SENTENZA N. 163
ANNO 2014
Commento alla decisione di
Luisa Romano
per g.c. di Diritto Penale Contemporaneo
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Gaetano SILVESTRI Presidente
- Luigi MAZZELLA Giudice
- Sabino CASSESE ”
- Giuseppe TESAURO ”
- Paolo Maria NAPOLITANO ”
- Giuseppe FRIGO ”
- Alessandro CRISCUOLO ”
- Paolo GROSSI ”
- Giorgio LATTANZI ”
- Aldo CAROSI ”
- Marta CARTABIA ”
- Sergio MATTARELLA ”
- Mario Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Giuliano AMATO ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 322, secondo comma, del codice penale, promosso dalla Corte di cassazione, sezioni unite penali, nel procedimento penale a carico di G.G.A. ed altro con ordinanza del 23 ottobre 2013, iscritta al n. 283 del registro ordinanze 2013 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 3, prima serie speciale, dell’anno 2014.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 9 aprile 2014 il Giudice relatore Giuseppe Frigo.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza depositata il 23 ottobre 2013, le sezioni unite penali della Corte di cassazione hanno sollevato, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 322, secondo comma, del codice penale, «nella parte in cui per l’offerta o la promessa di denaro o altra utilità al consulente tecnico del pubblico ministero per il compimento di una falsa consulenza prevede una pena superiore a quella di cui all’art. 377, comma primo, cod. pen., in relazione all’art. 373 cod. pen.».
1.1.– La Corte rimettente riferisce che la vicenda oggetto del giudizio a quo trae origine da un incidente verificatosi il 1° giugno 2003 nello spazio sovrastante l’aeroporto di Milano Linate, che aveva causato la caduta di un aeromobile e la morte del pilota e del copilota.
Nell’ambito delle conseguenti indagini preliminari, il pubblico ministero aveva nominato, ai sensi dell’art. 359 del codice di procedura penale, un consulente tecnico, il quale era stato avvicinato da un suo conoscente, che gli aveva prospettato la possibilità di ottenere una rilevante somma di denaro ove avesse redatto un elaborato favorevole alla compagnia aerea cui apparteneva l’aeromobile precipitato.
Il consulente tecnico aveva finto di accettare l’offerta, avvertendo immediatamente del fatto il pubblico ministero. All’esito dei controlli predisposti sulla trattativa corruttiva, simulatamente proseguita, erano emerse responsabilità in capo a quattro soggetti (il conoscente dal quale il consulente tecnico era stato avvicinato, due soci della compagnia aerea e il loro legale), i quali erano stati quindi sottoposti a procedimento penale.
I giudici pronunciatisi nel corso di tale procedimento – dapprima nei vari gradi del procedimento incidentale de libertate originato dalla richiesta di misura cautelare del pubblico ministero e poi nel processo principale sul merito dell’accusa – avevano ricondotto, peraltro, a paradigmi punitivi volta a volta diversi la condotta contestata agli imputati (offerta di denaro, non accettata, al consulente tecnico del pubblico ministero per influire sui risultati della consulenza).
Da ultimo, la Corte d’appello di Roma, con sentenza del 2 maggio 2012, aveva condannato due degli imputati, giudicati con rito abbreviato, alla pena di un anno di reclusione, ravvisando nel fatto loro ascritto il delitto di istigazione alla corruzione, di cui all’art. 322 cod. pen., in conformità all’unico precedente della giurisprudenza di legittimità sullo specifico tema (Corte di Cassazione, sezione sesta penale, 7 gennaio 1999-30 marzo 1999, n. 4062).
Investita del ricorso proposto dagli imputati contro la decisione, la sesta sezione della Corte di cassazione aveva ritenuto di dover dissentire da tale soluzione, anche perché idonea a determinare conseguenze contrastanti con gli artt. 3 e 25 Cost., e di dover scorgere, invece, nella fattispecie il delitto di intralcio alla giustizia, di cui all’art. 377, primo comma, cod. pen., secondo quanto già deciso dal giudice di primo grado. Nella prospettiva di evitare un potenziale contrasto di giurisprudenza, aveva peraltro rimesso la questione alle sezioni unite.
1.2.– Al riguardo, le sezioni unite escludono anzitutto che nella fattispecie in esame possa ravvisarsi una ipotesi di tentativo di corruzione in atti giudiziari (artt. 56 e 319-ter cod. pen.), come ritenuto dalla stessa sesta sezione in sede di valutazione cautelare della posizione di uno degli imputati. In mancanza di un accordo corruttivo, infatti, l’istigazione non accolta alla corruzione potrebbe essere ricondotta solo alla previsione punitiva dell’art. 322 cod. pen. (la quale, pur riferendosi formalmente alle ipotesi corruttive di cui agli artt. 318 e 319 cod. pen., si attaglierebbe anche a quella di cui all’art. 319-ter cod. pen., posto che quest’ultimo richiama «i fatti indicati negli articoli 318 e 319 cod. pen.»), ovvero – quando si tratti di proposta rivolta a soggetti destinati ad assumere una veste processuale – alle figure criminose delineate dagli artt. 377 o 377-bis cod. pen.
Il fatto per cui si procede non potrebbe essere neppure qualificato, contrariamente a quanto sostenuto dagli imputati ricorrenti, come istigazione non accolta a commettere una consulenza infedele (art. 380 cod. pen.), con conseguente sua irrilevanza penale (art. 115 cod. pen.). L’attività svolta dal consulente tecnico del pubblico ministero non potrebbe essere, infatti, definita come attività di parte – alla quale soltanto si riferisce il citato art. 380 cod. pen. – discutendosi di soggetto che esercita una funzione pubblica e che contribuisce non già a tutelare gli interessi di una parte processuale, «ma ad accertare la verità».
1.3.– Il problema ermeneutico si concentrerebbe, di conseguenza, sull’applicabilità di una delle due ipotesi delittuose, dianzi indicate, dell’istigazione alla corruzione o dell’intralcio alla giustizia.
Quanto a quest’ultima, l’art. 377 cod. pen., nel testo attualmente in vigore, frutto di una serie di modifiche legislative, stabilisce, al primo comma, che «Chiunque offre o promette denaro o altra utilità alla persona chiamata a rendere dichiarazioni davanti all’autorità giudiziaria o alla Corte penale internazionale ovvero alla persona richiesta di rilasciare dichiarazioni dal difensore nel corso dell’attività investigativa, o alla persona chiamata a svolgere attività di perito, consulente tecnico o interprete, per indurla a commettere i reati previsti dagli articoli 371-bis, 371-ter, 372 e 373, soggiace, qualora l’offerta o la promessa non sia accettata, alle pene stabilite negli articoli medesimi, ridotte dalla metà ai due terzi».
Per quel che concerne, in particolare, il riferimento al «consulente tecnico» – introdotto nel testo della norma dal decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306 (Modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa), convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992, n. 356 – le sezioni unite osservano come, nel caso del consulente tecnico del pubblico ministero, l’offerta o la promessa di denaro o di altra utilità non potrebbe essere finalizzata alla commissione del delitto di falsa perizia, di cui al richiamato art. 373 cod. pen., in quanto l’ausiliario tecnico dell’accusa non è un perito (nominato invece dal giudice). Pur essendo verosimile che la discrasia dipenda da un difetto di coordinamento, non sarebbe, d’altra parte, possibile estendere in via interpretativa il concetto di «perizia» alla «consulenza tecnica» senza violare il principio di tassatività del precetto penale.
Conformemente a quanto ritenuto dalla sesta sezione nel rimettere la questione alle sezioni unite, la subornazione del consulente tecnico del pubblico ministero potrebbe, nondimeno, egualmente configurare il reato di intralcio alla giustizia, in quanto finalizzata alla commissione dei delitti di false informazioni al pubblico ministero (art. 371-bis) e di falsa testimonianza (art. 372 cod. pen.).
La parificazione del consulente tecnico al testimone troverebbe, in effetti, un solido appiglio ermeneutico nell’art. 501 cod. proc. pen., che estende al consulente tecnico le disposizioni sull’esame dibattimentale dei testimoni. Pur non essendo un testimone in senso proprio – in quanto non chiamato a riferire su «fatti», ma ad esprimere valutazioni su materie che richiedono specifiche competenze – il consulente tecnico ben potrebbe, d’altra parte, «affermare il falso o negare il vero», conformemente alla previsione dell’art. 372 cod. pen., o «rendere dichiarazioni false», secondo quella dell’art. 371-bis cod. pen., ad esempio tacendo o alterando determinati esiti obiettivi degli accertamenti espletati, ferma restando l’esclusione di «ogni sindacato sugli aspetti meramente valutativi relativi a detti accertamenti».
La conseguente configurabilità, sotto questo profilo, del delitto di intralcio alla giustizia, risulterebbe confermata anche dalla lettera della norma incriminatrice, posto che il riferimento al «consulente tecnico», contenuto nell’art. 377 cod. pen., si presterebbe senz’altro a ricomprendere anche l’ausiliario tecnico dell’organo dell’accusa. Non potrebbe essere, infatti, condivisa la tesi, espressa in dottrina, secondo la quale la predetta formula riguarderebbe il solo consulente tecnico d’ufficio nominato dal giudice civile: tesi che renderebbe superfluo il riferimento in questione, posto che l’estensione al consulente tecnico nominato in sede civile delle disposizioni penali relative ai periti discende già dall’espressa previsione dell’art. 64, primo comma, del codice di procedura civile.
La configurabilità del delitto di intralcio alla giustizia non sarebbe, per altro verso, preclusa dalla circostanza che, nel caso oggetto di giudizio, il consulente tecnico del pubblico ministero non era stato ancora citato come testimone o come persona informata sui fatti al momento dell’offerta di denaro.
È ben vero che, secondo l’indirizzo prevalente in giurisprudenza, perché possa configurarsi il delitto di cui all’art. 377 cod. pen. è necessario che i destinatari della condotta subornatrice abbiano già formalmente assunto, nel momento in cui la condotta stessa è posta in essere, le qualifiche processuali indicate dalla norma: il che si verificherebbe, nel caso del testimone, solo allorché il giudice abbia autorizzato la citazione del soggetto in tale veste, ai sensi dell’art. 468, comma 2, cod. proc. pen.
Ad avviso delle sezioni unite, tuttavia, le peculiarità della figura del consulente tecnico del pubblico ministero farebbero propendere per una diversa soluzione.
A differenza dei consulenti tecnici nominati dalle parti private, chiamati a svolgere un ruolo di ausilio alla difesa – donde la loro equiparazione al difensore, quanto a funzioni e garanzie – il consulente tecnico del pubblico ministero ripeterebbe, infatti, «dalla funzione pubblica dell’organo che coadiuva i relativi connotati». Nel compimento delle sue attività, egli assumerebbe, dunque, la qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio; avrebbe, in quanto tale, «il dovere […] di obiettività e imparzialità»; non potrebbe, altresì, esimersi dal dire la verità. Si dovrebbe, di conseguenza, ritenere che il consulente tecnico, con la nomina ad opera del pubblico ministero, rivesta già «una precisa veste processuale, potenzialmente destinata a refluire sull’assunzione della qualità “testimoniale” ex artt. 371-bis o 372 cod. pen.»: qualità che, dunque, anche se non ancora formalmente assunta, sarebbe «immanente» alla figura, «in quanto prevedibile e necessario sviluppo processuale della funzione assegnata».
1.4.– In concreto, tuttavia, alla configurabilità del delitto di intralcio alla giustizia osterebbe la natura dell’indagine affidata nel caso di specie al consulente.
Il consulente tecnico del pubblico ministero sarebbe, infatti, equiparabile al testimone solo in rapporto alle dichiarazioni che investano gli esiti obiettivi degli accertamenti espletati; non, invece, in relazione alle valutazioni tecnico-scientifiche, le quali, in quanto espressive di personali opinioni, non sarebbero qualificabili in termini di verità o di falsità: sicché, con riguardo ad esse, il consulente non potrebbe rispondere del reato di falsa testimonianza o di false informazioni al pubblico ministero.
Nella specie, al consulente sarebbe stata affidata una indagine «di tipo squisitamente valutativo», essendogli stato chiesto di riferire se l’addestramento del copilota, deceduto insieme al pilota nell’incidente aereo, potesse considerarsi idoneo.
Esclusa, di conseguenza, la possibilità di ricondurre il fatto al paradigma dell’intralcio alla giustizia, l’unica disposizione applicabile nel caso in esame sarebbe quella dell’art. 322, secondo comma, cod. pen., che punisce l’offerta o la promessa di denaro o altra utilità non dovuti per indurre un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio a compiere un atto contrario ai suoi doveri. Tra il reato di intralcio alla giustizia e quello di istigazione alla corruzione propria intercorrerebbe un rapporto di species ad genus: la prima figura criminosa sarebbe, infatti, speciale rispetto alla seconda, in ragione della specificità sia del soggetto destinatario dell’offerta o della promessa, che dell’atto contrario ai doveri di ufficio cui essa è preordinata. Mancando i presupposti di operatività della previsione punitiva speciale – altrimenti applicabile in via esclusiva – diverrebbe quindi operante la norma generale.
1.5.– La conclusione raggiunta farebbe emergere, tuttavia, «innegabili profili di incostituzionalità».
Alla luce di essa, l’offerta o la promessa di denaro o di altra utilità al consulente tecnico del pubblico ministero per il compimento di una falsa consulenza risulterebbe punita più gravemente dell’analoga offerta o promessa rivolta ad un perito, che rientra pacificamente, per il principio di specialità, nell’ambito applicativo dell’art. 377, primo comma, cod. pen. Nella prima ipotesi, infatti, in base alla disposizione combinata degli artt. 319 e 322 cod. pen. – nella formulazione vigente all’epoca del fatto, antecedente alla riforma operata dalla legge 6 novembre 2012, n. 190 (Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione) – sarebbe irrogabile la reclusione da un anno e quattro mesi a tre anni e quattro mesi; nella seconda, invece, per la disposizione combinata degli artt. 372, 373 e 377 cod. pen., la reclusione da otto mesi a tre anni.
Inoltre, la medesima offerta corruttiva fatta al consulente tecnico del pubblico ministero nell’ambito di un procedimento penale sarebbe punita più gravemente dell’analoga offerta rivolta al consulente tecnico del giudice civile, parimenti inquadrabile nel paradigma dell’intralcio alla giustizia.
Irragionevole sarebbe anche la sperequazione sanzionatoria riscontrabile a seconda che il consulente tecnico del pubblico ministero, destinatario dell’offerta corruttiva, sia chiamato ad esprimere valutazioni tecnico-scientifiche (con conseguente configurabilità dell’istigazione alla corruzione) o semplicemente a descrivere i fatti accertati (donde la configurabilità del delitto di intralcio alla giustizia, meno gravemente punito).
Si tratterebbe, sotto ognuno degli evidenziati profili, di conseguenze lesive del principio di eguaglianza, posto che situazioni del tutto analoghe verrebbero disciplinate in termini differenti sul piano della risposta punitiva. In aggiunta a ciò, vi sarebbe il «paradosso» per cui solo la particolare e neppure giù grave forma di intralcio alla giustizia oggetto del giudizio a quo rimarrebbe estranea alla specifica partizione del codice penale dedicata ai delitti contro l’amministrazione della giustizia, rimanendo «confinata» tra i delitti contro la pubblica amministrazione.
Sulla base di tali considerazioni, le sezioni unite ritengono, quindi, che l’art. 322, secondo comma, cod. pen. violi l’art. 3 Cost., nella parte in cui assoggetta la subornazione del consulente tecnico del pubblico ministero ad una pena superiore a quella prevista dall’art. 377, primo comma, in relazione all’art. 373 cod. pen., per la subornazione del perito.
2.– È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata infondata.
Ad avviso della difesa dello Stato, la sistematica del codice e il tenore letterale delle due disposizioni legittimerebbero una diversa interpretazione, che, privilegiando gli aspetti di specialità dell’art. 377 rispetto all’art. 322 cod. pen., renda applicabile la prima norma nei soli casi in cui il consulente tecnico del pubblico ministero abbia già acquisito la veste formale di testimone, ovvero di assunzione della prova tecnica con le modalità della perizia ai sensi dell’art. 392 cod. proc. pen. L’art. 322 cod. pen. sarebbe destinato, per converso, ad incriminare l’offerta o la promessa di denaro o di altra utilità al consulente nella fase delle indagini preliminari, che precede l’esercizio dell’azione penale e, quindi, l’instaurazione del processo.
La delineata diversità di ambito operativo, a prescindere dal fatto che il consulente sia chiamato anche a riferire fatti o soltanto ad esprimere giudizi, consentirebbe di escludere l’assimilabilità delle situazioni considerate e, conseguentemente, l’irragionevolezza del loro diverso trattamento sanzionatorio.
La maggiore gravità della sanzione per i fatti commessi nel corso delle indagini preliminari si giustificherebbe con la considerazione che, per effetto delle falsità contenute nell’elaborato del consulente tecnico, il pubblico ministero potrebbe essere indotto a ritenere l’accusa non utilmente sostenibile in giudizio e, quindi, a formulare una richiesta di archiviazione, rispetto alla quale il giudice avrebbe scarse possibilità di vaglio critico, stante la marginalità del contraddittorio tra le parti alla luce delle limitazioni previste dall’art. 410 cod. proc. pen. Analoga pericolosità non avrebbero i fatti commessi dopo l’esercizio dell’azione penale, giacché il contraddittorio tra le parti sugli elementi di prova consentirebbe al giudice di apprezzare più agevolmente l’incidenza dell’offerta o della promessa illecita sui risultati della consulenza.
Considerazioni similari varrebbero anche in rapporto alla denunciata disparità di trattamento rispetto alla subornazione del consulente tecnico nominato dal giudice civile, stante la facoltà delle parti del processo civile di nominare propri consulenti, che possono validamente sostenere un contraddittorio con il consulente del giudice.
Considerato in diritto
1.– Le sezioni unite penali della Corte di cassazione dubitano della legittimità costituzionale dell’art. 322, secondo comma, del codice penale, «nella parte in cui per l’offerta o la promessa di denaro o altra utilità al consulente tecnico del pubblico ministero per il compimento di una falsa consulenza prevede una pena superiore a quella di cui all’art. 377, comma primo, cod. pen., in relazione all’art. 373 cod. pen.».
La questione trova la sua premessa ermeneutica fondante nell’assunto per cui la subornazione del consulente tecnico del pubblico ministero – il quale sia stato incaricato, come nel caso di specie, esclusivamente di esprimere valutazioni tecnico-scientifiche e non già di accertare dati oggettivi – non potendo integrare il delitto di intralcio alla giustizia, di cui all’art. 377, primo comma, in riferimento agli artt. 371-bis e 372 cod. pen., ricadrebbe nell’ambito applicativo della più generale figura criminosa dell’istigazione alla corruzione propria, delineata dal censurato art. 322, primo comma, cod. pen.
Discenderebbe da ciò la violazione dell’art. 3 della Costituzione, per irragionevole disparità di trattamento di situazioni analoghe, sotto un triplice profilo.
In primo luogo, l’offerta o la promessa di denaro o di altra utilità al consulente tecnico del pubblico ministero per influire sui risultati della consulenza risulterebbe punita più gravemente dell’analoga offerta o promessa rivolta al perito – ausiliario del giudice – la quale rientra pacificamente, per il principio di specialità, nella sfera applicativa dell’art. 377, primo comma, in riferimento all’art. 373 cod. pen. Nella prima ipotesi, infatti, in base alla disposizione combinata degli artt. 319 e 322 cod. pen. – nella formulazione vigente all’epoca del fatto oggetto del giudizio a quo, antecedente alla riforma operata dalla legge 6 novembre 2012, n. 190 (Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione) – sarebbe irrogabile la reclusione da un anno e quattro mesi a tre anni e quattro mesi; nella seconda, invece, per la disposizione combinata degli artt. 372, 373 e 377 cod. pen., la reclusione da otto mesi a tre anni.
In secondo luogo, poi, la proposta corruttiva rivolta al consulente tecnico del pubblico ministero nell’ambito di un procedimento penale risulterebbe sanzionata in modo più energico rispetto all’analoga proposta diretta al consulente tecnico del giudice civile, la quale integra anch’essa il reato di intralcio alla giustizia, a fronte dell’espressa estensione al predetto soggetto processuale delle norme del codice penale relative ai periti (art. 64, primo comma, del codice di procedura civile).
In terzo luogo, e da ultimo, l’offerta corruttiva indirizzata al consulente tecnico del pubblico ministero sarebbe a sua volta soggetta ad un trattamento sanzionatorio irragionevolmente differenziato a seconda che il suo destinatario sia chiamato ad esprimere valutazioni tecnico-scientifiche (ipotesi inquadrabile nel più grave paradigma punitivo dell’istigazione alla corruzione), ovvero semplicemente a descrivere i fatti accertati (fattispecie integrativa del delitto di intralcio alla giustizia, meno gravemente punito).
Le sezioni unite denunciano, altresì, il «paradosso» sistematico per cui solo la particolare e neppure giù grave forma di intralcio alla giustizia di cui si discute rimarrebbe estranea alla specifica partizione del codice penale dedicata ai delitti contro l’amministrazione della giustizia, rimanendo «confinata» tra i delitti contro la pubblica amministrazione.
2.– Il problema sottoposto all’esame di questa Corte trae origine dal difetto di coordinamento tra le norme incriminatrici relative ai delitti contro l’amministrazione della giustizia, contenute nel codice penale del 1930, e il nuovo assetto processuale introdotto dal codice di procedura penale del 1988.
Le disposizioni del codice penale, in linea con l’impianto inquisitorio delineato dal codice di rito abrogato, presupponevano, infatti, una sostanziale equiparazione tra le prove raccolte in contraddittorio e i risultati delle indagini dell’accusa. Il passaggio ad un sistema di tipo accusatorio operato con il nuovo codice, in assenza di opportuni interventi di adeguamento, ha inevitabilmente messo in crisi il sistema, generando vuoti di tutela.
Risultava evidente, ad esempio, l’impossibilità di applicare la norma incriminatrice della falsa testimonianza (art. 372 cod. pen.) anche alle «persone informate sui fatti» che rendessero dichiarazioni mendaci al pubblico ministero, non essendo queste ultime qualificabili – diversamente che in passato – come «testimoni». Solo l’introduzione, nel 1992, del delitto di false informazioni al pubblico ministero (art. 371-bis cod. pen., aggiunto dall’art. 11, comma 1, del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, recante «Modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa», convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992, n. 356) è valso a colmare la lacuna. Un ulteriore intervento novellistico è stato, altresì, necessario per evitare che rimanessero esenti da pena le false dichiarazioni al difensore nel corso delle indagini difensive (art. 371-ter cod. pen., aggiunto dall’art. 20 della legge 7 dicembre 2000, n. 397, recante «Disposizioni in materia di indagini difensive»).
All’opera di riallineamento dei delitti contro l’amministrazione della giustizia al mutato panorama processuale è rimasta, peraltro, estranea la figura del consulente tecnico nominato dal pubblico ministero ai sensi dell’art. 359 del codice di procedura penale.
Come rilevato dalle sezioni unite nell’ordinanza di rimessione, la falsa consulenza redatta dall’ausiliario dell’organo dell’accusa non integra il delitto di falsa perizia (art. 373 cod. pen.), per la dirimente ragione che detto soggetto non è equiparabile, nell’attuale sistema processuale, al perito nominato dal giudice (come invece lo era il perito nominato dal pubblico ministero nel corso dell’istruzione sommaria, ai sensi dell’art. 391, secondo comma, cod. proc. pen. del 1930). In questo caso, tuttavia, il legislatore non si è premurato di introdurre una nuova norma incriminatrice ad hoc che colmasse la lacuna.
La rilevata discrasia si riflette anche sul trattamento riservato alle condotte subornatrici. Sotto la rubrica di «intralcio alla giustizia» – che, per effetto dell’art. 14 della legge 16 marzo 2006, n. 146 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione e dei Protocolli delle Nazioni Unite contro il crimine organizzato transnazionale, adottati dall’Assemblea generale il 15 novembre 2000 e il 31 maggio 2001), sostituisce quella originaria di «subornazione» – l’art. 377 cod. pen. configura, al primo comma, come reato l’offerta o la promessa di denaro o di altra utilità, non accettata, per commettere taluni delitti contro l’amministrazione della giustizia: derogando, con ciò, al generale principio per cui l’istigazione non accolta a commettere un reato non è punibile (art. 115 cod. pen.). Nell’attuale versione della norma (frutto di una serie di interventi di adeguamento), si tratta, in specie, dei delitti di false informazioni al pubblico ministero, false dichiarazioni al difensore, falsa testimonianza, falsa perizia o interpretazione (artt. 371-bis, 371-ter, 372 e 373 cod. pen.).
Tra i possibili destinatari dell’offerta o della promessa penalmente repressa figura, in verità – grazie all’interpolazione operata dall’art. 11 del d.l. n. 306 del 1992 – anche la persona chiamata a svolgere attività di «consulente tecnico»: formula che, nella sua genericità, si presterebbe a ricomprendere il consulente tecnico del pubblico ministero. La rilevata circostanza che quest’ultimo non possa rendersi responsabile del delitto di cui al richiamato art. 373 cod. pen. impedisce, tuttavia, di ritenere che l’offerta o la promessa a lui indirizzata, allo scopo di orientare gli esiti della consulenza, configuri il delitto di intralcio alla giustizia in quanto finalizzata alla commissione del reato di falsa perizia.
3.– Si è posto, quindi, il problema di verificare se la subornazione del consulente tecnico del pubblico ministero sia punibile a diverso titolo.
All’interrogativo le sezioni unite offrono una soluzione innovativa rispetto al panorama ermeneutico pregresso, che coniuga, nella sostanza, due delle tesi in precedenza prospettate.
Secondo la Corte rimettente, la subornazione del consulente tecnico del pubblico ministero sarebbe, in realtà, idonea ad integrare il delitto di intralcio alla giustizia. Gioverebbe, a tal fine, non già il richiamo, contenuto nell’art. 377, primo comma, cod. pen., alla falsa perizia – che si è visto non utile – ma quello alla falsa testimonianza e alle false informazioni al pubblico ministero (artt. 372 e 371-bis cod. pen.).
Il consulente è sentito, infatti, in dibattimento sul contenuto della consulenza nelle forme dell’esame testimoniale (art. 501 cod. proc. pen.); prima ancora, può essere chiamato a rendere dichiarazioni al pubblico ministero che l’ha nominato. Di conseguenza, l’offerta o la promessa di denaro o di altra utilità per influire sui risultati della consulenza sarebbe destinata ad incidere anche sulle dichiarazioni rese dal consulente come teste o come persona informata sui fatti.
Tali qualità sarebbero, d’altro canto, «immanenti» alla figura dell’ausiliario tecnico dell’organo dell’accusa, costituendo un «prevedibile e necessario sviluppo processuale» delle funzioni che gli sono assegnate. Non occorrerebbe, pertanto – diversamente che negli altri casi – che il consulente sia già stato citato formalmente come testimone o come persona informata sui fatti al momento dell’offerta o della promessa.
Il consulente – sempre secondo la ricostruzione operata dalle sezioni unite – potrebbe rendersi, tuttavia, responsabile del delitto di falsa testimonianza o di false informazioni al pubblico ministero solo allorché riferisca su dati oggettivi: non quando sia chiamato a formulare valutazioni tecnico-scientifiche, ossia giudizi, i quali – in quanto espressivi di opinioni personali – non potrebbero essere qualificati in termini di verità o di falsità.
In siffatta evenienza, l’unico reato configurabile, nell’ipotesi di subornazione del consulente, sarebbe quello di istigazione alla corruzione propria, di cui al censurato art. 322, primo comma, cod. pen.: figura criminosa rispetto alla quale il delitto di intralcio alla giustizia si porrebbe in rapporto di specialità. Il consulente tecnico del pubblico ministero assumerebbe, infatti, nell’espletamento dei suoi compiti, la qualità di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio, richiesta dalla norma denunciata, la quale dovrebbe ritenersi, d’altra parte, applicabile anche in rapporto alla corruzione in atti giudiziari (art. 319-ter cod. pen.).
Emergerebbero, peraltro, in questo modo, i profili di illegittimità costituzionale denunciati (profili in considerazione dei quali la sesta sezione della Corte di cassazione, nel rimettere la questione alle sezioni unite, aveva ritenuto, per converso, di dover scartare l’ipotesi dell’applicabilità dell’art. 322, primo comma, cod. pen.). In sostanza, nella prospettiva della Corte rimettente, il mancato adeguamento del sistema dei delitti contro l’amministrazione della giustizia rispetto alla figura del consulente tecnico del pubblico ministero avrebbe determinato non già un deficit di tutela penale, ma, tutt’al contrario, un “eccesso di protezione”. Stante, infatti, la maggiore asprezza della pena comminata dalla norma censurata rispetto a quella prevista dall’art. 377, primo comma, in riferimento all’art. 373 cod. pen., l’offerta corruttiva indirizzata all’ausiliario tecnico del pubblico ministero finirebbe per essere trattata in modo irragionevolmente più severo rispetto all’analoga offerta rivolta al perito nominato dal giudice penale, ovvero al consulente tecnico del giudice civile, ad esso equiparato (art. 64, primo comma, cod. proc. civ.). Altrettanto irragionevole sarebbe, inoltre, lo scarto sanzionatorio riscontrabile a seconda che la condotta subornatrice miri ad alterare i risultati di una consulenza “descrittiva” o “valutativa”.
4.– Ciò precisato, la questione è inammissibile.
Il Collegio rimettente fonda, infatti, la motivazione in ordine alla rilevanza della questione sull’assunto per cui l’indagine tecnica affidata nel caso di specie al consulente del pubblico ministero – riferire se l’addestramento del copilota, deceduto assieme al pilota in un incidente aereo, potesse considerarsi idoneo – sarebbe «di tipo squisitamente valutativo». Tale circostanza impedirebbe, alla luce di quanto dianzi evidenziato, di sussumere l’offerta di denaro per cui si procede nel paradigma dell’intralcio alla giustizia, con il risultato di rendere operante la censurata norma incriminatrice dell’istigazione alla corruzione.
L’assunto non può essere condiviso.
In effetti, per poter stabilire se l’addestramento di un pilota di aereo sia «idoneo» occorre anche, e prima di tutto, accertare un dato oggettivo: e, cioè, quale addestramento l’interessato abbia in concreto ricevuto. Il che presuppone l’individuazione e la verifica della concreta effettuazione di un complesso di attività di apprendimento, teoriche e pratiche, riconducibili alla nozione di «addestramento».
Nella stessa prospettiva delle sezioni unite, dunque, il consulente tecnico del pubblico ministero si sarebbe bene potuto rendere responsabile, nel caso di specie – alla luce di quanto riferito nell’ordinanza di rimessione – dei reati di falsa testimonianza e di false informazioni al pubblico ministero fornendo dichiarazioni mendaci sugli aspetti dianzi evidenziati, con conseguente rilevanza penale della condotta subornatrice sub specie di intralcio alla giustizia.
5.– Al tempo stesso, è doveroso, peraltro, evidenziare come la pronuncia richiesta a questa Corte dal Collegio rimettente non garantirebbe comunque il ripristino del principio di eguaglianza, che si deduce violato, ma darebbe anzi luogo ad un assetto non in linea con le coordinate generali del sistema.
Denunciando la violazione dell’art. 3 Cost., le sezioni unite chiedono, infatti, nella sostanza, che la subornazione del consulente del pubblico ministero venga equiparata, quoad poenam, alla subornazione del perito, sul presupposto che si tratti di «situazioni del tutto analoghe».
Al riguardo, occorre tuttavia considerare come le false informazioni al pubblico ministero (art. 371-bis cod. pen.) siano punite con pena sensibilmente inferiore a quella della falsa testimonianza (art. 372 cod. pen.): rispettivamente, reclusione fino a quattro anni (stessa pena prevista dall’art. 371-ter cod. pen. per le false informazioni al difensore), contro reclusione da due a sei anni. Lo scarto si ripercuote puntualmente sul regime sanzionatorio della subornazione, che ricalca quello delle norme incriminatrici richiamate, con riduzione dalla metà a due terzi (art. 377, primo comma, cod. pen.): rispetto alle persone portatrici di “informazioni non tecniche” il legislatore considera, quindi, notevolmente meno grave l’offerta di denaro fatta a favore di chi deve rendere dichiarazioni al pubblico ministero, rispetto all’analoga offerta effettuata nei confronti di chi deve rendere dichiarazioni al giudice.
Ciò risponde pienamente alla logica del processo accusatorio: l’organo dell’accusa è una parte e gli elementi dallo stesso raccolti fuori del contraddittorio non assumono, di norma, la dignità di prove, diversamente da quanto avviene per le dichiarazioni rese davanti al giudice, le quali hanno, dunque, un maggior “valore intrinseco”.
La stessa logica imporrebbe, dunque, che la subornazione del consulente tecnico del pubblico ministero fosse punita con pena non già eguale – come chiedono le sezioni unite – ma anch’essa inferiore a quella comminata per la subornazione del perito, ausiliario del giudice. Equiparare le due ipotesi significherebbe, in effetti, rievocare una impostazione di tipo inquisitorio, alla stregua della quale il “sapere tecnico” acquisito dall’organo dell’accusa nel corso dell’attività di indagine varrebbe tanto quanto il “sapere tecnico” acquisito dal giudice in dibattimento.
Si aggiunga che, sviluppando con rigore la linea interpretativa adottata dalle sezioni unite, si perverrebbe ad un ulteriore risultato contrastante con i principi di eguaglianza e di ragionevolezza, non attinto né dalle censure, né dal petitum. Nell’ipotesi ordinaria, in cui l’indagine tecnica affidata all’ausiliario del pubblico ministero postuli tanto il riscontro di dati oggettivi che l’espressione di valutazioni – ipotesi che, per quanto detto, appare ricorrere nel caso oggetto del giudizio a quo – il soggetto che offre o promette denaro o altra utilità al consulente per influire sulla sua attività dovrebbe rispondere, non già di uno solo, ma di due reati, in concorso formale tra loro: da un lato, del reato “speciale” di intralcio alla giustizia, in rapporto ai contenuti “descrittivi” della consulenza; dall’altro, del reato “generale” di istigazione alla corruzione, in rapporto ai contenuti valutativi. Neppure tale esito, certamente incongruo, sarebbe peraltro rimosso dall’accoglimento del petitum, che mira ad incidere sul solo trattamento sanzionatorio dell’istigazione alla corruzione, e non sull’ipotetica duplicazione della risposta punitiva per il medesimo fatto.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 322, secondo comma, del codice penale, sollevata, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, dalla Corte di cassazione, sezioni unite penali, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21 maggio 2014.
F.to:
Gaetano SILVESTRI, Presidente
Giuseppe FRIGO, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 10 giugno 2014.