SENTENZA N. 295
ANNO 1994
REPUBBLICA ITALIANA
In nome del Popolo Italiano
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente
Prof. Francesco Paolo CASAVOLA
Giudici
Prof. Gabriele PESCATORE
Avv. Ugo SPAGNOLI
Prof. Antonio BALDASSARRE
Prof. Vincenzo CAIANIELLO
Avv. Mauro FERRI
Prof. Luigi MENGONI
Prof. Enzo CHELI
Prof. Giuliano VASSALLI
Prof. Cesare MIRABELLI
Prof. Fernando SANTOSUOSSO
Avv. Massimo VARI
Dott. Cesare RUPERTO
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 15, comma 4 - quinquies, della legge 19 marzo 1990, n. 55, introdotto dall'art. 1 della legge 18 gennaio 1992, n. 16 (Norme in materia di elezioni e nomine presso le regioni e gli enti locali), promossi con due ordinanze emesse il 2 settembre 1993 dal Tribunale di Oristano nei procedimenti civili vertenti tra Ghiani Adriano ed il Comune di Mogoro ed altro e tra Ghiani Adriano e la Provincia di Oristano ed altro, iscritte ai nn.42 e 43 del registro ordinanze 1994 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 9, prima serie speciale, dell'anno 1994.
Visti gli atti di costituzione di Ghiani Adriano, nonchè l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell'udienza pubblica del 21 giugno 1994 il Giudice relatore Mauro Ferri;
uditi l'avv. Costantino Murgia per Ghiani Adriano e l'avvocato dello Stato Gaetano Zotta per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1. Con due ordinanze di identico contenuto emesse il 2 settembre 1993 (r.o. nn. 42 e 43 del 1994), il Tribunale di Oristano ha sollevato questione di legittimità costituzionale "dell'art. 1, comma 4 - quinquies, della legge 18 gennaio 1992, n. 16, parzialmente sostitutiva dell'art. 15 della legge 19 marzo 1990, n. 55" (rectius: dell'art. 15, comma 4 - quinquies, della legge 19 marzo 1990, n. 55 introdotto dall'art. 1 della legge 18 gennaio 1992, n. 16), in quanto prevede la decadenza di diritto di colui che ricopre una delle cariche elettive indicate al comma 1 del medesimo articolo, a seguito del passaggio in giudicato della sentenza di condanna per taluno dei reati pure ivi elencati.
Il giudice a quo premette in fatto che il ricorrente è stato dichiarato decaduto sia dalla carica di consigliere provinciale che da quella di consigliere del Comune di Mogoro in applicazione della norma impugnata, essendo stata emessa nei suoi confronti, ex art. 444 del codice di procedura penale, sentenza di applicazione della pena di un milione di multa - divenuta irrevocabile - per il reato di cui all'art.328, secondo comma, del codice penale.
Ciò posto, il remittente osserva che è principio ormai riconosciuto, a mente della intervenute pronunzie della Corte Costituzionale (tra le quali assumono specifica rilevanza la n. 971 del 1988 e la n. 197 del 1993), la ineludibile esigenza di escludere sistemi sanzionatori "rigidi", ovvero applicativi di misure punitive senza alcuna valutazione in concreto della fattispecie rispetto alla quale la sanzione viene irrogata, non consentendo in tal modo una "indispensabile gradualità sanzionatoria..." in grado di adeguare la sanzione al fatto.
Ritiene al riguardo il Tribunale che la riferita esigenza, ancorchè le anzidette pronunzie di illegittimità costituzionale abbiano specificatamente interessato il rapporto di pubblico impiego attraverso l'istituto della "destituzione di diritto", debba trovare una tutela diffusa e generalizzata, a prescindere della settoriale ipotesi che ne ha occasionato la pronunzia di illegittimità, in quanto è interesse primario di ogni sistema sanzionatorio adeguare concretamente la misura afflittiva al caso di specie. E ciò in conformità al principio di ragionevolezza dettato dall'art. 3 della Costituzione, sotto il profilo dell'offesa al "principio di proporzione che è alla base della razionalità che domina il principio di uguaglianza, e che postula sempre l'adeguatezza della sanzione al caso di specie" (citata sent. n. 197/93).
Nella presente fattispecie - prosegue il remittente - è evidente come l'esigenza di "adeguatezza e gradualità sanzionatoria" rispetto al caso concreto abbia maggiore rilevanza in considerazione della pluralità e difformità di ipotesi criminali cui la norma censurata riconduce indiscriminatamen te la sanzione della decadenza di diritto, venendo così a parificare, in chiave di proporzionalità sanzionatoria, situazioni che in concreto potrebbero risultare di diversa gravità e soggiacere a pene "notevolmente differenziate, alcune delle quali certamente non elevate" (ancora sent. n. 197/93).
Inoltre, l'attuale sistema di automatismo sanzionatorio pregiudica il diritto costituzionalmente garantito di tutti i cittadini ad accedere e conservare (trattandosi di una causa sopravvenuta di ineleggibilità) le cariche elettive (art. 51 Cost.), ed impedisce all'interessato di rappresentare in contraddittorio le proprie ragioni di difesa, anche al fine di consentire all'amministrazione una adeguata valutazione del caso di specie (art. 24, secondo comma, Cost.).
2. Si è costituito in entrambi i giudizi Ghiani Adriano, ricorrente nei giudizi a quibus, concludendo per l'accoglimento della questione sollevata dal Tribunale di Oristano.
3. É intervenuto nel giudizio introdotto con l'ordinanza n. 42 del 1994 il Presidente del Consiglio dei ministri, concludendo per l'infondatezza della questione.
Osserva l'Avvocatura dello Stato che le ipotesi previste nella norma in questione prevedono casi di "non candidabilità" (e quindi, in definitiva, nuovi casi di ineleggibilità) che il legislatore ha ritenuto di configurare in relazione al fatto che l'aspirante candidato abbia subito condanne o misure di prevenzione per delitti connotati da una specifica capacità criminale e/o di particolare gravità (Corte Cost. sent. n. 407/1992).
Si tratta, in sostanza, di "qualifiche negative" o "requisiti negativi" che il legislatore, nel perseguimento di fini di interesse generale, ha ritenuto di individuare come cause ostative finanche alla partecipazione alla competizione elettorale: con la ovvia conseguenza che, se seguono alla elezione, devono logicamente tradursi in decadenza (o in sospensione) dalle cariche conseguite.
La ragione cui si è ispirato il legislatore è quella di impedire che gli organi di governo delle amministrazioni locali siano occupati da persone che abbiano conseguito condanne penali che rivestano particolare qualificazione negativa, rivelando una capacità criminale che potrebbe mettere in pericolo il regolare funzionamento degli organi medesimi.
Sotto questo profilo, dunque, non interessa che i reati contemplati dal primo comma dell'art. 1 della legge n. 16 del 1992 siano equiparabili per la gravità delle fattispecie astratte o di quelle concrete, quanto, piuttosto, che essi rivelino, a prescindere dalla loro gravità, una capacità criminale tale che, a giudizio del legislatore, il suo autore non debba neppure partecipare alla competizione elettorale, o comunque non debba essere eletto, e se eletto debba essere automaticamente privato in via cautelare o definitiva della titolarità della carica.
Quindi, non irragionevole trattamento eguale di situazioni diverse, come ha denunciato il Tribunale di Oristano, ma, al contrario, del tutto ragionevole trattamento eguale di situazioni che sostanzialmente non differiscono.
Quanto poi alla presunta violazione dell'art. 24 della Costituzione, l'Avvocatura osserva che la decadenza di diritto non costituisce un provvedimento sanzionatorio, per cui non è ipotizzabile, in radice, una violazione del principio di difesa.
Neppure sarebbe configurabile, infine, una violazione dell'art. 51 della Costituzione, perchè la decadenza (di diritto) mira alla soddisfazione ed alla salvaguardia di interessi pubblici e principi fondamentali riconosciuti dalla Costituzione (nel caso specifico in particolare l'art.97) ritenuti dal legislatore prevalenti su altri diritti egualmente coinvolti, ma considerati cedenti (come l'art. 51).
4. Ha depositato memoria il ricorrente nei giudizi a quibus Adriano Ghiani, insistendo per l'accoglimento della questione.
Osserva, in particolare, la difesa della parte privata che le fattispecie delittuose di cui agli artt. 314 e seguenti del codice penale (rientranti nella previsione di cui alla lett. c dell'art. 1 della legge n. 16 del 1992) sono tra loro molto di verse, sia per la gravità delle condotte ipotizzate, sia per la natura e misura delle pene previste: è evidente, pertanto, l'irragionevolezza di voler accomunare in un unico regime da un lato reati come il peculato o la concussione, per i quali sono previste pene variabili dai tre ai dodici anni di reclusione, e dall'altro i reati di omissione di atti d'ufficio o abuso d'ufficio, per i quali invece la pena può anche essere - come avvenuto nella fattispecie - soltanto quella della multa.
L'automatica decadenza dall'ufficio elettivo - prosegue la difesa del Ghiani - viene disposta dal la legge a prescindere da una qualsiasi valutazione da parte dell'organo consiliare, rendendo inoltre impossibile il rispetto del principio del contraddittorio (con violazione del principio del giusto procedimento) e determinando un'illegittima disparità di trattamento rispetto ai consiglieri che, in base alla legge n.154 del 1981, possono invece rappresentare le loro ragioni nelle analoghe ipotesi di ineleggibilità e decadenza.
Considerato in diritto
1. Il Tribunale di Oristano, con due ordinanze emesse il 2 settembre 1993, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 15, comma 4 - quinquies, della legge 19 marzo 1990, n. 55, introdotto dall'art. 1 della legge 18 gennaio 1992 n. 16.
La questione sollevata è unica, identiche sono le motivazioni; i due giudizi possono perciò essere riuniti e decisi con unica sentenza.
2. Il Tribunale remittente ritiene che la disposizione di legge suindicata, in quanto prevede la decadenza di diritto operante automaticamente per chi ricopre una delle cariche elettive indicate nel comma 1 del medesimo art. 15 (consigliere provinciale e consigliere comunale, per quanto attiene i due giudizi a quibus), dalla data del passaggio in giudicato della sentenza di condanna per taluno dei reati indicati nel precitato articolo (nel caso in esame per un delitto commesso con abuso dei poteri o con violazione dei doveri inerenti ad una pubblica funzione, ai sensi della lett.c) dello stesso comma 1), contrasterebbe con gli artt. 3, 24, secondo comma, e 51 della Costituzione.
Secondo il giudice a quo, l'automatismo sanzionatorio violerebbe l'art.3 sotto il profilo del principio di ragionevolezza e del principio di proporzione, che postula l'adeguatezza e la gradualità della sanzione rispetto ai casi concreti, i quali possono essere di gravità notevolmente diversa; sarebbe altresì in contrasto con l'art. 24, secondo comma, essendo impedito all'interessato di rappresentare le proprie ragioni di difesa al fine di consentire all'amministrazione di valutare il caso di specie; violerebbe, infine, l'art. 51 per lesione del diritto all'accesso e al mantenimento delle cariche elettive.
3.1. La questione non è fondata.
Vanno in primo luogo esaminate le censure sollevate in riferimento all'art. 3 della Costituzione.
Le ordinanze di rimessione, richiamandosi alle precedenti pronunce di questa Corte ed in particolare alla sentenza n. 197 del 1993, la quale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale della destituzione di diritto dei pubblici dipendenti anche nei casi previsti dall'art. 1 della legge n.16 del 1992, affermano che i principi sui quali si fonda tale decisione dovrebbero valere in via generale e quindi anche per le ipotesi in cui la legge medesima prevede la decadenza di diritto dei pubblici amministratori che ricoprono cariche elettive.
É palese l'erroneità di siffatta argomentazione.
Nel caso dei pubblici dipendenti, la Corte muoveva dalla sentenza n. 971 del 1988, con la quale l'istituto della destituzione di diritto a seguito di condanna penale, al di fuori del procedimento disciplinare, era stato espunto dall'ordinamento; a tale sentenza il legislatore si era adeguato con la disciplina prevista dalla legge 7 febbraio 1990, n.19. Di conseguenza, la citata sentenza n. 197 del 1993 ha ribadito, per la "particolare categoria di soggetti" in esame, pur nell'ambito delle specifiche finalità della legge n. 16 del 1992 (cfr. sentenza n. 407 del 1992), l'esigenza "che la valutazione della compatibilità del comportamento del pubblico dipendente con le specifiche funzioni da lui svolte nell'ambito del rapporto di impiego ... va ricondotta alla naturale sede del procedimento disciplinare, il quale, del resto, ben può concludersi con la irrogazione della sanzione destitutoria".
Nulla di simile è configurabile nel caso di chi ricopra cariche pubbliche in virtù di un'investitura diretta o mediata del corpo elettorale. É evidente che la previsione di casi di ineleggibilità non può che essere tassativa, non comportando per sua natura alcuna valutazione discrezionale da parte di qualsivoglia organo o autorità. Nel caso poi di ineleggibilità sopravvenuta in seguito a condanna penale passata in giudicato, la declaratoria di decadenza ha carattere meramente ricognitivo, che esclude di per sè qualsiasi problematica procedimentale.
3.2. D'altra parte, la "pluralità e difformità di ipotesi criminali", cui la norma censurata "riconduce indiscriminatamente la sanzione della decadenza di diritto" (come rileva il remittente), non costituisce motivo sufficiente perchè la norma medesima sia ritenuta in contrasto con i principi di ragionevolezza e di proporzionalità.
Nel comma 1 del precitato art. 15 il legislatore ha graduato gli effetti delle diverse ipotesi criminose ai fini della ineleggibilità, o "non candidabilità", a consigliere regionale, provinciale e comunale, nonchè ad altre cariche pubbliche elettive di secondo grado: essa si verifica, a seconda della gravità dei reati presi in considerazione, a seguito di sentenza di condanna di primo grado, o confermata in appello, ovvero anche nei confronti di chi è sottoposto a procedimento penale se è stato già disposto il giudizio o se è stato presentato o citato a comparire in udienza per il giudizio. Tale complessa disciplina non è comunque in discussione in questa sede. É invece contestata l'unica previsione della decadenza di diritto per chi sia stato legittimamente eletto, ma nei cui confronti sia sopravvenuta sentenza di condanna passata in giudicato. Questa Corte ha già avuto modo di sottolineare (sent. n. 118 del 1994) come la circostanza di aver riportato condanna per una delle fattispecie criminose previste sia stata configurata dalla normativa in esame quale requisito negativo, quasi una sorta di indegnità morale.
Non si tratta perciò di irrogare una sanzione graduabile in relazione alla diversa gravità dei reati, bensì di constatare che è venuto meno un requisito essenziale per continuare a ricoprire l'ufficio pubblico elettivo: da qui discende l'automatica declaratoria della decadenza.
3.3. Rimane da valutare, per quanto rileva nel caso in esame, se il legislatore, nell'aver esteso la disciplina in questione anche al caso di condanne per qualsiasi delitto commesso con abuso dei poteri o con violazione dei doveri inerenti ad una pubblica funzione o a un pubblico servizio, non abbia compiuto una scelta irragionevole, avendo accomunato i più gravi delitti di peculato, concussione, corruzione ecc., a fattispecie molto più lievi, quale quella di cui all'art. 328, secondo comma, del codice penale (omissione di atti d'ufficio), verificatasi nel giudizio a quo.
Non può essere tacciata di irragionevolezza una norma improntata certamente a severità, ma coerente con le finalità della legge in esame, che, come più volte osservato da questa Corte (cfr. cit. sentt. nn.407 del 1992, 197 del 1993, 118 del 1994, nonchè 218 e 288 del 1993) sono quelle di salvaguardare l'ordine e la sicurezza pubblica, la tutela della libera determinazione degli organi elettivi, il buon andamento e la trasparenza delle pubbliche amministrazioni, valori che coinvolgono gli interessi dell'intera collettività ed hanno primario rilievo costituzionale. La coerenza della norma con le finalità anzidette sta appunto nell'aver dato particolare peso, quale requisito negativo, a delitti che, pur essendo di maggior o minor gravità, sono tutti accomunati dalla connotazione di essere stati commessi con abuso dei poteri, o con violazione dei doveri inerenti ad una pubblica funzione, o a un pubblico servizio. Tanto basta per escludere qualsiasi sospetto di irragionevolezza della norma adottata dal legislatore.
4. Le considerazioni su svolte, che escludono la violazione dell'art. 3 della Costituzione, valgono anche a dimostrare l'infondatezza del riferimento all'art. 24, secondo comma. Infatti, posta in luce la legittimità della norma che prevede la decadenza automatica in seguito a condanna penale passata in giudicato (v., sopra, punto 3.1), l'esigenza del diritto di difesa è ampiamente soddisfatta dalla facoltà di ricorso al giudice, nei diversi gradi di merito e di legittimità, contro l'intervenuta dichiarazione di decadenza.
5. Parimenti infondata è, infine, la sospettata violazione dell'art. 51 della Costituzione. Una volta accertato che il legislatore ha esercitato non irragionevolmente, nel rispetto dei principi costituzionali, il potere di stabilire requisiti per l'accesso alle cariche pubbliche elettive, così come prevede il primo comma dell'art. 51, non può configurarsi alcun pregiudizio del diritto costituzionalmente garantito di tutti i cittadini ad accedere e conservare le cariche elettive, poichè il possesso dei requisiti stabiliti dalla legge è condizione per l'esercizio di tale diritto, secondo il chiaro dettato dell'art. 51 medesimo.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi, dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 15, comma 4 - quinquies, della legge 19 marzo 1990, n. 55, introdotto dall'art. 1 della legge 18 gennaio 1992 n. 16 (Norme in materia di elezioni e nomine presso le regioni e gli enti locali), sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24, secondo comma, e 51 della Costituzione, dal Tribunale di Oristano con le ordinanze in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 04/07/94.
Francesco Paolo CASAVOLA, Presidente
Mauro FERRI, Redattore
Depositata in cancelleria il 13/07/94.