SENTENZA N. 118
ANNO 1994
REPUBBLICA ITALIANA
In nome del Popolo Italiano
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente
Prof. Gabriele PESCATORE
Giudici
Avv. Ugo SPAGNOLI
Prof. Antonio BALDASSARRE
Prof. Vincenzo CAIANIELLO
Avv. Mauro FERRI
Prof. Enzo CHELI
Dott. Renato GRANATA
Prof. Giuliano VASSALLI
Prof. Francesco GUIZZI
Prof. Cesare MIRABELLI
Avv. Massimo VARI
Dott. Cesare RUPERTO
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 1, primo comma, della legge 18 gennaio 1992, n. 16 (Norme in materia di elezioni e nomine presso le regioni e gli enti locali), promosso con ordinanza emessa il 26 febbraio 1993 dalla Corte di appello di Torino nei procedimenti civili riuniti vertenti tra Prefetto di Alessandria ed altro contro Simonelli Claudio ed altro, iscritta al n. 458 del registro ordinanze 1993 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 36, prima serie speciale, dell'anno 1993.
Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 23 febbraio 1994 il Giudice relatore Mauro Ferri.
Ritenuto in fatto
1. Con ordinanza del 26 febbraio 1993, la Corte di appello di Torino ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 25 e 51 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, primo comma, della legge 18 gennaio 1992, n. 16 (Norme in materia di elezioni e nomine presso le regioni e gli enti locali), il quale ha sostituito i primi quattro commi dell'art. 15 della legge 19 marzo 1990, n. 55 (Nuove disposizioni per la prevenzione della delinquenza di tipo mafioso e di altre gravi forme di manifestazione di pericolosità sociale).
La Corte remittente premette in fatto che con ricorso del 23 luglio 1992 il Prefetto di Alessandria si rivolgeva al locale Tribunale, chiedendo, ai sensi del citato art. 1 della legge n. 16 del 1992, dichiarazione di decadenza dalla carica di consigliere comunale (cui era stato eletto nel 1990) dell'avv. Claudio Simonelli, condannato con sentenza 25 maggio 1988 (passata in giudicato per effetto della sentenza 13 dicembre 1989 della Corte di cassazione) per il reato previsto e punito dall'art. 318 del codice penale.
Il Tribunale, con sentenza del 31.10/14.11.1992, respingeva il ricorso, affermando che la legge n. 16 del 1992 doveva ritenersi applicabile solo alle consultazioni elettorali successive alla sua entrata in vigore.
Avverso tale sentenza appellavano sia il Prefetto, sia il pubblico ministero presso il Tribunale di Alessandria, chiedendo la totale riforma della pronuncia; interveniva il P.G. chiedendo l'accoglimento dei proposti gravami. L'Avv.
Simonelli si costituiva resistendo; non si costituiva invece il Sindaco di Alessandria.
Ciò posto, ad avviso del giudice a quo, le norme introdotte dalla legge n. 16 del 1992 - norme di stretta interpretazione, in quanto incidenti sull'elettorato passivo - pur non potendo agire retroattivamente, sono in ogni caso applicabili anche alle consultazioni elettorali già svolte prima del la loro promulgazione, come chiaramente dimostra la prima parte del primo comma dell'art. 1, là ove recita: "Non possono essere candidati alle elezioni regionali, provinciali, comunali e circoscrizionali e non possono comunque ricoprire le cariche di ...".
A questo punto, prosegue il remittente, non occorre procedere oltre nell'indagare sulla natura di queste particolari ipotesi di decadenza, se cioé esse integrino nuovi casi di sanzioni penali accessorie, o, invece, sanzioni amministrative: trattasi, infatti, pur sempre di una sanzione, cioé di una misura che incide negativamente su di una situazione giuridica (un diritto soggettivo) del cittadino, quale conseguenza di un suo comportamento e, pertanto, in sostanza, si è in presenza di una punizione. Ne deriva il possibile contrasto con il secondo comma dell'art. 25 della Costituzione, in quanto, nella fattispecie, la "punizione" avviene in forza di una legge entrata in vigore dopo la commissione del fatto.
Evidenti, anche, sono le ragioni di contrasto con il primo comma dell'art.51 della Carta fondamentale, in quanto l'accesso alla carica elettiva viene vanificato da una legge introdotta successivamente.
Infine, conclude la Corte remittente, il contrasto con gli artt. 25 e 51 viene inevitabilmente a riverberarsi anche sull'art. 3 della Costituzione, "sotto il particolare aspetto dell'eguaglianza delle condizioni personali".
2. É intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, concludendo per l'inammissibilità o, in subordine, l'infondatezza della questione.
Osserva, in primo luogo, l'Avvocatura dello Stato che il presupposto da cui parte la Corte d'appello remittente non è esatto, in quanto nel caso in esame non solo non si tratta affatto di misure di natura sanzionatoria penale, ma neppure di sanzioni amministrative.
Le ipotesi previste dalla norma in questione prevedono casi di non candidabilità (e quindi in definitiva nuovi casi di ineleggibilità) che il legislatore ha ritenuto di configurare in relazione al fatto che l'aspirante candidato abbia subito condanne o misure di prevenzione per delitti connotati da una specifica capacità criminale e/o di particolare gravità (Corte Cost. sent. n. 407/1992).
Si tratta, in sostanza, di "qualifiche negative" o "requisiti negativi", che il legislatore, nel perseguimento di finalità di interesse generale, ha ritenuto di individuare come cause ostative finanche alla partecipazione alla competizione elettorale: ovvio che, se seguono alla elezione, devono logicamente tradursi in decadenza dalle cariche conseguite. Il fine primario perseguito è quello di allontanare dallo svolgimento del rilevante munus pubblico i soggetti la cui radicale inidoneità ad esso sia conclamata da irrevocabili pronunzie di giustizia per qualsivoglia violazione delle norme di protezione dell'interesse generale (in tal senso è il parere dell'Adunanza generale del Consiglio di Stato del 30 novembre 1992).
Poichè, dunque, la norma deferita al vaglio di costituzionalità non ha natura sanzionatoria - in specie poi penale - cade la base della tesi del giudice remittente in ordine alla presunta violazione dell'art. 25 della Costituzione.
Quanto, poi, alla censura relativa all'art. 51 della Costituzione, tale norma, ad avviso dell'Avvocatura, non dice affatto che il legislatore non possa stabilire nuovi requisiti per l'accesso alle cariche elettive e quindi per il mantenimento delle medesime, ove già ricoperte, secondo nuove o diverse valutazioni degli interessi pubblici correlati, specie se di rilevanza costituzionale.
Ma quand'anche in denegata ipotesi vi dovesse essere questo preteso divieto a livello costituzionale, poichè la legge mira a perseguire interessi primari di rango costituzionale, quali la conservazione della sicurezza e dell'ordine pubblico, nonchè la conservazione delle condizioni per una buona e corretta amministrazione della cosa pubblica, non vi è dubbio che il rispetto del presunto principio invocato dal giudice remittente debba cedere a fronte dei menzionati principi costituzionali.
In ordine, infine, al richiamo operato dalla Corte remittente all'art. 3 della Costituzione, osserva l'Avvocatura che è veramente difficile riuscire a capire cosa abbia voluto dire la Corte con questa frase sibillina, per cui la questione prima che infondata appare inammissibile.
In ogni caso, una volta dimostrato che non è configurabile affatto una violazione degli artt. 25 e 51 della Costituzione, cade la stessa base della violazione dell'art. 3 della Costituzione medesima.
Considerato in diritto
1. La Corte d'appello di Torino ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, primo comma, della legge 18 gennaio 1992, n.16, il quale, sostituendo i primi quattro commi dell'art. 15 della legge 19 marzo 1990, n. 55, ha introdotto un'ampia disciplina in tema di eleggibilità e, in genere, di capacità di assumere e mantenere cariche di varia natura nelle regioni, nelle province, nei comuni ed in altri organismi di autonomia locale.
Il giudice a quo, premesso che la legge in esame deve indubbiamente essere interpretata nel senso della sua immediata operatività, censura, in particolare, la norma impugnata nella parte in cui dispone che la decadenza di diritto da una serie di cariche elettive (indicate nel medesimo articolo), conseguente a sentenza di condanna passata in giudicato per determinati reati (pure ivi previsti), operi anche in relazione alle consultazioni elettorali svoltesi prima dell'entrata in vigore della legge medesima, ed a reati commessi anch'essi prima di tale data.
Ad avviso del giudice remittente, la normativa censurata si pone in contrasto con l'art. 25, secondo comma, della Costituzione, in quanto la decadenza costituisce comunque - a prescindere dall'esatta individuazione della sua natura - una sanzione, e quindi una "punizione" irrogata in forza di una legge entrata in vigore dopo la commissione del fatto; con l'art. 51, primo comma, della Costituzione, poichè l'accesso alla carica elettiva viene vanificato da una legge introdotta successivamente; infine, con l'art. 3 della Costituzione, "sotto il particolare aspetto dell'eguaglianza delle condizioni personali".
2. L'eccezione di inammissibilità sollevata dall'Avvocatura dello Stato in ordine al profilo di censura relativo all'art. 3 della Costituzione, che sarebbe, a suo avviso, incomprensibile, deve essere rigettata: pur nella sua estrema stringatezza, infatti, va ritenuto che la censura in esame, valutata anche alla luce dell'intera ordinanza di rimessione, sia espressa in modo sufficiente a consentire alla Corte di individuarne il thema decidendum.
3.1. La questione non è fondata.
Questa Corte ha già avuto varie volte occasione di rilevare, innanzitutto, che la finalità che si è inteso perseguire con la legge n. 16 del 1992 è quella di assicurare la salvaguardia dell'ordine e della sicurezza pubblica, la tutela della libera determinazione degli organi elettivi, il buon andamento e la trasparenza delle amministrazioni pubbliche, allo scopo di fronteggiare una situazione di grave emergenza nazionale coinvolgente interessi dell'intera collettività, connessi a valori costituzionali di primario rilievo (sentt. nn. 407 del 1992, 197, 218 e 288 del 1993).
Si è inoltre osservato che la legge medesima non contempla altro che "nuove cause di ineleggibilità che il legislatore ha ritenuto di configurare in relazione al fatto di aver subito condanne (o misure di prevenzione) per determinati delitti di particolare gravità" (cfr. cit. sent. n. 407 del 1992). In altre parole, per quanto riguarda l'ipotesi in esame, la condanna penale irrevocabile è stata presa in considerazione come mero presupposto oggettivo cui è ricollegato un giudizio di "indegnità morale" a ricoprire determinate cariche elettive: la condanna stessa viene, cioé, configurata quale "requisito negativo" ai fini della capacità di assumere e di mantenere le cariche medesime.
3.2. Dalle argomentazioni che precedono deriva l'esclusione delle prospettate violazioni dei parametri costituzionali richiamati dal remittente.
Non è certamente violato, in primo luogo, l'art. 25, secondo comma, della Costituzione, per il principale motivo che, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, l'invocato principio si riferisce alle sole sanzioni penali (cfr. sentt. nn. 823 del 1988, 250 del 1992); d'altra parte, come lo stesso remittente riconosce, nella specie si è in presenza della ordinaria operatività immediata di una legge, e non di retroattività in senso tecnico, con effetti, cioé, ex tunc.
Parimenti non risultano lesi gli art. 51, primo comma, e 3 della Costituzione, censure che vanno esaminate - così come sono prospettate - congiuntamente. Alla luce della ratio della normativa come sopra individuata, non appare, invero, affatto irragionevole che questa operi con effetto immediato anche in danno di chi sia stato legittimamente eletto prima della sua entrata in vigore: costituisce, infatti, frutto di una scelta discrezionale del legislatore certamente non irrazionale l'aver attribuito all'elemento della condanna irrevocabile per determinati gravi delitti una rilevanza così intensa, sul piano del giudizio di indegnità morale del soggetto, da esigere, al fine del miglior perseguimento delle richiamate finalità di rilievo costituzionale della legge in esame, l'incidenza negativa della disciplina medesima anche sul mantenimento delle cariche elettive in corso al momento della sua entrata in vigore.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, primo comma, della legge 18 gennaio 1992, n. 16 (Norme in materia di elezioni e nomine presso le regioni e gli enti locali), sollevata, in riferimento agli artt. 3, 25, secondo comma, e 51, primo comma, della Costituzione, dalla Corte d'appello di Torino con l'ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23/03/94.
Francesco Paolo CASAVOLA, Presidente
Mauro FERRI, Redattore
Depositata in cancelleria il 31/03/94.