ORDINANZA N. 166
ANNO 2006
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai Signori:
- Annibale MARINI Presidente
- Franco BILE Giudice
- Giovanni Maria FLICK "
- Francesco AMIRANTE "
- Ugo DE SIERVO "
- Romano VACCARELLA "
- Paolo MADDALENA "
- Alfio FINOCCHIARO "
- Alfonso QUARANTA "
- Franco GALLO "
- Luigi MAZZELLA "
- Gaetano SILVESTRI "
- Sabino CASSESE "
- Maria Rita SAULLE "
- Giuseppe TESAURO "
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 2 del regio decreto-legge 19 gennaio 1939, n. 295 (Ricupero dei crediti verso impiegati e pensionati, e prescrizione biennale di stipendi, pensioni ed altri emolumenti), come modificato dall’art. 2, terzo comma (recte: quarto comma), della legge 7 agosto 1985, n. 428 (Semplificazione e snellimento delle procedure in materia di stipendi, pensioni ed altri assegni; riorganizzazione delle direzioni provinciali del tesoro e istituzione della Direzione generale dei servizi periferici del tesoro; adeguamento degli organici del personale dell'amministrazione centrale e del Ministero del tesoro e del personale amministrativo della Corte dei conti), promosso con ordinanza del 16 giugno 2005 dal Giudice unico delle pensioni presso la Corte dei conti – sezione giurisdizionale per la Regione Calabria, sul ricorso proposto da Checco Antonia ed altre contro l’INPDAP, iscritta al n. 514 del registro ordinanze 2005 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 42 , prima serie speciale, dell’anno 2005.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 22 marzo 2006 il Giudice relatore Paolo Maddalena.
Ritenuto che, con ordinanza del 16 giugno 2005, il Giudice unico delle pensioni presso la Corte dei conti – sezione giurisdizionale per la Regione Calabria, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 36, primo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 2 del regio decreto-legge 19 gennaio 1939, n. 295 (Ricupero dei crediti verso impiegati e pensionati, e prescrizione biennale di stipendi, pensioni ed altri emolumenti), come modificato dall’art. 2, terzo comma (recte: quarto comma), della legge 7 agosto 1985, n. 428 (Semplificazione e snellimento delle procedure in materia di stipendi, pensioni ed altri assegni; riorganizzazione delle direzioni provinciali del tesoro e istituzione della Direzione generale dei servizi periferici del tesoro; adeguamento degli organici del personale dell'amministrazione centrale e del Ministero del tesoro e del personale amministrativo della Corte dei conti);
che il rimettente dubita della legittimità della denunciata disposizione «laddove con il termine “rate di pensione e […] differenze arretrate […] dovuti dallo Stato che si prescrivono con il decorso di cinque anni decorrenti dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere” si accomunano “di fatto”, relativamente alla maturazione della prescrizione estintiva, sia i ratei accessori arretrati delle pensioni con valenza “retributiva”, sia quelli derivanti da pensioni privilegiate aventi connotati “indennizzatori”»; mentre «questi ultimi, al contrario, avendo carattere “reintegrativo della lesione derivante da fatto lecito”, dovrebbero seguire la regola generale di tutti i diritti personali di credito soggetti alla normale prescrizione decennale»;
che nel giudizio a quo si controverte in ordine al diritto della vedova e delle due figlie di un militare appartenente al Corpo della Guardia di finanza, deceduto nel maggio 1976, a vedersi riconosciute, sulla pensione privilegiata di reversibilità in godimento, le quote dell’indennità integrativa speciale (IIS) e della tredicesima mensilità, dapprima corrisposte dall’Amministrazione (Ministero del Tesoro e poi INPDAP), ma successivamente, «a causa della contraddittorietà in diritto in ordine alla corresponsione della detta IIS e della tredicesima», recuperate «con trattenute effettuate sulla pensione e sullo stipendio»;
che, precisa altresì il rimettente, alle figlie del militare defunto «non sono state corrisposte le quote dell’indennità integrativa speciale e della tredicesima mensilità» dal settembre 1984 al luglio 1986, nonostante che le interessate avessero reiteratamente inoltrato alla Direzione provinciale del Tesoro e poi all’INPDAP le «richieste di restituzione delle somme indebitamente trattenute sulle pensioni, sullo stipendio […], nonché l’adeguamento della pensione con la corresponsione» della IIS e della tredicesima mensilità;
che, si evidenzia ancora nell’ordinanza di rimessione, l’INPDAP, convenuto in giudizio, nel costituirsi eccepiva, preliminarmente, «l’intervenuta prescrizione sulla presunta mancata erogazione dei benefici richiesti richiamando l’art. 2 del r.d.l. 19 gennaio 1939, n. 295», come modificato dall’art. 2 della legge n. 428 del 1985, sostenendo che il termine quinquennale previsto dalla citata disposizione, di carattere speciale, avrebbe dovuto trovare applicazione «per tutte le “pensioni pubbliche” senza distinzione tra quelle di natura “normale” ovvero “privilegiata”»;
che, tanto premesso in ordine alla fattispecie oggetto di cognizione, il giudice a quo argomenta diffusamente sulla inefficacia del divieto di cumulo degli assegni accessori di pensione in costanza di rapporto di lavoro, ricostruendo il quadro normativo di riferimento ed il percorso della giurisprudenza costituzionale in materia, così da giungere alla conclusione che, essendo «il divieto di cumulo generalizzato […] incostituzionale ove non sia previsto un ragionevole limite minimo di trattamento economico complessivo», detto limite, insuperabile dal legislatore, andrebbe ravvisato, alla luce della sentenza n. 494 del 1993 di questa Corte, nell’importo «corrispondente al trattamento minimo di pensione previsto per il Fondo pensioni lavoratori dipendenti»;
che il rimettente sostiene poi, quanto alla decorrenza degli emolumenti accessori alla pensione, che «il vizio d’illegittimità costituzionale non ancora dichiarato costituisce una mera difficoltà di fatto all’esercizio del diritto assicurato dalla norma, così come risultante dalla pronuncia della Corte costituzionale e, pertanto, non impedisce il decorso della prescrizione dal momento in cui (sotto ogni altro profilo) sussistano i presupposti per l’esercizio del medesimo diritto». Sicché, argomenta ancora il giudice a quo, mentre il diritto a pensione è imprescrittibile (art. 5 del d.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1092, recante “Approvazione del testo unico delle norme sul trattamento di quiescenza dei dipendenti civili e militari dello Stato”), «i crediti concernenti i singoli ratei di pensione privilegiata ed i loro accessori sono soggetti a prescrizione estintiva quinquennale» in base alla denunciata disposizione di cui all’art. 2 del r.d.l. n. 295 del 1939, come sostituito dall’art. 2 della legge n. 428 del 1985, espressamente richiamato dall’art. 143 del d.P.R. n. 1092 del 1973;
che, ciò posto, il rimettente motiva ampiamente sul fatto che nell’ordinamento sussisterebbe «la parificazione tra la categoria dei pensionati privilegiati per servizio e quelli di guerra», assumendo altresì che «il diritto soggettivo alla pensione privilegiata (derivante da fatto di guerra o di servizio) ha, senza dubbio, natura di “credito indennitario”»;
che, peraltro, ad avviso dello stesso giudice a quo, «le pensioni privilegiate dei militari di carriera, a differenza di quelle normali, presentano la peculiarità di non postulare un precedente rapporto contributivo, ma di servizio e si sostanziano nell’attribuzione di un indennizzo (a vita o una tantum), che è commisurato alla gravità della menomazione dell’integrità fisica subita a causa dell’incarico prestato», dovendo quindi reputarsi che «la malattia valutata come causa di servizio inerisce ad una attività ordinariamente svolta a vantaggio della pubblica Amministrazione e deve considerarsi come conseguenza […] di un’attività lecita». Sicché, prosegue il rimettente, tale è la «caratteristica peculiare delle pensioni per i militari di carriera […] in quanto le somme erogate dallo Stato a tale titolo non hanno natura reddituale di quiescenza, ma indennitaria»;
che – si afferma ancora nell’ordinanza di rimessione – il «fondamento della natura indennitaria della pensione privilegiata» troverebbe plurime conferme nell’ordinamento e in tal senso si porrebbe del resto la consolidata distinzione tra «diritto all’indennizzo», riferibile ad una pretesa derivante da fatto lecito, e «diritto al risarcimento del danno», «correlato all’evento di un danno ingiusto». Dunque, pur rimanendo ferma la possibilità dell’interessato «di azionare l’ordinaria pretesa risarcitoria (ex art. 2043 cod. civ. in caso di danno illecito)», la disciplina di cui al d.P.R. n. 1092 del 1973 «opera su un piano diverso da quello in cui si colloca quella civilistica in tema di risarcimento del danno […] compreso il cosiddetto danno biologico»;
che, sostiene sempre il rimettente, anche sul piano fiscale, l’art. 6 del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (Approvazione del testo unico delle imposte sui redditi) «prevede l’esclusione dall’IRPEF solo per quei “redditi” e quelle “indennità” percepite a seguito di invalidità o morte conseguite in sostituzione di redditi, dovuti a titolo di risarcimento dei danni ristorati per fatto “illecito”», mentre la «pensione privilegiata (non di quiescenza) che presuppone, viceversa […] un’invalidità permanente o la morte, determina l’erogazione di un’indennità ristoratrice per fatto “lecito”, è quindi assoggettabile ad IRPEF, in quanto reddito (ma solo ai fini fiscali) derivante da sostituzione di provento c.d. da “lavoro”»;
che, peraltro, il giudice a quo asserisce di non dubitare del fatto che ai fini della «pensione privilegiata indennitaria non tabellare» si debba tener conto della gravità della malattia o lesione contratta a causa del servizio prestato, della retribuzione «rapportata sia alla differente qualifica funzionale o grado (per i militari), sia alla relativa anzianità di servizio del dipendente», ma, a suo avviso, «il periodo di servizio prestato rileva esclusivamente come fatto giuridico cui l’ordinamento riconduce effetti prescindendo dalla sua durata» e ciò a differenza dei «trattamenti di pensione normale ordinaria». Il trattamento normale di quiescenza non può dunque – prosegue il rimettente – essere «accomunato» alla pensione privilegiata, anche perché «il primo è ricompreso, in modo sistematico, nell’ambito del Titolo III del t.u. n. 1092/1973, mentre il secondo nel Titolo IV e conseguentemente sono diversi i principi che regolano e disciplinano i due istituti»;
che, sulla scorta di tali premesse, il rimettente, nel motivare sulla non manifesta infondatezza della sollevata questione, sostiene che «nel nostro sistema giuridico il risarcimento per fatto lecito è stato oggetto di pronuncia della Corte di cassazione» (Cass. civ., sez. I, 8 ottobre 1992, n. 10979), la quale, «in materia di occupazione invertita», ha individuato in 10 anni i termini di prescrizione, assumendo a riferimento «quelli contemplati dagli artt. 934 e ss. cod. civ., costitutivi, in capo al privato, di un diritto personale di credito soggetto alla prescrizione ordinaria decennale, non a quella quinquennale in materia di risarcimento del danno da fatto illecito»;
che sarebbe, quindi, evidente – argomenta il giudice a quo – «la disparità di trattamento tra coloro che ottengono il ristoro indennizzatorio da fatto lecito (la cui prescrizione estintiva del diritto di credito spira con il raggiungimento del decimo anno) e coloro che fruiscono di pensione privilegiata (che ha anch’essa a fondamento una funzione di indennizzo derivante da fatto lecito) che vedrebbero prescritti i loro diritti di credito derivanti dagli emolumenti accessori (13ª mensilità e I.I.S.), come nel caso in giudizio, in cinque anni» in base al denunciato art. 2 del r.d.l. n. 295 del 1939, come modificato dall’art. 2 della legge n. 428 del 1985;
che in definitiva, secondo il rimettente, «il legislatore richiamando il r.d.l. n. 295 del 1939 nell’ambito dell’art. 143 del t.u. n. 1092 del 1973 ha inteso sottoporre alla stessa disciplina tutti i trattamenti di pensione che trovano la loro genesi nello stesso testo unico, ma laddove si accomuni la pensione c.d. “normale” (con contenuto reddituale) con quella “privilegiata” (con contenuto indennizzatorio da fatto lecito), la norma determina, prevedendo un termine prescrizionale di cinque anni, una disparità di trattamento rispetto agli altri identici diritti per risarcimento per fatto lecito che si prescrivono in dieci anni (cfr. Cass., Sez. I, 8 ottobre 1992 n. 10979, già citata)»;
che, ad avviso del giudice a quo, la disposizione denunciata sarebbe quindi incostituzionale, in quanto non sussisterebbe «neppure una “ragionevole giustificazione” della diversità di disciplina circa il termine prescrizionale previsto per i ratei arretrati spettanti a fronte del riconoscimento di indennizzo scaturente da fatto lecito (dieci anni), rispetto agli omologhi arretrati derivanti da pensioni privilegiate dei militari di carriera (cinque anni)»;
che, infine, in punto di rilevanza, il rimettente sostiene che la controversia pendente non possa essere definita indipendentemente dalla risoluzione della sollevata questione di legittimità costituzionale, «dal momento che il ricorso, in relazione al provvedimento impugnato, se accolto, dovrà tener conto di un diverso dies a quo da cui partire per il calcolo della maturazione della prescrizione estintiva, a seconda che la disposizione normativa suindicata sia o meno dichiarata incostituzionale»;
che è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, concludendo per la declaratoria di inammissibilità della questione;
che, secondo la difesa erariale, il rimettente dubiterebbe dell’art. 2 del r.d.l. 19 gennaio 1939 n. 295, per contrasto con gli articoli 3 e 36 della Costituzione, «laddove tale disposizione venga interpretata nel senso che in materia pensionistica, qualora il credito sorga da una pronuncia di illegittimità costituzionale di una disposizione di legge, il termine di prescrizione quinquennale decorra dalla data di pubblicazione della sentenza medesima e non dalla data in cui il diritto era concretamente azionabile»;
che, pertanto, sostiene l’Avvocatura, la questione risulterebbe proposta «essenzialmente in vista di una soluzione interpretativa alternativa circa la portata della menzionata disposizione normativa: una alternativa che però spetta previamente al giudice a quo risolvere assegnando alla norma un preciso significato, prima di prospettare un problema di conformità alla Costituzione».
Considerato che il Giudice unico delle pensioni presso la Corte dei conti – sezione giurisdizionale per la Regione Calabria, ha denunciato l’art. 2 del regio decreto- legge 19 gennaio 1939, n. 295 (Ricupero dei crediti verso impiegati e pensionati, e prescrizione biennale di stipendi, pensioni ed altri emolumenti), come modificato dall’art. 2, terzo comma (recte: quarto comma), della legge 7 agosto 1985, n. 428 (Semplificazione e snellimento delle procedure in materia di stipendi, pensioni ed altri assegni; riorganizzazione delle direzioni provinciali del tesoro e istituzione della Direzione generale dei servizi periferici del tesoro; adeguamento degli organici del personale dell’amministrazione centrale e del Ministero del tesoro e del personale amministrativo della Corte dei conti), «laddove con il termine “rate di pensione e […] differenze arretrate […] dovuti dallo Stato che si prescrivono con il decorso di cinque anni decorrenti dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere” si accomunano “di fatto”, relativamente alla maturazione della prescrizione estintiva, sia i ratei accessori arretrati delle pensioni con valenza “retributiva”, sia quelli derivanti da pensioni privilegiate aventi connotati “indennizzatori”»;
che, ad avviso del rimettente, posto che le pensioni privilegiate avrebbero «carattere “reintegrativo della lesione derivante da fatto lecito”» e dovrebbero, pertanto, «seguire la regola generale di tutti i diritti personali di credito soggetti alla normale prescrizione decennale», la disposizione censurata violerebbe, dunque, gli artt. 3 e 36, primo comma, della Costituzione, in quanto non sussisterebbe «neppure una “ragionevole giustificazione” della diversità di disciplina circa il termine prescrizionale previsto per i ratei arretrati spettanti a fronte del riconoscimento di indennizzo scaturente da fatto lecito (dieci anni), rispetto agli omologhi arretrati derivanti da pensioni privilegiate dei militari di carriera (cinque anni)»;
che, preliminarmente, deve ritenersi non pertinente rispetto al thema decidendum l’eccezione di inammissibilità avanzata dalla difesa erariale, giacché, come appena evidenziato, la questione che il rimettente sottopone allo scrutinio di questa Corte riguarda l’ampiezza del termine di maturazione della prescrizione dei ratei arretrati della pensione privilegiata “dei militari di carriera” e non – secondo quanto ritenuto dall’Avvocatura – il diverso profilo della decorrenza della prescrizione «qualora il credito sorga da una pronuncia di illegittimità costituzionale di una disposizione di legge»;
che, nel merito, la prospettazione su cui si fonda il dubbio di costituzionalità muove da premesse interpretative non solo palesemente erronee, ma anche inconferenti;
che, infatti, il rimettente evoca, quale tertium comparationis, la disciplina recata dagli artt. 934 e ss. del codice civile sotto lo specifico profilo della prescrizione del diritto del proprietario del fondo privato acquistato dalla pubblica amministrazione per “accessione invertita”, assumendo che, in forza dell’interpretazione fornita dalla Corte di cassazione (Cass. civ., sez. I, 8 ottobre 1992, n. 10979), verrebbe qui in considerazione – al pari della pensione privilegiata che avrebbe «una funzione di indennizzo derivante da fatto lecito» – un «risarcimento per fatto lecito» e, segnatamente, «un diritto personale di credito soggetto alla prescrizione ordinaria decennale, non a quella quinquennale in materia di risarcimento del danno da fatto illecito»;
che tra il termine di raffronto individuato dal giudice a quo e la disciplina recata dalla norma denunciata in tema di prescrizione dei ratei pensionistici spettanti ai pubblici dipendenti non è dato ravvisare, con tutta evidenza, alcuna omogeneità, risultando, altresì, non pertinente l’accostamento che il rimettente medesimo sembrerebbe operare tra la prescrizione quinquennale del risarcimento del danno da fatto illecito e quella prevista dalla disposizione censurata in relazione ai ratei di pensione;
che, peraltro, il prescelto tertium comparationis, oltre ad essere inconferente, viene assunto in base ad un’interpretazione quasi isolata del giudice di legittimità, giacché il rimettente ignora non solo la giurisprudenza precedente a quella citata, ma, soprattutto, quella formatasi successivamente, la quale, in base ad un orientamento ormai consolidato, ha affermato che l’azione del privato, volta ad ottenere il pagamento di somma di denaro corrispondente al valore del fondo perduto a seguito di occupazione illegittima e di irreversibile trasformazione di esso in opera pubblica, soggiace al termine quinquennale di prescrizione stabilito dall’art. 2947, primo comma, cod. civ.;
che, inoltre, il giudice a quo erra nel ritenere che «le pensioni privilegiate dei militari di carriera, a differenza di quelle normali, presentano la peculiarità di non postulare un precedente rapporto contributivo, ma di servizio e si sostanziano nell’attribuzione di un indennizzo (a vita o una tantum)», così che la loro «caratteristica peculiare» sarebbe quella di non avere «natura reddituale di quiescenza, ma indennitaria»;
che, infatti, contrariamente a quanto afferma il rimettente, è orientamento consolidato di questa Corte (tra le altre, sentenze n. 70 del 1999, n. 431 del 1996, n. 126 del 1991, n. 387 del 1989, n. 151 del 1981), condiviso dalla giurisprudenza assolutamente prevalente della stessa Corte dei conti in materia pensionistica, che le pensioni privilegiate ordinarie, civili e militari, hanno titolo in un rapporto di dipendenza, volontariamente costituito, e rappresentano la proiezione di un precedente trattamento economico di servizio, del quale condividono la natura reddituale di retribuzione differita e ciò al pari delle pensioni normali di quiescenza, tanto da potersi ravvisare «l’unicità della figura del diritto al trattamento pensionistico sia normale sia privilegiato» (così la citata sentenza n. 126 del 1991);
che, dunque, non ha consistenza la censura con la quale, evocando congiuntamente la violazione degli artt. 3 e 36, primo comma, Cost., si assume come ingiustificato ed irragionevole l’eguale trattamento, sotto il profilo del termine quinquennale di prescrizione stabilito dalla denunciata disposizione, tra pensioni normali di quiescenza e pensioni privilegiate ordinarie;
che, invero, il giudice a quo, nel ricostruire la natura giuridica delle pensioni privilegiate ordinarie, delle quali possono beneficiare i militari di carriera, sembra, piuttosto, confonderle con quelle cd. tabellari spettanti ai «militari di leva», le quali, diversamente dalle prime, ma analogamente alle pensioni di guerra, non hanno carattere reddituale, bensì risarcitorio, rinvenendo il proprio titolo preminente nella menomazione sofferta nell’adempimento di un obbligo legalmente imposto in attuazione dell’art. 52 della Costituzione;
che, infine, va comunque osservato che il legislatore, in materia di fissazione del termine di prescrizione dei singoli diritti, gode di ampia discrezionalità, con l’unico limite dell’eventuale irragionevolezza qualora «esso venga determinato in modo da non rendere effettiva la possibilità di esercizio del diritto cui si riferisce, e di conseguenza inoperante la tutela voluta accordare al cittadino leso» (tra le tante, ordinanza n. 153 del 2000);
che detto limite, nel caso di specie, non risulta violato, tanto più che neppure il rimettente censura l’art. 2 del r.d.l. n. 295 del 1939, come modificato dall’art. 2, quarto comma, della legge n. 428 del 1985, sotto il profilo della congruità del termine di prescrizione dalla stessa norma fissato, ma adduce argomenti, privi di consistenza, sulla presunta equiparazione che essa opererebbe tra situazioni diverse e disomogenee;
che, dunque, la questione va dichiarata manifestamente infondata.
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 2 del regio decreto-legge 19 gennaio 1939, n. 295 (Ricupero dei crediti verso impiegati e pensionati, e prescrizione biennale di stipendi, pensioni ed altri emolumenti), come modificato dall’art. 2, quarto comma, della legge 7 agosto 1985, n. 428 (Semplificazione e snellimento delle procedure in materia di stipendi, pensioni ed altri assegni; riorganizzazione delle direzioni provinciali del tesoro e istituzione della Direzione generale dei servizi periferici del tesoro; adeguamento degli organici del personale dell'amministrazione centrale e del Ministero del tesoro e del personale amministrativo della Corte dei conti), sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 36, primo comma, della Costituzione, dal Giudice unico delle pensioni presso la Corte dei conti – sezione giurisdizionale per la Regione Calabria, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 5 aprile 2006.
Annibale MARINI, Presidente
Paolo MADDALENA, Redattore
Depositata in Cancelleria il 14 aprile 2006.