SENTENZA N. 276
ANNO 2016
Commenti alla
decisione di
I. Giacomo Menegus, La sospensione
di diritto ex "legge Severino” supera ancora una volta il vaglio della Corte.
Nota a margine della sent. n. 276/2016, per g.c. della Rivista
AIC
II. Stefano Bissaro, La Corte costituzionale alle prese con la
giurisprudenza della Corte Edu: una prova
difficile (e forse neppure necessitata) in materia di incandidabilità, per g. c. della Rivista
AIC
III. Valentina Pupo, Sospensione
di diritto dalle cariche elettive: la Corte conferma l’infondatezza delle
questioni di legittimità costituzionale sulla
"legge Severino”, per g.c. di Forum
di Quaderni Costituzionali
IV. Francesco Viganò, La
Consulta respinge le censure di illegittimità costituzionale della c.d. legge
Severino in materia di sospensione dalle cariche politiche in conseguenza di
sentenze di condanna, per g.c. di Diritto Penale Contemporaneo
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
-
Paolo
GROSSI
Presidente
-
Alessandro
CRISCUOLO
Giudice
-
Giorgio
LATTANZI
”
-
Aldo
CAROSI
”
-
Marta
CARTABIA
”
-
Mario Rosario
MORELLI
”
-
Giancarlo
CORAGGIO
”
-
Giuliano
AMATO
”
-
Silvana
SCIARRA
”
-
Daria
de
PRETIS
”
-
Nicolò
ZANON
”
-
Franco
MODUGNO
”
-
Giulio
PROSPERETTI
”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale
degli artt. 1, comma 1, lettera b), 7, comma 1, lettera c), 8,
comma 1, e 11, comma 1, lettera a), del decreto
legislativo 31 dicembre 2012, n. 235 (Testo unico delle disposizioni in materia
di incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo
conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi, a norma
dell’articolo 1, comma 63, della legge 6 novembre 2012, n. 190), promossi
dalla Corte d’appello di Bari con ordinanza del 27 gennaio 2015, dal Tribunale
ordinario di Napoli con ordinanza del 22 luglio 2015 e dal Tribunale ordinario
di Messina con ordinanza del 14 settembre 2015, rispettivamente iscritte ai nn. 278
e 323
del registro ordinanze 2015 e 11 del
registro ordinanze 2016 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica nn. 49 e 52, prima serie speciale, dell’anno 2015 e n. 5, prima
serie speciale, dell’anno 2016.
Visti gli atti di costituzione di F.A., di
V.D.L., di S.A., di F.M., di V.C. ed altri, del Movimento Difesa del Cittadino
ed altri, nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei
ministri;
udito nell’udienza pubblica del 4 ottobre 2016
e nella camera di consiglio del 5 ottobre il Giudice relatore Daria de Pretis;
uditi gli avvocati Vittorio Manes per F.A.,
Lorenzo Lentini per V.D.L., Gianluigi Pellegrino per il Movimento Difesa del
Cittadino ed altro e per G.G., Arnaldo Miglino per
F.M., Stefania Marchese per V.C. ed altri e gli avvocati dello Stato Gabriella
Palmieri, Agnese Soldani e Massimo Giannuzzi per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1.– La
Corte d’appello di Bari, prima sezione civile, con ordinanza del 27 gennaio
2015, ha sollevato tre questioni di legittimità costituzionale: la prima con
riferimento all’art. 8, comma 1, del decreto legislativo 31 dicembre 2012, n.
235 (Testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilità e di divieto
di ricoprire cariche elettive e di Governo conseguenti a sentenze definitive di
condanna per delitti non colposi, a norma dell’articolo 1, comma 63, della
legge 6 novembre 2012, n. 190), c.d. "legge Severino”, perché, in violazione
degli articoli 76
e 77 della
Costituzione, dispone la sospensione dalle cariche degli eletti al
Consiglio regionale a seguito di condanna non definitiva, «così eccedendo i
limiti della delega conferita dall’art. 1, comma 64 lettera m) della Legge n.
190 del 6.XI.2012»; la seconda, con riferimento al «comma primo dell’art. 7
della Legge 6.XI.2012 n. 190» e di nuovo con riferimento all’art. 8, comma 1,
del d.lgs. n. 235 del 2012, in quanto, in violazione degli artt. 25, secondo comma,
e 117, primo comma,
Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 7 della Convenzione
per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU),
firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4
agosto 1955, n. 848, «non prevedono la sospensione solo per sentenze di
condanna relative a reati consumati dopo la loro entrata in vigore»; la terza,
ancora, con riferimento al «comma 1 dell’art. 7 lett. c) Legge 190/2012 [recte: del d.lgs. n. 235 del 2012]», in relazione
all’art. 8, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 235 del 2012, perché, in
violazione degli artt.
3, 51, 76 e 77 Cost. e «in
evidente disparità di trattamento, non prevede per gli eletti al Consiglio
Regionale, ai fini della sospensione dalla carica in caso di condanna per uno
dei reati previsti (nel caso di specie l’abuso d’ufficio), una soglia di pena
superiore ai due anni come è per i parlamentari nazionali ed europei ai fini
dell’incandidabilità».
L’art. 8
del d.lgs. n. 235 del 2012 (rubricato «Sospensione e decadenza di diritto per
incandidabilità alle cariche regionali») statuisce, al comma 1, che «[s]ono sospesi di diritto dalle cariche indicate all’articolo
7, comma 1: a) coloro che hanno riportato una condanna non definitiva per uno
dei delitti indicati all’articolo 7, comma 1, lettere a), b) e c)».
L’art. 7
(rubricato «Incandidabilità alle elezioni regionali»), al comma 1 dispone che «[n]on
possono essere candidati alle elezioni regionali, e non possono comunque
ricoprire le cariche di presidente della giunta regionale, assessore e
consigliere regionale, amministratore e componente degli organi comunque
denominati delle unità sanitarie locali […] c) coloro che hanno riportato
condanna definitiva per i delitti, consumati o tentati, previsti dagli articoli
314, 316, 316-bis, 316-ter, 317, 318, 319, 319-ter, 319-quater,
primo comma, 320, 321, 322, 322-bis, 323, 325, 326, 331, secondo comma,
334, 346-bis del codice penale».
Le
questioni sono sorte nel corso di un giudizio promosso – ai sensi dell’art. 22
del decreto legislativo 1° settembre 2011, n. 150 (Disposizioni complementari
al codice di procedura civile in materia di riduzione e semplificazione dei
procedimenti civili di cognizione, ai sensi dell’articolo 54 della legge 18 giugno
2009, n. 69) – avanti al giudice civile da un consigliere della Regione Puglia
contro la Presidenza del Consiglio dei ministri, il Ministero dell’interno –
Prefettura di Bari e la Regione Puglia, a seguito del decreto 23 aprile 2014
con cui il Presidente del Consiglio dei ministri aveva dichiarato la
sospensione del consigliere dalla carica, a causa di una condanna penale non
definitiva per i reati di falso e abuso d’ufficio, emessa il 13 febbraio 2014.
Dopo che il Tribunale ordinario di Bari aveva dichiarato manifestamente
infondate le questioni di costituzionalità sollevate dal ricorrente, la Corte
d’appello ha invece sollevato le questioni sopra indicate, sospendendo anche
l’efficacia del decreto di sospensione dalla carica.
1.1.–
Quanto alla prima questione, il rimettente ricorda che la legge delega (legge 6
novembre 2012, n. 190, recante «Disposizioni per la prevenzione e la
repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione»)
prevede tra i principi e criteri direttivi, all’art. 1, comma 64, lettera m),
quello di «disciplinare le ipotesi di sospensione e decadenza di diritto dalle
cariche di cui al comma 63 in caso di sentenza definitiva di condanna per
delitti non colposi successiva alla candidatura o all’affidamento della carica».
Tale norma sarebbe violata dal citato art. 8, comma 1, del d.lgs. n. 235 del
2012, che contempla la sospensione dalla carica in caso di condanna non
definitiva. Secondo la corte d’appello, non si potrebbe andare contro il chiaro
dettato letterale del criterio direttivo, né questo sarebbe illogico, in quanto
dai lavori preparatori della legge delega emergerebbe che il comma 64, lettera m),
riferisce «la sospensione alle cariche elettive e la decadenza alle cariche non
elettive». Al Governo «non era consentito […] di regolare la fattispecie in
modo inconfutabilmente creativo, secondo una logica diversa, certamente
condivisibile e più aderente allo scopo generale che si intendeva perseguire,
ma ben al di là del mandato conferito dalla legge delega».
1.2.–
Quanto alla seconda questione, il rimettente osserva che, quand’anche dovesse
ritenersi che la sospensione dalla carica costituisca un effetto di natura
amministrativa della condanna penale, si tratterebbe comunque di un effetto
afflittivo conseguente a condanna pronunciata per un reato consumato in data
antecedente a quella dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 235 del 2012, in
violazione degli artt. 25, secondo comma, e 117, primo comma, Cost.,
quest’ultimo con riferimento all’art. 7 della CEDU. Sebbene lo scopo delle
norme sia quello di allontanare dall’amministrazione della cosa pubblica, anche
in via cautelare, chi si sia reso moralmente indegno, andrebbe tuttavia
considerato che tale obiettivo collide con i diritti, tutelati dall’art. 51
Cost., di accesso alle cariche elettive e di esercizio delle funzioni connesse
alla carica, diritti che non potrebbero essere in concreto garantiti «se non
nell’ambito delle garanzie costituzionali tutte, di modo che è parte necessaria
consustanziale del diritto il divieto di retroattività delle norme
sanzionatorie, disciplinato dall’art. 11 delle preleggi».
1.3.–
Quanto alla terza questione, il rimettente rileva che l’art. 1 del d.lgs. n.
235 del 2012 prevede per i parlamentari nazionali ed europei la soglia della
condanna a due anni di reclusione, al di sotto della quale non si determina
l’incandidabilità, e osserva che la disparità di trattamento dei consiglieri
regionali, per i quali la soglia non opera, non sembra giustificata dalla
diversa situazione istituzionale e funzionale degli uni e degli altri,
apparendo irragionevole che gli eletti in competizioni locali ricevano un
trattamento più severo.
2.– Nel
giudizio costituzionale si è tempestivamente costituito l’appellante nel
giudizio a quo, F.A., con memoria depositata il 22 dicembre 2015, che
tiene conto della sentenza
della Corte costituzionale n. 236 del 2015, riguardante sempre la c.d.
"legge Severino”.
Con
riferimento alla prima questione, F.A. nega che l’art. 1, comma 64, lettera m),
della legge n. 190 del 2012 implicitamente preveda la sospensione per il caso
di condanna non definitiva. Dai lavori preparatori risulterebbe che la
sospensione era prevista per le cariche elettive e la decadenza per quelle non
elettive, sempre sulla base di una condanna definitiva. La ratio di tale
distinzione starebbe nella corrispondenza del regime previsto per gli eletti al
Consiglio regionale con la temporaneità dell’incandidabilità dei parlamentari,
ai sensi dell’art. 1, comma 64, lettere a), b) e c), e
nell’esigenza di limitare il sacrificio del diritto politico, derivante da un
voto popolare.
Con
riferimento alla seconda questione, l’appellante nel giudizio a quo, in
considerazione della intervenuta pronuncia n. 236
del 2015, si limita a citare un contributo dottrinale, secondo il quale non
sarebbe corretto sostenere che si tratti della disciplina dello status
di un membro di un consesso pubblico, per escludere la natura sanzionatoria
della decadenza. Ogni sanzione si tradurrebbe, invece, nella riduzione della
capacità giuridica e della capacità di agire del soggetto inciso.
Con
riferimento alla terza questione, F.A. deduce che il differente trattamento
riservato ai parlamentari e agli eletti nelle competizioni locali non trova
giustificazione nell’esercizio della discrezionalità legislativa. Di essa
sarebbe evidente l’irragionevolezza intrinseca ed estrinseca, visto che per le
cariche oggettivamente più importanti il rigore si attenua e per quelle
oggettivamente meno importanti si inasprisce.
La parte
privata, inoltre, si sofferma su tre ulteriori profili di possibile
incostituzionalità.
Il primo starebbe
nella mancata previsione della durata dell’incandidabilità anche per le cariche
elettive regionali (come per le cariche nazionali): si lamenta la violazione
degli artt. 3, 76 e 77, primo comma, Cost., per irragionevolezza e disparità di
trattamento nell’esercizio della funzione legislativa delegata, e l’ulteriore
violazione dell’art. 51 Cost. da parte della legge delega.
Il secondo
profilo attiene alla mancata previsione della sospensione per le cariche
nazionali ed europee: si lamenta la violazione dell’art. 1, comma 64, lettera m),
della legge delega e, dunque, dell’art. 76 Cost.
Il terzo
profilo riguarda l’aggiunta dell’abuso d’ufficio come reato ostativo,
nonostante la possibilità di ampliamento dei reati ostativi fosse prevista
dalla legge delega, secondo la parte, solo per le elezioni comunali e
provinciali, ai sensi dell’art. 1, comma 64, lettera h).
2.1.– Con
atto depositato il 29 dicembre 2015 è tempestivamente intervenuto nel giudizio il
Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura
generale dello Stato.
Questa ha
negato che sussista eccesso di delega, citando la sentenza del Consiglio di
Stato, sezione terza, 14 febbraio 2014, n. 730, che ha dichiarato manifestamente
infondata analoga questione di legittimità costituzionale. La difesa erariale
sottolinea l’insufficienza del criterio letterale di interpretazione,
evidenziando che la previsione della sospensione in caso di condanna definitiva
equivarrebbe all’eliminazione della stessa sospensione, essendo invece da
escludere che la legge delega intendesse sopprimere l’istituto della
sospensione, previsto da tempo nell’ordinamento italiano.
Quanto
alla seconda questione, la difesa erariale ‒ richiamando l’orientamento
manifestato dalla Corte costituzionale su disposizioni analoghe (si citano, in
particolare, le sentenze
n. 25 del 2002, n. 132 del 2001,
n. 206 del 1999,
nn. 295, 184 e 118 del 1994) ‒
replica che, sia la misura della sospensione da una carica, sia quelle della
incandidabilità e della decadenza, lungi dall’avere carattere sanzionatorio,
costituirebbero conseguenze del venir meno di un requisito soggettivo per
l’accesso alle cariche considerate, ovvero per il loro mantenimento. Anche da
ultimo (sentenza
n. 236 del 2015), la Corte avrebbe ribadito la natura cautelare della
sospensione dalla carica, che risponde ad esigenze proprie della funzione
amministrativa e della pubblica amministrazione presso la quale il soggetto
colpito presta servizio. Tale qualificazione escluderebbe che sia violato il
divieto di applicazione retroattiva di sanzioni penali sancito dagli artt. 25,
secondo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in riferimento all’art.
7 della CEDU.
Infine,
con riferimento alla terza questione, l’Avvocatura dello Stato nega che
l’omessa previsione della soglia minima della condanna, prevista dall’art. 1
del d.lgs. n. 235 del 2012 solo per i membri del Parlamento, violi l’art. 3
Cost., non apparendo configurabile, per il diverso livello istituzionale,
un’equiparazione della posizione dei titolari di cariche elettive nelle regioni
e negli enti locali a quella dei membri del Parlamento (è citata la sentenza n. 407 del
1992, resa sulle previgenti norme che prevedevano la sospensione dalla
carica solo nei confronti dei consiglieri provinciali e regionali).
2.2.– Il
Presidente del Consiglio dei ministri ha depositato una memoria in prossimità
dell’udienza.
In essa
l’Avvocatura dello Stato contesta l’«interpretazione angustamente letterale»
dell’art. 1, comma 64, lettera m), della legge delega e richiama la
citata sentenza del Consiglio di Stato n. 730 del 2014, nonché la
giurisprudenza costituzionale sull’interpretazione delle leggi di delega,
concludendo che la disciplina delle cause di sospensione e di decadenza,
contenuta nel d.lgs. n. 235 del 2012, sarebbe coerente con la ratio della
legge delega.
Ribadisce
che, non venendo in rilievo una norma di natura sanzionatoria, nemmeno in senso
lato, risulta assolutamente arbitraria l’evocazione, quali parametri di
costituzionalità asseritamente violati, dell’art. 25, secondo comma, e
dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 7 della CEDU.
Quanto
alla censurata disparità di trattamento rispetto alla disciplina
dell’incandidabilità dei parlamentari nazionali e europei, l’Avvocatura dello
Stato richiama la sentenza
n. 106 del 2004 [recte: 2002] e un
orientamento del Consiglio di Stato che ha considerato manifestamente infondate
eccezioni di illegittimità costituzionale analoghe a quella in esame.
3.– Il
Tribunale ordinario di Napoli, prima sezione civile, con ordinanza del 22
luglio 2015 ha sollevato quattro questioni di legittimità costituzionale.
La prima
riguarda l’art. 8, comma 1, del d.lgs. n. 235 del 2012 e corrisponde all’eccesso di delega
già denunciato dalla Corte d’appello di Bari, con l’aggiunta di un ulteriore
profilo: poiché nel caso di specie la condanna non definitiva ha preceduto
l’elezione, si lamenta che l’art. 8, comma 1, violerebbe l’art. 1, comma 64,
lettera m), della legge
n. 190 del 2012, non solo perché tale norma contemplerebbe la sospensione
solo «in caso di sentenza definitiva di condanna», ma anche perché la sentenza,
secondo la medesima norma, dovrebbe essere «successiva alla candidatura o
all’affidamento della carica».
In secondo
luogo il rimettente dubita della legittimità costituzionale dell’art. 8, comma
1, del d.lgs. n. 235 del 2012, in riferimento agli artt. 25, secondo comma, e 117, primo comma, Cost.,
quest’ultimo in relazione all’art 7 della CEDU,
nella parte in cui non prevede la sospensione dalla carica solo per sentenze di
condanna relative a reati consumati dopo la sua entrata in vigore. La questione
corrisponde, anche negli argomenti, alla censura di violazione del divieto di
retroattività sollevata dalla Corte d’appello di Bari.
Con la
terza questione il Tribunale ordinario di Napoli lamenta che l’applicazione
retroattiva dell’art. 8, comma 1, in relazione all’art. 7, comma 1, lettera c),
del d.lgs. n. 235 del 2012, si porrebbe in contrasto anche con gli artt. 2, 4, secondo comma, 51, primo comma, e 97, secondo comma, Cost.
La quarta
questione riguarda l’art. 1, comma 1, lettera b), in relazione all’art.
7, comma 1, lettera c), e all’art. 8, comma 1, lettera a), del
d.lgs. n. 235 del 2012 e corrisponde, anche nelle motivazioni, alla censura di
disparità di trattamento normativo già sollevata dalla Corte d’appello di Bari
in relazione alla mancanza di una soglia di pena superiore a due anni di
reclusione in caso di condanna per abuso d’ufficio, prevista per i soli
parlamentari nazionali e europei.
Le
questioni sono sorte a seguito di un ricorso ex art. 700 del codice di
procedura civile proposto – nel corso di un giudizio promosso avanti al giudice
civile ai sensi dell’art. 22 del d.lgs. n. 150 del 2011 e dell’art. 702-bis
cod. proc. civ. – dal Presidente della Regione Campania contro la Presidenza
del Consiglio dei ministri e il Ministero dell’interno – Prefettura di Napoli,
a seguito del decreto 26 giugno 2015 con cui il Presidente del Consiglio dei
ministri dichiarava la sospensione del Presidente regionale appena eletto (il
18 giugno 2015), in conseguenza di una precedente condanna penale non
definitiva per il reato di abuso d’ufficio, per fatti risalenti al 2008.
3.1.–
Quanto alla prima questione, il rimettente ricorda che il sindacato sul vizio
di eccesso di delega spetta alla Corte costituzionale e cita, a sostegno
dell’eccesso di delega, i lavori preparatori e gli argomenti utilizzati
nell’ordinanza della Corte d’appello di Bari.
3.2.– Il
rimettente ripropone argomenti analoghi a quelli utilizzati dalla Corte
d’appello di Bari anche a sostegno della seconda questione.
3.3.–
Quanto alla terza questione, il Tribunale ordinario di Napoli ‒
richiamando un’ordinanza del Tribunale amministrativo regionale per la Campania
che ha sollevato analoga questione di legittimità costituzionale dell’art. 11,
comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 235 del 2012 ‒ afferma che
l’art. 51 Cost., nell’affidare alla legge la disciplina dell’esercizio del
diritto di elettorato passivo, lo consentirebbe nei limiti fisiologici entro i
quali alla legge stessa è consentito operare, cioè non retroattivamente.
Infatti, essendo il divieto di retroattività di cui all’art. 11 delle
disposizioni sulla legge in generale uno dei principi su cui si fonda
l’efficacia della legge nel tempo, la sua violazione costituirebbe anche
violazione del diritto che la Costituzione espressamente la chiama a
disciplinare e proteggere.
3.4.– Con
la quarta questione il rimettente nega che sia ragionevole trattare più
severamente gli organi locali rispetto a quelli nazionali, apparendo semmai logico
il contrario. Ricorda, altresì, che anche gli organi regionali esercitano
funzioni legislative.
4.– Con
atto depositato il 19 gennaio 2016 si è costituito V.D.L., ricorrente nel
giudizio a quo.
Egli
osserva preliminarmente che la questione relativa alla violazione del principio
di irretroattività della norma penale sancito all’art. 25 Cost. non sarebbe
pregiudicata dalla sentenza n. 236 del
2015, la quale ha scrutinato tale profilo solo con riferimento al distinto
parametro costituzionale dell’art. 51, secondo comma, Cost. La sospensione del
mandato elettivo rientrerebbe nella nozione di pena ai sensi degli artt. 6 e 7
della CEDU, giacché, al di là della sua indubbia funzione cautelare, essa
presenterebbe anche un concorrente e inscindibile carattere afflittivo, con
effetti non ripristinabili, stante che il periodo di mandato nel quale opera
sarebbe irreversibilmente compromesso (a differenza di quanto avviene nel caso
della sospensione del rapporto di impiego – cui si riferirebbe la «decisione n. 142/96»
–, per il quale al proscioglimento seguono adeguate misure ripristinatorie).
Quanto
all’eccesso di delega, V.D.L. evidenzia che la legge delega precludeva di
attribuire rilevanza alle condanne precedenti l’elezione e che la sospensione
del Presidente neo-eletto, prima della formazione della Giunta, si tradurrebbe
«in un impedimento permanente del funzionamento della Regione, con effetti
dissolutori». La sospensione per una condanna antecedente, operando
automaticamente, si convertirebbe in una sanzione decadenziale,
incompatibile con la presunzione di innocenza di cui all’art. 27 Cost.
Inoltre,
il ricorrente nel giudizio a quo si sofferma su un ulteriore profilo di
eccesso di delega, consistente nella previsione della sospensione in caso di
abuso d’ufficio, che non rientrerebbe tra i reati di «grave allarme sociale» di
cui all’art. 1, comma 64, lettera h), della legge n. 190 del 2012.
Infine, la
disparità di trattamento con i parlamentari non sarebbe giustificata,
considerato che la riforma del Titolo V della Costituzione avrebbe parificato
le assemblee regionali e legislative, riconoscendo ai consiglieri regionali le
stesse prerogative e "guarentigie” dei parlamentari. L’art. 1, comma 64,
lettera h), della legge n. 190 del 2012 avrebbe imposto al legislatore
delegato una coerenza di regimi tra parlamentari nazionali e consiglieri
regionali, che non si rinverrebbe nella disciplina in esame. All’identità di
funzioni legislative dovrebbe pertanto corrispondere un trattamento speculare
in tema di sospensione e decadenza dalla carica.
4.1.– Si
sono costituiti davanti alla Corte alcuni intervenienti nel giudizio a quo.
4.1.1.– Con
atto depositato il 28 dicembre 2015 si è costituito S.A. La sua difesa
riproduce le deduzioni svolte per conto di una degli intervenienti nel giudizio
di costituzionalità deciso dalla sentenza n. 236 del
2015.
4.1.2.–
Con atto depositato il 14 gennaio 2016, si è successivamente costituito F.M.,
al fine di argomentare l’infondatezza delle questioni di legittimità
costituzionale.
Egli nega,
in primo luogo, che l’art. 8 del d.lgs. n. 235 del 2012 sia affetto da eccesso
di delega, in quanto i criteri direttivi della delega andrebbero intesi alla
luce della complessiva ratio della delega e, inoltre, i presupposti di
cui all’art. 1, comma 64, lettera m), della legge n. 190 del 2012
sarebbero collegati solo alla decadenza, non alla sospensione.
Sotto
altro profilo, ricorda che la sentenza n. 236 del
2015 ha già chiarito che la disciplina della sospensione dalla carica non
ha carattere sanzionatorio, né retroattivo. La misura in esame non sarebbe
neppure qualificabile come sanzione ai sensi dell’art. 7 della CEDU, dato che
l’effetto sospensivo discende direttamente dalla legge e ha finalità
cautelativa. L’art. 8 del d.lgs. n. 235 del 2012, inoltre, non presenterebbe
alcun profilo di retroattività, perché il fatto cui applicare la norma è la
condizione di condannato in primo grado, non la condotta per cui è stata emessa
la condanna.
La
disciplina del d.lgs. n. 235 del 2015 sarebbe immune dal vizio di disparità di
trattamento denunciato dal rimettente per la diversità di status tra
consiglieri regionali e parlamentari, conseguente alla differenza tra le
funzioni svolte. L’interveniente ricorda, in particolare, che al consiglio
regionale sono attribuite anche funzioni amministrative, tali da rendere la
posizione dei consiglieri non assimilabile a quella dei parlamentari.
F.M., poi,
sollecita un obiter dictum della Corte, «in ordine alla possibilità di
emanare provvedimenti cautelari in contrasto con disposizioni normative
sospettate di incostituzionalità ma non ancora invalidate».
4.1.3.– Si
sono ancora costituiti, con atto depositato il 19 gennaio 2016, sette
consiglieri regionali del Movimento 5 Stelle (V.C. e altri sei). Essi
sostengono l’infondatezza delle questioni di costituzionalità sopra
esposte, con argomenti che sostanzialmente corrispondono a quelli esposti nella
memoria di F.M.
Inoltre
segnalano che il Tribunale ordinario di Napoli, con ordinanza del 28 dicembre
2015, ha sospeso il giudizio di merito ai sensi dell’art. 23 della legge 11
marzo 1953, n. 87 (Norme sulla Costituzione e sul funzionamento della Corte
costituzionale), senza però sollevare la questione di costituzionalità: ciò che
implicherebbe l’inammissibilità della questione sollevata in sede cautelare.
4.1.4.–
Con atto depositato il 19 gennaio 2016, si sono infine costituiti il Movimento
difesa del cittadino, A.L. e G.G.. Con riferimento ai primi due soggetti, però,
il Tribunale ha dichiarato l’intervento inammissibile con la stessa ordinanza
di rimessione. Essi sostengono la manifesta infondatezza delle questioni di
costituzionalità sopra esposte.
Quanto
all’eccesso di delega, argomentano che il Parlamento non intendeva diminuire il
livello di tutela, eliminando l’istituto della sospensione cautelare, né
attribuire all’elezione un effetto di «lavacro» di precedenti condanne. Il
riferimento alla condanna definitiva successiva all’elezione, contenuto
nell’art. 1, comma 64, lettera m), della legge n. 190 del 2012, riguarderebbe
esclusivamente la decadenza.
A sostegno
del carattere non retroattivo e della natura non sanzionatoria della disciplina
dei limiti all’esercizio dell’elettorato passivo, le parti richiamano la sentenza n. 236 del
2015, alcuni precedenti della Corte di cassazione e del Consiglio di Stato,
un’ordinanza del Tribunale ordinario di Palermo, nonché le decisioni della
Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari del Senato della
Repubblica, che persino per la interdizione definitiva e per la decadenza hanno
escluso qualsivoglia valenza sanzionatoria.
La
censurata disparità di trattamento tra consiglieri regionali e parlamentari
sarebbe esclusa in radice dal fatto che il rimettente pone a confronto i
diversi istituti della sospensione dalle cariche regionali e
dell’incandidabilità alla carica di deputato o senatore. Inoltre, gli
intervenienti ricordano che la Corte, con la sentenza n. 407 del
1992, ha respinto un’analoga questione relativa alle norme previgenti,
argomentando dal diverso livello istituzionale e funzionale degli organi
costituzionali interessati (è citato anche un orientamento del Consiglio di
Stato, che ha escluso qualsiasi contrasto della disciplina in esame con l’art.
3 Cost.).
4.2.– Con
atto depositato il 19 gennaio 2016 è tempestivamente intervenuto nel giudizio
il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso
dall’Avvocatura generale dello Stato.
La difesa
erariale segnala innanzi tutto che contro l’ordinanza che aveva disposto la
misura cautelare è stato proposto regolamento preventivo di giurisdizione,
dichiarato inammissibile dalla Corte di cassazione, sezioni unite, con ordinanza
n. 23542 del 18 novembre 2015.
L’Avvocatura
dello Stato nega, poi, che l’art. 8 del d.lgs. n. 235 del 2012 sia affetto da
eccesso di delega, in quanto occorrerebbe tener conto della ratio della
legge n. 190 del 2012, volta a prevenire l’illegalità nella pubblica
amministrazione in attuazione della Convenzione delle Nazioni Unite contro la
corruzione, adottata dall’Assemblea generale dell’ONU il 31 ottobre 2003,
ratificata e resa esecutiva con legge 3 agosto 2009, n. 116, e della
Convenzione penale sulla corruzione, stipulata a Strasburgo il 27 gennaio 2009,
ratificata e resa esecutiva con legge 28 giugno 2012, n. 110. Né sarebbe
sostenibile la tesi che la sospensione vada riferita alle cariche elettive e la
decadenza alle cariche non elettive: la sospensione sarebbe una misura
cautelare prevista per il caso di condanna non definitiva, anche precedente
l’elezione. La difesa erariale cita al riguardo la sentenza del Consiglio di
Stato n. 730 del 2014, che ha dichiarato manifestamente infondato il dubbio di
eccesso di delega.
Secondo
l’Avvocatura dello Stato non sarebbero violati né l’art. 25, secondo comma, né
l’art. 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 7 della
CEDU, in quanto l’istituto della sospensione dalla carica elettiva per sentenza
non definitiva di condanna non sarebbe assimilabile ad una sanzione penale,
sicché, nel caso della sospensione che consegua (come nella specie) alla
condanna per un reato commesso prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 235
del 2012, non si porrebbe un problema di violazione del principio di
irretroattività.
L’interveniente
osserva che, in via generale, la giurisprudenza della Corte costituzionale
(sono citate le sentenze
n. 25 del 2002, n. 206 del 1999
e n. 118 del
1994), della Corte di cassazione e del Consiglio di Stato si sarebbe costantemente
espressa nel senso che gli istituti che limitano l’esercizio del diritto di
elettorato passivo, quali l’incandidabilità, l’ineleggibilità o la decadenza
conseguenti a sentenze penali di condanna, attengono alle condizioni di accesso
alle cariche elettive e non alle conseguenze penali dei reati. La sentenza n. 236 del
2015 avrebbe ribadito il carattere non sanzionatorio dell’istituto della
sospensione dalla carica elettiva.
Secondo
l’Avvocatura dello Stato l’istituto della sospensione dalla carica elettiva a
seguito di sentenza penale di condanna di primo grado contempererebbe
ragionevolmente opposti interessi di pari dignità costituzionale, quali sono,
da un lato, il diritto di elettorato passivo e, dall’altro, il potere del
legislatore di fissare i requisiti di eleggibilità e permanenza nella carica in
modo da garantire la salvaguardia dell’integrità della funzione elettiva.
Sulla disparità di
trattamento con i parlamentari, l’Avvocatura dello Stato eccepisce
preliminarmente l’inammissibilità della questione con riferimento alla
violazione degli artt. 76 e 77 Cost., per mancanza di motivazione, e rileva che
comunque l’art. 1, comma 64, lettera m), della legge n. 190 del 2012 non
fornisce alcuna indicazione specifica sulle soglie di pena al di sopra delle
quali dovrebbero operare le misure della sospensione e della decadenza dalle
cariche elettive, a differenza di quanto prevede la lettera a) del comma
64, in tema di incandidabilità temporanea alla carica di parlamentare.
Un’altra
ragione di inammissibilità, per irrilevanza, deriverebbe dal fatto che la
sospensione oggetto del giudizio a quo ha riguardato la carica del
Presidente della Giunta regionale, che non svolge funzioni legislative, sicché
non sarebbe ravvisabile l’identità di situazione con i membri del Parlamento.
Nel
merito, l’Avvocatura dello Stato richiama anche in questo caso la sentenza n. 407 del
1992 e il conforme orientamento del Consiglio di Stato, che ha ritenuto
ragionevole la differenziazione tra la disciplina dell’incandidabilità alle
elezioni regionali e quella dell’incandidabilità al Parlamento.
4.3.–
V.D.L. ha depositato una memoria in prossimità dell’udienza.
In essa
osserva che la legge delega avrebbe attribuito al Governo il potere di
prevedere la sospensione dalla carica elettiva per reati commessi dopo
l’elezione, con conseguente illegittimità per eccesso di delega del decreto
legislativo che attribuisce le stesse conseguenze anche a reati commessi prima.
L’eccesso di delega vi sarebbe inoltre per il fatto che la "legge Severino”
collega la sospensione ad una condanna non definitiva, condanna non definitiva
che, nel caso di V.D.L., è stata per di più riformata in appello. È contestato,
poi, l’automatismo della sospensione.
Sulla
violazione del principio di irretroattività delle norme sanzionatorie, il
ricorrente nel giudizio a quo afferma che la sanzione della sospensione
dalla carica elettiva dovrebbe essere assimilata, per l’effetto che produce,
alla sanzione amministrativa di sospensione dagli uffici amministrativi, e
ricorda che il nostro sistema sanzionatorio si basa sul principio di legalità:
principio che per le sanzioni si traduce storicamente e sistematicamente nel
vincolo di anteriorità della legge sanzionatrice rispetto al fatto sanzionato
(art. 25 Cost. e art. 1 della legge 24 novembre 1981, n. 689, recante
«Modifiche al sistema penale»).
Sulla
disparità di trattamento, osserva che l’irragionevolezza della disciplina
differenziata a favore dei parlamentari sarebbe eliminabile mediante la sua
estensione agli eletti nelle competizioni regionali.
4.4.–
Anche F.M. ha depositato una memoria in prossimità dell’udienza, nella quale osserva
che il sopravvenuto proscioglimento di V.D.L. in sede penale non determina
l’irrilevanza della questione, perché, qualora la Corte la ritenesse infondata,
la domanda di merito proposta al Tribunale ordinario di Napoli dovrebbe
essere respinta.
4.5.– In
una successiva memoria illustrativa, il Presidente del Consiglio dei ministri
ribadisce la necessità di adottare un’interpretazione teleologico-sistematica
della norma delegante, richiamando la giurisprudenza costituzionale
sull’interpretazione delle leggi di delega ed evidenziando che la legge n. 190
del 2012 ha lo scopo di rendere più efficace il contrasto dell’illegalità nella
pubblica amministrazione. Inoltre, l’Avvocatura dello Stato osserva che la
sospensione, avendo natura transitoria, dovrebbe essere collegata a presupposti
parimenti transitori.
Con riferimento
alla dedotta violazione dell’art. 117, comma primo, Cost., in relazione
all’art. 7 della CEDU, l’Avvocatura dello Stato afferma che, anche in
applicazione dei criteri elaborati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo,
l’istituto della sospensione dalla carica elettiva non rientrerebbe nella
nozione convenzionale di pena, in quanto essa: non è qualificata dal
legislatore come sanzione penale; non ha finalità punitiva ma cautelare; non produce
conseguenze gravi per l’accusato, in ragione del suo carattere provvisorio e
limitato nel tempo.
5.– Il
Tribunale ordinario di Messina, con ordinanza del 14 settembre 2015 ha
sollevato tre questioni di legittimità costituzionale, nel corso di un giudizio
promosso da un consigliere (V.L.M.) del Comune di Graniti contro la Prefettura
di Messina, a seguito del decreto con cui il Prefetto aveva dichiarato la
sospensione del consigliere dalla carica ai sensi dell’art. 11, comma 1,
lettera a), del d.lgs. n. 235 del 2012. Con la medesima ordinanza, il
Tribunale ha sospeso l’efficacia del decreto prefettizio.
Le
questioni hanno ad oggetto l’art. 11, comma 1, lettera a), del d.lgs. n.
235 del 2012. Tale disposizione (recante la rubrica «Sospensione e decadenza di
diritto degli amministratori locali in condizione di incandidabilità»)
statuisce che «[s]ono sospesi di diritto dalle
cariche indicate al comma 1 dell’articolo 10: a) coloro che hanno riportato una
condanna non definitiva per uno dei delitti indicati all’articolo 10, comma 1,
lettere a), b) e c)».
L’art. 10
(rubricato «Incandidabilità alle elezioni provinciali, comunali e
circoscrizionali»), al comma 1, dispone che «[n]on possono essere
candidati alle elezioni provinciali, comunali e circoscrizionali e non possono
comunque ricoprire le cariche di presidente della provincia, sindaco, assessore
e consigliere provinciale e comunale […] c) coloro che hanno riportato condanna
definitiva per i delitti previsti dagli articoli 314, 316, 316-bis, 316-ter,
317, 318, 319, 319-ter, 319-quater, primo comma, 320, 321, 322,
322-bis, 323, 325, 326, 331, secondo comma, 334, 346-bis del
codice penale».
Con la
prima questione il rimettente dubita della legittimità costituzionale dell’art.
11 del d.lgs. n. 235 del 2012, nella parte in cui consente la sospensione dalla
carica in relazione a reati consumati prima della sua entrata in vigore, in
riferimento agli artt.
25, secondo comma, e 117, primo comma, Cost.
Gli argomenti utilizzati ricalcano quelli utilizzati a sostegno della stessa
censura nell’ordinanza della Corte d’appello di Bari.
Il
Tribunale ordinario di Messina ritiene, altresì, che l’applicazione retroattiva
dell’art. 11, comma 1, lettera a), in relazione all’art. 10, comma 1,
del d.lgs. n. 235 del 2012, si ponga in contrasto con gli artt. 2, 4, secondo comma, 51, primo comma, e 97, secondo comma, Cost.
I termini della questione coincidono con quelli sviluppati, sulla stessa
questione, nell’ordinanza del Tribunale ordinario di Napoli.
Con la
terza questione il rimettente contesta il vizio di eccesso di delega, in
quanto, in violazione dell’art. 1, comma 64, lettera m), della legge
n. 190 del 2012, l’art. 11, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 235
del 2012 collega la sospensione alla sentenza non definitiva di condanna.
6.– Con
atto depositato il 23 febbraio 2016 è tempestivamente intervenuto nel giudizio
il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso
dall’Avvocatura generale dello Stato.
La difesa erariale premette
che, nel caso di specie, un problema di irretroattività neppure si porrebbe e
che difetterebbe di conseguenza il requisito della rilevanza della questione.
Nel 2004, epoca della commissione del fatto reato (peculato), l’ordinamento già
prevedeva la sospensione dalla carica elettiva a fronte di sentenza di condanna
di primo grado, ai sensi dell’art. 59, comma 1, lettera a), del decreto
legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento
degli enti locali), trasfuso nell’attuale art. 11, comma 1, lettera a),
del d.lgs. n. 235 del 2012.
Subordinatamente,
l’Avvocatura dello Stato si sofferma sull’infondatezza della prima e seconda
questione, nonché del lamentato eccesso di delega, riproponendo i medesimi
argomenti utilizzati nell’atto di intervento dimesso nel giudizio promosso dal
Tribunale ordinario di Napoli.
6.1.– Il
Presidente del Consiglio dei ministri ha depositato un’ulteriore memoria in
prossimità dell’udienza.
Sui
profili dell’eccesso di delega e della violazione del divieto di retroattività
delle norme penali, la difesa erariale ripropone gli argomenti svolti nella
memoria integrativa depositata nel giudizio promosso dal Tribunale ordinario di
Napoli.
Considerato in diritto
1.– La Corte d’appello di
Bari, il Tribunale ordinario di Napoli e quello di Messina hanno sollevato (con
ordinanze iscritte rispettivamente ai nn. 278 e 323 del registro ordinanze 2015
e al n. 11 del registro ordinanze 2016) complessivamente quattro questioni di
costituzionalità con riferimento al decreto legislativo 31 dicembre 2012, n.
235 (Testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilità e di divieto
di ricoprire cariche elettive e di Governo conseguenti a sentenze definitive di
condanna per delitti non colposi, a norma dell’articolo 1, comma 63, della
legge 6 novembre 2012, n. 190), c.d. "legge Severino”. In particolare, i
giudici hanno contestato – nell’ambito di giudizi promossi da soggetti sospesi
dalla carica politica (rispettivamente, di consigliere della Regione Puglia, di
Presidente della Regione Campania e di consigliere del Comune di Graniti) a
seguito di condanne penali non definitive – le norme che contemplano la
sospensione dalle cariche politiche nelle regioni e negli enti locali in caso
di condanna non definitiva per determinati reati: l’art. 8, comma 1, e l’art.
11, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 235 del 2012. In collegamento con
l’art. 8, comma 1, vengono censurati anche l’art. 1, comma 1, lettera b)
e l’art. 7, comma 1, del d.lgs. n. 235 del 2012.
L’art. 8 del d.lgs. n. 235
del 2012 (rubricato «Sospensione e decadenza di diritto per incandidabilità
alle cariche regionali») statuisce, al comma 1, che «[s]ono
sospesi di diritto dalle cariche indicate all’articolo 7, comma 1: a) coloro
che hanno riportato una condanna non definitiva per uno dei delitti indicati
all’articolo 7, comma 1, lettere a), b) e c)».
L’art. 7 (rubricato
«Incandidabilità alle elezioni regionali»), al comma 1, dispone che «[n]on
possono essere candidati alle elezioni regionali, e non possono comunque
ricoprire le cariche di presidente della giunta regionale, assessore e
consigliere regionale, amministratore e componente degli organi comunque
denominati delle unità sanitarie locali […] c) coloro che hanno riportato
condanna definitiva per i delitti, consumati o tentati, previsti dagli articoli
314, 316, 316-bis, 316-ter, 317, 318, 319, 319-ter, 319-quater,
primo comma, 320, 321, 322, 322-bis, 323, 325, 326, 331, secondo comma,
334, 346-bis del codice penale».
L’art. 11, comma 1, lettera a),
(rubricato «Sospensione e decadenza di diritto degli amministratori locali in
condizione di incandidabilità») statuisce che «[s]ono
sospesi di diritto dalle cariche indicate al comma 1 dell’articolo 10: a)
coloro che hanno riportato una condanna non definitiva per uno dei delitti
indicati all’articolo 10, comma 1, lettere a), b) e c)».
L’art. 10 (rubricato
«Incandidabilità alle elezioni provinciali, comunali e circoscrizionali»), al
comma 1, dispone che «[n]on possono essere candidati alle elezioni
provinciali, comunali e circoscrizionali e non possono comunque ricoprire le
cariche di presidente della provincia, sindaco, assessore e consigliere
provinciale e comunale […] c) coloro che hanno riportato condanna definitiva
per i delitti previsti dagli articoli 314, 316, 316-bis, 316-ter,
317, 318, 319, 319-ter, 319-quater, primo comma, 320, 321, 322,
322-bis, 323, 325, 326, 331, secondo comma, 334, 346-bis del
codice penale».
Nella vicenda pugliese, il
consigliere regionale, eletto nel maggio 2010, è stato condannato il 13
febbraio 2014 a un anno e otto mesi di reclusione (e a cinque anni di
interdizione dai pubblici uffici), per falso e abuso d’ufficio commessi nel
2008. Nel secondo caso, il Presidente della Regione Campania è stato condannato
il 21 gennaio 2015, cioè prima dell’elezione (avvenuta il 18 giugno 2015), per
un reato di abuso d’ufficio risalente al 2008. Infine, nella vicenda di Messina
il consigliere comunale è stato condannato il 10 dicembre 2013, prima
dell’elezione avvenuta nel giugno 2015, per falso e peculato commessi nel 2004.
Con la prima questione si
lamenta la violazione degli artt. 76 e 77 della Costituzione (eccesso di
delega). Essa è sollevata in tutte e tre le ordinanze di rimessione e comprende
due distinti profili: a) se l’art. 8, comma 1, e l’art. 11, comma 1, lettera a),
del d.lgs. n. 235 del 2012 violino l’art. 1, comma 64, lettera m), della
legge 6 novembre 2012, n. 190 (Disposizioni per la prevenzione e la repressione
della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione), là dove
prevedono la sospensione dalla carica in caso di condanna non definitiva
(profilo presente in tutti i giudizi); b) se l’art. 8, comma 1, del d.lgs. n.
235 del 2012 violi l’art. 1, comma 64, lettera m), della legge n. 190
del 2012, là dove non limita la sospensione dalla carica alle condanne successive
alla candidatura (profilo presente nel solo giudizio promosso dal Tribunale
ordinario di Napoli).
La seconda questione
(sollevata in tutte e tre le ordinanze di rimessione) è proposta con
riferimento agli artt. 25, secondo comma, e 117, primo comma, Cost.
(quest’ultimo in relazione all’art. 7 della Convenzione per la salvaguardia dei
diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, CEDU, firmata a Roma il 4
novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848),
che sarebbero violati in quanto gli artt. 7, comma 1, 8, comma 1, e 11, comma
1, lettera a), del d.lgs. n. 235 del 2012 non prevedono la sospensione
solo per sentenze di condanna relative a reati consumati dopo la loro entrata
in vigore.
La terza questione
(sollevata dal Tribunale ordinario di Napoli e da quello di Messina) ricalca,
quanto ad oggetto della censura (sospensione dalla carica per reati commessi
prima dell’entrata in vigore della "legge Severino”), quella appena illustrata
e, quanto ad argomenti usati, quella proposta dal Tribunale regionale
amministrativo per la Campania e già dichiarata infondata da questa Corte con
la sentenza n.
236 del 2015: si lamenta che l’applicazione retroattiva degli artt. 8,
comma 1 – in relazione all’art. 7, comma 1, lettera c) – e 11, comma 1,
lettera a), del d.lgs. n. 235 del 2012 si porrebbe in contrasto
con gli artt. 2, 4, secondo comma, 51, primo comma, e 97, secondo comma, Cost.
Infine, con la quarta questione
(sollevata dalla Corte d’appello di Bari e dal Tribunale ordinario di Napoli),
i giudici lamentano che gli artt. 1, comma 1, lettera b), 7, comma 1,
lettera c), e 8, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 235 del 2012
determinerebbero una disparità di trattamento, non prevedendo – ai fini della
sospensione dalla carica in caso di condanna per uno dei reati previsti – una
soglia di pena superiore ai due anni, come è stabilito per i parlamentari
nazionali ed europei ai fini dell’incandidabilità. I parametri invocati sono
gli artt. 3, 51, 76 e 77 Cost.
2.– I giudizi vanno riuniti
per essere definiti con un’unica pronuncia, avendo a oggetto le medesime
disposizioni o disposizioni simili, censurate in riferimento a parametri e per
motivi in gran parte coincidenti.
3.– In via preliminare, va
ribadito quanto stabilito nell’ordinanza della quale è stata data lettura in
udienza, allegata al presente provvedimento, sull’inammissibilità della
costituzione del Movimento difesa del cittadino e di A.L.: tali soggetti non sono
legittimati a partecipare al giudizio costituzionale quali parti del giudizio a
quo davanti al Tribunale ordinario di Napoli, poiché il loro intervento in
esso è stato dichiarato inammissibile con la stessa ordinanza di rimessione.
3.1.– Prima di entrare nel
merito delle questioni, occorre osservare che nel giudizio promosso dalla Corte
d’appello di Bari la parte privata si è soffermata su tre ulteriori profili di
possibile incostituzionalità, non presenti nell’ordinanza di rimessione. Il
primo starebbe nella mancata previsione della durata dell’incandidabilità anche
per le cariche elettive regionali (come per le cariche nazionali), con
conseguente violazione degli artt. 3, 51, 76 e 77 Cost.; il secondo attiene
alla mancata previsione della sospensione per le cariche nazionali ed europee,
in asserito contrasto con l’art. 76 Cost.; il terzo riguarda l’aggiunta
dell’abuso d’ufficio come reato ostativo, in asserito contrasto con l’art. 76
Cost.
Anche nel giudizio promosso
dal Tribunale ordinario di Napoli il ricorrente nel giudizio a quo ha
evidenziato un ulteriore profilo di eccesso di delega (assente nell’ordinanza
di rimessione), consistente nella previsione della sospensione in caso di abuso
d’ufficio, che non rientrerebbe tra i reati di «grave allarme sociale» previsti
all’art. 1, comma 64, lettera h), della legge n. 190 del 2012.
Tali questioni sono
inammissibili, in quanto non sollevate dai giudici rimettenti. Secondo la
costante giurisprudenza di questa Corte, non possono essere presi in
considerazione, oltre i limiti dell’ordinanza di rimessione, ulteriori
questioni o profili di costituzionalità dedotti dalle parti, sia che siano
stati eccepiti ma non fatti propri dal giudice a quo, sia che siano
diretti ad ampliare o modificare successivamente il contenuto della stessa
ordinanza (ex plurimis, sentenze n. 203 del
2016, n. 56
del 2015, n.
271 del 2011, n.
236 e n. 56
del 2009, n.
86 del 2008).
3.2.– Sempre in via
preliminare, occorre, infine, dare conto del fatto che, nel giudizio promosso
dal Tribunale ordinario di Napoli, una parte privata ha segnalato che il
giudice a quo, con ordinanza del 28 dicembre 2015, ha sospeso il
giudizio di merito ai sensi dell’art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87
(Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale),
senza però sollevare la questione di costituzionalità: ciò che implicherebbe l’inammissibilità
della questione sollevata in sede cautelare. Tale eccezione appare infondata,
per l’irrilevanza delle vicende successive del giudizio a quo, ai sensi
dell’art. 18 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte
costituzionale (ex multis, sentenze n. 242
e 162 del 2014,
n. 154 e n. 120 del 2013,
n. 274 del 2011),
e perché il Tribunale non ha fatto altro che ribadire la sospensione già disposta
in sede cautelare.
4.– Nel merito, la questione
di eccesso di delega, con riferimento al primo profilo sopra illustrato
(presente in tutte le ordinanze), non è fondata.
La Corte d’appello di Bari
(i cui argomenti sono ripresi nelle altre due ordinanze) ricorda che la legge
delega n. 190 del 2012 prevede tra i principi e criteri direttivi, all’art. 1,
comma 64, lettera m), quello di «disciplinare le ipotesi di sospensione
e decadenza di diritto dalle cariche di cui al comma 63 in caso di sentenza definitiva
di condanna per delitti non colposi successiva alla candidatura o
all’affidamento della carica», e ritiene che tale norma sia violata dagli artt.
8, comma 1, e 11, comma 1, del d.lgs. n. 235 del 2012, che contemplano la
sospensione dalla carica in caso di condanna non definitiva, anche precedente
la candidatura. Il rimettente, così come gli altri due giudici a quibus, invoca la lettera della disposizione e i lavori
preparatori della legge delega, dai quali emergerebbe che il comma 64, lettera m),
riferisce «la sospensione alle cariche elettive e la decadenza alle cariche non
elettive» (entrambe in caso di condanna definitiva).
4.1.– È opportuno
ripercorrere brevemente l’evoluzione della normativa in materia di
incandidabilità, decadenza e sospensione dalle cariche politiche, a partire
dalla legge 19 marzo 1990, n. 55 (Nuove disposizioni per la prevenzione della
delinquenza di tipo mafioso e di altre gravi forme di manifestazione di
pericolosità sociale).
Per tutelare la «trasparenza
dell’attività delle regioni e degli enti locali» (così il Titolo del Capo II
della legge), l’art. 15 della legge n. 55 del 1990 prevedeva la sospensione
degli amministratori regionali, provinciali e comunali che risultassero
sottoposti a procedimento penale per il delitto previsto dall’art. 416-bis
del codice penale, ovvero a una misura di prevenzione, anche non definitiva,
perché indiziati di appartenere ad associazioni di tipo mafioso. Alla
sospensione seguiva la decadenza in conseguenza del passaggio in giudicato
della sentenza o della definitività del provvedimento di applicazione della
misura di prevenzione.
In seguito, ritenendo tale
disciplina insufficiente ad arginare il fenomeno delle infiltrazioni di stampo
mafioso all’interno degli organi degli enti territoriali, il legislatore ha
provveduto – con la legge 18 gennaio 1992, n. 16 (Norme in materia di elezioni
e nomine presso le regioni e gli enti locali) – da un lato, attraverso
l’istituto della incandidabilità alle elezioni, a impedire che persone
gravemente indiziate di reati di stampo mafioso potessero ricoprire cariche
elettive, dall’altro, a estendere l’ambito dei reati ostativi, comprendendo in
esso anche quelli legati agli stupefacenti e alle armi, nonché alcuni reati
contro la pubblica amministrazione. All’epoca, peraltro, i presupposti
dell’incandidabilità e della sospensione erano i medesimi (provvedimenti
precedenti la condanna definitiva, diversi a seconda del tipo di reato) e il
secondo istituto trovava applicazione quando le cause di incandidabilità si
verificavano dopo l’elezione, ferma restando la decadenza dalla carica al
momento del passaggio in giudicato della condanna (art. 15, commi 1, 4-bis
e 4-quinquies, della legge n. 55 del 1990).
Dopo modifiche minori
introdotte dalla legge 12 gennaio 1994, n. 30 (Disposizioni modificative della
legge 19 marzo 1990, n. 55, in materia di elezioni e nomine presso le regioni e
gli enti locali, e della legge 17 febbraio 1968, n. 108, in materia di elezioni
dei consigli regionali delle regioni a statuto ordinario), la materia è stata
sostanzialmente ridisciplinata dalla legge 13
dicembre 1999, n. 475 (Modifiche all’articolo 15 della L. 19 marzo 1990, n. 55,
e successive modificazioni). A seguito della sentenza di questa
Corte n. 141 del 1996, che dichiarò illegittimo l’art. 15 della legge n. 55
del 1990, là dove prevedeva l’incandidabilità prima della condanna definitiva
(in quanto si trattava di una misura irreversibile che, per il suo carattere sproporzionato,
assumeva «i caratteri di una sanzione anticipata»), la legge n. 475 del 1999
collegò l’incandidabilità alla condanna definitiva, mentre causa della
sospensione dalla carica rimase la condanna non definitiva; la durata della
sospensione fu però limitata a diciotto mesi. Le norme fin qui illustrate sono
poi confluite negli artt. 58 e 59 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n.
267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali).
In seguito, a fronte del
permanere di una situazione di grave e diffusa illegalità nella pubblica
amministrazione, la legge delega n. 190 del 2012 ha previsto una serie di
misure per prevenire e reprimere tali fenomeni, fra le quali l’estensione
dell’incandidabilità e della decadenza ai parlamentari e alle cariche di
governo e l’ampliamento dei reati ostativi. Il d.lgs. n. 235 del 2012 ha dunque
riordinato la materia, dando attuazione alla legge n. 190 del 2012.
4.2.– Come si evince
dall’analisi delle norme e della giurisprudenza di questa Corte, se in origine
lo scopo della disciplina era quello «di costituire una sorta di difesa
avanzata dello Stato contro il crescente aggravarsi del fenomeno della
criminalità organizzata e dell’infiltrazione dei suoi esponenti negli enti
locali», avendo come finalità «la salvaguardia dell’ordine e della sicurezza
pubblica, la tutela della libera determinazione degli organi elettivi, il buon
andamento e la trasparenza delle amministrazioni pubbliche» (sentenza n. 407 del
1992), successivamente il carattere di diffusa illegalità nella pubblica
amministrazione indusse ad allargare l’ambito soggettivo e oggettivo della
disciplina, a tutela degli interessi costituzionali protetti dagli artt. 54,
secondo comma, e 97, secondo comma, Cost.
Sin dall’adozione della
legge n. 55 del 1990, peraltro, l’ordinamento ha sempre previsto la sospensione
dalla carica politica per provvedimenti (relativi ai reati ostativi) precedenti
la condanna definitiva e la decadenza dalla carica al momento del
passaggio in giudicato della sentenza di condanna.
Dunque, prima della legge
delega n. 190 del 2012, il regime della sospensione e della decadenza non ha
mai conosciuto la previsione che i giudici a quibus
imputano all’art. 1, comma 64, lettera m), ossia la sospensione
dalla carica elettiva solo in caso di condanna definitiva. Questo significa
che, nella prospettiva dei rimettenti, prevedendo la sospensione solo come
conseguenza della condanna definitiva, il legislatore delegante avrebbe avuto
l’intenzione di innovare in modo significativo la situazione previgente, non
solo dunque estendendo l’incandidabilità ai parlamentari e ampliando i reati
ostativi, ma anche abolendo la sospensione cautelare e la stessa
decadenza dalle cariche elettive, nel senso che la condanna non definitiva non
avrebbe dovuto produrre alcuna conseguenza e quella definitiva avrebbe
determinato solo la sospensione dalla carica elettiva e non la decadenza
(decadenza che, invece, si sarebbe verificata a carico dei titolari di cariche
non elettive).
L’intenzione di innovare
così radicalmente il regime della sospensione e della decadenza e, in
definitiva, di "ammorbidire” gli strumenti di prevenzione dell’illegalità nella
pubblica amministrazione non trova tuttavia riscontro nella chiara lettera
della legge delega. A differenza di altri criteri direttivi, che esprimono
univocamente una volontà innovativa (art. 1, comma 64, lettere a, b,
f, h, della legge n. 190 del 2012), il comma 64, lettera m),
non menziona affatto l’eliminazione della sospensione cautelare e della
decadenza dalle cariche elettive.
La formulazione del comma
64, lettera m), del resto, non è tale da escludere un’interpretazione in
continuità con il regime precedente, secondo la quale la legge delega non intendeva
affatto stravolgere l’assetto anteriore. Il sintagma successivo a «decadenza»
(«dalle cariche di cui al comma 63 in caso di sentenza definitiva di condanna
per delitti non colposi successiva alla candidatura o all’affidamento della
carica») può infatti essere riferito solo alla decadenza stessa e non anche
alla sospensione, che resterebbe così affidata alla disciplina di riordino del
legislatore delegato senza la precisazione espressa dal citato sintagma, da
intendere riservata al solo istituto della decadenza.
In mancanza di una chiara
formulazione letterale della norma delegante e di fronte alla possibilità di
attribuirle due diversi sensi, il suo esatto significato va individuato con i
consueti criteri ermeneutici, che fanno riferimento al testo della legge in cui
si inserisce e alla sua ratio. In relazione all’interpretazione delle
leggi di delega, la giurisprudenza costituzionale è costante nel ribadire fra
l’altro «come […] il contenuto della delega non possa essere individuato senza
tenere conto del sistema normativo nel quale la stessa si inserisce, poiché
soltanto l’identificazione della sua ratio consente di verificare, in
sede di controllo, se la norma delegata sia con essa coerente (ex plurimis, sentenze n. 134 del
2013, n. 272
del 2012, n.
230 del 2010, n.
98 del 2008, n.
163 del 2000)» (sentenza n. 210 del
2015; v. anche le sentenze n. 98 del
2015, n. 229
e n. 50 del 2014,
n. 119 del 2013,
n. 341 del 2007,
n. 425 del 2000).
4.3.– Sotto il profilo
testuale, si può osservare, in primo luogo, che, se la legge delega avesse
inteso privare di qualsiasi effetto la condanna di primo grado e differenziare,
come sostengono i rimettenti, le conseguenze della condanna definitiva in corso
di mandato a seconda del carattere elettivo o meno della carica (sospensione
dalla carica elettiva e decadenza dalla carica non elettiva), verosimilmente
essa avrebbe enunciato tale criterio distintivo in modo espresso. Il silenzio
del comma 64, lettera m), sul punto si può spiegare con la
considerazione che il criterio di distinzione tra sospensione e decadenza
doveva restare quello applicato sin dal 1990: sospensione dalla carica prima
della condanna definitiva e decadenza dopo il passaggio in giudicato della
condanna.
Sono significativi a questo
riguardo sia il titolo della legge n. 190 del 2012 («Disposizioni per la
prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica
amministrazione»), sia l’art. 1, commi 63 e 64, i quali, rispettivamente
prefigurando la disciplina in parola e indicando l’oggetto del decreto
legislativo, utilizzano espressioni come «testo unico» di «riordino» e
«armonizzazione della vigente normativa». Si tratta di riferimenti che devono
essere considerati nell’interpretazione della lettera m) (la quale, come
visto, a differenza di altri criteri direttivi, sopra citati, espressamente
innovativi, ha una formulazione ambigua) e che conducono a ravvisare nella
previsione relativa alla disciplina della sospensione l’intento di affidare al
legislatore delegato compiti di riordino e armonizzazione degli istituti
esistenti. In casi del genere, «se l’obiettivo è quello di ricondurre a sistema
una disciplina stratificata negli anni, […] la conseguenza [è] che i principi
sono quelli già posti dal legislatore» (sentenze n. 341 del
2007 e n. 53
del 2005), il che esclude l’illegittimità della scelta attuata dal Governo
di conservazione dell’istituto nei suoi caratteri essenziali e del suo semplice
adattamento alle innovazioni introdotte su altri versanti dalla nuova
disciplina.
4.4.– Il vizio di eccesso di
delega può essere escluso anche sulla base di considerazioni di carattere
logico-sistematico.
In primo luogo, l’abolizione
della sospensione cautelare e della decadenza dalle cariche elettive
contrasterebbe, sia con la finalità generale della legge n. 190 del 2012, sia
con la finalità del comma 64, sopra illustrate, perché segnerebbe un
arretramento negli strumenti di prevenzione dell’illegalità nella pubblica
amministrazione.
In secondo luogo, secondo i
rimettenti, l’ipotesi di applicare la sospensione alle cariche elettive e la
decadenza alle cariche non elettive (entrambe in caso di condanna definitiva)
si giustificherebbe sulla base di una corrispondenza con il carattere
temporaneo dell’incandidabilità previsto dalle lettere a) e b)
dell’art. 1, comma 64, della legge n. 190 del 2012; per cui, in altri termini,
come la condanna definitiva precedente l’elezione comporta un’incandidabilità
temporanea, così la condanna definitiva successiva all’elezione dovrebbe
comportare la mera sospensione dalla carica elettiva, e non la decadenza.
In realtà, l’incandidabilità
temporanea prevista alle lettere a) e b) riguarda solo i
parlamentari (come risulta espressamente dall’art. 1, comma 64, della
legge n. 190 del 2012 e dall’art. 13 del d.lgs. n. 235 del 2012), mentre
l’incandidabilità alle cariche politiche nelle regioni e negli enti locali è
definitiva, salva la riabilitazione (art. 15, comma 3, del d.lgs. n. 235 del
2012). Dunque, la tesi dei rimettenti non favorirebbe l’omogeneità del regime
della sospensione con quello dell’incandidabilità ma, al contrario, condurrebbe
a una evidente disarmonia, in quanto la condanna definitiva produrrebbe un
effetto definitivo (l’incandidabilità) se emessa prima dell’elezione e un
effetto provvisorio (la sospensione) se emessa dopo l’elezione. Una analoga
disarmonia è già stata censurata da questa Corte, a proposito della norma che
sanciva l’incandidabilità a seguito di provvedimenti precedenti la condanna
definitiva (art. 15 della legge n. 55 del 1990), con la considerazione che «[q]uelle stesse situazioni che – se presenti al momento
dell’elezione – determinano, ai sensi del comma 1, l’ineleggibilità di coloro
che vi si trovano, qualora invece sopravvengano dopo l’elezione comportano la
mera sospensione dell’eletto, e non la decadenza (comma 4-bis), mentre
questa consegue solo alla condanna definitiva (comma 4-quinquies)», e
che «[s]ono dunque evidenti l’incongruenza e la
sproporzione di una misura irreversibile come la non candidabilità, in forza di
quei presupposti ai quali la legge attribuisce fisiologicamente – ove
sopravvenuti – l’effetto meramente sospensivo» (sentenza n. 141 del
1996).
In terzo luogo, non è
plausibile che il legislatore delegante intendesse abolire un istituto (la
sospensione cautelare) di cui in diverse occasioni questa Corte ha riconosciuto
la piena legittimità in quanto rispondente a diversi interessi costituzionali
(v., prima della legge n. 190 del 2012, le sentenze n. 352 del
2008, n. 25
del 2002, n.
141 del 1996 e n. 407 del 1992;
dopo la legge delega, le sentenze n. 236 del
2015 e n.
118 del 2013), definendolo anche – come visto – effetto "fisiologico” della
condanna non definitiva (sentenza n. 141 del
1996).
In quarto luogo, si può
osservare che, secondo la prospettiva dei rimettenti, il soggetto titolare di
carica elettiva, condannato in via definitiva per un reato ostativo, sarebbe
sospeso dalla carica e, dunque, potrebbe eventualmente riprendere la propria
funzione nel corso dello stesso mandato, se di durata maggiore della sospensione,
ma non potrebbe candidarsi alle elezioni successive perché la condanna
definitiva fa scattare l’incandidabilità. L’incongruità di tale soluzione
concorre a respingere l’ipotesi interpretativa dei rimettenti.
Infine, i lavori preparatori
della legge n. 190 del 2012, invocati dai giudici a quibus,
non forniscono indizi univoci, dal momento che, accanto ad alcuni spunti a
favore dell’interpretazione sostenuta dai rimettenti (carenti, peraltro, sul
piano della consapevolezza dei rilevanti effetti innovativi che sarebbero
discesi da tale interpretazione del criterio direttivo), si riscontrano
significativi elementi in senso contrario. Da un lato, risulta che nel corso
dei lavori preparatori non si sia mai fatto cenno a una volontà di abolizione
della sospensione cautelare e della decadenza, mentre è sottolineato che le
innovazioni consistevano nell’estensione dell’incandidabilità ai parlamentari
nazionali ed europei e nell’ampliamento dei reati ostativi, in una prospettiva
di rafforzamento (e non di indebolimento) della tutela degli enti pubblici.
Dall’altro lato, il parere del Comitato per la legislazione della Camera
presupponeva che sia la sospensione che la decadenza si riferissero alle
cariche elettive.
Si può ancora rilevare che
neppure le commissioni parlamentari in sede consultiva hanno avuto alcun dubbio
sul significato del comma 64, lettera m), che hanno inteso pacificamente
in senso conservativo del regime previgente e, dunque, senza incertezze sulla
conformità ad esso degli artt. 8, comma 1, e 11, comma 1, del decreto.
L’art. 1, comma 64, lettera m),
della legge n. 190 del 2012 è pertanto da interpretare nel senso che il periodo
che segue «decadenza di diritto» (cioè, «dalle cariche di cui al comma 63 in caso
di sentenza definitiva di condanna per delitti non colposi successiva alla
candidatura o all’affidamento della carica») si riferisce solo alla decadenza e
non alla sospensione.
4.5.– Come detto, il
Tribunale ordinario di Napoli solleva anche la questione se l’art. 8 del d.lgs.
n. 235 del 2012 violi l’art. 1, comma 64, lettera m), della legge n. 190
del 2012, là dove non limita la sospensione dalla carica alle condanne
successive alla candidatura. La questione di eccesso di delega non è fondata
nemmeno con riferimento a questo profilo.
Si tratta, in realtà, di un
profilo privo di autonomia rispetto al primo, appena esaminato. Una volta
appurato che l’inciso «sentenza definitiva di condanna» si riferisce solo alla
decadenza e non alla sospensione, ne segue inevitabilmente che nemmeno il
requisito temporale relativo alla condanna («successiva alla candidatura») può
essere applicato alla sospensione.
5.– I giudici a quibus dubitano della legittimità costituzionale delle
norme che prevedono la sospensione dalla carica degli amministratori regionali
(art. 8, comma 1, del d.lgs. n. 235 del 2012) e locali (art. 11, comma 1, del
d.lgs. n. 235 del 2012) che abbiano riportato una condanna non definitiva per
uno dei reati in esse previsti, poiché, in violazione degli articoli 25,
secondo comma, e 117, primo comma, Cost. (quest’ultimo, in relazione all’art. 7
della CEDU), la loro applicazione non è limitata alle sentenze di condanna
relative a reati consumati dopo la loro entrata in vigore.
5.1.– Con riguardo all’ordinanza
del Tribunale ordinario di Messina, l’Avvocatura generale dello Stato eccepisce
il difetto di rilevanza della questione, dal momento che nel 2004 – epoca nella
quale il ricorrente nel giudizio a quo si sarebbe reso colpevole di
peculato – l’ordinamento già prevedeva per tale reato la sospensione dalla
carica elettiva a fronte di sentenza di condanna di primo grado (art. 59, primo
comma, lettera a, del d.lgs. n. 267 del 2000, trasfuso nell’attuale art.
11, primo comma, lettera a, del d.lgs. n. 235 del 2012).
L’eccezione è fondata nei
termini che seguono.
L’ordinanza del Tribunale
ordinario di Messina non fa riferimento al titolo di reato per cui vi è stata
condanna non definitiva. Tale insufficiente descrizione della fattispecie si
traduce in un’insufficiente motivazione sulla rilevanza della questione.
La questione, infatti,
sarebbe rilevante solo se avesse per oggetto un nuovo reato ostativo, che prima
dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 235 del 2012 non faceva scattare la
sospensione dalla carica per la medesima durata, a seguito di condanna non
definitiva. Con riguardo invece ai reati già considerati come ostativi dalla
disciplina anteriore al d.lgs. n. 235 del 2012 ‒ tra i quali l’art. 59
del previgente d.lgs. n. 267 del 2000 comprendeva anche il peculato ‒ non
sarebbe prospettabile in radice la retroattività della sospensione dalle
cariche, anche qualora la si qualificasse come sanzione penale, in quanto al
momento della commissione del reato l’ordinamento già prevedeva la stessa
misura per la medesima fattispecie. Tra la norma allora in vigore e l’attuale
sussiste infatti un rapporto di continuità.
La lacuna nella motivazione
dell’ordinanza del giudice a quo impedisce a questa Corte di operare il
necessario controllo sulla rilevanza della questione, determinandone
l’inammissibilità.
5.2.– Nel merito, le
restanti questioni di legittimità costituzionale, sollevate dalla Corte di
appello di Bari e dal Tribunale ordinario di Napoli in riferimento all’art. 25,
secondo comma, Cost., non sono fondate.
L’art. 25, secondo comma,
Cost. riferisce il principio di stretta legalità soltanto alla pena, disponendo
che «nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in
vigore prima del fatto commesso».
Anche con riguardo alle
misure sanzionatorie diverse dalle pene in senso stretto questa Corte ha
affermato che sussiste «l’esigenza della prefissione ex
lege di rigorosi criteri di esercizio del potere
relativo all’applicazione (o alla non applicazione) di esse» (sentenza n. 447 del
1988), e ha inoltre precisato come la necessità «che sia la legge a
configurare, con sufficienza adeguata alla fattispecie, i fatti da punire»
risulti pur sempre «ricavabile anche per le sanzioni amministrative dall’art.
25, secondo comma, della Costituzione» (sentenza n. 78 del
1967).
Da ultimo, ha affermato che
il principio, desumibile dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo,
secondo cui tutte le misure di carattere punitivo-afflittivo devono essere
soggette alla medesima disciplina della sanzione penale in senso stretto è
«desumibile anche dall’art. 25, secondo comma, Cost., il quale ‒ data
l’ampiezza della sua formulazione ("Nessuno può essere punito...”) ‒ può
essere interpretato nel senso che ogni intervento sanzionatorio, il quale non
abbia prevalentemente la funzione di prevenzione criminale (e quindi non sia
riconducibile ‒ in senso stretto ‒ a vere e proprie misure di sicurezza),
è applicabile soltanto se la legge che lo prevede risulti già vigente al
momento della commissione del fatto sanzionato» (sentenza n. 196 del
2010; nello stesso senso anche la successiva pronuncia n. 104 del 2014).
Nondimeno, il principio di
irretroattività valido per le pene e per le misure amministrative di carattere
punitivo-afflittivo non è predicabile nei confronti delle disposizioni
censurate, per la natura non punitiva di quanto in esse previsto.
Prendendo in esame le stesse
previsioni del d.lgs. n. 235 del 2012, questa Corte ha escluso che «le misure
della incandidabilità, della decadenza e della sospensione abbiano carattere
sanzionatorio», rappresentando esse solo «conseguenze del venir meno di un
requisito soggettivo per l’accesso alle cariche considerate». La sospensione
dalla carica, in particolare, «risponde ad esigenze proprie della funzione amministrativa
e della pubblica amministrazione presso cui il soggetto colpito presta
servizio» e, trattandosi di sospensione, costituisce «misura sicuramente
cautelare» (sentenza
n. 236 del 2015, la quale si colloca nel solco tracciato dalle precedenti sentenze n. 25 del
2002, n. 206
del 1999 e n.
295 del 1994).
5.3.– I giudici rimettenti
censurano le norme impugnate anche per contrasto con l’art. 117, primo comma,
Cost., per il tramite di un parametro convenzionale, l’art. 7 della CEDU, che
osterebbe all’applicazione retroattiva della sospensione dalla carica, in
quanto sanzione penale ai fini e per gli effetti della Convenzione.
Al riguardo i rimettenti si
limitano a considerare che, sebbene la sospensione dalla carica costituisca un
effetto di natura amministrativa della condanna penale, si tratterebbe comunque
di un effetto afflittivo conseguente a condanna pronunciata per un reato
consumato in data antecedente a quella dell’entrata in vigore.
Tale motivazione ‒
povera di argomenti di supporto e di richiami alla giurisprudenza della Corte
EDU ‒ è appena sufficiente a superare la soglia minima dell’ammissibilità
e lo è solo perché essa individua, sia pure in modo implicito, nel ritenuto
carattere di "afflittività” della misura uno dei criteri identificativi della
nozione di "pena” in senso convenzionale, coniati dalla Corte di Strasburgo.
5.4.‒ Questa Corte è
dunque chiamata a verificare se la sospensione dalle cariche elettive locali
prevista dalla disposizione censurata sia compatibile con il principio di
irretroattività delle sanzioni di cui all’art. 7 CEDU, la cui applicabilità
presuppone l’utilizzo di autonomi criteri elaborati dalla giurisprudenza
europea per definire la nozione di pena.
Nella sua ormai
quarantennale giurisprudenza in tema, la Corte di Strasburgo ha individuato tre
figure sintomatiche della natura penale di una sanzione (i cosiddetti criteri
"Engel”): la qualificazione dell’illecito operata dal diritto nazionale; la
natura della sanzione, alla luce della sua funzione punitiva-deterrente; la sua
severità, ovvero la gravità del sacrificio imposto (sentenza 8 giugno 1976, Engel
c. Olanda; i principi da essa enunciati sono stati confermati da molte
sentenze successive: 26
marzo 1982, Adolf c. Austria, paragrafo 30; 9 febbraio 1995, Welch c.
Regno Unito, paragrafo 27; 25 agosto 1987, Lutz c. Germania, paragrafo 54; 21 febbraio 1984, Öztürk c. Germania, paragrafo 50; 22 febbraio 1996, Putz c. Austria, paragrafo 31; 21 ottobre 1997, Pierre-Bloch
c. Francia, paragrafo 54; 24 settembre 1997, Garyfallou AEBE c. Grecia, paragrafo 32).
Come ribadito da ultimo nella sentenza 4 marzo 2014, Grande
Stevens e altri c. Italia, questi criteri sono «alternativi e non
cumulativi», ma ciò non impedisce di adottare un «approccio cumulativo se
l’analisi separata di ciascun criterio non permette di arrivare ad una
conclusione chiara in merito alla sussistenza di una "accusa in materia penale”
(Jussila c. Finlandia
[GC], n. 73053/01, §§ 30 e 31, CEDU 2006-XIII, e Zaicevs c. Lettonia, n.
65022/01, § 31, CEDU 2007-IX)» (paragrafo 94).
5.5.– La qualificazione sostanziale come
pena, nel senso della nozione elaborata dalla Corte di Strasburgo, di una
misura prevista dall’ordinamento interno che incida negativamente nella sfera
del destinatario, comporta che siano applicabili ad essa le garanzie previste
dalla CEDU, quali in particolare: il diritto al giusto processo in materia
civile e penale (art. 6); il principio nulla poena sine lege (art. 7); il
divieto del bis in idem (art. 4, paragrafo 1, del Protocollo n. 7).
Spetta nondimeno a questa Corte
«valutare come ed in qual misura il prodotto dell’interpretazione della Corte
europea si inserisca nell’ordinamento costituzionale italiano. La norma CEDU,
nel momento in cui va ad integrare il primo comma dell’art. 117 Cost., da
questo ripete il suo rango nel sistema delle fonti, con tutto ciò che segue, in
termini di interpretazione e bilanciamento, che sono le ordinarie operazioni
cui questa Corte è chiamata in tutti i giudizi di sua competenza» (sentenza n. 317 del
2009). In altri termini, spetta a essa di apprezzare la giurisprudenza
europea formatasi sulla norma conferente, «in modo da rispettarne la sostanza,
ma con un margine di apprezzamento e di adeguamento che le consenta di tener
conto delle peculiarità dell’ordinamento giuridico in cui la norma
convenzionale è destinata a inserirsi (sentenza n. 311 del
2009)» (sentenza
n. 236 del 2011; da ultimo, sentenza n. 193 del
2016).
Con particolare riferimento al diritto
di elettorato passivo e alla protezione riconosciuta ad esso dalla Convenzione,
gli Stati contraenti godono di un ampio margine di apprezzamento, che tiene
conto, tra l’altro, delle peculiarità storiche, politiche e culturali di
ciascun ordinamento. La Corte europea ha precisato che, per quanto concerne il
diritto di candidarsi alle elezioni, e cioè il versante "passivo” dei diritti
garantiti dall’articolo 3 del Protocollo n. 1, la valutazione delle sue
restrizioni deve essere ancora più prudente di quanto non debba essere l’esame
delle restrizioni al diritto di voto, vale a dire l’elemento "attivo” degli
stessi diritti. Ciò in quanto il diritto di presentarsi alle elezioni deve
poter essere circondato nella sua disciplina ad opera del legislatore nazionale
da cautele ancora più rigorose rispetto a quelle predisposte nella disciplina
del diritto di voto (sentenze 6 ottobre 2005, Hirst c. Regno Unito n. 2, paragrafi 57-62;
16 marzo 2006, Zdanoka c. Lettonia, Grande Camera, paragrafo
115).
5.6.‒ In assenza di precedenti
specifici della Corte EDU relativi a normative che, come quella censurata e con
modalità simili a quelle in essa previste, facciano derivare da condanne penali
la perdita dei requisiti di candidabilità e di mantenimento della carica, per
valutare la compatibilità con l’art. 117, primo comma, Cost. della normativa
oggetto del presente giudizio occorre fare applicazione dei citati criteri di
qualificazione della misura da essa disposta come sanzione penale ai sensi
della Convenzione stessa.
5.6.1.‒ Escluso, per le ragioni
esposte sopra (paragrafo 5.2.), che la sospensione di diritto dalla carica
abbia natura penale nel diritto interno, è necessario verificare se ricorrano
gli altri due criteri concorrenti, attinenti rispettivamente alla sostanza
punitiva della misura e alla gravità del sacrificio imposto.
La natura punitiva della misura si
desume, secondo la giurisprudenza di Strasburgo, da un complesso di elementi,
tra i quali principalmente il tipo di condotta sanzionata, il nesso fra la
misura inflitta e l’accertamento di un reato, la presenza di beni e interessi
tradizionalmente affidati alla sfera penale, il procedimento con il quale la
misura è adottata.
Scopo della misura della sospensione
dalla carica prevista dal d.lgs. n. 235 del 2012 è, nelle intenzioni del
legislatore, come visto, esclusivamente quello di tutelare la pubblica funzione
in attesa che l’accertamento penale si consolidi nel giudicato. Si tratta di
una misura tipicamente interinale, di mera anticipazione dell’effetto
interdittivo derivante dal giudicato, anch’esso parimenti non diretto a
finalità punitive. Tale effetto trova il suo fondamento nella valutazione,
compiuta dal legislatore, delle condizioni che sconsigliano provvisoriamente la
permanenza dell’eletto in una determinata carica pubblica, al fine di sottrarre
l’ufficio a dubbi sulla onorabilità di chi lo riveste che potrebbero metterne
in discussione il prestigio e pregiudicarne il buon andamento.
Nella giurisprudenza della Corte EDU si rinvengono
decisioni che hanno collocato al di fuori della sfera penale talune restrizioni
del diritto di elettorato passivo, per quanto collegate alla commissione di un
illecito, in ragione della loro finalità principale di proteggere l’integrità
di una pubblica istituzione (sentenze 6 gennaio 2011, Paksas c. Lituania; 24 giugno 2008, Adamsons c. Lettonia, paragrafo 114; 16 marzo 2006, Zdanoka c. Lettonia, Grande Camera, paragrafi
122, 130 e 133). Più precisamente la Corte di Strasburgo ha escluso la
natura penale della misura dell’incandidabilità, quando sia diretta ad
assicurare un corretto svolgimento delle elezioni parlamentari. E ciò anche se
una misura dello stesso contenuto – l’esclusione dalla candidabilità – sia
prevista dalla legge penale come sanzione "ancillare” o "aggiuntiva” a una
sanzione penale principale, giacché in questo secondo caso, a differenza del
primo, essa deriva la sua natura penale dalla sanzione principale alla quale
accede (sentenza 21 ottobre
1997, Pierre Bloch c. Francia,
paragrafo 56).
Nella decisione preliminare sulla
ricevibilità del 30 maggio 2006, Matyjek c. Polonia, la Corte EDU ha sì concluso
per la natura penale della perdita della "qualificazione morale” ‒
irrogata all’esito del c.d. "procedimento di lustrazione”, per la falsità della
dichiarazione, presentata dal candidato a ricoprire le posizioni specificate
dalla legge polacca che lo disciplina (essenzialmente cariche elettive di
livello nazionale), in merito alla sua eventuale collaborazione con i servizi
segreti del regime comunista ‒ ma ciò ha statuito sull’accertato
presupposto che il procedimento adottato nel caso concreto non avesse altro
scopo che sanzionare l’autore della falsa dichiarazione (paragrafo 56 della
sentenza).
Più in generale, occupandosi di sanzioni
amministrative, la giurisprudenza della Corte di Strasburgo ha escluso che si
configurino come "penali”, nel significato convenzionale del termine, quelle
misure che soddisfano generiche pretese risarcitorie o che sono essenzialmente
dirette a ripristinare la situazione di legalità restaurando l’interesse
pubblico leso (sentenza 7
luglio 1989, Tre Traktörer
Aktiebolag c. Svezia, paragrafo 46).
La stessa mancanza di discrezionalità in
capo all’autorità amministrativa chiamata ad accertare l’intervenuta causa di
sospensione, la quale consegue automaticamente alla sentenza penale di
condanna, senza che sia necessaria una deliberazione diretta a graduare la
misura calibrandola sulle specifiche caratteristiche del caso concreto,
costituisce un indice ulteriore del fatto che l’incapacità giuridica temporanea
di cui si discute non consegue a un giudizio di riprovazione personale, ma è
semplicemente diretta a garantire l’oggettiva onorabilità di chi riveste la
funzione di cui si tratta.
La sentenza Welch c. Regno Unito del 1995 ‒ in cui si legge che «il
punto di partenza per ogni valutazione sulla sussistenza di una pena consiste
nel determinare se la misura in questione è imposta a seguito [«following»
nella versione inglese e «à la suite» nella versione francese] di una condanna
per un illecito penale» (paragrafo 28) ‒ non si attaglia alla fattispecie
normativa qui in esame.
In primo luogo, il collegamento fra la
prevista sospensione e l’accertamento penale (non definitivo) non attesta una
funzione repressiva della prima, come si evince, non solo dalla strutturale
provvisorietà della misura, ma soprattutto dal fatto che sia la sua
applicazione che la sua durata prescindono dalla pena irrogata in concreto dal
giudice. Essa inoltre produce i suoi effetti indipendentemente dalla
limitazione del diritto di elettorato passivo derivante dall’applicazione della
pena accessoria dell’interdizione temporanea dai pubblici uffici.
In secondo luogo, mentre nel caso Welch la confisca collegata al reato di traffico di
stupefacenti era chiaramente diretta a neutralizzare gli effetti della condotta
illecita sanzionata, nel nostro caso il fatto di reato accertato può non avere
alcuna incidenza (nemmeno temporale) sull’esercizio del mandato, e la
sospensione costituisce, non uno sviluppo "interno” di quanto statuito nella
condanna, ma solo l’oggettivo presupposto perché si produca un effetto
ulteriore e distinto, destinato a operare in modo autonomo ed "esterno”
rispetto all’azione pubblica di repressione penale.
5.6.2.‒ Esclusa la natura punitiva
e in questo senso "penale” della sospensione, occorre passare al terzo indice,
riguardante la gravità delle conseguenze sfavorevoli per colui che ne è
colpito. La Corte di Strasburgo ha chiarito che per valutare tale gravità si
deve fare riferimento al massimo edittale e non alla misura effettivamente
irrogata nei confronti di chi instaura il giudizio avverso lo Stato (sentenza 30 marzo del 2004, Hirst c. Regno Unito n. 1; sentenza 4 marzo 2014, Grande
Stevens e altri c. Italia; sentenza 22 maggio 1990, Weber c. Svizzera, paragrafo 34). Il
rigore di una misura punitiva dipende inoltre dalla sua capacità di incidere sulla
posizione del destinatario: ciò che rileva, cioè, è la dimensione soggettiva e
non quella oggettiva della pretesa punitiva (sentenza 1° febbraio 2005, Ziliberberg c. Moldova, paragrafo 34).
La sospensione dalla carica prevista
nella disposizione all’esame di questa Corte è limitata a diciotto mesi,
decorsi i quali la sospensione stessa viene meno. La circostanza che,
nonostante la delicatezza dell’interesse pubblico tutelato, la misura intacchi
solo una porzione circoscritta del mandato elettivo depone nel senso di una sua
limitata severità, sia in termini oggettivi di durata, sia in termini
soggettivi di detrimento della reputazione. Che il grado di gravità della
misura non sia idoneo a ricondurla nell’ambito di ciò che a tali fini va
considerato come "penale” è confermato dal precedente Pierre Bloch, in cui l’ineleggibilità per un anno – comminata a seguito della violazione
di norme sui limiti di spesa della campagna elettorale – è stata ritenuta,
anche per la sua durata, non assimilabile a una sanzione di carattere penale.
Il periodo massimo di sospensione previsto dalla norma censurata è accostabile
per ordine di grandezza a quello considerato nella sentenza Bloch, sicché anche sotto tale profilo i riferimenti alla
giurisprudenza di Strasburgo non conducono a riconoscere alla misura in esame
natura "penale” convenzionale.
In definitiva è assente, nella
sospensione dalla carica qui in esame, quel connotato di "speciale” gravità,
necessario perché la misura che non presenta finalità deterrente e punitiva
possa essere assimilata, sul piano della sua afflittività, a una sanzione
penale o a una sanzione amministrativa.
5.7.‒ In conclusione, dal quadro
delle garanzie apprestate dalla CEDU come interpretate dalla Corte di
Strasburgo non è ricavabile un vincolo ad assoggettare una misura
amministrativa cautelare, quale la sospensione dalle cariche elettive in
conseguenza di una condanna penale non definitiva, al divieto convenzionale di
retroattività della legge penale. Mentre è compatibile con quel quadro la
soluzione adottata dal legislatore italiano con la finalità di evitare «che la
permanenza in carica di chi sia stato condannato anche in via non definitiva
per determinati reati che offendono la pubblica amministrazione [possa]
comunque incidere sugli interessi costituzionali protetti dall’art. 97, secondo
comma, Cost., che affida al legislatore il compito di organizzare i pubblici
uffici in modo che siano garantiti il buon andamento e l’imparzialità
dell’amministrazione, e dall’art. 54, secondo comma, Cost., che impone ai
cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche "il dovere di adempierle con
disciplina ed onore”» (sentenza n. 236 del
2015).
Anche la questione della violazione
dell’art. 117, primo comma, Cost. (in relazione all’art. 7 della CEDU) non è
dunque fondata.
6.‒ Il Tribunale ordinario di
Napoli e quello di Messina ritengono altresì violati gli artt. 2, 4, secondo
comma, 51, primo comma, e 97, secondo comma, Cost., poiché gli artt. 8 e 11 del
d.lgs. n. 235 del 2012 non si applicano alle sole sentenze di condanna relative
a reati consumati dopo la loro entrata in vigore, mentre l’art. 51 Cost.,
nell’affidare alla legge la disciplina dell’esercizio del diritto di elettorato
passivo, lo consentirebbe solo nei limiti fisiologici entro i quali alla legge
stessa è permesso di operare, cioè non retroattivamente (art. 11 delle
disposizioni sulla legge in generale).
La questione sollevata dal Tribunale
ordinario di Messina è inammissibile per difetto di motivazione sulla
rilevanza, in ragione di quanto già osservato in precedenza (paragrafo 5.1.).
Nel merito, la questione che si esamina
in quanto sollevata dal Tribunale ordinario di Napoli è già stata dichiarata
infondata da questa Corte con la sentenza n. 236 del
2015, e va pertanto respinta per gli stessi motivi, e segnatamente per
l’infondatezza della tesi, sostenuta dal rimettente, della
"costituzionalizzazione” del principio di irretroattività in tutti i casi in
cui la Costituzione riserva alla legge la disciplina di diritti inviolabili.
Come più volte affermato nella giurisprudenza di questa Corte, infatti, «al di
fuori dell’ambito di applicazione dell’art. 25, secondo comma, Cost., […] le
leggi possono retroagire, rispettando "una serie di limiti che questa Corte ha
da tempo individuato e che attengono alla salvaguardia, tra l’altro, di
fondamentali valori di civiltà giuridica posti a tutela dei destinatari della
norma e dello stesso ordinamento, tra i quali vanno ricompresi il rispetto del
principio generale di ragionevolezza e di eguaglianza, la tutela
dell’affidamento legittimamente sorto nei soggetti quale principio connaturato
allo Stato di diritto e il rispetto delle funzioni costituzionalmente riservate
al potere giudiziario” (ex plurimis, sentenza n. 156 del
2007)» (sentenza
n. 236 del 2015).
7.– La Corte d’appello di Bari e il
Tribunale ordinario di Napoli sollevano, in termini sostanzialmente identici e
con riferimento agli stessi parametri (artt. 3, 51, 76 e 77 Cost.), la
questione di disparità di trattamento fra gli eletti ai consigli regionali
(oltre ai presidenti delle giunte regionali) e gli eletti al Parlamento
nazionale ed europeo.
Le censure possono quindi essere
esaminate congiuntamente.
I giudici a quibus rilevano che ai sensi
dell’art. 1, comma 1, lettera b), del d.lgs. n. 235 del 2012 non sono
candidabili alle elezioni della Camera dei deputati e del Senato della
Repubblica «coloro che hanno riportato condanne definitive a pene superiori a
due anni di reclusione per i delitti, consumati o tentati, previsti nel libro
II, titolo II, capo I, del codice penale», delitti tra i quali rientra l’abuso
d’ufficio (art. 323 cod. pen.). La stessa disciplina vale per i candidati al
Parlamento europeo, in forza del rinvio all’art. 1 del d.lgs. n. 235 del 2012
contenuto nel successivo art. 4.
Un’analoga soglia non è invece prevista
dall’art. 7, comma 1, lettera c), alla cui stregua non possono essere candidati
alle elezioni regionali e non possono comunque ricoprire la carica – tra le
altre – di Presidente della giunta regionale, coloro che hanno riportato
condanna definitiva per una serie di delitti contro la pubblica
amministrazione, compreso l’abuso d’ufficio.
Di conseguenza, per i consiglieri
regionali e per coloro che ricoprono le altre cariche previste dall’art. 7,
comma 1, lettera c), la sospensione e la decadenza di diritto disciplinate
dall’art. 8 del d.lgs. n. 235 del 2012 si applicano anche nel caso di condanna
per abuso d’ufficio – rispettivamente, non definitiva e definitiva – pari o
inferiore a due anni di reclusione, al di sotto cioè della soglia che fa
scattare l’incandidabilità temporanea dei parlamentari.
Questa disparità di trattamento non
sarebbe giustificata dalla diversa situazione istituzionale e funzionale dei
membri del Parlamento e dei consiglieri regionali, apparendo irragionevole, ad
avviso dei rimettenti, che gli eletti in competizioni locali ricevano un
trattamento più severo.
7.1.– In via preliminare, si deve
innanzitutto chiarire quali sono le norme oggetto di censura.
Il riferimento fatto dalla Corte
d’appello di Bari al «comma 1 dell’art. 7 lett. c) Legge 190/2012» riguarda, in
realtà, l’art. 7, comma 1, lettera c), del d.lgs. n. 235 del 2012, appena
citato, che il giudice a quo pone «in relazione» all’art. 8, comma 1, lettera
a), dello stesso decreto legislativo.
Entrambe le norme sono espressamente
menzionate dal Tribunale ordinario di Napoli, che «in relazione» a esse estende
la questione anche all’art. 1, comma 1, lettera b), del d.lgs. n. 235 del 2012.
Tuttavia, quest’ultima è la disposizione che, secondo i rimettenti, funge da
tertium comparationis idoneo a dimostrare la prospettata lesione del principio
di uguaglianza e di ragionevolezza, pertanto essa non può costituire allo
stesso tempo l’oggetto della censura.
Nei giudizi principali, inoltre, deve
essere direttamente applicato l’art. 8, comma 1, lettera a), poiché si
controverte di sospensioni derivanti da sentenze di condanna non definitive.
L’art. 7, comma 1, lettera c), in tema di incandidabilità da condanna
definitiva, rileva solo come norma alla quale il citato art. 8 rinvia per
individuare le cariche soggette alla sospensione e la platea dei reati per i
quali la condanna non definitiva fa scattare la misura.
La questione deve quindi essere
circoscritta all’art. 8, comma 1, lettera a).
7.2.– Sempre in via preliminare, va
dichiarata l’inammissibilità della questione sollevata dal Tribunale ordinario
di Napoli.
Nell’ordinanza di rimessione, il giudice
a quo non fa menzione dell’entità della pena alla quale il destinatario della
misura di sospensione è stato condannato in via non definitiva per abuso
d’ufficio. Questa mancanza si traduce in una insufficiente descrizione della fattispecie,
che preclude il controllo sulla rilevanza della questione, in quanto la
disparità di trattamento normativo censurata dal giudice a quo rileverebbe ai
fini della decisione del processo principale solo se in concreto la pena
inflitta fosse pari o inferiore a due anni di reclusione.
Secondo la costante giurisprudenza
costituzionale, l’omessa o insufficiente descrizione della fattispecie – non
emendabile mediante la diretta lettura degli atti, impedita dal principio di autosufficienza
dell’atto di rimessione – determina l’inammissibilità della questione per
omessa o insufficiente motivazione sulla rilevanza (ex plurimis, sentenze n. 128 del 2014,
n. 338 del 2011,
ordinanza n. 176
del 2014).
Deve essere altresì dichiarata
l’inammissibilità della questione sollevata dalla Corte d’appello di Bari con
riferimento alla violazione degli artt. 76 e 77 Cost.
Il giudice a quo motiva sulla non
manifesta infondatezza esponendo solo le ragioni a sostegno della
irragionevolezza della disparità di trattamento normativo, senza fornire alcun
argomento di supporto all’ulteriore invocazione degli artt. 76 e 77 Cost., già
posti a fondamento dell’autonoma censura relativa all’eccesso di delega
(sull’inammissibilità della questione per carenza di motivazione sulla non
manifesta infondatezza riferita ai parametri indicati dal giudice a quo, ex plurimis sentenza n. 133 del
2016, ordinanze n. 93 del 2016
e n. 52 del 2015).
7.3.‒ Di conseguenza, l’esame nel
merito va limitato alla questione sollevata dalla Corte d’appello di Bari e, in
questo ambito, alla violazione degli artt. 3 e 51 Cost. Anche quest’ultimo
parametro, sul diritto di elettorato passivo, è evocato senza l’esposizione di
autonome ragioni, con la conseguenza che si deve ritenere che il rimettente ne
lamenti la lesione solo quale ulteriore conseguenza della violazione del
principio di uguaglianza e di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost.
Nel merito, la questione non è fondata.
Questa Corte, con la sentenza n. 407 del
1992, è già pervenuta in un caso analogo a una decisione di non fondatezza
sulla considerazione della diversità delle situazioni soggettive messe a
confronto.
In quell’occasione, l’oggetto del
giudizio era costituito, tra gli altri, dai commi 4-bis e 4-ter dell’art. 15
della legge n. 55 del 1990, introdotti dall’art. 1 della legge n. 16 del 1992.
La legge n. 16 del 1992 aveva modificato
la disciplina della legge n. 55 del 1990 in materia di elezioni regionali,
provinciali, comunali e circoscrizionali introducendo nuove cause di
incandidabilità in relazione, tra il resto, a condanne anche non definitive per
delitti di particolare gravità (associazione di tipo mafioso o finalizzata al
traffico di sostanze stupefacenti, altri delitti concernenti dette sostanze,
ovvero in materia di armi, alcuni delitti commessi da pubblici ufficiali contro
la pubblica amministrazione). Le medesime situazioni comportavano che i
soggetti considerati non potessero comunque ricoprire una serie di cariche
elettive, anche di secondo grado, e di altri incarichi di competenza regionale
o locale.
I commi 4-bis e 4-ter stabilivano che,
qualora dette condizioni fossero sopravvenute all’elezione o alla nomina, ciò
avrebbe comportato «l’immediata sospensione dalle cariche», da adottare con
procedure diverse a seconda dei casi.
Queste disposizioni furono impugnate,
tra l’altro, in riferimento all’art. 3 Cost., in quanto nel prevedere la
sospensione nei soli confronti di consiglieri e assessori regionali e
provinciali e non anche dei titolari di analoghe cariche statali, quali i
membri del Parlamento e del Governo, avrebbero realizzato un irragionevole
trattamento differenziato a favore di questi ultimi.
Questa Corte ha ritenuto che «non appare
configurabile, sotto il profilo della disparità di trattamento, un raffronto
tra la posizione dei titolari di cariche elettive nelle regioni e negli enti
locali e quella dei membri del Parlamento e del Governo, essendo evidente il
diverso livello istituzionale e funzionale degli organi costituzionali ora
citati», con la conseguenza che «certamente non può ritenersi irragionevole la
scelta operata dal legislatore di dettare le norme impugnate con esclusivo
riferimento ai titolari di cariche elettive non nazionali» (sentenza n. 407 del
1992).
Non vi sono motivi per discostarsi da
queste conclusioni per il caso in esame, nel quale la censura ha una portata
più ristretta, limitandosi al rilievo che le condizioni di applicabilità della
sospensione e della incandidabilità sono differenziate per le cariche negli
organi degli enti territoriali, da un lato, e la posizione di membro del
Parlamento nazionale ed europeo, dall’altro, in relazione alla misura della
pena inflitta. Inoltre, lo statuto dei membri del Parlamento è assistito da
garanzie costituzionalmente presidiate, che porrebbero limiti all’estensione
con legge ordinaria dell'istituto della sospensione del mandato parlamentare.
Sotto diverso profilo, si osserva che
nemmeno il fatto che i consigli regionali esercitino anch’essi funzioni legislative
– come sostiene una delle parti intervenute – fa venire meno la diversità del
loro livello istituzionale e funzionale rispetto al Parlamento – sede esclusiva
della rappresentanza politica nazionale, che «imprime alle sue funzioni una
caratterizzazione tipica ed infungibile» (sentenza n. 106 del
2002) – e della condizione, per molti e decisivi aspetti oggettivamente
differente, dei componenti dei due organi legislativi.
Quanto alla tesi secondo la quale
sarebbe irragionevole assicurare un trattamento differenziato a favore dei
membri del Parlamento, in quanto titolari delle cariche oggettivamente più
importanti, essa non considera che la finalità di tutela del buon andamento e della
legalità nella pubblica amministrazione perseguita dalla disciplina in esame
può anzi giustificare un trattamento più severo per le cariche
politico-amministrative locali. La commissione di reati che offendono la
pubblica amministrazione può infatti rischiare di minarne l’immagine e la
credibilità e di inquinarne l’azione (ex plurimis, sentenza n. 236 del
2015) in modo particolarmente incisivo al livello degli enti regionali e
locali, per la prossimità dei cittadini al tessuto istituzionale locale e la
diffusività del fenomeno in tale ambito. Va sottolineato in particolare che
parte delle funzioni svolte dai consiglieri regionali ha natura amministrativa
e che essa giustifica un trattamento di maggiore severità nella valutazione
delle condanne per reati contro la pubblica amministrazione.
A ciò si aggiunga che la stessa
eterogeneità degli istituti messi a confronto (sospensione e incandidabilità)
rende l’art. 1, comma 1, lettera b), del d.lgs. n. 235 del 2012, in tema di
incandidabilità alla carica di parlamentare a seguito di condanna definitiva,
inidoneo a fungere da tertium comparationis, restando così esclusa, anche per
questa ragione, la violazione del principio di parità di trattamento (ex plurimis,
sentenze n. 215
e n. 155 del
2014; n. 234
del 2008).
Come si è visto, la sospensione ha
natura cautelare, sicché rispetto a essa «non è comunque prospettabile […]
un’esigenza di proporzionalità rispetto al reato commesso, ma piuttosto
rispetto alla possibile lesione dell’interesse pubblico causata dalla
permanenza dell’eletto nell’organo elettivo: non si pone quindi un problema di
"adeguatezza” della misura rispetto alla gravità del fatto, ma piuttosto
rispetto all’esigenza cautelare (sentenza n. 206 del
1999)» (sentenza
n. 25 del 2002, sull’analoga sospensione già prevista dall’art. 15 della
legge n. 55 del 1990). Alla stessa esigenza cautelare non è preordinato
l’istituto dell’incandidabilità alla carica di parlamentare per condanna
definitiva. È pertanto ragionevole che il legislatore, nell’esercizio della sua
discrezionalità, abbia scelto di subordinarne l’applicazione per determinati
reati, come quelli contro la pubblica amministrazione, all’entità della pena
inflitta.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
1) [dichiara inammissibili le
questioni di legittimità costituzionale degli artt. 7, comma 1, lettera c), 8,
comma 1, e 11, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 31 dicembre 2012,
n. 235: testo sostituito dal seguente: dichiara
inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 11, comma 1,
lettera a), del decreto legislativo 31 dicembre 2012, n.
235, con ordinanza
correttiva n. 278 del 2017] (Testo unico delle disposizioni in materia di
incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo conseguenti
a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi, a norma
dell’articolo 1, comma 63, della legge 6 novembre 2012, n. 190), sollevate, in
riferimento agli artt. 2, 4, secondo comma, 25, secondo comma, 51, primo comma,
97, secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in
relazione all’art. 7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre
1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, dal
Tribunale ordinario di Messina, con l’ordinanza indicata in epigrafe;
2) dichiara inammissibile la questione di
legittimità costituzionale dell’art. 8, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 235
del 2012, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 51, 76 e 77 Cost., dal
Tribunale ordinario di Napoli, con l’ordinanza indicata in epigrafe;
3) dichiara inammissibile la questione di
legittimità costituzionale dell’art. 8, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 235
del 2012, sollevata, in riferimento agli artt. 76 e 77 Cost., dalla Corte
d’appello di Bari, con l’ordinanza indicata in epigrafe;
4) dichiara non fondate le questioni di
legittimità costituzionale degli artt. 8, comma 1, e 11, comma 1, lettera a),
del d.lgs. n. 235 del 2012, sollevate, in riferimento agli artt. 76 e 77 Cost.,
dalla Corte d’appello di Bari, dal Tribunale ordinario di Napoli e dal
Tribunale ordinario di Messina, con le ordinanze indicate in epigrafe;
5) dichiara non fondate le questioni di
legittimità costituzionale degli artt. 7, comma 1, lettera c), 8, comma 1, e
11, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 235 del 2012, sollevate, in riferimento
agli artt. 2, 4, secondo comma, 25, secondo comma, 51, primo comma, 97, secondo
comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 7 della
CEDU, dalla Corte d’appello di Bari e dal Tribunale ordinario di Napoli, con le
ordinanze indicate in epigrafe;
6)
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 8,
comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 235 del 2012, sollevata, in riferimento agli
artt. 3 e 51 Cost., dalla Corte d’appello di Bari, con l’ordinanza indicata in
epigrafe.
Così
deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta,
il 5 ottobre 2016.
F.to:
Paolo GROSSI, Presidente
Daria de PRETIS, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 16 dicembre
2016.
Allegato: