SENTENZA N. 210
ANNO 2015
REPUBBLICA
ITALIANA
IN NOME DEL
POPOLO ITALIANO
LA CORTE
COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Alessandro CRISCUOLO Presidente
- Giuseppe FRIGO Giudice
- Paolo GROSSI ”
- Giorgio LATTANZI ”
- Aldo CAROSI ”
- Marta CARTABIA ”
- Mario
Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Giuliano AMATO ”
- Silvana SCIARRA ”
- Daria de PRETIS ”
- Nicolò ZANON ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art.
38, comma 5, del decreto
legislativo 31 luglio 2005, n. 177 (Testo unico dei servizi di media
audiovisivi e radiofonici), come sostituito dall’art. 12 del decreto
legislativo 15 marzo 2010, n. 44 (Attuazione
della direttiva 2007/65/CE relativa al coordinamento di determinate
disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati membri
concernenti l’esercizio delle attività televisive), promosso dal
Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, nel procedimento vertente tra
Sky Italia srl, Autorità garante per le comunicazioni e Reti Televisive
Italiane spa, con ordinanza
del depositata il 17 febbraio 2014 e iscritta al n. 104 del registro ordinanze
del 2014, pubblicata nella Gazzetta
Ufficiale della Repubblica n. 27, prima serie speciale, dell’anno 2014.
Visti gli atti di costituzione di Sky Italia srl, di Reti
Televisive Italiane spa, nonché gli atti di intervento di Italia 7 Gold srl e
del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza del 6 ottobre 2015 il Giudice relatore
Giuliano Amato;
uditi gli avvocati Felice Vaccaro per Italia Sette Gold
srl, Roberto Mastroianni, Luisa Torchia e Mario Siragusa per Sky Italia srl,
Francesco Saverio Marini e Gian Michele Roberti per Reti Televisive Italiane
spa e l’avvocato dello Stato Stefano Varone per il Presidente del Consiglio dei
ministri.
Ritenuto in fatto
1.− Con ordinanza del 17 febbraio
2014, il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio ha sollevato – in
riferimento agli artt. 3,
41 e 76 della Costituzione
− questione di legittimità costituzionale dell’art. 38, comma 5, del
decreto legislativo 31 luglio 2005, n. 177 (Testo
unico dei servizi di media audiovisivi e radiofonici), come sostituito
dall’art. 12 del decreto legislativo 15 marzo 2010, n. 44 (Attuazione della direttiva 2007/65/CE
relativa al coordinamento di determinate disposizioni legislative,
regolamentari e amministrative degli Stati membri concernenti l’esercizio delle
attività televisive).
La disposizione censurata
prevede che «La trasmissione di spot pubblicitari televisivi da parte di
emittenti a pagamento, anche analogiche, non può eccedere per l’anno 2010 il 16
per cento, per l’anno 2011 il 14 per cento, e, a decorrere dall’anno 2012, il
12 per cento di una determinata e distinta ora d’orologio; un’eventuale
eccedenza, comunque non superiore al 2 per cento nel corso dell’ora, deve
essere recuperata nell’ora antecedente o successiva».
La disposizione in esame stabilisce
quindi − per le emittenti televisive a pagamento
− limiti orari alla trasmissione di spot
pubblicitari più restrittivi di quelli stabiliti per le emittenti cosiddette
"in chiaro”.
Ad avviso del giudice
rimettente, essa si porrebbe in contrasto in primo luogo con l’art.
76 Cost., poiché tale misura sarebbe del tutto
innovativa e non giustificata da alcuna previsione della stessa legge delega,
né da una ratio implicita della
direttiva cui la disposizione dovrebbe dare attuazione.
Viene, inoltre, denunciato
il contrasto con l’art. 3 Cost., per
l’intrinseca irrazionalità della disposizione, che introdurrebbe un’ingiustificata differenziazione tra i limiti orari di
affollamento pubblicitario applicabili alle emittenti televisive a pagamento e
quelli applicabili alle emittenti in chiaro, nonostante l’unicità del mercato
in cui le stesse operano; ed infine, con l’art. 41 Cost., poiché la disposizione incide sulla libertà di iniziativa
economica delle emittenti televisive a pagamento in difetto di una chiara ed
inequivoca finalità sociale, che giustifichi l’intervento normativo in
questione.
2.− Il giudice a quo riferisce di essere chiamato a decidere in ordine al ricorso
proposto da Sky Italia spa (di seguito, «Sky») al fine di ottenere
l’annullamento della delibera con cui l’Autorità per
le garanzie nelle comunicazioni ha irrogato alla ricorrente una sanzione
amministrativa pecuniaria, in conseguenza del superamento dei limiti di
affollamento pubblicitario stabiliti dall’art. 38, comma 5, del d.lgs. n. 177
del 2005.
2.1.– Il TAR Lazio riferisce di avere rinviato alla
Corte di giustizia dell’Unione europea, ai sensi dell’art. 267 del Trattato sul
funzionamento dell’Unione europea (TFUE), fatto a Roma il 25 marzo 1957, alcune
questioni interpretative, relative alla compatibilità del richiamato art. 38,
comma 5, con la normativa comunitaria. Tali
questioni sono state risolte con sentenza
del 18 luglio 2013 in causa C-234/12, in cui la Corte di giustizia ha
affermato che la normativa italiana
sulla pubblicità televisiva – nel prescrivere limiti orari di affollamento
pubblicitario più bassi per le emittenti televisive a pagamento rispetto a
quelli stabiliti per le emittenti in chiaro – è conforme al diritto dell’Unione, sempre che sia rispettato il principio di
proporzionalità, circostanza che deve essere verificata dal giudice del rinvio.
2.2.− Nel giudizio, riassunto a cura della
parte ricorrente, il TAR Lazio ritiene la questione non manifestamente
infondata, in relazione alla violazione dei parametri di cui all’art. 76 Cost.
e agli artt. 3 e 41 Cost.
2.2.1.− Quanto alla violazione
dell’art. 76 Cost. per eccesso di delega, il TAR
Lazio osserva che la legge 7 luglio 2009, n. 88 (Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza
dell’Italia alle Comunità europee − Legge comunitaria 2008), ha delegato il Governo ad adottare i decreti legislativi
recanti le norme occorrenti per dare attuazione, tra le altre, alla direttiva
11 dicembre 2007, n. 2007/65/CE (Direttiva del Parlamento europeo e del
Consiglio che modifica la direttiva 89/552/CEE del Consiglio relativa al
coordinamento di determinate disposizioni legislative, regolamentari e
amministrative degli Stati membri concernenti l’esercizio delle attività televisive).
I principi e i criteri
direttivi generali della delega sono previsti all’art. 2 della legge n. 88 del
2009, ma è l’art. 26 a dettare i criteri specifici, i quali sarebbero riferiti,
peraltro, alla sola attività di product
placement e alla relativa disciplina sanzionatoria.
D’altra parte, la direttiva
da attuare, pur contenendo puntuali disposizioni in tema di pubblicità
televisive e televendite, non conterrebbe la previsione di alcuna
differenziazione – quanto ai tetti di affollamento pubblicitario − tra
emittenti televisive a pagamento ed emittenti televisive in chiaro.
E tuttavia il nuovo art. 38
del d.lgs. n. 177 del 2005, come sostituito dall’art. 12 del d.lgs. n. 44 del
2010, mentre lascia invariati i limiti di affollamento pubblicitario per la concessionaria
del servizio pubblico, nonché quelli delle emittenti televisive in chiaro,
introdurrebbe per la prima volta − riguardo ai limiti di affollamento
pubblicitario − una differenziazione tra emittenti in chiaro ed emittenti
a pagamento.
Ad avviso del giudice a quo, il legislatore delegato non è
stato autorizzato ad introdurre alcuna modifica ulteriore rispetto a quelle
previste dalla direttiva n. 2007/65/CE. L’ambito della delega sarebbe
espressamente circoscritto alle modifiche che tale direttiva ha apportato alla
precedente. Viceversa, la previsione di limiti più stringenti per le emittenti
a pagamento sarebbe una misura del tutto innovativa, non giustificata da alcuna
previsione, né da alcuna ratio
implicita, della direttiva da attuare, né della legge delega.
Tale natura innovativa
impedirebbe di ricondurre la disposizione in esame ad un’ipotesi di delega di
coordinamento, la quale consente interventi modificativi solo in via
strumentale, ossia ove necessario ai fini del coordinamento della normativa
previgente con quella introdotta con la legge delega. Resterebbe esclusa,
pertanto, la possibilità di introdurre per questa via innovazioni sostanziali
alla disciplina previgente.
Inoltre, ad avviso del
giudice a quo, la «revisione» o il
«riordino», in quanto possono comportare l’introduzione di innovazioni della
preesistente disciplina, esigono comunque la previsione di principi e criteri
direttivi, idonei a circoscrivere le scelte discrezionali del Governo.
Viene quindi richiamata la
giurisprudenza costituzionale in merito ai rapporti fra legge delega e norma
attuativa, evidenziando la necessità che l’interpretazione dei principi e dei
criteri direttivi sia effettuata in riferimento alla ratio della legge delega, tenendo conto del contesto normativo in
cui gli stessi sono inseriti e delle finalità che ispirano la delega ed suoi i
principi e i criteri direttivi.
Il giudice a quo si dichiara consapevole che la
delega legislativa non esclude ogni discrezionalità del legislatore delegato e
che l’art. 76 Cost. non osta all’emanazione di norme che rappresentino un
ordinario sviluppo e, se del caso, un completamento delle scelte espresse dal
legislatore delegante; nell’attuazione della delega è quindi possibile valutare
le situazioni giuridiche da regolamentare ed effettuare le scelte conseguenti,
nella fisiologica attività di riempimento che lega i due livelli normativi.
Tuttavia, ad avviso del TAR
rimettente, l’innovazione introdotta dal d.lgs. n. 44 del 2010 non sarebbe
qualificabile come operazione di «completamento», né di «riempimento». La
disposizione censurata non troverebbe, infatti, alcun «ancoraggio» nella legge
delega, risultando viceversa adottata in violazione dei principi e criteri
direttivi della stessa.
2.2.2.−
Quanto al denunciato contrasto con l’art. 3 Cost., il TAR Lazio evidenzia che
con la disposizione in esame viene introdotta un’ingiustificata
differenziazione tra i tetti orari di affollamento pubblicitario applicabili
alle emittenti televisive a pagamento e quelli applicabili alle emittenti
televisive in chiaro. Tale differenziazione non terrebbe conto dell’unicità del
mercato di riferimento.
2.2.3.− Riguardo alla
violazione dell’art. 41 Cost., il TAR Lazio rileva che la disposizione
censurata inciderebbe oggettivamente sulla libertà di iniziativa economica
dell’emittente televisiva a pagamento, in difetto di una chiara ed inequivoca
finalità generale, che giustifichi la misura in questione.
3.– Nel giudizio è intervenuto il
Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura
generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile e
comunque infondata.
3.1.− L’Avvocatura generale dello
Stato osserva che effettivamente non si rinvengono, né fra i criteri di cui
all’art. 2, né fra quelli di cui all’art. 26 della legge n. 88 del 2009,
specifiche indicazioni quanto ai limiti di affollamento pubblicitario nei
rapporti fra le emittenti televisive a pagamento e quelle gratuite. Ciò non
significherebbe, tuttavia, che il legislatore delegato abbia ecceduto la
delega. Infatti, sia l’oggetto, sia i principi ed i criteri direttivi, vanno
rinvenuti attraverso una valutazione complessiva della disposizione delegante,
da coordinare con la normativa europea da attuare, tenendo presente che quanto
più i principi ed i criteri direttivi sono analitici, tanto più ridotti
risultano i margini di discrezionalità del legislatore delegato.
I criteri della legge delega vanno,
quindi, coordinati con i precetti posti dalla direttiva europea di cui la norma
censurata costituisce attuazione. Nel caso in esame, ad avviso dell’Avvocatura
generale dello Stato, il legislatore delegato avrebbe correttamente applicato
tali criteri, circoscrivendo l’ambito della delega, così da perseguire le
finalità che l’hanno determinata, ma anche consentendo di valutare le
particolari situazioni giuridiche da regolamentare, nella fisiologica attività
di "riempimento” che lega i due livelli normativi.
D’altra parte, la Corte di giustizia,
nella sentenza resa nell’ambito del medesimo giudizio, ha affermato che «per
garantire un’integrale ed adeguata protezione degli interessi della categoria
di consumatori costituita dai telespettatori, gli Stati membri conservano la
facoltà di richiedere ai fornitori di servizi di media soggetti alla loro
giurisdizione di rispettare norme più particolareggiate o più rigorose e, in
alcuni casi, condizioni differenti nei settori coordinati da tale direttiva,
purché tali norme siano conformi al diritto dell’Unione e, in particolare, ai
suoi principi generali».
Nella normativa europea di riferimento,
sarebbe quindi centrale la tutela dell’utente, quale consumatore, ed è in
questa prospettiva che la Corte di giustizia inquadra il tema dei limiti di
affollamento pubblicitario, rilevando che le disposizioni che prevedono tali
limiti mirano ad instaurare una tutela equilibrata degli interessi finanziari
delle emittenti televisive e degli inserzionisti, da un lato, e degli interessi
degli aventi diritto, ossia gli autori e i realizzatori, e della categoria di
consumatori, rappresentata dai telespettatori, dall’altro.
Nel caso di specie, la Corte di
giustizia ha ritenuto che l’equilibrata tutela di tali interessi sia diversa
per le emittenti a pagamento rispetto alle emittenti in chiaro, essendo diverse
le rispettive posizioni sul piano finanziario. Mentre le prime ricavano
introiti dagli abbonamenti sottoscritti dai telespettatori, le seconde non
beneficiano di una siffatta fonte di finanziamento diretto e devono finanziarsi
con le entrate della pubblicità televisiva o mediante altre fonti. Una simile
differenza è, in linea di massima, tale da porre le emittenti televisive a
pagamento in una situazione oggettivamente diversa per quanto riguarda
l’incidenza economica dei limiti di affollamento pubblicitario sulle modalità
di finanziamento delle emittenti stesse.
Ad avviso dell’Avvocatura generale dello
Stato, sarebbe, dunque, la stessa disciplina europea a prevedere, quale
strumento di tutela del consumatore, la differenziazione fra i limiti
pubblicitari fra le emittenti televisive in chiaro e quelle a pagamento.
Il legislatore delegato, nell’attuare la
direttiva, avrebbe avuto come criterio di riferimento proprio questa esigenza
di tutela del consumatore. Tale criterio sarebbe stato, quindi, legittimamente
trasposto nell’art. 38 del d.lgs. n. 177 del 2005. Risulterebbe, pertanto,
smentita la premessa logica del TAR Lazio, secondo la quale la previsione di
limiti differenziati e più restrittivi per le emittenti a pagamento
costituirebbe misura del tutto innovativa ed eccedente i limiti della delega.
3.2.− D’altra parte, con
riferimento alla violazione dell’art. 3 Cost., l’Avvocatura generale dello
Stato osserva che non contrasta con i principi di uguaglianza e di
ragionevolezza prevedere discipline differenti per situazioni diverse. Il
principio generale di uguaglianza richiede, da un lato, l’eguaglianza di
trattamento a parità di condizioni e, dall’altro, una regolamentazione
differenziata, ma non arbitraria, per diversità di situazioni.
Le emittenti televisive in chiaro e
quelle a pagamento sarebbero soggetti diversi, operanti in mercati diversi e in
situazioni diverse. Diversa sarebbe la relazione tra operatori e consumatori;
diverse le modalità di finanziamento, e quindi gli obiettivi degli operatori
(ricavi pubblicitari a fronte di ricavi dagli abbonamenti); diversa anche
l’offerta, sul piano qualitativo e quantitativo, di contenuti televisivi.
La previsione di discipline
differenziate per situazioni diverse, a tutela dei consumatori, non sarebbe
dunque in contrasto, bensì in sintonia con il principio di parità di
trattamento.
3.3.− Quanto alla dedotta
violazione dell’art. 41 Cost., l’Avvocatura generale dello Stato eccepisce, in
via preliminare, l’inammissibilità della questione per la genericità
dell’ordinanza di rinvio.
Nel merito, la difesa statale osserva
che la disciplina nazionale è attuazione di quella europea, nella quale la
tutela dei consumatori, ed in particolare dei telespettatori, contro
l’eccessiva pubblicità costituisce un aspetto essenziale.
Nel caso di specie, i principi e i
criteri direttivi delle disposizioni relative all’affollamento pubblicitario
mirano ad instaurare una tutela equilibrata degli interessi finanziari delle
emittenti televisive, da un lato, e degli interessi degli utenti, dall’altro,
al fine di garantire un bilanciamento tra le contrapposte posizioni, in
ossequio alla stessa direttiva comunitaria.
4.− Con memoria depositata il 15
luglio 2014, si è costituita la società Reti televisive italiane spa (di
seguito, «RTI spa»), parte controinteressata nel giudizio a quo, la quale ha chiesto che sia dichiarata la manifesta
infondatezza della questione sollevata dal TAR Lazio.
4.1.− Con riferimento alla
denunciata violazione dell’art. 76 Cost., RTI spa osserva che l’art. 26 della
legge n. 88 del 2009, riferito specificamente alla direttiva n. 2007/65/CE,
prevede che il recepimento abbia luogo «attraverso le opportune modifiche al
testo unico della radiotelevisione, di cui al decreto legislativo 31 luglio
2005, n. 177». Il Governo è stato inoltre delegato ad introdurre nel decreto
legislativo le modifiche «opportune», per assicurare, secondo la discrezione
del legislatore delegato, la coerenza dell’ordinamento interno alla ratio della direttiva.
Ad avviso di RTI spa, la scelta del
legislatore delegato sarebbe corretta, in considerazione non solo dell’ampiezza
delle modificazioni apportate alla precedente direttiva, ma anche della
circostanza che, nel dettare una nuova cornice normativa in materia di
pubblicità radiotelevisiva, la direttiva n. 2007/65/CE ha previsto norme di
armonizzazione minimale, lasciando agli Stati il compito di intervenire con
opportune previsioni di dettaglio. La legge delega ha pertanto riconosciuto al
Governo la necessaria discrezionalità ai fini del recepimento della precitata
direttiva.
Si sottolinea che la ratio delle previsioni in tema di
affollamento pubblicitario consisterebbe nella tutela dei telespettatori (e
degli autori dei programmi), avverso l’eccessivo affollamento pubblicitario, e
nel bilanciamento con gli interessi di natura finanziaria delle emittenti. Ciò
troverebbe conferma nella pronuncia della Corte di giustizia resa nel caso in
esame, laddove si riconosce che la normativa nazionale che prevede la
modulazione di tetti di affollamento pubblicitario si iscrive nell’attuazione
della direttiva da parte dello Stato membro e forma oggetto di controllo di
compatibilità ai sensi della stessa direttiva e del principio di eguaglianza.
La medesima pronuncia ha affermato la compatibilità della disciplina nazionale
alla direttiva, tenuto conto delle diverse esigenze di tutela che,
rispettivamente, connotano le emittenti a pagamento e quelle in chiaro.
4.2.− Per le medesime ragioni, RTI
spa evidenzia l’infondatezza della questione di legittimità costituzionale
formulata in riferimento all’art. 3 Cost. Viene in particolare rilevato che la
pronuncia della Corte di giustizia ha escluso il contrasto della norma interna
con il principio europeo di parità di trattamento, in quanto gli interessi
coinvolti dall’emittenza gratuita ed a pagamento sono diversi, sia dal lato
dell’utente, sia da quello dell’emittente.
4.3.− Quanto all’ulteriore profilo
di illegittimità costituzionale relativo alla violazione dell’art. 41 Cost.,
RTI spa osserva che l’intervento normativo in esame sarebbe giustificato da una
chiara ed inequivoca finalità sociale, individuata dalla stessa Corte di
giustizia nell’esigenza di assicurare la parità di trattamento in senso
sostanziale, attraverso la modulazione dei tetti di affollamento pubblicitario
rispetto a categorie di emittenti, le quali versino in condizioni
oggettivamente diverse. Verrebbe infatti correttamente prevista una tutela dei
consumatori di servizi televisivi a pagamento contro la "doppia imposizione”
(canone di abbonamento − esposizione alla pubblicità in misura massima
pari a quella consentita alla televisione gratuita). Anche tale censura sarebbe
pertanto infondata.
4.4.− Nella memoria depositata il
14 settembre 2015, RTI spa ha eccepito l’inammissibilità della questione,
evidenziando che − per effetto dell’intervento puramente demolitorio
invocato dal giudice a quo − la
normativa residua risulterebbe inficiata da vizi di costituzionalità assai più
gravi e intollerabili di quelli ravvisati dallo stesso remittente.
Infatti, in forza del residuo
articolato, le uniche emittenti assoggettate ai limiti di affollamento
pubblicitario sarebbero la concessionaria pubblica (4% dell’orario settimanale
di programmazione e 12% ogni ora) e le emittenti in chiaro (15% dell’orario
giornaliero di programmazione e 18% ogni ora).
Verrebbe meno ogni limitazione per le
emittenti a pagamento. Esse infatti non potrebbero essere ricondotte – in via
di interpretazione estensiva − entro il perimetro delle norme recate
dagli altri commi, le quali non sono generali, ma ciascuna espressamente
riferita alla concessionaria pubblica o alle emittenti in chiaro; e neppure
potrebbero esservi ricondotte in via analogica, posta la totale diversità delle
fattispecie.
4.4.1.− RTI spa deduce, inoltre,
che la normativa di risulta si porrebbe, altresì, in contrasto con la normativa
europea, nonché con l’obbligo di dare piena e completa attuazione alla
direttiva 10 marzo 2010, n. 2010/13/UE (Direttiva del Parlamento europeo e del
Consiglio relativa al coordinamento di determinate disposizioni legislative,
regolamentari e amministrative degli Stati membri concernenti la fornitura di
servizi di media audiovisivi – direttiva sui servizi di media audiovisivi), che
ha sostituito la precedente direttiva n. 2007/65/CE.
Infatti, se la Corte procedesse
all’annullamento dell’art. 38, comma 5, così come richiesto dal remittente, si
creerebbe un ambito soggettivo − quello delle emittenti a pagamento −
sottratto a qualsivoglia limite di affollamento pubblicitario. Siffatta
eventualità sarebbe in contrasto con la normativa europea, la quale impone un
tetto massimo a tutte le emittenti, sia pur modulabile dagli Stati membri. Ciò
porrebbe l’Italia in una situazione di inadempimento rispetto all’obbligo di
attuazione della direttiva (a termine peraltro già ampiamente scaduto) e,
dunque, di violazione degli obblighi europei.
4.4.2.− Nel merito, RTI spa ha
ribadito le ragioni a sostegno del’infondatezza della violazione dell’art. 76
Cost., evidenziando che le scelte del legislatore delegato sarebbero già state
riconosciute pienamente aderenti alla direttiva n. 2007/65/CE dalla Corte di
giustizia, la quale ha stabilito che la differenziazione sancita dalle norme
nazionali costituisce legittima espressione della discrezionalità degli Stati,
coerente con i contenuti e gli obiettivi della disciplina europea.
In particolare, con specifico riguardo
alla disciplina dell’affollamento pubblicitario, le modifiche introdotte dalla
direttiva n. 2007/65/CE avrebbero esteso la discrezionalità degli Stati membri,
in considerazione dell’esigenza di assicurare adeguate risorse finanziarie alla
televisione in chiaro, come risulterebbe anche dai lavori preliminari della
stessa direttiva.
4.4.3.− RTI ribadisce
l’infondatezza delle ulteriori censure, relative alla violazione degli artt. 3
e 41 Cost., evidenziando che la norma in esame non solo non sarebbe in
contrasto con gli evocati parametri costituzionali, ma sarebbe viceversa
illegittimo (proprio in riferimento agli artt. 3 e 41 Cost.) l’assoggettamento
di tutte le emittenti a un medesimo limite, esito cui chiaramente tende il petitum del giudice rimettente. Si
realizzerebbe, infatti, un trattamento uguale di situazioni obiettivamente
diverse, con conseguente violazione dell’art. 3 Cost.
Per le stesse ragioni − connesse
alla oggettiva differenza fra emittenti televisive a pagamento ed emittenti in
chiaro − sarebbe configurabile, in modo inequivoco, la «finalità sociale»
che giustifica la misura normativa in esame, anche ai fini dell’art. 41 Cost.
5.− Con memoria depositata l’11
luglio 2014, è intervenuta nel giudizio di costituzionalità la società Italia 7
Gold srl, chiedendo che la questione sollevata dal TAR Lazio venga dichiarata
irrilevante ed infondata.
5.1.− La società interveniente
riferisce di gestire dal 1999 la trasmissione di programmi e di pubblicità
nazionale in contemporanea da parte di concessionari privati per la
radiotelediffusione in ambito locale. La società riferisce di essere soggetta,
ai sensi dell’art. 12 del d.lgs. n. 44 del 2010, a limiti di affollamento
pubblicitario identici a quelli delle emittenti in chiaro in ambito nazionale.
Sarebbe pertanto ravvisabile, in capo
alla interveniente, un interesse qualificato ad opporsi ad iniziative
giudiziarie di soggetti concorrenti, che appaiono in contrasto al principio di
equilibrata tutela degli interessi in gioco, delle emittenti, degli
inserzionisti, degli autori dei programmi e dei consumatori (i telespettatori);
si sottolinea, a questo riguardo, che – in riferimento ai principi e agli
obiettivi delle disposizioni relative all’affollamento pubblicitario televisivo
− gli interessi finanziari delle emittenti televisive a pagamento sono
diversi da quelli delle emittenti televisive in chiaro, le quali non
beneficiano dei proventi degli abbonamenti sottoscritti dai telespettatori.
L’interesse all’intervento
dell’esponente, ancorché estranea al giudizio a quo, per sostenere la legittimità della norma in discussione,
sarebbe quindi inerente in modo diretto ed immediato al rapporto sostanziale
dedotto in giudizio. Infatti, dall’accoglimento della questione potrebbe
derivare un aumento della percentuale di spot pubblicitari consentiti a Sky,
con grave pregiudizio per l’attività della società interveniente. Ciò
costituirebbe altresì violazione degli artt. 21 e 41 Cost.
5.2.− Nel merito, viene contestata
la dedotta discriminazione delle emittenti a pagamento, rispetto alle emittenti
in chiaro; d’altra parte, un aumento della percentuale di pubblicità consentita
alle emittenti a pagamento sarebbe inammissibile, in quanto sarebbe
pregiudicata la raccolta degli altri operatori nazionali in chiaro, i quali non
possono contare sul sostegno proveniente dai rapporti di abbonamento.
Si osserva inoltre che, come affermato
dalla Corte di giustizia, la direttiva 3 ottobre 1989, n. 89/552/CEE (Direttiva
del Parlamento europeo e del Consiglio, relativa al coordinamento di
determinate disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli
Stati membri concernenti la fornitura di servizi di media audiovisivi – direttiva
sui servizi dei media audiovisivi) non ha l’obiettivo di una completa
armonizzazione, ma stabilisce solo «prescrizioni minime»; gli Stati membri
conservano, quindi, «la facoltà di richiedere ai fornitori di servizi di
media», «di rispettare norme più particolareggiate e più rigorose e, in alcuni
casi, condizioni differenti nei settori coordinati da tale direttiva». Ciò
dimostrerebbe l’infondatezza della denunciata violazione dell’art. 76 Cost.,
per eccesso di delega.
Considerazioni analoghe varrebbero anche
in ordine all’asserita lesione dell’art. 3 Cost., da ritenersi insussistente,
stante la facoltà del legislatore nazionale di imporre condizioni differenti,
nel rispetto delle direttive comunitarie.
L’eventuale accoglimento della questione
sollevata dal TAR Lazio si porrebbe perciò in contrasto con gli obiettivi delle
norme comunitarie e nazionali relative all’affollamento pubblicitario, nonché
con gli artt. 41 e 21 Cost., poiché arrecherebbe un danno irreparabile ai
soggetti autorizzati alle trasmissioni in contemporanea e non terrebbe conto
dell’utilità sociale di tale attività, in quanto espressione del pluralismo
televisivo.
5.3.− In prossimità dell’udienza
pubblica, Italia 7 Gold srl ha depositato una memoria in cui ha insistito
perché la questione di legittimità dell’art. 38, comma 5, del d.lgs. n. 177 del
2005 sia dichiarata irrilevante, o comunque infondata.
5.3.1.− Sono stati ribaditi gli
argomenti a sostegno della legittimazione all’intervento, in considerazione
della titolarità di un interesse qualificato, immediatamente inerente al
rapporto sostanziale di cui si discute, interesse suscettibile di essere inciso
direttamente dall’esito del giudizio costituzionale.
L’eventuale accoglimento della questione
di legittimità costituzionale determinerebbe, infatti, un aumento dei
quantitativi di spot pubblicitari trasmessi da Sky e finirebbe per erodere la
già limitata quota di pubblicità nazionale fino ad oggi conquistata dalla parte
interveniente. Da ciò conseguirebbe, da un lato, la violazione del legittimo
affidamento in ordine alla vigenza della disposizione censurata, dall’altro,
l’esposizione della stessa interveniente al rischio della risoluzione dei
rapporti contrattuali con gli operatori consorziati, così mettendo in pericolo
la sua stessa sopravvivenza.
6.− La società Sky Italia srl è
intervenuta nel giudizio di costituzionalità con memoria depositata il 15
luglio 2014, in cui ha chiesto l’accoglimento della questione di legittimità
costituzionale sollevata dal TAR per il Lazio.
6.1.− La parte ricorrente ritiene,
in primo luogo, che l’introduzione, da parte del legislatore delegato, di una
disciplina dei limiti di affollamento pubblicitario differenziata per le
emittenti a pagamento violi l’art. 76 Cost., sotto due diversi profili:
l’eccesso di delega rispetto all’oggetto e la violazione dei principi e dei
criteri direttivi.
Sotto il primo profilo, si osserva che
l’oggetto della delega consiste nel dettare le «norme occorrenti per dare
attuazione», tra le altre, alla direttiva n. 2007/65/CE, recante modifiche alla
direttiva n. 89/552/CEE in materia di esercizio delle attività televisive (art.
l, comma l, della legge n. 88 del 2009). Ad avviso di Sky, i principi e i
criteri direttivi per l’esercizio della delega, non prevedono che il
legislatore delegato introduca alcuna modifica ulteriore rispetto a quelle
apportate dalla direttiva n. 2007/65/CE alla direttiva n. 89/552/CEE. Un
intervento sulla disciplina della comunicazione e della pubblicità commerciale,
coperta da riserva di legge (artt. 21 e 41 Cost.), non avrebbe potuto
realizzarsi in assenza di un preciso riferimento nella legge delega.
La disposizione censurata sarebbe
estranea rispetto alle previsioni della direttiva n. 2007/65/CE, la quale nulla
dispone in punto di differenziazione dei tetti di affollamento pubblicitario
tra emittenti televisive in chiaro ed emittenti televisive a pagamento.
Tale differenza di trattamento sarebbe
in aperta contraddizione con gli obiettivi di liberalizzazione e di incremento
della concorrenza che la direttiva n. 2007/65/CE ha voluto perseguire nel
modificare la precedente disciplina della pubblicità televisiva. In
particolare, nel considerando n. 57
della direttiva viene ritenuto ingiustificato «il mantenimento di una normativa
dettagliata in materia di inserimento di spot pubblicitari a tutela dei
telespettatori», in considerazione delle «maggiori possibilità per gli
spettatori di evitare la pubblicità grazie al ricorso a nuove tecnologie quali
i videoregistratori digitali personali ed all’aumento della scelta di canali».
La previsione di limiti più stringenti
per le emittenti televisive a pagamento costituisce quindi una misura
innovativa e non giustificata da alcuna previsione, né da alcuna ratio implicita, della legge di delega.
Di qui il suo contrasto con l’art. 76 Cost.
6.2.− Con riferimento alla
violazione dell’art. 3 Cost., Sky ritiene del tutto ingiustificata la
differenziazione dei limiti orari di affollamento pubblicitario rispettivamente
applicabili alle emittenti televisive a pagamento e a quelle in chiaro.
L’unicità del mercato della raccolta
pubblicitaria sul mezzo televisivo rappresenterebbe un dato acquisito nella
prassi applicativa nazionale e europea, non sussistendo alcuna differenza tra
modelli aziendali che giustifichi l’imposizione di limiti differenziati per le
emittenti a pagamento e le emittenti in chiaro.
In definitiva, la norma censurata
avrebbe natura discriminatoria e realizzerebbe, come vero obiettivo, una
conformazione del mercato della raccolta pubblicitaria sul mezzo televisivo
diversa da quella che si realizzerebbe in base alle pure dinamiche
concorrenziali. L’effetto sarebbe quello di consolidare i vincoli all’ingresso
o alla crescita dei concorrenti nel mercato italiano e quindi di perpetuare,
ovvero di rafforzare, la situazione di stabile duopolio, tradizionalmente
rinvenuta nel settore.
Una giustificazione dell’intervento in
esame non sarebbe ravvisabile nella finalità di garantire gli utenti delle
emittenti a pagamento. Infatti, tale finalità di tutela non si concilierebbe
con la libertà del telespettatore stesso di accedere al rapporto − di
tipo sinallagmatico e consensuale − che lo lega alla piattaforma
televisiva a pagamento. Ad avviso della società ricorrente, la possibilità di
esercitare il diritto di recesso varrebbe ad attribuire al consumatore il più
efficace mezzo di tutela nei confronti dell’eccessiva pubblicità. L’esigenza di
protezione degli utenti sarebbe, quindi, inidonea a fondare la legittimità del
trattamento differenziato.
Inoltre, il canone della ragionevolezza risulterebbe
violato poiché la misura adottata risulterebbe palesemente sproporzionata e
incongrua.
In primo luogo, la norma non sarebbe
giustificata da alcuna esigenza di tutela di interessi di rango costituzionale.
Sicché nell’eventuale bilanciamento tra la libertà di iniziativa economica,
sotto il profilo della capacità di vendita degli spazi pubblicitari, e
interessi di rango inferiore, questi ultimi risulterebbero in ogni caso
recessivi.
D’altra parte, una misura che rafforza
la posizione dominante di un operatore, Mediaset, già favorito nel mercato
della pubblicità televisiva dalla posizione di debolezza del principale
concorrente (RAI), non realizzerebbe l’interesse superiore dei telespettatori a
confrontarsi con un sistema radiotelevisivo pluralistico e concorrenziale.
6.3.− La disposizione dell’art.
38, comma 5, si porrebbe, altresì, in contrasto con l’art. 41 Cost., incidendo
sulla libertà di iniziativa economica dell’emittente televisiva a pagamento, in
assenza di alcuna chiara finalità sociale che giustifichi un simile intervento.
L’inasprimento dei limiti orari di
affollamento pubblicitario determinerebbe, a carico delle emittenti televisive
a pagamento, una significativa limitazione della capacità di vendita degli
spazi pubblicitari agli inserzionisti − che costituisce pacificamente
un’attività di impresa, tutelata dall’art. 41 Cost. − in assenza di
ragioni di utilità sociale dichiarate o, comunque, implicitamente ricavabili
dall’intervento normativo nel suo complesso.
La disposizione censurata avrebbe
ingiustamente favorito − sul mercato della raccolta pubblicitaria −
le emittenti televisive in chiaro, avvantaggiando in particolare il soggetto
che − ancor prima dell’introduzione della misura in esame − già
deteneva una posizione dominante all’interno di tale mercato, con conseguente
violazione dell’art. 41 Cost.
6.4.− In prossimità dell’udienza
pubblica, Sky ha depositato una memoria in cui ha eccepito l’inammissibilità
dell’intervento di Italia 7 Gold srl nel giudizio incidentale di
costituzionalità, evidenziando che la stessa non sarebbe titolare di un
interesse immediatamente inerente al rapporto sostanziale dedotto in giudizio.
6.4.1.− Con riferimento alla
violazione dell’art. 76 Cost., la società ricorrente ha ribadito le ragioni a
sostegno della ritenuta estraneità della norma censurata sia rispetto alle
previsioni della direttiva n. 2007/65/CE, sia rispetto alla legge delega n. 88
del 2009.
Quanto al primo profilo, Sky ritiene che
la direttiva non preveda affatto la distinzione in base alla tipologia di
operatori. Nessuna disposizione consentirebbe, d’altra parte, l’introduzione di
misure conformative della libertà di impresa e del libero dispiegarsi della
concorrenza, come la previsione di limiti di affollamento pubblicitario
differenziati. Ad avviso della società ricorrente, la direttiva persegue,
all’opposto, obiettivi di liberalizzazione.
Quanto al secondo profilo, viene
rilevato che la possibilità assegnata al legislatore delegato di apportare
«opportune modifiche al testo unico della radiotelevisione» per recepire le
disposizioni europee in materia di product
placement non fornirebbe alcuna copertura alla norma censurata, la quale si
presenterebbe come innovativa ed eccentrica, sia rispetto alla materia del product placement, sia rispetto alle
previsioni della direttiva n. 2007/65/CE. Ad avviso della ricorrente, la
disposizione censurata non costituirebbe affatto una disposizione «occorrente»
a dare attuazione alla direttiva n. 2007/65/CE, come invece richiede l’art. l
della legge delega.
6.4.2.− Con riferimento alla
violazione dell’art. 3 Cost., Sky ribadisce che la disparità di trattamento
operata attraverso i limiti di affollamento pubblicitario differenziati sarebbe
tanto più grave in considerazione dell’intenzione del legislatore di garantire
alle emittenti televisive private maggiori entrate pubblicitarie, nonché della
circostanza che la disposizione in esame finirebbe per rappresentare una misura
di protezione in favore del gruppo Mediaset, già dominante nel mercato della
raccolta pubblicitaria.
6.4.3.− Infine, quanto alla
denunciata violazione dell’art. 41 Cost., Sky esclude che ragioni di utilità
sociale giustificative della misura controversa siano ravvisabili nell’esigenza
di tutelare i telespettatori dagli eccessi di pubblicità e, in particolare, di
offrire una speciale protezione agli utenti delle emittenti televisive a
pagamento, soggetti ad una sorta di doppia imposizione (canone di abbonamento –
esposizione alla pubblicità in misura massima pari a quella consentita alla
televisione gratuita). Infatti, la presunta esigenza di una tutela rafforzata
degli utenti delle emittenti a
pagamento non sarebbe contenuta né
nel testo della norma censurata, né emergerebbe dai suoi atti preparatori.
Considerato
in diritto
1.− Con ordinanza del 17 febbraio
2014, il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio ha sollevato – in
riferimento agli artt. 3, 41 e 76 della Costituzione − questione di
legittimità costituzionale dell’art. 38, comma 5, del decreto legislativo 31 luglio 2005, n. 177 (Testo unico dei servizi di media
audiovisivi e radiofonici), come sostituito dall’art. 12 del decreto
legislativo 15 marzo 2010, n. 44 (Attuazione della direttiva 2007/65/CE relativa al coordinamento di
determinate disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli
Stati membri concernenti l’esercizio delle attività televisive).
La disposizione censurata
prevede che «La trasmissione di spot pubblicitari televisivi da parte di
emittenti a pagamento, anche analogiche, non può eccedere per l’anno 2010 il 16
per cento, per l’anno 2011 il 14 per cento, e, a decorrere dall’anno 2012, il
12 per cento di una determinata e distinta ora d’orologio; un’eventuale
eccedenza, comunque non superiore al 2 per cento nel corso dell’ora, deve essere
recuperata nell’ora antecedente o successiva».
La disposizione in esame stabilisce
quindi − per le emittenti televisive a pagamento
− limiti orari alla trasmissione di spot
pubblicitari più restrittivi di quelli previsti per le emittenti cosiddette "in
chiaro”.
Ad avviso del giudice
rimettente, essa si porrebbe in contrasto, in primo luogo, con l’art.
76 Cost., poiché tale misura sarebbe del tutto
innovativa e non giustificata da alcuna previsione della legge delega, né da
una ratio implicita della direttiva
cui la disposizione dovrebbe dare attuazione.
Viene, inoltre, denunciato
il contrasto con l’art. 3 Cost., per
l’intrinseca irrazionalità della disposizione, che introdurrebbe un’ingiustificata differenziazione tra i limiti orari di
affollamento pubblicitario applicabili alle emittenti televisive a pagamento e
quelli applicabili alle emittenti in chiaro, nonostante l’unicità del mercato
di riferimento; ed infine, con l’art. 41 Cost., poiché la disposizione inciderebbe sulla libertà di iniziativa economica
delle emittenti televisive a pagamento, in difetto di una chiara ed inequivoca
finalità sociale che giustifichi l’intervento normativo in questione.
2.− In via preliminare, va ribadito quanto
statuito con l’ordinanza della quale è stata data lettura in pubblica udienza,
allegata al presente provvedimento, in ordine all’inammissibilità
dell’intervento spiegato dalla società Italia 7 Gold
srl.
Per costante giurisprudenza di questa
Corte, sono ammessi ad intervenire nel giudizio incidentale di legittimità
costituzionale, oltre al Presidente del Consiglio dei ministri e, nel caso di
legge regionale, al Presidente della Giunta regionale, le parti del giudizio
principale.
L’intervento di soggetti estranei a
quest’ultimo giudizio è ammissibile soltanto per i terzi titolari di un
interesse qualificato, inerente in modo diretto e immediato al rapporto
sostanziale dedotto in giudizio e non semplicemente regolato, al pari di ogni
altro, dalla norma o dalle norme oggetto di censura (ex plurimis, ordinanza emessa
all’udienza del 7 ottobre 2014, confermata con sentenza n. 244 del
2014; ordinanza letta
all’udienza dell’8 aprile 2014, confermata con sentenza n. 162 del
2014; ordinanza
letta all’udienza del 23 aprile 2013, confermata con sentenza n. 134 del
2013; ordinanza
letta all’udienza del 9 aprile 2013, confermata con sentenza n. 85 del
2013).
Nella specie, Italia 7 Gold srl non è
parte del giudizio principale, sorto a seguito del ricorso, proposto da Sky
Italia srl, per l’annullamento della delibera con cui l’Autorità per le
garanzie nelle comunicazioni ha irrogato alla ricorrente una sanzione amministrativa pecuniaria, né risulta essere titolare di un interesse qualificato,
inerente in modo diretto e immediato al rapporto sostanziale dedotto in
giudizio.
Da
quanto esposto consegue l’inammissibilità dell’intervento indicato.
3.− Sempre in via preliminare, l’eccezione di inammissibilità della
questione, sollevata dalla Avvocatura generale dello Stato, in riferimento alla
denunciata violazione dell’art. 41 Cost., è infondata.
Non sussiste, infatti, la
lamentata genericità dell’ordinanza di rinvio.
La fattispecie concreta
risulta descritta in modo sufficiente (per quanto rileva ai fini di causa) e
viene individuato con chiarezza il petitum,
volto ad ottenere la dichiarazione d’illegittimità costituzionale della
disposizione censurata, ritenuta in contrasto (tra gli altri) con il parametro
costituzionale dell’art. 41 Cost., in quanto inciderebbe oggettivamente sulla
libertà di iniziativa economica delle emittenti televisive a pagamento, in
difetto di una chiara ed inequivoca finalità generale, atta a giustificare la
misura in questione.
4.− La questione di legittimità costituzionale
dell’art. 38, comma 5, del d.lgs. n. 177 del 2005, per violazione dell’art. 3
Cost., deve essere, invece, dichiarata inammissibile.
4.1.− Secondo la
prospettazione dell’ordinanza di rimessione, l’introduzione di limiti orari di
affollamento pubblicitario differenziati per le emittenti televisive a
pagamento, rispetto a quelli per le emittenti televisive in chiaro, non
terrebbe conto dell’unicità del mercato di riferimento e costituirebbe,
pertanto, una misura discriminatoria, che penalizza in maniera ingiustificata le
emittenti televisive a pagamento.
Il parametro di cui all’art. 3 Cost.
viene invocato dal giudice rimettente sotto il duplice versante della
violazione del principio di eguaglianza e dell’intrinseca irragionevolezza
della norma impugnata.
4.2.− Al fine di eliminare tale ingiustificata
ed irragionevole disparità di trattamento, il giudice a quo richiede un intervento puramente demolitorio della
disposizione dell’art. 38, comma 5, del d.lgs. n. 177 del 2005.
Ne consegue che, laddove la stessa fosse annullata,
le uniche emittenti televisive assoggettate a specifici limiti di affollamento
pubblicitario sarebbero la concessionaria pubblica (art. 38, comma 1) e le
emittenti in chiaro (art. 38, comma 2).
Verrebbe meno, quindi, ogni limitazione
per le emittenti a pagamento, le quali non potrebbero essere ricondotte
nell’ambito applicativo delle altre disposizioni dell’art. 38, che
specificamente riguardano la concessionaria pubblica e le emittenti in chiaro.
Anche laddove si ritenessero applicabili i limiti
previsti «in ogni caso» dal precedente comma 4 dell’art. 38, tale soluzione non
sarebbe coerente con il petitum
formulato dal giudice a quo, volto ad
realizzare il recupero della legalità costituzionale attraverso una piena
equiparazione dei limiti di affollamento pubblicitario per le emittenti a
pagamento e per quelle in chiaro.
4.3.− In definitiva, l’esito
prefigurato dal rimettente – l’equiparazione delle emittenti a pagamento a
quelle in chiaro, quanto ai limiti di affollamento pubblicitario − non
potrebbe scaturire dalla caducazione dal contesto normativo dell’art. 38 della
disposizione censurata. L’intervento correttivo invocato, afferente al solo comma 5,
non varrebbe a ricondurre ad omogeneità le situazioni poste a raffronto e
sarebbe, quindi, inidoneo a garantire la realizzazione del risultato avuto di
mira dal rimettente, conseguibile non per decisione della Corte, ma attraverso
la rimodulazione legislativa dei limiti di affollamento.
Ciò è motivo di
inammissibilità della questione
(sentenze n. 163
e n. 30 del 2014;
ordinanze n. 200 del 2000;
n. 259 del 1998).
Tale profilo di
inammissibilità, in quanto fondato sulla ritenuta inidoneità dell’intervento
invocato ad eliminare il prospettato vulnus
al principio dell’art. 3 Cost., non si estende alle ulteriori censure formulate
dal rimettente in riferimento a diversi parametri costituzionali, che devono
pertanto essere esaminate partitamente.
5.− Nel merito, la
questione di legittimità costituzionale sollevata in riferimento all’art. 76
Cost., non è fondata.
5.1.− La previsione di
limiti più stringenti di affollamento pubblicitario per le emittenti a
pagamento costituirebbe, ad avviso del giudice a quo, violazione dei principi e criteri della legge delega, in
quanto si tratterebbe di una misura del tutto innovativa, non giustificata da
alcuna previsione espressa, né da alcuna ratio
implicita della legge delega (legge 7 luglio 2009, n. 88, recante «Disposizioni per
l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità
europee − Legge comunitaria 2008»), e della stessa direttiva alla quale il d.lgs. n. 44 del 2010 ha dato attuazione.
5.2.− In linea
generale, va ribadito come, secondo la giurisprudenza costituzionale costante,
il contenuto della delega non possa essere individuato senza tenere conto del
sistema normativo nel quale la stessa si inserisce, poiché soltanto
l’identificazione della sua ratio
consente di verificare, in sede di controllo, se la norma delegata sia con essa
coerente (ex plurimis, sentenze n. 134 del 2013,
n. 272 del 2012,
n. 230 del 2010,
n. 98 del 2008,
n. 163 del 2000).
La disposizione censurata è
stata introdotta dall’art. 12 del d.lgs. n. 44 del 2010, adottato in esecuzione della delega conferita dalla legge n. 88 del 2009. Con essa, il Governo è stato delegato
ad adottare i decreti legislativi recanti le norme occorrenti per dare
attuazione, tra le altre, alla direttiva 11 dicembre 2007, n. 2007/65/CE
(Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio che modifica la direttiva
89/552/CEE del Consiglio relativa al coordinamento di determinate disposizioni
legislative, regolamentari e amministrative degli Stati membri concernenti
l’esercizio delle attività televisive).
5.3.− Al di là del
fatto che, con specifico riferimento all’attuazione di tale direttiva, il
legislatore delegante ha conferito al Governo uno spazio di intervento
particolarmente ampio, autorizzando l’adozione delle modifiche ritenute «opportune»
(art. 26) e non solo «occorrenti» (art. 2, comma 1, lettera b), ciò che più conta è che, nel caso di
delega per l’attuazione di una direttiva comunitaria, i principi che
quest’ultima esprime si aggiungono a quelli dettati dal legislatore nazionale e
assumono valore di parametro interposto, potendo autonomamente giustificare
l’intervento del legislatore delegato (sentenze n. 134 del 2013
e n. 32 del 2005).
Nell’individuazione del
contenuto precettivo della direttiva rilevano il considerando n. 32, che richiama l’obiettivo della armonizzazione
minimale, il n. 59, che ribadisce la necessità di mantenere limiti orari di affollamento − attesa la loro
preminenza sui limiti giornalieri – e, nella parte
dispositiva, l’art. 3. Quest’ultimo consente agli Stati membri di stabilire, per i fornitori di servizi di media soggetti
alla loro giurisdizione, norme più particolareggiate o più rigorose nei settori
coordinati dalla direttiva, purché tali norme siano conformi al diritto
comunitario.
All’interno dei limiti
tracciati dal diritto dell’Unione europea, risultano quindi espressamente
consentite disposizioni nazionali più rigorose in materia di pubblicità
televisiva.
Di questa possibilità si è
avvalso il legislatore delegato, nello stabilire limiti di affollamento
pubblicitario differenziati per le emittenti a pagamento.
5.4.− La conformità al
diritto europeo della nuova modulazione − introdotta dalla disposizione
censurata − dei limiti di affollamento pubblicitario televisivo è stata
positivamente accertata dalla sentenza
della Corte di giustizia dell’Unione europea 18 luglio 2013, in causa C-234/12,
resa nel caso in esame e avente natura vincolante nei confronti del giudice
rimettente.
In tale pronuncia,
l’obiettivo perseguito dalle direttive in materia di fornitura di servizi di
media audiovisivi viene espressamente individuato nella tutela equilibrata
degli interessi finanziari delle emittenti televisive e degli inserzionisti, da
un lato, e degli interessi degli aventi diritto − autori e realizzatori −
e della categoria di consumatori, ossia i telespettatori, dall’altro (paragrafo
18 della sentenza
della Corte di giustizia 18 luglio 2013,
in causa C-234/12).
La ricerca di tale
equilibrio deve tenere conto della diversità degli interessi finanziari delle
emittenti televisive a pagamento rispetto a quelli delle emittenti televisive
in chiaro. Infatti, mentre le prime ricavano introiti dagli abbonamenti
sottoscritti dai telespettatori, le seconde non beneficiano di una siffatta
fonte di finanziamento diretto e devono finanziarsi con le entrate della
pubblicità televisiva o mediante altre fonti (paragrafo 20 della sentenza
della Corte di giustizia 18 luglio 2013,
in causa C-234/12).
Le emittenti televisive a
pagamento si pongono, pertanto, in una situazione oggettivamente diversa da
quella delle emittenti in chiaro, quanto all’incidenza economica dei limiti
all’affollamento pubblicitario sulle modalità di finanziamento delle stesse
emittenti. È stata, quindi, esclusa la violazione del principio della parità di
trattamento nella previsione, da parte del legislatore nazionale, di limiti
orari di affollamento pubblicitario, differenziati in funzione della tipologia
di emittenti (paragrafi 21 e 23 della sentenza
della Corte di giustizia 18 luglio 2013,
in causa C-234/12).
L’art. 38 del d.lgs. n. 177
del 2005 − nel modulare i limiti di affollamento pubblicitario in
funzione delle oggettive diversità degli operatori – risulta coerente con la ratio della direttiva (come
espressamente individuata dalla Corte di giustizia), in quanto volta a
realizzare la equilibrata tutela degli interessi delle emittenti televisive, da
un lato, e di quelli dei consumatori - telespettatori, dall’altro.
La disposizione censurata
rientra, pertanto, nell’area di operatività della direttiva comunitaria, come
definita dalla Corte di giustizia con la sentenza
18 luglio 2013, e rientra, altresì, nel perimetro tracciato dal legislatore
delegante.
Da ciò discende
l’infondatezza della censura formulata in riferimento alla violazione dell’art.
76 Cost., sotto il profilo dell’eccesso di delega.
6.− Del pari non
fondata, infine, è la questione di legittimità costituzionale sollevata in
riferimento all’art. 41 Cost.
Il legislatore statale può e deve
mantenere forme di regolazione dell’attività economica volte a garantire, tra
l’altro, la coerenza dell’ordinamento interno con gli obiettivi di
armonizzazione stabiliti dalle direttive europee; in tal senso, la libertà
d’iniziativa economica può essere anche «ragionevolmente limitata» (art. 41,
commi 2 e 3, Cost.), nel quadro di un bilanciamento con altri interessi
costituzionalmente rilevanti (sentenza n. 242 del
2014).
Nel caso in esame, la disciplina nazionale oggetto
di censura si conforma a quella europea, nella quale − come sottolineato
dalla stessa Corte di giustizia nella sentenza
18 luglio 2013, in causa C-234/12 − i principi e i criteri direttivi
delle disposizioni relative all’affollamento pubblicitario televisivo mirano a
realizzare la protezione dei consumatori, ed in particolare dei telespettatori,
oltre che la tutela della concorrenza e del pluralismo televisivo. In tali
obiettivi si ravvisa, in modo inequivoco, quella «finalità sociale» che appare
in sé idonea a giustificare la misura normativa in esame.
per questi motivi
1) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 38, comma 5, del decreto
legislativo 31 luglio 2005, n. 177 (Testo unico dei
servizi di media audiovisivi e radiofonici), come sostituito dall’art. 12 del
decreto legislativo 15 marzo 2010, n. 44 (Attuazione della direttiva 2007/65/CE relativa al coordinamento di
determinate disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli
Stati membri concernenti l’esercizio delle attività televisive), promossa
– in riferimento all’art. 3 della Costituzione – dal Tribunale amministrativo
regionale per il Lazio con l’ordinanza indicata in epigrafe;
2) dichiara
non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 38, comma 5,
del d.lgs. n. 177 del 2005, come sostituito dall’art.
12 del d.lgs. n. 44 del 2010, promossa – in riferimento agli artt. 76 e
41 Cost. – dal Tribunale amministrativo regionale per il Lazio con l’ordinanza
indicata in epigrafe.
Così
deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta,
il 7 ottobre 2015.
F.to:
Alessandro
CRISCUOLO, Presidente
Giuliano
AMATO, Redattore
Gabriella
Paola MELATTI, Cancelliere
Depositata
in Cancelleria il 29 ottobre 2015.