SENTENZA N. 234
ANNO 2008
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Franco BILE Presidente
- GiovanniMaria FLICK Giudice
- Francesco AMIRANTE "
- Ugo DE SIERVO "
- Paolo MADDALENA "
- Alfio FINOCCHIARO "
- Alfonso QUARANTA "
- Franco GALLO "
- Luigi MAZZELLA "
- Gaetano SILVESTRI "
- Sabino CASSESE "
- Maria Rita SAULLE "
- Giuseppe TESAURO "
- Paolo Maria NAPOLITANO "
ha pronunciato la seguente
SENTENZAnel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 2, primo comma, del regio decreto legge 19 gennaio 1939, n. 295 (Ricupero dei crediti verso impiegati e pensionati, e prescrizione biennale di stipendi, pensioni ed altri emolumenti) – convertito nella legge 2 giugno 1939, n. 739 –, nel testo sostituito dall’art. 2, quarto comma, della legge 7 agosto 1985, n. 428 (Semplificazione e snellimento delle procedure in materia di stipendi, pensioni ed altri assegni; riorganizzazione delle direzioni provinciali del tesoro e istituzione della Direzione generale dei servizi periferici del tesoro; adeguamento degli organici del personale dell'amministrazione centrale e del Ministero del tesoro e del personale amministrativo della Corte dei conti), promosso con ordinanza del 28 marzo 2007 dalla Corte dei conti, Sezione terza centrale d’appello sul ricorso proposto da Ghezzi Armando contro il Ministero dell’Economia e delle Finanze, iscritta al n. 652 del registro ordinanze 2007 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, n. 38, prima serie speciale, dell’anno 2007.
Visti l’atto di costituzione di Ghezzi Armando nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 20 maggio 2008 il Giudice relatore Paolo Maddalena;
uditi l’avvocato Dario Alessandro Ricciardi per Ghezzi Armando e l’avvocato dello Stato Giuseppe Nucaro per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1. ¾ Con ordinanza del 28 marzo 2007, la Corte dei conti, Sezione terza centrale d’appello, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 38 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, primo comma, del regio decreto legge 19 gennaio 1939, n. 295 (Ricupero dei crediti verso impiegati e pensionati, e prescrizione biennale di stipendi, pensioni ed altri emolumenti) – convertito nella legge 2 giugno 1939, n. 739 –, nel testo sostituito dall’art. 2, quarto comma, della legge 7 agosto 1985, n. 428 (Semplificazione e snellimento delle procedure in materia di stipendi, pensioni ed altri assegni; riorganizzazione delle direzioni provinciali del tesoro e istituzione della Direzione generale dei servizi periferici del tesoro; adeguamento degli organici del personale dell'amministrazione centrale e del Ministero del tesoro e del personale amministrativo della Corte dei conti), «nella parte in cui assoggetta a prescrizione quinquennale non solo i ratei di pensione liquidi ed esigibili ma anche i ratei di pensione non ancora liquidi ed esigibili e, quindi, non ancora ammessi a pagamento».
Nel giudizio a quo si controverte sull’appello proposto da un pensionato avverso la sentenza del Giudice unico presso la sezione giurisdizionale per la Regione Campania n. 1703 del 6 dicembre 2004, la quale, «pur affermando e riconoscendo in capo al ricorrente il diritto alla 13ª mensilità e alla indennità integrativa speciale riscossa in costanza del rapporto di servizio prestato (dal 3 luglio 1967 al 28 agosto 1998) alle dipendenze di un datore di lavoro privato, ha però dichiarato prescritti i ratei aventi scadenza anteriore ai cinque anni computati a ritroso dell’atto interruttivo della prescrizione».
Il rimettente osserva, in punto di rilevanza della questione, che, «ove la norma denunciata fosse dichiarata incostituzionale, i ratei di pensione non ancora liquidi ed esigibili sfuggirebbero alla prescrizione quinquennale e resterebbero assoggettati alla prescrizione ordinaria decennale», con conseguente necessità di accogliere l’appello in tutto (se il termine prescrizionale «dovesse essere collocato, come vorrebbe l’appellante, alla data di pubblicazione delle sentenze della Corte costituzionale nn. 204 e 232 del 1992») o in parte («con una dichiarazione di prescrizione limitata ai ratei aventi scadenza anteriore al decennio, invece che al quinquennio, computato a ritroso dell’atto interruttivo della prescrizione posto in essere dall’interessato il 10 ottobre 2001, ove l’exordium praescriptionis dovesse essere collocato, come ritenuto dal giudice di primo grado, alla data di scadenza dei singoli ratei»).
Quanto alla non manifesta infondatezza, il giudice a quo rileva, anzitutto, «nell’ottica di una necessaria comparazione tra le normative dei vari settori previdenziali regolanti la stessa materia», che, in riferimento alle rate delle pensioni già a carico dalle Casse amministrate dai soppressi Istituti di previdenza presso il Ministero del tesoro e «oggi erogate anch’esse dall’I.N.P.D.A.P», la prescrizione breve «si applica soltanto per le rate già ammesse a pagamento», secondo quanto stabilito dall’art. 61 del regio decreto-legge 3 marzo 1938, n. 680 (Ordinamento della Cassa di previdenza per le pensioni agli impiegati degli enti locali), convertito nella legge 9 gennaio 1941, n. 41, dall’art. 55 della legge 6 luglio 1939, n. 1035 (Approvazione dell’ordinamento della Cassa di previdenza per le pensioni dei sanitari), dall’art. 64 della legge 6 febbraio 1941, n. 176 (Ordinamento del Monte-pensioni per gli insegnanti elementari), e dall’art. 53 del regio decreto 12 luglio 1934, n. 2312 (Approvazione del testo unico delle disposizioni legislative sull'ordinamento della Cassa di previdenza per le pensioni degli ufficiali giudiziari), e ciò «in virtù della norma di interpretazione autentica» di cui all’art. 23 della legge 4 febbraio 1958, n. 87 (Riforma del trattamento di quiescenza della Cassa per le pensioni ai sanitari e modifiche agli ordinamenti degli Istituti di previdenza presso il Ministero del tesoro). Analogamente, l’art. 129 del regio decreto-legge 4 ottobre 1935, n. 1827 (Perfezionamento e coordinamento legislativo della previdenza sociale), convertito, con modificazioni, nella legge 6 aprile 1936, n. 1155, concernente i ratei delle pensioni erogate dall’I.N.P.S., prevede la prescrizione quinquennale solo per i ratei già liquidati e posti in pagamento.
A tal riguardo, argomenta ancora la Corte rimettente, «vi é stato, invero, con la norma anch’essa di interpretazione autentica» di cui all’art. 11 della legge 11 marzo 1988, n. 67 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 1988), «il tentativo di estendere il termine di prescrizione breve anche alle “rate di pensione comunque non poste in pagamento”», là dove però la Corte costituzionale, con la sentenza n. 283 del 1989, ne ha dichiarato l’incostituzionalità per contrasto con gli articoli 3 e 38 della Costituzione, rilevando la irrazionalità dell’intervento normativo dopo un cinquantennio di «incontroversa applicazione della norma circoscritta alle somme già in riscossione».
Il giudice a quo sostiene, quindi, che anche il censurato primo comma dell’art. 2 del r.d.l. n. 295 del 1939, riguardante «le rate di stipendio e di assegni equivalenti» e «le rate di pensione e gli assegni […] dovuti dallo Stato» siccome indicati nel decreto legge luogotenenziale 2 agosto 1917, n. 1278 (che comprende tra gli assegni personali soggetti a prescrizione biennale alcune indennità per il Regio esercito e la Regia marina ed in genere tutti gli assegni fissi), sarebbe stato «inizialmente interpretato, in prevalenza, nel senso che la prescrizione quinquennale trovasse applicazione esclusivamente nell'ipotesi di crediti liquidi ed esigibili», laddove, nel caso di crediti illiquidi o non agevolmente liquidabili o contestati dall’amministrazione, «si riteneva ricorressero, […] infatti, gli estremi per l’applicazione dell’ordinaria prescrizione decennale di cui all'art. 2946 c.c.».
A séguito però dell’art. 2, quarto comma, della legge n. 428 del 1985, il quale «ha esteso la prescrizione anche alle rate e differenze arretrate», la giurisprudenza (del Consiglio di Stato, della Corte dei conti e, infine, anche della Corte di cassazione) «si é stabilizzata, […] infatti, sull’orientamento che la prescrizione quinquennale si applica anche ai ratei di stipendio […] e ai ratei di pensione […] non ancora liquidi ed esigibili», sicché «appare difficilmente praticabile, in fattispecie, una diversa opzione interpretativa».
Secondo la rimettente, anche il denunciato primo comma dell’art. 2 del r.d.l. n. 295 del 1939, nel testo sostituito dall’art. 2, quarto comma, della legge n. 428 del 1985, al pari dell’art. 11 della legge n. 67 del 1988, dichiarato incostituzionale dalla sentenza n. 283 del 1989, avrebbe «reso omogenee, identicamente disciplinandole, posizioni soggettive difformi e cioè i crediti pensionistici esigibili e liquidi da una parte e i crediti pensionistici illiquidi ed inesigibili dall’altra», e ciò «ancora una volta in stretta connessione (almeno sotto il profilo cronologico: cfr. Cass. civ., sez. lavoro, 22 maggio 1999, n. 5003; Cons. Stato, sez. IV, 12 marzo 2001, n. 1411) all’entrata in vigore di una norma di gran lunga successiva (anche se non di interpretazione autentica)». Di qui, appunto, l’ipotizzato vulnus all’art. 3 Cost., «con ovvi riflessi […] sulle garanzie introdotte dal successivo art. 38, essendo evidenti, nei confronti dei soggetti interessati, il venir meno delle connotazioni di adeguatezza alle esigenze di vita, ivi tutelate».
2. ¾ Si è costituito in giudizio l’appellante del procedimento principale chiedendo una declaratoria di incostituzionalità del denunciato art. 2, primo comma, del r.d.l. n. 295 del 1939, nel testo sostituito dall'art. 2, quarto comma, della legge n. 428 del 1985, ovvero, in subordine, di manifesta infondatezza della sollevata questione «sussistendo tutti gli spazi per un’interpretazione conforme a Costituzione della norma censurata».
La difesa della parte privata, dopo aver rammentato i passaggi salienti della vicenda che ha dato origine all’incidente di costituzionalità, aderisce alle argomentazione sviluppate dalla rimettente in punto di incostituzionalità della suddetta disciplina, richiamando anch’essa la portata della citata sentenza n. 283 del 1989, che afferma essere relativa ad ipotesi di «palese sovrapponibilità» con quella attualmente oggetto di scrutinio.
In subordine, la parte costituita sostiene che la rimettente non avrebbe «sperimentato la possibilità di un’interpretazione della norma conforme a Costituzione», con conseguente inammissibilità manifesta della proposta questione, che sarebbe volta, piuttosto, ad «ottenere un avallo a favore di una diversa interpretazione della norma rispetto a quella seguita dal prevalente indirizzo giurisprudenziale». Peraltro, nella memoria si assume che, nella specifica materia, non sussisterebbe un “diritto vivente”, essendosi formato anche un orientamento giurisprudenziale, conforme alla stessa ratio ispiratrice della norma denunciata, secondo cui questa «si riferisce espressamente alla prescrizione dei ratei già posti in liquidazione», così «giungendo a negare la decorrenza stessa della prescrizione almeno fino a quando il credito non sia stato messo nella concreta disponibilità del percipiente».
3. ¾ E’ intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha concluso per l’inammissibilità o, comunque, per l’infondatezza della questione.
Secondo la difesa erariale, la norma censurata, sia nell’originaria che nella vigente formulazione, non farebbe «alcuna differenza tra ratei liquidi ed esigibili e ratei che non lo sono, dovendosi far risalire questa distinzione all’elaborazione giurisprudenziale in merito»; sicché, più che un dubbio di legittimità costituzionale, la rimettente, prospettando il dubbio di costituzionalità per la «presenza di un indirizzo giurisprudenziale che non si ritiene conforme a Costituzione», cercherebbe di ottenere un «improprio […] avallo a favore di una determinata interpretazione della norma censurata», con conseguente manifesta inammissibilità della proposta questione.
Nel merito, l’Avvocatura generale dello Stato, nel rammentare quanto affermato dalla Corte costituzionale con l’ordinanza n. 166 del 2006, sostiene che la questione sarebbe infondata, avendo il legislatore, in materia di fissazione del termine prescrizionale, ampi margini di discrezionalità che, nella specie, non sarebbero stati esercitati irragionevolmente, non avendo neppure la rimettente censurato la disposizione oggetto di scrutinio sotto il profilo della congruità del termine di prescrizione dalla medesima fissato.
4. ¾ La parte privata costituita e l’intervenuto Presidente del Consiglio dei ministri hanno depositato, in prossimità dell’udienza, memorie illustrative, con le quali ribadiscono le conclusioni rispettivamente formulate in precedenza.
4.1. ¾ La parte privata – oltre a sostenere nuovamente la manifesta inammissibilità della questione per essere la stessa prospettata al solo fine di ottenere un autorevole avallo interpretativo – insiste, in particolare, sulla “manifesta iniquità” della norma denunciata, che, con «effetti assolutamente ingiusti e paradossali», disciplinerebbe in modo uguale situazioni tra loro distinte e cioè quella di un credito liquido ed esigibile e quella di un diritto che «ha potuto essere reclamato solo dopo espresso e specifico intervento» della Corte costituzionale. Peraltro, in siffatta ipotesi, sussisterebbe un contrato anche con la regola generale, desumibile dall’art. 2935 del codice civile, per cui «il termine di prescrizione non può decorrere nel caso di impedimento legale all’esercizio del diritto».
4.2. ¾ La difesa erariale evidenzia, in particolare, che il diritto all’indennità integrativa speciale, come quello alla tredicesima mensilità, non nascerebbe da un provvedimento formale della amministrazione competente, bensì direttamente dalla legge, «ed è proprio per questa ragione che il dies a quo di decorrenza della relativa prescrizione non è ancorato alla comunicazione di alcun apposito provvedimento, salvo quello pensionistico a norma dell’art. 143, ultimo comma, del d.P.R. n. 1092/1973», sicché «il mancato pagamento della stessa determina l’immediata azionabilità del diritto che si pretende leso».
Nella memoria si argomenta, infine, sull’incidenza della declaratoria di incostituzionalità di una norma rispetto alla decorrenza della prescrizione del diritto dalla medesima norma riconosciuto.
Considerato in diritto
1. ¾ La Corte dei conti, Sezione terza centrale d’appello, dubita della legittimità costituzionale dell’art. 2, primo comma, del regio decreto-legge 19 gennaio 1939, n. 295 (Ricupero dei crediti verso impiegati e pensionati, e prescrizione biennale di stipendi, pensioni ed altri emolumenti) – convertito nella legge 2 giugno 1939, n. 739 –, nel testo sostituito dall’art. 2, quarto comma, della legge 7 agosto 1985, n. 428 (Semplificazione e snellimento delle procedure in materia di stipendi, pensioni ed altri assegni; riorganizzazione delle direzioni provinciali del tesoro e istituzione della Direzione generale dei servizi periferici del tesoro; adeguamento degli organici del personale dell'amministrazione centrale e del Ministero del tesoro e del personale amministrativo della Corte dei conti), «nella parte in cui assoggetta a prescrizione quinquennale non solo i ratei di pensione liquidi ed esigibili ma anche i ratei di pensione non ancora liquidi ed esigibili e, quindi, non ancora ammessi a pagamento».
Ad avviso della rimettente, la disposizione denunciata violerebbe gli artt. 3 e 38 Cost., in quanto avrebbe «reso omogenee, identicamente disciplinandole, posizioni soggettive difformi e cioè i crediti pensionistici esigibili e liquidi da una parte e i crediti pensionistici illiquidi ed inesigibili dall’altra», e ciò «ancora una volta in stretta connessione […] all’entrata in vigore di una norma di gran lunga successiva (anche se non di interpretazione autentica)», comportando «ovvi riflessi […] sulle garanzie introdotte dal successivo art. 38, essendo evidenti, nei confronti dei soggetti interessati, il venir meno delle connotazioni di adeguatezza alle esigenze di vita, ivi tutelate».
2. ¾ E’ opportuno rammentare, ancor prima di esaminare le censure mosse dal giudice a quo alla norma sospettata di incostituzionalità, che, ad eccezione delle pensioni di guerra, in ragione della loro specifica natura (risarcitoria e non previdenziale), il diritto a pensione dei pubblici dipendenti è imprescrittibile e, quindi, può essere fatto valere in ogni tempo (art. 5 del d.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1092, recante «Approvazione del testo unico delle norme sul trattamento di quiescenza dei dipendenti civili e militari dello Stato»). Sono soggetti, invece, a prescrizione quinquennale i ratei di pensione e le differenze arretrate degli emolumenti pensionistici dovuti dallo Stato, e ciò in base al denunciato art. 2, primo comma, del r.d.l. 19 gennaio 1939, n. 295, come sostituito dall’art. 2, quarto comma, della legge n. 428 del 1985.
La norma citata, infatti, così dispone: «Le rate di stipendio e di assegni equivalenti, le rate di pensione e gli assegni indicati nel decreto-legge luogotenenziale 2 agosto 1917, n. 1278, dovuti dallo Stato, si prescrivono con il decorso di cinque anni».
Inoltre, la stessa norma, al secondo comma, precisa che: «Il termine di prescrizione quinquennale si applica anche alle rate e differenze arretrate degli emolumenti indicati nel comma precedente spettanti ai destinatari o loro aventi causa e decorre dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere». Seguono poi altri tre commi, di originaria formulazione e non fatti oggetto di alcun intervento di modifica, i quali dispongono rispettivamente: «Le indennità una volta tanto che tengono luogo di pensione e le indennità di licenziamento si prescrivono col decorso di 10 anni [terzo comma]. La prescrizione decorre dal giorno della scadenza della rata o assegno dovuti quando il diritto alla rata od assegno sorga direttamente da disposizioni di legge o di regolamento, anche se la Amministrazione debba provvedere di ufficio alla liquidazione e al pagamento. Nel caso invece che il diritto sorga in seguito e per effetto di un provvedimento amministrativo di nomina, di promozione e simili o comunque dopo una valutazione discrezionale dell'Amministrazione, la prescrizione decorre dal giorno in cui il provvedimento sia portato, a norma delle disposizioni in vigore, a conoscenza dell'interessato [quarto comma]. La prescrizione è interrotta soltanto da istanza o ricorso in via amministrativa o contenziosa o da atto giudiziale valevole a costituire in mora [quinto comma].».
Quanto al momento di decorrenza della prescrizione occorre fare riferimento anche all’art. 143, ultimo comma, del d.P.R. 1092 del 1973, il quale stabilisce che, in ogni caso, il termine prescrizionale non decorre prima del giorno in cui il provvedimento di liquidazione della pensione sia portato a conoscenza dell'interessato.
3. ¾ L’orientamento consolidato della giurisprudenza pensionistica della Corte dei conti sulla portata della norma censurata è quello per cui la prescrizione quinquennale si applica a tutti i tipi di pensione riguardanti i dipendenti statali e riguarda non solo i ratei, ma anche gli accessori degli stessi, nonché l’attribuzione dell’indennità integrativa speciale e della tredicesima mensilità. Non rileva, dunque, la distinzione, posta dall’art. 129 del r.d.l. 4 ottobre 1935, n. 1827 (Perfezionamento e coordinamento legislativo della previdenza sociale), circa la prescrizione delle sole rate non riscosse e cioè delle somme già poste in riscossione, giacché in forza dell’art. 2 censurato, secondo l’interpretazione assolutamente prevalente, la prescrizione dispiega i suoi effetti su tutte le fasi del procedimento di liquidazione ed attiene perciò anche al mancato pagamento delle rate, pur restando fermo che essa inizialmente decorre dalla data di conoscenza del provvedimento di liquidazione della pensione (e non già, quindi, dalla data di messa in pagamento delle rate o degli arretrati). Ed è consolidato anche l’orientamento secondo cui la prescrizione quinquennale dei ratei pensionistici (relativi anche all’indennità integrativa speciale ed alla tredicesima mensilità) decorre dalla data di scadenza di ciascuna rata (e cioè dalla data di inadempimento della prestazione) anche nel caso in cui la mancata prestazione trovi fondamento in una disposizione di legge successivamente dichiarata incostituzionale.
Le posizioni innanzi evidenziate trovano supporto, altresì, nella giurisprudenza del Consiglio di Stato e della Corte cassazione, sebbene in questi casi si sia affrontato piuttosto il tema della prescrizione degli stipendi dei dipendenti statali, la cui disciplina, tuttavia, è la stessa di quella delle pensioni, in base proprio alla norma denunciata.
Con ciò, è di tutta evidenza che non può trovare accoglimento l’eccezione di inammissibilità della questione, sollevata sia dalla parte privata che dalla difesa erariale, per il presunto avallo interpretativo che il rimettente cercherebbe attraverso la prospettazione del dubbio di costituzionalità, in asserita assenza di un “diritto vivente”.
4. ¾ Nel merito, la questione non è fondata.
La ingiustificata disparità di trattamento prospettata dal rimettente, in correlazione con il dedotto vulnus alla garanzia prevista dall’art. 38 Cost., come derivante dalla norma censurata, non trova conforto, anzitutto, nella comparazione con le disposizioni sul termine prescrizionale delle rate di pensioni già a carico dalle Casse amministrate dai soppressi Istituti di previdenza presso il Ministero del tesoro (tra queste, l’art. 61 del r.d.l. 3 marzo 1938, n. 680, recante «Ordinamento della Cassa di previdenza per le pensioni agli impiegati degli enti locali»; l’art. 55 della legge 6 luglio 1939, n. 1035, recante «Approvazione dell’ordinamento della Cassa di previdenza per le pensioni dei sanitari»; art. 64 della legge 6 febbraio 1941, n. 176, recante «Ordinamento del monte-pensioni per gli insegnanti elementari»; l’art. 53 del r.d. 12 luglio 1934, n. 2312, recante «Approvazione del testo unico delle disposizioni legislative sull’ordinamento della Cassa di previdenza per le pensioni degli ufficiali giudiziari») ed attualmente erogate dall’I.N.P.D.A.P, giacché, sebbene per esse la prescrizione breve «si applica soltanto per le rate già ammesse a pagamento», secondo quanto previsto dalla norma di interpretazione autentica di cui all’art. 23 della legge 4 febbraio 1958, n. 87 (Riforma del trattamento di quiescenza della cassa per le pensioni ai sanitari e modifiche agli ordinamenti degli Istituti di previdenza presso il Ministero del tesoro), tuttavia il termine di prescrizione ivi contemplato è di 2 anni. Si tratta, dunque, di un termine differente da quello quinquennale stabilito dalla norma denunciata, così da rendere disomogenee le situazioni poste a raffronto.
Peraltro, non può considerarsi un omogeneo termine di paragone la disciplina della prescrizione delle pensioni erogate dall’INPS, perché si tratta di regimi previdenziali diversi ed in particolare il regime pensionistico dei dipendenti statali prevede regole proprie in riferimento non solo alla liquidazione della pensione, ma anche alla stessa decorrenza della prescrizione della pensione, la quale, in ogni caso, non opera mai prima del giorno in cui il relativo provvedimento di liquidazione sia portato a conoscenza dell'interessato (art. 143 del d.P.R. 1092 del 1973). Non può, dunque, il raffronto tra regimi previdenziali diversi valere, di per sé, a dimostrare la lesione del principio di eguaglianza, soprattutto se la prospettazione medesima si limiti ad evidenziare isolati elementi di disparità di trattamento e non operi una globale comparazione tra i regimi previdenziali stessi (ex plurimis, sentenza n. 345 del 1999; ordinanza n. 133 del 2001).
Né risulta decisivo l’argomento che il rimettente vorrebbe trarre dalla dichiarata incostituzionalità dell’art. 11 della legge 11 marzo 1988, n. 67 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 1988), che aveva interpretato l’art. 129, primo comma, r.d.l. n. 1827 del 1935, in forza del quale le rate di pensione dovute dall’INPS e non riscosse entro cinque anni dalla loro scadenza sono prescritte, «nel senso che la prescrizione prevista si applica anche alle rate di pensione comunque non poste in pagamento». In quell’occasione la sentenza n. 283 del 1989 ebbe ad affermare che l’intervento legislativo, affetto da «concreta irrazionalità», era stato «disposto peraltro a distanza d’oltre un cinquantennio da una incontroversa applicazione della norma circoscritta alle somme già in riscossione».
Nel caso attualmente oggetto di scrutinio, la legge n. 428 del 1985, che ha introdotto la prescrizione quinquennale a séguito dell’intervento innanzi ricordato della sent. n. 50 del 1981, non è di interpretazione autentica (con effetti retroattivi), bensì di espressa modificazione della disciplina previgente con effetti dalla sua entrata in vigore. Pertanto, è su tale modificazione legislativa che si è venuto a consolidare un orientamento giurisprudenziale coeso, nei termini innanzi evidenziati, il quale ha, da sempre, accomunato, nei sensi sopra ricordati, le ipotesi di crediti pensionistici (o anche stipendiali) da riscuotere, con quelle di crediti non posti ancora in riscossione.
Del resto, va ribadito che, in materia di fissazione del termine di prescrizione dei singoli diritti, il legislatore gode di ampia discrezionalità, con l’unico limite dell’eventuale irragionevolezza, qualora «esso venga determinato in modo da non rendere effettiva la possibilità di esercizio del diritto cui si riferisce, e di conseguenza inoperante la tutela voluta accordare al cittadino leso» (ex plurimis, ordinanze n. 16 del 2006 e n. 153 del 2000); limite che non risulta violato dalla norma di cui al denunciato art. 2, in quanto essa prevede un termine prescrizionale di 5 anni, che non può reputarsi incongruo rispetto ai suddetti fini.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, primo comma, del regio decreto-legge 19 gennaio 1939, n. 295 (Ricupero dei crediti verso impiegati e pensionati, e prescrizione biennale di stipendi, pensioni ed altri emolumenti) – convertito nella legge 2 giugno 1939, n. 739 – nel testo sostituito dall’art. 2, quarto comma, della legge 7 agosto 1985, n. 428 (Semplificazione e snellimento delle procedure in materia di stipendi, pensioni ed altri assegni; riorganizzazione delle direzioni provinciali del tesoro e istituzione della Direzione generale dei servizi periferici del tesoro; adeguamento degli organici del personale dell'amministrazione centrale e del Ministero del tesoro e del personale amministrativo della Corte dei conti), sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 38 della Costituzione, dalla Corte dei conti, Sezione terza centrale d’appello, con l’ordinanza in epigrafe indicata.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta il 23 giugno 2008.
F.to:
Franco BILE, Presidente
Paolo MADDALENA, Redattore
Maria Rosaria FRUSCELLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 27 giugno 2008.