legge reg. n. 12 del 1999, introdotto – come si è visto – dall’art. 2
della legge reg. n. 5 del 2013. La norma impugnata rende evidente che – a
differenza di quanto sostenuto dalla difesa regionale, secondo la quale il
potere di indirizzo sarebbe sfornito di potestà inibitoria o sanzionatoria –
tale potere incide direttamente sulla possibilità di accesso al mercato degli
operatori economici, dal momento che preclude l’apertura, il trasferimento di
sede e l’ampliamento degli esercizi commerciali in esso previsti laddove non
risultino conformi agli indirizzi fissati dalla Giunta.
Pertanto, stante il nesso che lega la
disposizione in questione a quella di cui all’art. 2 sopra esaminata,
all’accoglimento della censura relativa a questa norma consegue l’illegittimità
costituzionale anche dell’art. 7 impugnato, nella parte in cui subordina il
rilascio dell’autorizzazione in esso prevista alla attestazione del rispetto
degli indirizzi di cui all’art. 1-bis
della legge reg. n. 12 del 1999.
4.– Il ricorrente impugna, altresì, l’art. 3 della legge reg. n. 5 del 2013 il
quale sostituisce l’art. 3 della legge reg. n. 12 del 1999 che disciplina i
requisiti di accesso e di esercizio delle attività commerciali.
Oggetto di censura è il comma 5 il
quale stabilisce: «Oltre a quanto previsto nei commi 1, 2, 3 e 4, l’esercizio,
in qualsiasi forma, di un’attività di commercio relativa al settore
merceologico alimentare, anche se effettuata nei confronti di una cerchia
determinata di persone, è consentito a coloro che siano in possesso, alla data
di presentazione della segnalazione certificata di inizio attività (SCIA) di cui
all’articolo 22 della legge regionale 6 agosto 2007, n. 19 (Nuove disposizioni
in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti
amministrativi), o della domanda per il rilascio dell’autorizzazione, anche di
uno dei requisiti professionali elencati dall’articolo 71, comma 6, del D.Lgs.
59/2010».
Lo Stato censura la disposizione
regionale per violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost. in
quanto si porrebbe in contrasto con l’art. 71, comma 6, del d.lgs. n. 59 del 2010
che esclude la necessità del possesso dei requisiti in esso previsti nel caso
in cui l’attività sia esercitata nei confronti di una cerchia determinata di
persone.
4.1.– La disposizione statale richiamata dal ricorrente, e cui la norma
regionale censurata rinvia, individua i requisiti di accesso e di esercizio
delle attività commerciali. Con specifico riguardo all’attività di commercio al
dettaglio relativa al settore merceologico alimentare o di un’attività di
somministrazione di alimenti e bevande è richiesto il possesso di uno dei
seguenti requisiti professionali:
«a) avere
frequentato con esito positivo un corso professionale per il commercio, la
preparazione o la somministrazione degli alimenti, istituito o riconosciuto
dalle regioni o dalle province autonome di Trento e di Bolzano;
b) avere, per almeno due anni, anche
non continuativi, nel quinquennio precedente, esercitato in proprio attività
d’impresa nel settore alimentare o nel settore della somministrazione di
alimenti e bevande o avere prestato la propria opera, presso tali imprese, in
qualità di dipendente qualificato, addetto alla vendita o all’amministrazione o
alla preparazione degli alimenti, o in qualità di socio lavoratore o in altre
posizioni equivalenti o, se trattasi di coniuge, parente o affine, entro il
terzo grado, dell’imprenditore, in qualità di coadiutore familiare, comprovata
dalla iscrizione all’Istituto nazionale per la previdenza sociale;
c) essere in possesso di un diploma
di scuola secondaria superiore o di laurea, anche triennale, o di altra scuola
ad indirizzo professionale, almeno triennale, purché nel corso di studi siano
previste materie attinenti al commercio, alla preparazione o alla
somministrazione degli alimenti».
Nel testo originario la norma statale
richiedeva espressamente il possesso di uno di tali requisiti anche nel caso in
cui l’attività fosse svolta «nei confronti di una cerchia determinata di
persone». L’art. 8 del d.lgs. n. 147 del 2012, modificando l’art. 71, comma 6,
del d.lgs. n. 59 del 2010 ha soppresso tale inciso di tal che la norma statale
non richiede più il possesso dei suddetti requisiti per tale tipologia di
attività.
A differenza della disposizione
statale ora esaminata, l’art. 3 della legge reg. n. 5 del 2013 − pur se
tale legge è stata emanata successivamente alla modifica dell’art. 71 del
d.lgs. n. 59 del 2010 − continua a richiedere il possesso degli stessi
requisiti previsti dalla norma statale anche nel caso in cui l’attività di
commercio nel settore merceologico alimentare sia svolta nei confronti di una
cerchia determinata di persone.
4.2.– La censura proposta avverso tale disposizione legislativa non è fondata.
I requisiti richiesti dall’art. 71,
comma 6, del d.lgs. n. 59 del 2010 consistono – come si è visto – nell’aver
frequentato un corso professionale ad hoc,
ovvero nella pregressa specifica esperienza nel settore alimentare per un certo
periodo di tempo, ovvero ancora nel possesso di un titolo per il cui
conseguimento sia previsto lo studio di materie attinenti al commercio, alla preparazione
o alla somministrazione degli alimenti.
Tali requisiti, considerata la loro
natura, appaiono funzionali ad assicurare che coloro che svolgono attività nel
settore merceologico alimentare siano dotati di una specifica preparazione ed
esperienza professionale all’evidente scopo di salvaguardare la salute dei
consumatori in un settore delicato e fondamentale qual è quello alimentare,
assicurando che coloro che maneggiano, preparano e commerciano alimenti abbiano
maturato una adeguata professionalità. Questa conclusione è avvalorata dalla
considerazione che l’art. 3 del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223
(Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento
e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di
entrate e di contrasto all’evasione fiscale), convertito, con modificazioni,
dall’art. 1 della legge 4 agosto 2006, n. 248, stabilisce che, «al fine di
garantire la libertà di concorrenza secondo condizioni di pari opportunità ed
il corretto ed uniforme funzionamento del mercato, nonché di assicurare ai
consumatori finali un livello minimo ed uniforme di condizioni di accessibilità
all’acquisto di prodotti e servizi sul territorio nazionale», le attività
commerciali sono svolte senza limiti e prescrizioni, tra cui il possesso di
requisiti professionali soggettivi. Tuttavia, poi, fa espressamente «salvi
quelli riguardanti il settore alimentare e della somministrazione degli
alimenti e delle bevande» (art. 3, comma 1, lettera a). Ciò attesta che lo stesso legislatore statale ha ritenuto che i
requisiti in esame non incidano sul profilo della liberalizzazione del mercato,
apparendo necessari per soddisfare esigenze di sicurezza alimentare.
Tali considerazioni portano ad
escludere che la norma impugnata attenga alla materia della «tutela della
concorrenza» ponendo limiti o barriere all’accesso al mercato con effetti
restrittivi della concorrenza. Essa, piuttosto, concerne la materia della
«tutela della salute», attribuita dall’art. 117, terzo comma, Cost. alla competenza legislativa concorrente delle Regioni,
ponendosi quale misura volta a salvaguardare la salute dei consumatori.
Pertanto, l’art. 3 impugnato, nel
richiedere il possesso dei requisiti di cui all’art. 71, comma 6, del d.lgs. n.
59 del 2010 anche laddove le attività nel settore merceologico alimentare siano
svolte nei confronti di una cerchia limitata di persone, costituisce
espressione della potestà concorrente della Regione ai sensi dell’art. 117,
terzo comma, Cost., non limitata da principi
fondamentali della legislazione statale che vengano ad impedirla.
5.– L’art. 4 della legge reg. n. 5 del 2013, il quale inserisce l’art. 3-bis nella legge reg. n. 12 del 1999,
dispone che le attività commerciali siano svolte senza il rispetto di orari di
apertura o di chiusura e senza obblighi di chiusura domenicale e festiva o
della mezza giornata infrasettimanale, «Fatta eccezione per l’attività di
commercio su area pubblica».
Il ricorrente sostiene che tale
disposizione, nell’escludere dalla applicazione delle norme di liberalizzazione
degli orari di apertura e chiusura delle attività commerciali quelle su area
pubblica, si porrebbe in contrasto con l’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost. in
quanto violerebbe le disposizioni, preposte alla tutela della concorrenza,
contenute nell’art. 28, comma 13, del d.lgs. n. 114 del 1998 per il quale sono
ammissibili limitazioni solo per esigenze di sostenibilità ambientale o
sociale.
5.1.– La questione è fondata.
Occorre al riguardo considerare che
il profilo degli orari e dei giorni di apertura e chiusura degli esercizi
commerciali è disciplinato dall’art. 3, comma 1, lettera d-bis) del d.l. n. 223
del 2006, come modificato dall’art. 31 del d.l. n. 201 del 2011, il quale
stabilisce che «al fine di garantire la libertà di concorrenza […] le attività
commerciali, come individuate dal decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 114»,
sono svolte senza il rispetto – tra l’altro – di orari di apertura e chiusura,
dell’obbligo della chiusura domenicale e festiva, nonché di quello della mezza
giornata di chiusura infrasettimanale.
Nell’interpretare la citata
normativa, questa Corte ha ritenuto «che essa attui un principio di
liberalizzazione, rimuovendo vincoli e limiti alle modalità di esercizio delle
attività economiche, e ha così proseguito: "L’eliminazione dei limiti agli
orari e ai giorni di apertura al pubblico degli esercizi commerciali favorisce,
a beneficio dei consumatori, la creazione di un mercato più dinamico e più
aperto all’ingresso di nuovi operatori e amplia la possibilità di scelta del
consumatore. Si tratta, dunque, di misure coerenti con l’obiettivo di
promuovere la concorrenza, risultando proporzionate allo scopo di garantire
l’assetto concorrenziale del mercato di riferimento relativo alla distribuzione
commerciale” (sentenza
n. 299 del 2012 […])» (sentenza n. 38 del
2013).
Ora, tra le attività commerciali
disciplinate dal d.lgs. n. 114 del 1998, cui l’art. 3 del d.l. n. 223 del 2006
fa riferimento, vi è anche quella che si svolge su aree pubbliche (artt. 27 e
seguenti) di tal che, anche per queste il legislatore statale ha inteso
espressamente eliminare vincoli in ordine agli orari di apertura e chiusura
dell’attività.
Le uniche limitazioni che è possibile
porre allo svolgimento dell’attività di commercio su area pubblica sono quelle
individuate dall’art. 28, comma 13, del d.lgs. n. 114 del 1998, come modificato
dal d.lgs. n. 59 del 2010, riconducibili ad esigenze di sostenibilità
ambientale e sociale, a finalità di tutela delle zone di pregio artistico,
storico, architettonico e ambientale, nonché quelle individuate dall’art. 31
del d.l. n. 201 del 2011.
L’art. 4 della legge reg. n. 5 del
2013, pur eliminando i vincoli alla apertura degli esercizi commerciali,
eccettua espressamente dal suo ambito di applicazione le attività di commercio
su area pubblica. Il chiaro tenore letterale della disposizione consente di ritenere
che il principio di liberalizzazione degli orari in essa affermato non si
applichi all’attività commerciale su area pubblica. In tal modo però, essa si
presta a reintrodurre limiti e vincoli in contrasto con la normativa statale di
liberalizzazione, così invadendo la potestà legislativa esclusiva dello Stato
in materia di tutela della concorrenza e violando, quindi, l’art. 117, secondo
comma, lettera e), Cost.
Pertanto, deve essere dichiarata
l’illegittimità costituzionale dell’art. 4 nella parte in cui, nel disporre che
le attività commerciali sono svolte senza il rispetto di orari di apertura o di
chiusura e senza obblighi di chiusura domenicale e festiva o della mezza
giornata infrasettimanale, esclude l’attività di commercio su area pubblica.
6.– È impugnato l’art. 11 della legge reg. n. 5 del 2013, il quale inserisce
nell’art. 9 della legge reg. n. 12 del 1999 il comma 2-bis disponendo che «In attuazione dei principi previsti
dall’articolo 1, comma 1-bis, nei
centri storici sono vietate l’apertura e il trasferimento di sede delle grandi
strutture di vendita».
Il ricorrente sostiene che la
previsione di un divieto assoluto tanto alla apertura quanto al trasferimento
di sede di dette strutture di vendita nei centri storici, incidendo nella
materia della «tutela della concorrenza», violerebbe l’art. 117, secondo comma,
lettera e), Cost. in
quanto sarebbe eccessivamente restrittivo e dunque anticoncorrenziale.
Ad avviso della difesa regionale la
norma impugnata costituirebbe esercizio legittimo della potestà legislativa
esclusiva regionale in materia di «commercio», nonché in materia di
pianificazione territoriale prevista dall’art. 2, primo comma, lettera g), della legge costituzionale 26
febbraio 1948, n. 4 (Statuto speciale per la Valle d’Aosta). L’esercizio di
tale potestà sarebbe reso necessario dalle peculiari caratteristiche
territoriali della Regione e «dalla limitata ampiezza degli spazi vitali». La
difesa regionale ha inoltre richiamato la giurisprudenza della Corte di
giustizia dell’Unione europea (sentenza
11 marzo 2010, in causa C-384/08, Attanasio Group, e sentenza
24 marzo 2011, in causa C-400/08, Commissione europea contro Regno di Spagna)
che avrebbe riconosciuto la legittimità di limitazioni dell’accesso al mercato
giustificate da motivi imperativi di interesse generale, purché non sorrette da
ragioni puramente economiche. Infine, la Regione ha richiamato il parere reso
dall’Autorità garante della concorrenza in data 11 dicembre 2013, sull’art. 31,
comma 2, del d.l. n. 201 del 2011, nel quale avrebbe riconosciuto la
legittimità di misure regionali che introducono restrizioni relativamente alle
aree di insediamento di attività produttive e commerciali, purché rispettose
del principio di non discriminazione.
6.1.– La censura è fondata.
Occorre preliminarmente osservare
come la evocata competenza primaria in materia di urbanistica deve in ogni caso
svolgersi, ai sensi dell’art. 2, primo comma, lettera g), dello statuto regionale, «In armonia con la Costituzione e i
principi dell’ordinamento giuridico della Repubblica e col rispetto degli
obblighi internazionali e degli interessi nazionali, nonché delle norme
fondamentali delle riforme economico-sociali della Repubblica». Inoltre, questa
Corte ha osservato come il disposto dell’art. 31, comma 2, del d.l. n. 201 del
2011, il quale sancisce la libertà di apertura di nuovi esercizi commerciali
sul territorio, senza contingenti, limiti territoriali o altri vincoli di
qualsiasi natura, «deve essere ricondotto nell’ambito della tutela della
concorrenza, rientrante nella competenza legislativa esclusiva dello Stato, di
cui all’art. 117, secondo comma, lettera e),
Cost., norma in presenza della quale i titoli competenziali delle Regioni,
anche a statuto speciale, in materia di commercio e di governo del territorio
non sono idonei ad impedire l’esercizio della detta competenza statale (ex multis: sentenza n. 299 del
2012 citata, punto 6.1. del Considerato in diritto), che assume quindi carattere
prevalente» (sentenza
n. 38 del 2013; si veda, altresì, la sentenza n. 25 del
2009).
Non pertinente appare, poi, il
richiamo alla giurisprudenza comunitaria fatto dalla difesa regionale. Come già
affermato da questa Corte, la sentenza
della Corte di giustizia dell’Unione europea in data 24 marzo 2011 (in causa
C-400/08) «riguarda, in riferimento a grandi esercizi commerciali,
restrizioni alla libertà di stabilimento, che siano applicabili senza
discriminazioni basate sulla cittadinanza. Tali restrizioni possono essere
giustificate da motivi imperativi d’interesse generale, a condizione che siano
idonee a garantire la realizzazione dell’obiettivo perseguito e non vadano
oltre quanto necessario al raggiungimento dello stesso. Fra i motivi imperativi
riconosciuti dalla Corte figurano, tra gli altri, la protezione dell’ambiente e
la razionale gestione del territorio. Come si vede, si tratta di una
fattispecie diversa da quella qui in esame, sia per la diversità del principio
evocato (libertà di stabilimento e non tutela della concorrenza), sia per le
caratteristiche di fatto delle due vicende» (sentenza n. 38 del
2013).
Le stesse argomentazioni possono
essere svolte anche nel caso in esame.
L’art. 31 del d.l. n. 201 del 2011
consente di introdurre limiti alla apertura di nuovi esercizi commerciali per
ragioni di tutela dell’ambiente «ivi incluso l’ambiente urbano» e riconosce
alle Regioni la possibilità di prevedere «anche aree interdette agli esercizi
commerciali, ovvero limitazioni ad aree dove possano insediarsi attività produttive
e commerciali». Tuttavia la disposizione statale stabilisce che ciò debba
avvenire «senza discriminazioni tra gli operatori».
Lo stesso parere dell’Autorità
garante della concorrenza e del mercato citato dalla difesa regionale, nel
richiamare la possibilità riconosciuta alle Regioni dalla normativa statale di
introdurre restrizioni con riguardo alle aree di insediamento delle attività
commerciali, afferma che ciò può avvenire a condizione del «rigoroso rispetto
dei principi di stretta necessità e proporzionalità della limitazione, oltre
che del principio di non discriminazione».
L’art. 11 censurato, nel vietare con
legge l’apertura e il trasferimento nei centri storici delle grandi strutture
di vendita, preclude del tutto e a priori
detta possibilità. Tale divieto, proprio per la sua assolutezza, costituisce
una limitazione alla libertà di apertura di nuovi esercizi commerciali e viene
ad incidere «direttamente sull’accesso degli operatori economici al mercato e,
quindi, si risolve in un vincolo per la libertà di iniziativa di coloro che
svolgono o intendano svolgere attività di vendita» (sentenza n. 38 del
2013).
Per tali ragioni, deve essere
dichiarata l’illegittimità costituzionale di tale disposizione.
7.– Il ricorrente ha, infine, impugnato l’art. 18 della legge reg. n. 5 del
2013, il quale stabilisce che «Le disposizioni di cui agli articoli 1, 1-bis, 3, 4, 4-bis, 5, commi 1, 2 e 4, 9 e 11-ter
della legge regionale n. 12/99, come modificati, sostituiti o inseriti dalla
presente legge, si applicano anche ai procedimenti autorizzatori
in corso alla data di entrata in vigore della medesima legge».
L’Avvocatura dello Stato sostiene che
la norma impugnata farebbe riferimento anche alle disposizioni che inaspriscono
sanzioni amministrative e che pertanto, stabilendo che esse si applicano anche
ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore della legge medesima,
si porrebbe in contrasto con il principio tempus regit actum in
virtù del quale la sanzione da irrogarsi sarebbe quella applicabile in base
alla norma vigente nel tempo in cui fu commesso l’illecito. Conseguentemente,
l’articolo impugnato violerebbe gli artt. 25 e 117, secondo comma, lettera l), Cost. con
riferimento a quanto ribadito dall’art. 11 delle Disposizioni sulla legge in
generale, secondo cui la legge non dispone che per l’avvenire.
La difesa regionale sostiene che le
censure sarebbero infondate in quanto l’art. 18 avrebbe valenza solo
procedimentale e non avrebbe invece alcun effetto retroattivo.
7.1.– Preliminarmente deve essere dichiarata l’inammissibilità della censura
formulata in relazione all’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost. dal
momento che tale parametro risulta meramente evocato dal ricorrente il quale
non ha tuttavia in alcun modo motivato la censura (ex plurimis, sentenza n. 272 del
2013).
7.2.– La questione sollevata con riferimento all’art. 25 Cost. è fondata.
Benché il ricorrente evochi il
principio tempus regit actum, dal contenuto della censura appare chiaro che in
realtà lamenta la violazione del principio di irretroattività delle
disposizioni che introducono sanzioni amministrative.
L’esame di tale censura deve prendere
le mosse dalla sentenza
n. 196 del 2010 nella quale questa Corte ha affermato che dalla
giurisprudenza della Corte di Strasburgo formatasi sull’interpretazione degli
artt. 6 e 7 della CEDU, si ricava «il principio secondo il quale tutte le
misure di carattere punitivo-afflittivo devono essere soggette alla medesima
disciplina della sanzione penale in senso stretto».
Detto principio è peraltro desumibile
anche dall’art. 25, secondo comma, Cost., «il quale – data l’ampiezza della sua
formulazione («Nessuno può essere punito […]») – può essere interpretato nel
senso che ogni intervento sanzionatorio, il quale non abbia prevalentemente la
funzione di prevenzione criminale (e quindi non sia riconducibile – in senso
stretto – a vere e proprie misure di sicurezza), è applicabile soltanto se la
legge che lo prevede risulti già vigente al momento della commissione del fatto
sanzionato» (sempre sentenza n. 196 del
2010).
Analogo principio è sancito altresì
dalla disciplina generale relativa agli illeciti amministrativi prevista dalla
legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), la quale,
all’art. 1, pone la regola per cui nessuno può essere assoggettato a sanzioni
amministrative se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima
della commissione della violazione; tale regola costituisce un principio
generale di quello specifico sistema.
L’art. 18 impugnato, nell’indicare le
varie disposizioni da esso introdotte, le quali devono avere applicazione anche
ai procedimenti in corso, richiama espressamente l’art. 11-ter della legge reg. n. 12 del 1999 introdotto dall’art. 12, comma
1, della legge reg. n. 5 del 2013.
Tale disposizione prevede
l’irrogazione della sanzione amministrativa pecuniaria del pagamento di una
somma di denaro da euro 1.800 a euro 6.000 per coloro che esercitino le
attività commerciali di cui all’art. 4, senza aver presentato la SCIA.
Assoggetta inoltre alla sanzione amministrativa del pagamento della somma da
euro 800 a euro 3.000 coloro che non comunichino ogni variazione relativa a
stati, fatti, condizioni e titolarità indicati nella SCIA entro trenta giorni
dal suo verificarsi.
La disposizione censurata, dunque,
prevede la sanzione amministrativa anche per comportamenti posti in essere
anteriormente alla sua entrata in vigore, in tal modo violando il principio di
irretroattività sancito dall’art. 25 Cost.
Conseguentemente, deve essere
dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 18 della legge reg. n. 5
del 2013 nella parte in cui stabilisce che le disposizioni modificate o
inserite da tale legge, le quali prevedono sanzioni amministrative, si applicano
ai procedimenti in corso alla data della sua entrata in vigore.
per
questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 2 e dell’art. 11
della legge della Regione autonoma Valle d’Aosta/Vallée
d’Aoste 25 febbraio 2013, n. 5 (Modificazioni alla
legge regionale 7 giugno 1999, n. 12 recante "Principi e direttive per
l’esercizio dell’attività commerciale”);
2) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 4 della legge
reg. Valle d’Aosta n. 5 del 2013 nella parte in cui esclude dal proprio ambito
di applicazione l’attività di commercio su area pubblica;
3) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 7 della legge
reg. Valle d’Aosta n. 5 del 2013 nella parte in cui subordina il rilascio
dell’autorizzazione in esso prevista al rispetto degli indirizzi di cui
all’art. 1-bis della legge della
Regione autonoma Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste 7 giugno 1999, n. 12 (Principi e direttive per
l’esercizio dell’attività commerciale);
4) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 18 della legge
reg. Valle d’Aosta n. 5 del 2013 nella parte in cui stabilisce che le
disposizioni modificate o inserite da tale legge le quali prevedono sanzioni
amministrative si applicano ai procedimenti in corso alla data della sua entrata
in vigore;
5) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 18 della legge reg. Valle d’Aosta n. 5 del 2013, promossa, in
riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione, dal Presidente del Consiglio dei ministri
con il ricorso indicato in epigrafe;
6) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 3 della legge reg. Valle d’Aosta n. 5 del 2013, promossa, in
riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., dal Presidente del Consiglio
dei ministri con il ricorso indicato in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della
Consulta, il 14 aprile 2014.
F.to:
Gaetano SILVESTRI, Presidente
Paolo Maria NAPOLITANO, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 18 aprile 2014.