SENTENZA N. 236
ANNO 2015
Commenti alla
decisione di
I. Maria Elisabetta Cognizzoli, Caso
De Magistris: la Corte Costituzionale dichiara l’infondatezza della questione
di legittimità della cd. Legge Severino, per g.c.
di Diritto penale Contemporaneo
II.
Gianluca Marolda, La
non irragionevolezza della "legge Severino”: nota a margine della sent. n. 236/2015 della Corte costituzionale, per g.c. del Forum
di Quaderni Costituzionali
III. Claudia Marchese, Legge
Severino: la Corte si pronuncia … e resta nel solco dei suoi passi!, per g.c. del Forum
di Quaderni Costituzionali
IV. Luca Longhi, Il
caso de Magistris, per g.c. di Federalismi.it
V. Francesco Saverio Marini,
La
"legge Severino” tra le Corti: luci e ombre dell’incandidabilità dopo la
sentenza n. 236 del 2015, per g.c. dell’Osservatorio AIC
VI. Valentina Pupo, La
"legge Severino” al primo esame della Corte costituzionale: la natura non
sanzionatoria della sospensione dalla carica elettiva e la ragionevolezza del
bilanciamento, per g.c. del Forum di Quaderni Costituzionali
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Alessandro CRISCUOLO Presidente
- Giuseppe FRIGO Giudice
- Paolo GROSSI ”
- Giorgio LATTANZI ”
- Aldo CAROSI ”
- Marta CARTABIA ”
- Mario Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Giuliano AMATO ”
- Silvana SCIARRA ”
- Daria de PRETIS ”
- Nicolò ZANON ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità
costituzionale dell’art. 11, comma 1, lettera a), del decreto
legislativo 31 dicembre 2012, n. 235 (Testo unico delle disposizioni in materia
di incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo
conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi, a norma
dell’articolo 1, comma 63, della legge 6 novembre 2012, n. 190), in
relazione all’art. 10, comma 1, lettera c), del medesimo decreto legislativo,
promosso dal Tribunale amministrativo regionale per la Campania, sezione prima,
nel procedimento vertente tra D.M.L. e altro e il Ministero dell’interno – UTG
Prefettura di Napoli e altro, con ordinanza
del 30 ottobre 2014, iscritta al n. 29 del registro ordinanze 2015 e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 11, prima serie
speciale, dell’anno 2015.
Visti
gli atti di costituzione di D.M.L.
e del Comune di Napoli, nonché gli atti di intervento di Capasso
Elpidio, di Minozzi Maria Modesta, di Caputo
Salvatore e del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito
nell’udienza pubblica del 20
ottobre 2015 il Giudice relatore Daria de Pretis;
uditi gli avvocati Mario Montefusco per Minozzi Maria Modesta, Lorenzo Lentini per Capasso Elpidio, Gaetano Armao
per Caputo Salvatore, Giuseppe Russo per D.M.L., Fabio Maria Ferrari per il
Comune di Napoli e gli avvocati dello Stato Agnese Soldani
e Gabriella Palmieri per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 30 ottobre 2014,
il Tribunale amministrativo per la Campania – sezione prima – ha sollevato
questione di legittimità costituzionale dell’art. 11, comma 1, lettera a), del
decreto legislativo 31 dicembre 2012, n. 235 (Testo unico delle disposizioni in
materia di incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e di
Governo conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi,
a norma dell’articolo 1, comma 63, della legge 6 novembre 2012, n. 190), in
relazione all’art. 10, comma 1, lettera c), del medesimo decreto legislativo,
«perché la sua applicazione retroattiva si pone in contrasto con gli artt. 2, 4, secondo comma, 51, primo comma e 97, secondo comma della
Costituzione».
La disposizione sottoposta all’esame di
questa Corte (intitolata «Sospensione e decadenza di diritto degli
amministratori locali in condizione di incandidabilità») statuisce che «Sono
sospesi di diritto dalle cariche indicate al comma 1 dell’articolo 10: a)
coloro che hanno riportato una condanna non definitiva per uno dei delitti
indicati all’articolo 10, comma 1, lettere a), b) e c)».
L’art. 10 (intitolato «Incandidabilità
alle elezioni provinciali, comunali e circoscrizionali»), al comma 1, lettera c),
dispone che «Non possono essere candidati alle elezioni provinciali, comunali e
circoscrizionali e non possono comunque ricoprire le cariche di presidente
della provincia, sindaco, assessore e consigliere provinciale e comunale […]
coloro che hanno riportato condanna definitiva per i delitti previsti dagli
articoli 314, 316, 316-bis, 316-ter, 317, 318, 319, 319-ter, 319-quater, primo
comma, 320, 321, 322, 322-bis, 323, 325, 326, 331, secondo comma, 334, 346-bis
del codice penale».
La questione è sorta nel corso di un
giudizio promosso dal Sindaco del Comune di Napoli, D.M.L., contro il Ministero
dell’interno – UTG Prefettura di Napoli, per l’annullamento, previa sospensione
dell’efficacia, del decreto del Prefetto di Napoli del 1° ottobre 2014, n.
87831, con il quale è stata accertata la sospensione di D.M.L. dalla carica di
sindaco, per effetto della condanna – pronunciata in primo grado dal Tribunale
di Roma all’udienza del 24 settembre 2014 – per il reato di abuso d’ufficio
alla pena di un anno e tre mesi di reclusione e, in base all’art. 31 cod. pen.,
all’interdizione dai pubblici uffici per un anno (pene sospese).
Nel giudizio a quo, sino alla pronuncia
dell’ordinanza di rimessione, sono intervenuti ad adiuvandum
il Comune di Napoli e ad opponendum Manfredi Nappi,
in qualità di cittadino elettore e di legale rappresentante della Associazione
Lotta Piccole Illegalità – ALPI.
Con la stessa ordinanza, il TAR ha
sospeso provvisoriamente gli effetti del provvedimento prefettizio impugnato
fino alla «ripresa» del giudizio cautelare successiva alla definizione della
questione di legittimità costituzionale e ha disposto altresì la sospensione
del giudizio.
1.1.– Il rimettente si sofferma, in
primo luogo, sull’eccezione di difetto di giurisdizione sollevata dalla difesa
erariale, respingendola sulla base della considerazione che il decreto
prefettizio avrebbe natura costitutiva, derivando solo da esso l’effetto
sospensivo, con la conseguenza che la posizione soggettiva fatta valere sarebbe
di interesse legittimo e la giurisdizione, quindi, del giudice amministrativo.
Quanto al merito, dichiara
manifestamente infondate le questioni sollevate con i motivi quinto, sesto e
settimo e considera invece non manifestamente infondata la questione di costituzionalità
sollevata con il quarto motivo di ricorso, mediante il quale D.M.L. ha
contestato l’applicazione retroattiva (alla candidatura avvenuta nel 2011, e
dunque al mandato già in corso) di una nuova «causa ostativa» alla permanenza
in carica, introdotta il 5 gennaio 2013 con l’entrata in vigore del d.lgs. n.
235 del 2012.
Nell’argomentazione successiva, il
giudice a quo introduce elementi ulteriori, a suo avviso essenziali ai fini
della decisione sulla questione di costituzionalità. Dopo aver riferito di
alcune pronunce emesse in materia di cause ostative all’assunzione e alla
conservazione di cariche elettive dal giudice amministrativo e dalla Corte
costituzionale, sottolinea che la vicenda de qua «riguarda un provvedimento di
sospensione adottato a seguito e per effetto di una condanna penale non
definitiva», e non di una condanna irrevocabile come nei casi giurisprudenziali
ricordati, e che «una lettura costituzionalmente orientata del dato normativo
non autorizza l’interprete a presumere la sussistenza di una situazione di
indegnità morale che legittimi l’inibizione dell’accesso ad una carica pubblica
o la sua perdita, e ciò superando il divieto di retroattività, anche nel
diverso caso in cui si sia in presenza di una sentenza non definitiva».
Il rimettente afferma pertanto che i
dubbi di legittimità costituzionale dell’art. 11 per violazione del divieto di
retroattività, «ove sia una sentenza non passata in cosa giudicata a
determinare la sospensione dalla carica, si fondano su due presupposti»: il
primo è la «natura sanzionatoria dell’istituto della sospensione», il secondo
l’«efficacia retroattiva dell’istituto della sospensione dalla carica,
applicato in presenza di una condanna penale non definitiva».
Pur dando atto della finalità cautelare
attribuita dalla Corte costituzionale a norme previgenti del tipo di quella in
esame, il TAR osserva che «riconoscere natura sanzionatoria, e comunque
afflittiva, agli istituti dell’incandidabilità, sospensione e decadenza non
significa affatto negare l’esistenza di ulteriori finalità, anche principali,
che la disciplina legislativa in esame pone a fondamento della propria
giuridica esistenza», e che la discrezionalità del legislatore «non può
spingersi […] fino al punto di negare natura di vera e propria sanzione ad
istituti tanto incisivi sull’esercizio di un diritto costituzionale, quale
quello di accesso alle cariche pubbliche di cui all’art. 51 della Carta».
A sostegno di tale assunto, invoca la
disciplina (contenuta nell’art. 15 del d.lgs. n. 235 del 2012) del rapporto tra
incandidabilità e interdizione temporanea dai pubblici uffici e la previsione
dell’estinzione dell’incandidabilità in caso di riabilitazione.
Quanto al secondo presupposto, il TAR
afferma che «la sospensione di un amministratore da una carica per un fatto
storicamente anteriore rispetto alla sua elezione, così come anteriore ne è il
provvedimento giudiziario che a questo dà a tal fine rilevanza, costituisce,
oggettivamente, applicazione retroattiva della norma», che viola l’art. 51 Cost.
A quest’ultimo proposito, il rimettente
rileva che, «ove vi sia riserva di legge per la disciplina di diritti
fondamentali riconosciuti dalla Carta, assumono rango costituzionale anche i
principi generali che disciplinano la fonte di produzione normativa primaria»,
fra i quali quello di irretroattività di cui all’art. 11 delle preleggi, e che
«l’art. 51 della Costituzione nell’affidare alla legge […] la disciplina
positiva per l’esercizio del diritto di elettorato passivo, ciò consente nei
limiti fisiologici entro i quali alla legge stessa è consentito operare, cioè
non retroattivamente». A maggior ragione l’irretroattività si imporrebbe nel
caso concreto, data la natura sanzionatoria delle cause ostative alla carica e
al suo mantenimento, e data «l’inderogabilità assoluta del principio di
irretroattività nell’ambito di istituti e regimi in buona parte assimilabili
alle sanzioni penali».
In definitiva, ad avviso del giudice a
quo la «questione della legittimità costituzionale del superamento del limite
costituito dal divieto di retroattività della legge anche nell’ipotesi in cui
la sospensione dalla carica sia prevista in caso di condanna non definitiva […]
concerne la sussistenza di un eccessivo sbilanciamento» a favore della
«salvaguardia della moralità dell’amministrazione pubblica» rispetto ad altri
interessi costituzionali: diritto di elettorato passivo (art. 51 Cost.), «da
ritenersi inviolabile ai sensi dell’art. 2 della Carta, nonché posto a
fondamento del funzionamento delle istituzioni democratiche repubblicane,
secondo quanto previsto dall’art. 97, secondo comma, ed infine espressione del
dovere di svolgimento di una funzione sociale che sia stata frutto di una
libera scelta del cittadino, ai sensi dell’art. 4, secondo comma».
Dunque, il TAR contesta la legittimità
costituzionale dell’art. 11, comma 1, lettera a), in relazione all’art. 10,
comma 1, lettera c), del d.lgs. n. 235 del 2012, «perché la sua applicazione
retroattiva» contrasta con i parametri sopra indicati (artt. 2, 4, secondo comma,
51, primo comma, e 97, secondo comma, Cost.).
2.– Dopo la pronuncia dell’ordinanza di
rimessione, sono intervenuti nel giudizio principale il Movimento Difesa del
Cittadino, che ha chiesto il rigetto del ricorso di D.M.L., nonché, ad adiuvandum, il CIPS – Comitato Italiano Popolo Sovrano,
l’Associazione Nazionale dei Comuni Italiani (ANCI), Elpidio Capasso, in qualità di consigliere metropolitano, e Maria
Modesta Minozzi, in qualità di cittadina elettrice.
Risulta dagli atti del presente giudizio
che il Consiglio di Stato, con ordinanza del 20 novembre 2014, ha rigettato gli
appelli contro l’ordinanza cautelare del TAR, proposti da Manfredi Nappi, ALPI
e Ministero dell’interno – UTG Prefettura di Napoli.
Risulta ancora dagli atti che,
successivamente alla rimessione della questione a questa Corte, con ricorso
depositato il 25 novembre 2014 il Movimento Difesa del Cittadino ha presentato
alla Corte di cassazione istanza di regolamento preventivo di giurisdizione, ai
sensi dell’art. 41 del codice di procedura civile. Con ordinanza del 28 maggio
2015, n. 11131, la Corte di cassazione a sezioni unite civili ha dichiarato la
giurisdizione del giudice ordinario, davanti al quale ha rimesso le parti.
Dopo aver risolto positivamente il
problema preliminare dell’ammissibilità del regolamento preventivo di
giurisdizione sollevato in un giudizio sospeso in pendenza dell’incidente di
costituzionalità, la pronuncia si pone, nel merito della questione, sulla linea
della giurisprudenza di legittimità che afferma la giurisdizione del giudice
ordinario nelle controversie in materia di ineleggibilità, decadenza e
incompatibilità, in quanto vertono sul diritto soggettivo di elettorato
passivo. La Corte di cassazione desume la qualità di diritto soggettivo della
posizione tutelata dalla natura vincolata del decreto prefettizio di
sospensione, nella cui assunzione non spetta al Prefetto alcun autonomo
apprezzamento, né la possibilità di modularne decorrenza o durata sulla base
della ponderazione di concorrenti interessi pubblici.
2.1.– Risulta dagli atti, altresì, che a
seguito della pronuncia delle sezioni unite la causa è stata riassunta da
D.M.L. davanti al Tribunale ordinario di Napoli, ai sensi dell’art. 59 della
legge 18 giugno 2009, n. 69 (Disposizioni per lo sviluppo economico, la
semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile), e che,
con ordinanza depositata il 25 giugno 2015, il Tribunale ha accolto l’istanza
cautelare riproposta, disponendo a propria volta la sospensione degli effetti
del decreto prefettizio, in attesa della decisione della Corte costituzionale
sulla questione sollevata dal TAR Campania.
Il Tribunale ha ritenuto di non proporre
l’incidente di costituzionalità ma si è limitato a prendere atto della
questione già sollevata dal giudice a quo e, come si è detto, a reiterare il
provvedimento di sospensione degli effetti del provvedimento prefettizio, in
attesa della decisione della Corte. Questa conclusione si fonda sull’identità
che, secondo il Tribunale, sussiste tra il giudizio davanti al TAR e quello
riassunto davanti ad esso, nonché sulla positiva valutazione, già operata dal
giudice amministrativo, della rilevanza e della non manifesta infondatezza
della questione. Ad essa lo stesso Tribunale civile mostra di ritenersi vincolato.
I plurimi reclami cautelari presentati
avverso l’indicata ordinanza sono stati dichiarati in parte inammissibili e,
nel resto, respinti nel merito da una diversa sezione dello stesso Tribunale
ordinario di Napoli, con ordinanza depositata il 25 luglio 2015.
3.– Nel giudizio costituzionale si sono
tempestivamente costituiti D.M.L. (con atto depositato il 7 aprile 2015) e il
Comune di Napoli (con atto depositato il 2 aprile 2015).
Con atto depositato il 7 aprile 2015 è
tempestivamente intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei
ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato.
D.M.L. ha chiesto, preliminarmente, che
il giudizio sia trattato insieme a quello promosso dalla Corte d’appello di
Bari con ordinanza del 29 gennaio 2015, avente ad oggetto la questione di
legittimità costituzionale dell’art. 8 del d.lgs. n. 235 del 2012, sollevata,
tra il resto, per ragioni analoghe a quelle in esame, attinenti alla natura
sanzionatoria-afflittiva dell’istituto, in una fattispecie relativa alla
sospensione dalla carica di un consigliere regionale.
Nel merito, ha osservato che la norma
denunciata prevede la sospensione anche a seguito di condanna non definitiva
per il reato di abuso d’ufficio (art. 323 cod. pen.), mentre la disciplina
anteriore al decreto legislativo n. 235 del 2012 limitava l’applicazione della
sospensione ai casi di condanna non definitiva per reati particolarmente gravi,
espressione di delinquenza di tipo mafioso o di altre forme di pericolosità
sociale, le quali fanno presumere un’elevata capacità di inquinamento degli
apparati pubblici da parte delle organizzazioni criminali. L’ampliamento della
sfera di applicazione dell’istituto alle condanne non definitive per reati
privi di tale valenza presuntiva, come l’abuso d’ufficio, violerebbe, secondo
la parte, i limiti di «necessità e ragionevole proporzionalità» entro i quali
il legislatore, nel bilanciare i principi previsti dagli artt. 51 e 97 Cost.,
dovrebbe mantenere le norme che regolano la sospensione dalla carica elettiva,
ovvero una misura che presenterebbe una evidente natura sanzionatoria, anche in
ragione del suo automatismo.
Ad avviso del ricorrente nel processo
principale, tale natura sanzionatoria si collegherebbe, altresì,
all’irreversibilità degli effetti che essa determina sul titolare della carica,
in quanto il periodo di durata della misura, pari a diciotto mesi, non è
recuperabile neppure nel caso di assoluzione in secondo grado. Se ne dovrebbe
concludere che la sospensione, pur svolgendo anche una funzione cautelare,
diretta a salvaguardare il decoro e il buon funzionamento delle istituzioni,
incide comunque sul diritto di elettorato passivo in modo afflittivo, operando
come una "sanzione anticipata” e alterando la corretta e libera concorrenza elettorale,
applicandosi anche in relazione a condotte che, all’epoca in cui l’interessato
decideva di candidarsi alla carica di sindaco, non comportavano la sospensione
dalla carica medesima.
Infine, D.M.L. osserva che il divieto di
retroattività non troverebbe applicazione solo in materia penale, ma, secondo
l’interpretazione data dalla Corte di Strasburgo agli artt. 6 e 7 della
Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa
esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, in ogni ipotesi di misura
punitivo-afflittiva, sicché si dovrebbero ritenere incostituzionali tutte le
norme che, come quella in esame, prevedono una misura di questo tipo per
condanne non definitive anche in ordine a fatti anteriori all’entrata in vigore
delle norme stesse.
Il Comune di Napoli ha aderito, a sua
volta, alle ragioni esposte dal rimettente con riguardo alla natura
afflittivo-sanzionatoria della sospensione e alla illegittimità della sua
applicazione retroattiva, in quanto lesiva del diritto inviolabile di
elettorato passivo, le cui limitazioni dovrebbero operare soltanto in casi
eccezionali. A suo avviso, merita di essere rivisto, anche alla luce della
giurisprudenza sugli artt. 6 e 7 della CEDU e della successiva giurisprudenza
costituzionale, l’orientamento di questa Corte (definito "risalente”) espresso
dalla sentenza
n. 118 del 1994, secondo la quale la condanna penale è un requisito
negativo ai fini della capacità di assumere e di mantenere le cariche, e non
comporta violazione dell’art. 25, secondo comma, Cost., essendo tale norma
applicabile solo alle sanzioni penali. Secondo il Comune di Napoli, al
contrario, la deroga al generale divieto di retroattività, nel caso della
sospensione dalla carica elettiva, si dovrebbe considerare incompatibile con la
riserva di legge rinforzata che assiste il diritto di elettorato passivo, non
rilevando che si tratti anche di una misura cautelare, senza conseguenze
definitive sulla candidabilità o sull’eleggibilità.
Il Presidente del Consiglio dei ministri
ha chiesto che la questione sia dichiarata infondata.
In primo luogo, l’intervenuto contesta
che la norma denunciata abbia natura sanzionatoria, osservando che, secondo
l’orientamento di questa Corte (sentenza n. 25 del
2002, pronunciata con riferimento all’analogo istituto già previsto
dall’art. 15, comma 4, della legge 19 marzo 1990, n. 55, recante «Nuove
disposizioni per la prevenzione della delinquenza di tipo mafioso e di altre
gravi forme di manifestazione di pericolosità sociale»), la prevista sospensione
ha sicuramente natura cautelare ed è finalizzata a proteggere l’interesse
pubblico nelle more dell’accertamento giudiziale definitivo. A suo avviso, non
tutte le norme che incidono su diritti costituzionalmente protetti – e che
quindi determinano, obiettivamente, conseguenze afflittive – sono per ciò solo
norme sanzionatorie, presentando tale natura solo quelle che, sul presupposto
della commissione di un illecito, esprimono la volontà punitiva
dell’ordinamento. La norma denunciata, al contrario, si collega ad istituti
come l’incandidabilità, l’ineleggibilità o la decadenza, che limitano
l’esercizio del diritto di elettorato passivo, inerendo alle condizioni di
accesso alle cariche elettive e non alle conseguenze penali dei reati.
In secondo luogo, contesta che si versi
in un’ipotesi di applicazione retroattiva della legge in senso tecnico,
trattandosi invece della sua ordinaria operatività immediata, secondo il
principio tempus regit actum, come ha chiarito questa Corte con riguardo alle
analoghe disposizioni previgenti. A suo avviso, inoltre, un problema di
retroattività nemmeno si pone nel caso di specie, in quanto la sentenza di
condanna del giudice penale – che costituisce il fatto assunto dall’ordinamento
come condizione per la sospensione dalla carica – è successiva, sia all’entrata
in vigore della legge, sia all’elezione.
Infine, l’intervenuto contesta l’assunto
del rimettente secondo il quale la norma sarebbe il risultato di un eccessivo
sbilanciamento a scapito del diritto di elettorato passivo e a favore della
salvaguardia dell’integrità della funzione elettiva. A questo proposito osserva
che la sentenza di condanna in primo grado si colloca all’esito di un giudizio
assistito dalle piene garanzie del diritto di difesa e che l’equilibrato
contemperamento tra gli interessi in gioco è reso evidente dalla temporaneità
della misura, che cessa alla scadenza del termine di diciotto mesi. Si
configura così, a suo avviso, un assetto normativo nel quale il prevalente
interesse alla salvaguardia dell’integrità della funzione elettiva nelle more
della definizione giudiziale è destinato a recedere nel caso del prolungarsi
dei tempi del processo, che, oltre una certa durata, vede riespandersi
il diritto di elettorato passivo.
3.1.– Nel giudizio costituzionale sono
intervenuti ancora Elpidio Capasso (con atto
depositato il 7 aprile 2015), Maria Modesta Minozzi
(con atto depositato il 9 luglio 2015) e Salvatore Caputo (con atto depositato
il 29 luglio 2015), tutti chiedendo che la questione di legittimità
costituzionale sia accolta.
Come si è detto, Elpidio Capasso è intervenuto ad adiuvandum
nel giudizio principale, in qualità di consigliere eletto nell’assemblea
metropolitana di Napoli, dopo la pronuncia dell’ordinanza di rimessione del
TAR.
Anch’egli chiede, in via preliminare,
che il giudizio sia rinviato per essere trattato congiuntamente con quello
promosso dalla Corte d’appello di Bari, avente ad oggetto analoghe questioni.
Nel merito, a propria volta osserva che
la sospensione dalla carica elettiva ha natura afflittivo-sanzionatoria e che
il divieto di retroattività si applica a tutte le norme di tale natura e non
solo a quelle penali, sulla base del più recente orientamento di questa Corte,
che ha aderito alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo sugli artt. 6 e 7
della CEDU.
Maria Modesta Minozzi,
anch’essa intervenuta ad adiuvandum nel giudizio
principale, quale cittadina elettrice, successivamente all’ordinanza di
rimessione, ripropone le argomentazioni già presentate al TAR, osservando che
la norma denunciata viola l’art. 76 Cost., per mancanza di una delega
legislativa al Governo a prevedere la sospensione in caso di sentenze di
condanna non definitive.
Salvatore Caputo deduce di essere
legittimato all’intervento in quanto parte del giudizio principale davanti al
TAR e, in ogni caso, in quanto portatore di un interesse di fatto dipendente da
quello azionato in via principale ovvero ad esso accessorio, che gli consente
di ritrarre un vantaggio indiretto e riflesso dall’accoglimento del ricorso. In
particolare, afferma di essere stato dichiarato decaduto dalla carica di
deputato regionale nella seduta dell’Assemblea regionale siciliana n. 48 del
giugno 2013, a seguito di condanna definitiva (per declaratoria di
inammissibilità del ricorso per cassazione avverso la sentenza della Corte
d’appello di Palermo del 19 marzo 2012) ad un anno e cinque mesi di reclusione,
con il beneficio della sospensione condizionale sia della pena principale che
di quella accessoria, e di avere presentato alla Corte d’appello di
Caltanissetta istanza di revisione, sulla base di documenti acquisiti dopo la
definizione del giudizio.
Ad avviso dell’intervenuto, la sua
legittimazione a partecipare al giudizio non sarebbe dubitabile, in quanto
soggetto pregiudicato dalla norma di cui si chiede la dichiarazione di
illegittimità a causa della sua applicazione retroattiva, ed in quanto
titolare, al riguardo, di un interesse diretto e concreto, essendo incorso
nella decadenza dalla carica per una condanna pronunciata per fatti precedenti
all’entrata in vigore del d.lgs. n. 235 del 2012. In linea con la recente
giurisprudenza di merito, auspica un’"apertura” della giurisprudenza di questa
Corte, che tende a negare al titolare di un interesse di mero fatto
all’accoglimento della questione un interesse qualificato che lo legittimi a
intervenire nel giudizio costituzionale.
Nel merito, aderisce alle ragioni
addotte dal ricorrente nel giudizio principale a proposito della applicazione
retroattiva della norma denunciata, nonché alle ragioni esposte nell’ordinanza
di rimessione sulla sua natura sanzionatoria e sui limiti che il legislatore
dovrebbe rispettare nel determinare le condizioni di accesso alle cariche
pubbliche.
4.– Nell’imminenza dell’udienza, D.M.L.
ha depositato una memoria, nella quale ribadisce che la sospensione dalla
carica ha, almeno in prevalenza, natura sanzionatoria-afflittiva. A suo avviso,
la condanna non definitiva per un reato "di evento”, quale l’abuso d’ufficio
(art. 323 cod. pen.), non consentirebbe al legislatore di apprezzare in via
generale ed astratta – come è invece possibile per i reati "di condotta”
contemplati dalla disciplina previgente – l’esigenza cautelare di allontanare
dall’apparato pubblico, in attesa della conclusione del giudizio d’appello, il
soggetto condannato per condotte incompatibili con il decoro e il buon
andamento delle istituzioni; per altro verso, la norma non rimette
l’accertamento di effettive esigenze di cautela neppure al Prefetto, il cui
provvedimento ha mera natura ricognitiva. Ne conseguirebbe che, quantomeno nel
caso dell’abuso d’ufficio, la sospensione dalla carica esplica solo una
funzione sanzionatoria-afflittiva.
A sostegno dell’assunto, D.M.L. invoca
una nozione sostanziale di sanzione e introduce il tema dell’applicazione
automatica delle misure punitive, osservando che la Corte costituzionale
considera gli automatismi in contrasto con i principi costituzionali, se
fondati su presunzioni assolute svincolate dalla verifica della concreta
congruità della misura con il fine (cita la recente sentenza n. 170 del
2015 sul trasferimento obbligatorio del magistrato condannato in sede
disciplinare), e che la Corte di Strasburgo ha espresso un orientamento analogo,
proprio con riferimento agli automatismi sanzionatori che limitano il diritto
di elettorato. Richiama anche l’ordinanza con la quale le sezioni unite civili
della Corte di cassazione hanno dichiarato il difetto di giurisdizione del
giudice a quo. A suo avviso in essa si darebbe atto che il legislatore, con la
norma in questione, ha inteso far prevalere la necessità di comprimere il
diritto di elettorato passivo del soggetto condannato in via non definitiva
sull’esigenza di tutela del buon andamento dell’amministrazione.
Quanto alla violazione del divieto di
retroattività, contesta che nel caso di specie operi la regola tempus regit actum,
come sostiene invece la difesa dello Stato, e richiama la giurisprudenza di
questa Corte, la quale, sulla base dell’interpretazione degli artt. 6 e 7 della
CEDU ad opera della Corte di Strasburgo, ha affermato il principio del
necessario assoggettamento delle misure di carattere punitivo-afflittivo alla
medesima disciplina delle sanzioni penali in senso stretto. Osserva, infine,
che la giurisprudenza costituzionale sulla non retroattività delle norme in
tema di incandidabilità e di decadenza a seguito di condanne penali, citata dal
Presidente del Consiglio dei ministri, non sarebbe conferente nella diversa
ipotesi della sospensione per condanna non definitiva, in quanto, a suo avviso,
tale giurisprudenza riguarda casi nei quali, con il passaggio in giudicato
della sentenza di condanna, è venuto meno il requisito della dignità morale.
5.– Anche il Presidente del Consiglio
dei ministri ha depositato una memoria nell’imminenza della data fissata per
l’udienza, nella quale introduce il tema della possibile inammissibilità della
questione per difetto di giurisdizione del TAR rimettente, accertato dalle
sezioni unite civili della Corte di cassazione in sede di regolamento
preventivo. A suo avviso, l’evidenza ictu oculi del
difetto di giurisdizione del giudice a quo – che si traduce, secondo la
giurisprudenza costituzionale, nell’inammissibilità della questione per difetto
di rilevanza – è resa ancora più manifesta dal fatto che nel caso di specie il
vizio è stato accertato dall’organo investito del potere di regolare la
giurisdizione in via definitiva, con effetti vincolanti per ogni giudice e per
le parti anche in altro processo, ai sensi dell’art. 59, comma 1, della legge
n. 69 del 2009. La difesa dello Stato osserva altresì che la translatio iudicii davanti al
giudice ordinario, derivante dalla riassunzione del giudizio, fa salvi gli
effetti sostanziali e processuali della domanda e determina la pendenza del
processo principale, ma non comporta necessariamente la conservazione degli
effetti dei provvedimenti assunti dal giudice privo di giurisdizione, tra i
quali si annovera l’ordinanza di rimessione alla Corte costituzionale. Inoltre,
il fatto che il Tribunale ordinario di Napoli, pur avendo accolto l’istanza
cautelare, non abbia sollevato a sua volta la questione di legittimità
costituzionale, dimostrerebbe che la questione stessa non proviene dal giudice
che avrebbe avuto il potere di proporla.
Nel merito, l’intervenuto osserva che
l’ampliamento del novero dei reati per i quali la disciplina anteriore
prevedeva la sospensione dalla carica non potrebbe essere considerato
irragionevole, in quanto tale disciplina già includeva i principali delitti
contro la pubblica amministrazione. La nuova norma si inserirebbe dunque nel
medesimo solco, portando a compimento il disegno del legislatore, descritto nel
titolo della legge n. 55 del 1990, di «prevenzione della delinquenza di tipo mafioso
e di altre gravi forme di manifestazione di pericolosità sociale». Infine, la
difesa dello Stato richiama gli argomenti esposti nell’atto di intervento sulla
natura essenzialmente cautelare della norma che prevede la sospensione e
sull’equilibrato contemperamento degli interessi in gioco da essa realizzato
(si invoca, sul punto, anche la motivazione della richiamata ordinanza delle
sezioni unite civili).
Considerato in diritto
1.– Il Tribunale amministrativo
regionale per la Campania – sezione prima – dubita della legittimità
costituzionale dell’art. 11, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 31
dicembre 2012, n. 235 (Testo unico delle disposizioni in materia di
incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo
conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi, a norma
dell’articolo 1, comma 63, della legge 6 novembre 2012, n. 190), in relazione
all’art. 10, comma 1, lettera c), del medesimo decreto legislativo, per
contrasto con gli artt. 2, 4, secondo comma, 51, primo comma, e 97, secondo
comma, della Costituzione.
L’art. 11, comma 1, lettera a), del
d.lgs. n. 235 del 2012 dispone che sono sospesi di diritto dalle cariche
indicate al comma 1 del precedente articolo 10 (vale a dire, dalle cariche di
presidente della provincia, sindaco, assessore e consigliere provinciale e
comunale) coloro che hanno riportato una condanna non definitiva per uno dei
delitti indicati alle lettere a), b) e c) dello stesso art. 10, comma 1, tra i
quali figura, alla lettera c), il delitto di abuso di ufficio disciplinato
all’art. 323 del codice penale.
La questione è sorta nel corso di un
giudizio promosso dal Sindaco del Comune di Napoli, D.M.L., contro il Ministero
dell’interno – UTG Prefettura di Napoli, per ottenere l’annullamento del
decreto del Prefetto di Napoli che ha accertato la sua sospensione dalla carica
di sindaco per effetto della condanna – pronunciata in primo grado dal
Tribunale di Roma per il reato di abuso d’ufficio – alla pena di un anno e tre
mesi di reclusione e alla pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici
per la durata di un anno.
Nel caso oggetto del giudizio a quo, la
sentenza penale non definitiva è stata pronunciata successivamente alla data di
entrata in vigore del d.lgs. n. 235 del 2012 per fatti commessi anteriormente a
tale data. Sono anteriori all’entrata in vigore della normativa censurata anche
la candidatura e l’elezione a sindaco di D.M.L.
Il rimettente afferma che i dubbi di
legittimità costituzionale si fondano su due presupposti: la «natura
sanzionatoria dell’istituto della sospensione» e l’«efficacia retroattiva
dell’istituto». A suo avviso, la norma denunciata, nella parte in cui si
applica retroattivamente anche nei casi di condanne non definitive, contrasta
con il diritto di elettorato passivo e con il principio generale di
irretroattività delle norme aventi natura sanzionatoria.
Il giudice a quo ritiene che non si
possa «negare natura di vera e propria sanzione ad istituti tanto incisivi
sull’esercizio di un diritto costituzionale, quale quello di accesso alle
cariche pubbliche di cui all’art. 51 della Carta», e contesta l’applicazione
retroattiva della norma sanzionatoria per violazione dello stesso art. 51
Cost., osservando che, «ove vi sia riserva di legge per la disciplina di
diritti fondamentali riconosciuti dalla Carta, assumono rango costituzionale
anche i principi generali che disciplinano la fonte di produzione normativa
primaria», fra i quali vi è quello di irretroattività previsto all’art. 11
delle disposizioni sulla legge in generale; e che ciò vale a maggior ragione,
data la natura sanzionatoria delle cause ostative alla permanenza in carica e
data «l’inderogabilità assoluta del principio di irretroattività nell’ambito di
istituti e regimi in buona parte assimilabili alle sanzioni penali».
In definitiva, secondo il rimettente la
«questione della legittimità costituzionale del superamento del limite
costituito dal divieto di retroattività della legge anche nell’ipotesi in cui
la sospensione dalla carica sia prevista in caso di condanna non definitiva […]
concerne la sussistenza di un eccessivo sbilanciamento» a favore della
«salvaguardia della moralità dell’amministrazione pubblica» rispetto ad altri
interessi costituzionali quali il diritto di elettorato passivo (art. 51
Cost.), «da ritenersi inviolabile ai sensi dell’art. 2 della Carta, nonché
posto a fondamento del funzionamento delle istituzioni democratiche
repubblicane, secondo quanto previsto dall’art. 97, secondo comma, ed infine
espressione del dovere di svolgimento di una funzione sociale che sia stata
frutto di una libera scelta del cittadino, ai sensi dell’art. 4, secondo
comma».
La norma denunciata, pertanto,
contrasterebbe con i parametri indicati.
2.– In via preliminare, va ribadito
quanto stabilito nell’ordinanza della quale è stata data lettura in udienza,
allegata al presente provvedimento, sull’inammissibilità degli interventi di
Elpidio Capasso, Maria Modesta Minozzi
e Salvatore Caputo.
Maria Modesta Minozzi
e Salvatore Caputo sono intervenuti infatti nel giudizio costituzionale oltre
il termine di venti giorni dalla pubblicazione dell’ordinanza di rimessione
nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, fissato dagli artt. 3 e 4 delle
norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale con riguardo,
rispettivamente, alla costituzione delle parti del giudizio a quo nel giudizio
costituzionale e all’intervento degli altri soggetti. Secondo la costante
giurisprudenza di questa Corte, tale termine ha natura perentoria, sicché dalla
sua violazione consegue, in via preliminare e assorbente, l’inammissibilità
degli atti di intervento depositati oltre la sua scadenza (ex plurimis, sentenze n. 27 del
2015, n. 364
e n. 303 del
2010, n. 263
e n. 215 del
2009; ordinanze
n. 11 del 2010, n. 100 del 2009
e n. 124 del
2008).
Elpidio Capasso,
il cui atto di intervento è tempestivo, non è tuttavia legittimato a
partecipare al giudizio costituzionale quale parte giudizio a quo, essendo
intervenuto in tale ultimo giudizio dopo l’ordinanza di rimessione, pronunciata
dal TAR Campania il 30 ottobre 2014. A tale data, secondo la costante
giurisprudenza di questa Corte, si deve fare riferimento per l’ammissione delle
parti al giudizio incidentale, ai sensi dell’art. 23 della legge 11 marzo 1953,
n. 87, recante «Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte
costituzionale» (ex plurimis, sentenze n. 223 del
2012, n. 220
del 2007; ordinanze
n. 24 del 2015, n. 393 del 2008),
essendo irrilevante, a questi fini, il successivo svolgimento del giudizio a
quo.
Si deve escludere, altresì, che Elpidio Capasso sia legittimato a intervenire nel giudizio
costituzionale nella qualità di soggetto diverso dalle parti del giudizio a
quo, in quanto, sempre secondo il costante orientamento di questa Corte, sono
ammessi a intervenire nel giudizio incidentale di legittimità costituzionale
«le sole parti del giudizio principale ed i terzi portatori di un interesse
qualificato, immediatamente inerente al rapporto sostanziale dedotto in
giudizio e non semplicemente regolato, al pari di ogni altro, dalla norma o
dalle norme oggetto di censura» (ex plurimis, sentenze n. 70 del
2015, n. 37
del 2015 e relativa ordinanza letta
all’udienza del 24 febbraio 2015, n. 162 del 2014
e relativa ordinanza
letta all’udienza dell’8 aprile 2014, n. 304 e relativa ordinanza
letta all’udienza del 4 ottobre 2011, n. 293, n. 199 e
relativa ordinanza
letta all’udienza del 10 maggio 2011, e n. 118 del 2011,
n. 138 del 2010
e relativa ordinanza
letta all’udienza del 23 marzo 2010, n. 151 del 2009
e relativa ordinanza
letta all’udienza del 31 marzo 2009; ordinanze n. 240
del 2014, n.
156 del 2013, n.
150 del 2012 e relativa ordinanza
letta all’udienza del 22 maggio 2012). Elpidio Capasso
è intervenuto facendo valere la sua posizione di componente della maggioranza
eletto nell’Assemblea metropolitana di Napoli. Questa posizione, tuttavia, non
lo rende titolare di un interesse qualificato nei sensi delineati, bensì di un
interesse di mero fatto, indiretto e riflesso, all’accoglimento della questione
di legittimità della norma in tema di mera sospensione dalla carica di sindaco.
3.– Il Presidente del Consiglio dei
ministri ha eccepito l’inammissibilità della questione per difetto di
giurisdizione del TAR rimettente, accertato all’esito del regolamento
preventivo di giurisdizione promosso dopo la pronuncia dell’ordinanza di
rimessione.
L’eccezione è infondata.
3.1.– Come risulta dagli atti,
successivamente alla rimessione a questa Corte, il difetto di giurisdizione del
giudice a quo è stato accertato dalle sezioni unite civili della Corte di
cassazione. La circostanza deve essere valutata alla luce del principio di
autonomia del giudizio costituzionale rispetto ai vizi del giudizio a quo (ex plurimis, sentenza n. 119 del
2015).
In un caso analogo a quello oggetto del
presente giudizio, questa Corte ha respinto un’eccezione di inammissibilità per
difetto di rilevanza fondata sull’esistenza di una decisione delle sezioni
unite civili della Corte di cassazione, le quali, in un giudizio dello stesso
tipo di quello in cui la questione era stata sollevata, avevano dichiarato la
carenza assoluta di giurisdizione del giudice rimettente. La Corte ha affermato
che, dall’«autonomia del giudizio incidentale di costituzionalità rispetto a
quello principale, discende che, in sede di verifica dell’ammissibilità della
questione, la Corte medesima può rilevare il difetto di giurisdizione soltanto
nei casi in cui questo appaia macroscopico, così che nessun dubbio possa aversi
sulla sua sussistenza», aggiungendo che «[l]a relativa indagine deve, peraltro,
arrestarsi laddove il rimettente abbia espressamente motivato in maniera non
implausibile in ordine alla sua giurisdizione» (sentenza n. 241 del
2008; negli stessi termini, ex plurimis, sentenze n. 1 del
2014, n. 116
e n. 106 del
2013, n. 41
del 2011 e n.
81 del 2010; ordinanza
n. 318 del 2013).
3.2.– L’ordinanza di rimessione motiva
sulla posizione soggettiva del ricorrente e sulla conseguente spettanza della
giurisdizione al giudice amministrativo in un modo che certamente supera la
soglia dell’implausibilità, facendo riferimento alla
natura del potere esercitato dal prefetto, per legge funzionale alla verifica
esterna delle condizioni ostative al mantenimento della carica elettiva, e alla
sua portata, a giudizio del rimettente, costitutiva e non meramente ricognitiva
dell’effetto sospensivo del quale il ricorrente si doleva nel giudizio a quo.
È da escludere inoltre che la
fattispecie rendesse di per se stessa manifesta la carenza di giurisdizione,
trattandosi di un’ipotesi di contenzioso elettorale che – oltre ad avere già
condotto a una pronuncia di questa Corte di rigetto dell’eccezione di
inammissibilità per difetto di giurisdizione del giudice amministrativo (sentenza n. 288 del
1993; si veda anche la sentenza n. 257 del
2010 che decide, sempre nella materia, una questione sollevata dal giudice
amministrativo) – ha dato luogo anche di recente a decisioni di merito dei
giudici amministrativi (Consiglio di Stato, sezione terza, sentenza 14 febbraio
2014, n. 730; Consiglio di Stato, sezione quinta, sentenza 6 febbraio 2013, n.
695). Del resto, lo stesso Consiglio di Stato, giudicando sull’appello proposto
contro il provvedimento cautelare concesso dal TAR Campania nel giudizio a quo,
ha ritenuto "aperta” la questione, con la considerazione che l’«eccepito
difetto di giurisdizione […] postula una diffusa e definitiva delibazione in
sede di merito» (Consiglio di Stato, sezione terza, ordinanza 20 novembre 2014,
n. 5343).
3.3.– Non presenta infine specifico
rilievo, ai fini del controllo di ammissibilità, il fatto che, dopo la
pronuncia sul regolamento di giurisdizione, il processo principale sia
proseguito presso il giudice ordinario davanti al quale è stato riassunto; né
che lo stesso giudice ordinario, pronunciandosi a sua volta in sede cautelare
sull’istanza del ricorrente, abbia reiterato la misura cautelare – prima
concessa dal giudice amministrativo – in attesa della decisione della questione
di costituzionalità già sollevata e pendente.
Così come l’estinzione del giudizio
principale non ha effetti sul giudizio davanti a questa Corte (art. 18 delle
norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale approvate con
Deliberazione 7 ottobre 2008, in Gazzetta Ufficiale 7 novembre 2008, n. 261),
allo stesso modo su quest’ultimo giudizio non può produrre effetti di sorta la
eventuale riassunzione del giudizio a quo davanti al giudice di un’altra
giurisdizione. Tanto meno li può produrre quando, come nel caso in esame, si
sia in presenza della translatio iudicii
prevista dall’art. 59 della legge 18 giugno 2009, n. 69 (Disposizioni per lo
sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di
processo civile), e dal successivo art. 11 del decreto legislativo 2 luglio
2010, n. 104 (Attuazione dell’articolo 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69,
recante delega al governo per il riordino del processo amministrativo). La
stessa avvenuta translatio, infatti, porta a ritenere
la fattispecie addirittura più vicina a quella, fisiologica, della semplice
continuazione del processo a quo, che a quella della sua mera estinzione, con
la conseguenza che anche sotto questo profilo resta esclusa ogni ragione di
inammissibilità della questione.
4.– Nel merito la questione non è
fondata.
Come si è già esposto, il giudice
rimettente contesta «la sussistenza di un eccessivo sbilanciamento» a favore
della «salvaguardia della moralità dell’amministrazione pubblica» rispetto ad
altri interessi costituzionali quali il diritto di elettorato passivo (art. 51
Cost.), «da ritenersi inviolabile ai sensi dell’art. 2 della Carta, nonché
posto a fondamento del funzionamento delle istituzioni democratiche
repubblicane, secondo quanto previsto dall’art. 97, secondo comma, ed infine
espressione del dovere di svolgimento di una funzione sociale che sia stata
frutto di una libera scelta del cittadino, ai sensi dell’art. 4, secondo
comma».
Il TAR Campania cerca di dimostrare
questo «eccessivo sbilanciamento» con un’argomentazione che si fonda
essenzialmente su tre elementi: il carattere sanzionatorio della sospensione
dalla carica; l’applicazione retroattiva della sospensione, in contrasto con un
divieto di retroattività che si ricaverebbe dallo stesso art. 51, primo comma,
Cost.; il collegamento della sospensione con una condanna non definitiva.
L’argomentazione, però, non risulta idonea a sorreggere la tesi del rimettente.
In primo luogo, è opportuno precisare
che, benché il TAR invochi quattro parametri costituzionali, gli artt. 2, 4,
secondo comma, 51, primo comma, e 97, secondo comma, la questione da esso
sollevata si regge essenzialmente sull’art. 51, primo comma, Cost, considerato
nella sua relazione con l’art. 2 Cost., al quale il giudice a quo fa riferimento
per sottolineare la natura di diritto inviolabile del diritto di elettorato
passivo disciplinato dallo stesso art. 51.
Infatti, il diritto di elettorato
passivo è sì uno dei fondamenti delle istituzioni democratiche, ma non in virtù
dell’art. 97, secondo comma, Cost.: anzi, il principio sancito da tale
disposizione a tutela del buon andamento e dell’imparzialità
dell’amministrazione può essere invocato piuttosto, come si vedrà, a sostegno
della legittimità di una norma che prevede la sospensione dalla carica di
pubblico amministratore di chi abbia subito una condanna per un reato contro la
pubblica amministrazione.
Quanto all’art. 4, secondo comma, Cost.,
l’adempimento del dovere di svolgere un’attività «che concorra al progresso
materiale o spirituale della società» non è pregiudicato da una norma che
prevede la sospensione da una carica politica a seguito di una condanna penale.
Al dovere di contribuire con la propria attività al progresso della società
ciascun cittadino può assolvere in una molteplicità di modi e forme, che non si
esauriscono in quelli che derivano dall’assunzione di cariche elettive, con la
conseguenza che la previsione dell’art. 4, secondo comma, non può logicamente
costituire un ostacolo alla fissazione da parte della legge di requisiti per il
mantenimento di uffici pubblici e cariche pubbliche, come previsto dall’art.
51, primo comma, Cost.
Si può quindi concludere che l’intera
questione ha come parametri di riferimento esclusivamente gli artt. 51, primo
comma, e 2 Cost.
4.1.– Cominciando dal primo degli
elementi indicati sopra come essenziali nell’argomentazione del TAR, cioè dal
carattere sanzionatorio della sospensione, occorre ricordare che questa Corte
si è già pronunciata, in diverse occasioni, sulle norme di legge che hanno
costituito i "precedenti” del d.lgs. n. 235 del 2012 – e segnatamente sull’art.
15 della legge 19 marzo 1990, n. 55 (Nuove disposizioni per la prevenzione
della delinquenza di tipo mafioso e di altre gravi forme di manifestazione di
pericolosità sociale), come modificato dalla legge 18 gennaio 1992, n. 16
(Norme in materia di elezioni e nomine presso le regioni e gli enti locali),
dalla legge 12 gennaio 1994, n. 30 (Disposizioni modificative della legge 19
marzo 1990, n. 55, in materia di elezioni e nomine presso le regioni e gli enti
locali, e della legge 17 febbraio 1968, n. 108, in materia di elezioni dei
consigli regionali delle regioni a statuto ordinario), e dalla legge 13
dicembre 1999, n. 475 (Modifiche all’articolo 15 della L. 19 marzo 1990, n. 55,
e successive modificazioni), e sull’art. 59 del decreto legislativo 18 agosto
2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali) –,
escludendo che le misure della incandidabilità, della decadenza e della
sospensione abbiano carattere sanzionatorio (si vedano le sentenze n. 25 del
2002, n. 132
del 2001, n.
206 del 1999, n.
295, n. 184
e n. 118 del
1994).
Questa Corte ha chiarito che tali misure
non costituiscono sanzioni o effetti penali della condanna, ma conseguenze del
venir meno di un requisito soggettivo per l’accesso alle cariche considerate o
per il loro mantenimento: «nelle ipotesi legislative di decadenza ed anche di
sospensione obbligatoria dalla carica elettiva previste dalle norme denunciate
non si tratta affatto di "irrogare una sanzione graduabile in relazione alla
diversa gravità dei reati, bensì di constatare che è venuto meno un requisito
essenziale per continuare a ricoprire l’ufficio pubblico elettivo” (sentenza n. 295 del
1994), nell’ambito di quel potere di fissazione dei "requisiti” di eleggibilità,
che l’art. 51, primo comma, della Costituzione riserva appunto al legislatore»
(sentenza n. 25
del 2002). In sostanza il legislatore, operando le proprie valutazioni
discrezionali, ha ritenuto che, in determinati casi, una condanna penale
precluda il mantenimento della carica, dando luogo alla decadenza o alla
sospensione da essa, a seconda che la condanna sia definitiva o non definitiva.
Anche la giurisprudenza comune ha
escluso che le conseguenze preclusive del mantenimento di determinate cariche
pubbliche, derivanti dalle condanne penali in base al d.lgs. n. 235 del 2012 e
alle disposizioni di legge che lo hanno preceduto, a partire dall’art. 15 della
legge n. 55 del 1990, abbiano carattere sanzionatorio (Corte di cassazione,
sezione prima civile, sentenza 27 maggio 2008, n. 13831; Corte di cassazione,
sezione prima civile, sentenza 21 aprile 2004, n. 7593; Corte di cassazione,
sezione prima civile, sentenza 2 febbraio 2002, n. 1362; Corte di cassazione,
sezione prima civile, sentenza 26 novembre 1998, n. 12014; Consiglio di Stato,
sezione quinta, sentenza 29 ottobre 2013, n. 5222; Consiglio di Stato, sezione
quinta, sentenza 6 febbraio 2013, n. 695).
Una delle pronunce costituzionali citate
ha dichiarato infondata una questione corrispondente a quella sollevata dal TAR
Campania. In quell’occasione il giudice a quo aveva contestato l’art. 15 della
legge n. 55 del 1990 (come modificato dall’art. 1 della già citata legge n. 16
del 1992), nella parte in cui disponeva che la decadenza di diritto da una
serie di cariche elettive (indicate nel medesimo articolo), conseguente a
sentenza di condanna passata in giudicato per determinati reati (pure ivi
previsti), operasse anche in relazione alle consultazioni elettorali che si
erano svolte prima dell’entrata in vigore della legge medesima. Nella sua
pronuncia questa Corte ha precisato che la condanna penale irrevocabile è un
«mero presupposto oggettivo cui è ricollegato un giudizio di "indegnità morale”
a ricoprire determinate cariche elettive: la condanna stessa viene, cioè,
configurata quale "requisito negativo” ai fini della capacità di assumere e di
mantenere le cariche medesime» (sentenza n. 118 del
1994).
Questa Corte ha, inoltre, sottolineato
che la diversa natura delle misure in questione rispetto agli effetti penali
della condanna risulta confermata dalla previsione (in quel caso dall’art. 15,
comma 4-sexies, della legge n. 55 del 1990) che la misura non si applica se è
concessa la riabilitazione, osservando che «[t]ale
statuizione sarebbe superflua, se si trattasse di un effetto penale, destinato
di per sé ad estinguersi con la riabilitazione (art. 178 cod. pen.): mentre
essa vale ad estendere l’effetto di rimozione, derivante dalla riabilitazione,
al di fuori dell’ambito degli effetti penali della condanna, e precisamente a
questa particolare causa di ineleggibilità» (sentenza n. 132 del
2001). Lo stesso effetto estintivo è ora espressamente previsto dall’art.
15, comma 3, del d.lgs. n. 235 del 2012.
In definitiva, il primo presupposto
argomentativo della questione sollevata dal TAR Campania, ossia la natura
sanzionatoria della misura, prevista dalla norma censurata, della sospensione
dalla carica, si rivela insussistente, dal momento che «[l]a misura in
questione, invece, risponde ad esigenze proprie della funzione amministrativa e
della pubblica amministrazione presso cui il soggetto colpito presta servizio»
(sentenza n. 206
del 1999) e, trattandosi di sospensione, costituisce «misura sicuramente
cautelare» (sentenza
n. 25 del 2002).
4.2.– Quanto alla asserita retroattività
dell’art. 11, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 235 del 2012, occorre, in
primo luogo, definire con precisione il contenuto della censura avanzata dal
giudice rimettente. Il TAR Campania ha dichiarato di considerare non
manifestamente infondata la questione di costituzionalità sollevata con il
quarto motivo di ricorso. Dalla prima parte dell’ordinanza di rimessione
risulta che il ricorrente nel giudizio a quo aveva contestato, nel quarto
motivo del suo ricorso, l’applicazione "retroattiva” (alla candidatura avvenuta
nel 2011, e dunque al mandato già in corso) di una nuova "causa ostativa” alla
permanenza in carica (la condanna per abuso d’ufficio), introdotta con il
d.lgs. n. 235 del 2012.
Nello sviluppare la propria
argomentazione il giudice a quo fa riferimento, in alcuni passaggi, non
all’applicazione della sospensione al mandato in corso, ma ad un altro tipo di
retroattività, cioè all’applicazione della nuova norma a un fatto illecito
precedente la legge. Questi passaggi sarebbero rilevanti se a tale applicazione
dovesse riconoscersi natura sanzionatoria – il che tuttavia è stato escluso – e
se, nel formulare la questione, si fosse fatto riferimento all’art. 25 Cost.,
cosa che non è avvenuta. Sicché la questione stessa va intesa nel senso che la
violazione dell’art. 51, primo comma, Cost. deriverebbe dall’applicazione della
norma censurata ad un mandato già in corso.
4.3.– Così definiti i contorni della
retroattività censurata dal TAR Campania, occorre ora verificare se
l’applicazione della nuova causa di sospensione ai mandati in corso produca un
sacrificio eccessivo del diritto di elettorato passivo.
4.3.1.– Secondo il giudice rimettente,
l’art. 51, primo comma, Cost., considerato unitamente all’art. 2 Cost.,
vieterebbe alla legge alla quale affida il compito di stabilire i requisiti
dell’elettorato passivo di introdurre sanzioni in via retroattiva: ciò in virtù
di una presunta "costituzionalizzazione” dell’art. 11 delle disposizioni
preliminari al codice civile nei casi di riserva di legge per la disciplina di
diritti fondamentali e, inoltre, per «l’inderogabilità assoluta del principio
di irretroattività nell’ambito di istituti e regimi in buona parte assimilabili
alle sanzioni penali».
Questo divieto di retroattività (nel
senso di divieto di allontanamento dell’eletto dal mandato assunto prima
dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 235 del 2012), ad avviso del giudice a
quo, potrebbe essere superato in caso di condanna definitiva, ma non in caso di
condanna non definitiva, data l’impossibilità di presumere – in questo secondo
caso – «una situazione di indegnità morale».
Ora, la tesi della "costituzionalizzazione”
del principio di irretroattività in tutti i casi in cui la Costituzione ponga
una riserva di legge per la disciplina di diritti inviolabili è infondata, dato
che, al di fuori dell’ambito di applicazione dell’art. 25, secondo comma, Cost.
– al quale, come si è detto, il giudice rimettente non ha fatto riferimento –
le leggi possono retroagire, rispettando «una serie di limiti che questa Corte
ha da tempo individuato e che attengono alla salvaguardia, tra l’altro, di
fondamentali valori di civiltà giuridica posti a tutela dei destinatari della
norma e dello stesso ordinamento, tra i quali vanno ricompresi il rispetto del
principio generale di ragionevolezza e di eguaglianza, la tutela
dell’affidamento legittimamente sorto nei soggetti quale principio connaturato
allo Stato di diritto e il rispetto delle funzioni costituzionalmente riservate
al potere giudiziario» (ex plurimis, sentenza n. 156 del
2007).
4.3.2.– La realtà è che, anche volendo
prescindere dalla questione se l’applicazione di una nuova causa ostativa al
mandato già in corso concreti un fenomeno di retroattività in senso proprio, il
TAR rimettente non spiega le ragioni per le quali la sospensione dell’eletto,
ai sensi della norma de qua, determinerebbe un sacrificio eccessivo del diritto
di elettorato passivo. Venuti meno i due argomenti utilizzati dal giudice a quo
per contestare la supposta retroattività della sospensione, la violazione
dell’art. 51, primo comma, Cost. resta sostanzialmente immotivata. Se è vero
che la condanna non definitiva non autorizza, in virtù dell’art. 27, secondo
comma, Cost. – che del resto non è stato richiamato come parametro – a
presumere accertata l’esistenza di «una situazione di indegnità morale», è
anche vero che la permanenza in carica di chi sia stato condannato anche in via
non definitiva per determinati reati che offendono la pubblica amministrazione
può comunque incidere sugli interessi costituzionali protetti dall’art. 97,
secondo comma, Cost., che affida al legislatore il compito di organizzare i
pubblici uffici in modo che siano garantiti il buon andamento e l’imparzialità
dell’amministrazione, e dall’art. 54, secondo comma, Cost., che impone ai
cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche «il dovere di adempierle con
disciplina ed onore».
Ben può quindi il legislatore, nel
disciplinare i requisiti per l’accesso e il mantenimento delle cariche che
comportano l’esercizio di quelle funzioni, ricercare un bilanciamento tra gli
interessi in gioco, ossia tra il diritto di elettorato passivo, da un lato, e
il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione, dall’altro; tanto più
che il dovere, fissato a garanzia di questo secondo interesse, di svolgere con
onore le funzioni pubbliche incombe precisamente sui destinatari della
protezione offerta dall’art. 51 Cost., vale a dire – per quanto qui rileva –
sugli eletti.
Pronunciandosi su misure dello stesso
tipo di quella prevista dalla norma censurata, questa Corte ha ritenuto che «il
bilanciamento dei valori coinvolti effettuato dal legislatore "non si appalesa
irragionevole, essendo esso fondato essenzialmente sul sospetto di inquinamento
o, quanto meno, di perdita dell’immagine degli apparati pubblici, che può derivare
dalla permanenza in carica del consigliere eletto, che abbia riportato una
condanna, anche se non definitiva, per i delitti indicati e sulla constatazione
del venir meno di un requisito soggettivo essenziale per la permanenza
dell’eletto nell’organo elettivo”» (sentenza n. 352 del
2008; si vedano anche le sentenze n. 118 del 2013,
n. 257 del 2010,
n. 25 del 2002,
n. 206 del 1999,
n. 141 del 1996).
Nell’esercizio della sua
discrezionalità, il legislatore ha ritenuto che una condanna per abuso
d’ufficio faccia sorgere l’esigenza cautelare di sospendere temporaneamente
l’eletto dalla carica, a tutela degli interessi appena indicati. Il TAR
Campania non spende argomenti per dimostrare la manifesta irragionevolezza del
bilanciamento legislativo. Anzi, nel respingere il quinto e il settimo motivo
di ricorso, il giudice rimettente ha espressamente negato che l’inclusione
dell’abuso d’ufficio fra i reati ostativi possa essere considerata
irragionevole o sproporzionata. Ciò che contesta è, come già visto,
l’applicazione della nuova causa ostativa – rappresentata da una condanna non
definitiva per abuso d’ufficio – ai mandati in corso.
Nemmeno sotto tale profilo, tuttavia, la
norma censurata può essere considerata frutto di un bilanciamento irragionevole
degli interessi in gioco, dal momento che anche l’applicazione immediata delle
nuove cause ostative in essa previste – a chi sia stato eletto prima della sua
entrata in vigore – costituisce ragionevole risposta all’esigenza alla quale la
normativa stessa tende a corrispondere. Di fronte a una grave situazione di
illegalità nella pubblica amministrazione, infatti, non è irragionevole
ritenere che una condanna (non definitiva) per determinati delitti (per quanto
qui interessa, contro la pubblica amministrazione) susciti l’esigenza cautelare
di sospendere temporaneamente il condannato dalla carica, per evitare un
"inquinamento” dell’amministrazione e per garantire «la "credibilità”
dell’amministrazione presso il pubblico, cioè il rapporto di fiducia dei
cittadini verso l’istituzione, che può rischiare di essere incrinato
dall’”ombra” gravante su di essa a causa dell’accusa da cui è colpita una
persona attraverso la quale l’istituzione stessa opera» (sentenza n. 206 del
1999). Tali esigenze sarebbero vanificate se l’applicazione delle norme in
questione dovesse essere riferita soltanto ai mandati successivi alla loro
entrata in vigore.
Non a caso l’applicazione immediata
delle cause ostative ai mandati in corso non rappresenta affatto una novità del
d.lgs. n. 235 del 2012, ma ha sempre caratterizzato le precedenti norme (sopra
citate) che apprestavano strumenti di tutela degli interessi protetti dall’art.
97, secondo comma, e dall’art. 54, secondo comma, Cost., a fronte del
pregiudizio che deriva alle istituzioni pubbliche dal coinvolgimento degli eletti
in vicende penali.
Come questa Corte ha già rilevato in
relazione alla normativa di cui all’art. 1 della legge n. 16 del 1992, «non
appare, invero, affatto irragionevole che questa operi con effetto immediato
anche in danno di chi sia stato legittimamente eletto prima della sua entrata
in vigore: costituisce, infatti, frutto di una scelta discrezionale del
legislatore certamente non irrazionale l’aver attribuito all’elemento della
condanna irrevocabile per determinati gravi delitti una rilevanza così intensa,
sul piano del giudizio di indegnità morale del soggetto, da esigere, al fine
del miglior perseguimento delle richiamate finalità di rilievo costituzionale
della legge in esame, l’incidenza negativa della disciplina medesima anche sul
mantenimento delle cariche elettive in corso al momento della sua entrata in
vigore» (sentenza
n. 118 del 1994).
Così come la condanna irrevocabile può
giustificare la decadenza dal mandato in corso, per le stesse ragioni la
condanna non definitiva può far sorgere l’esigenza cautelare di sospendere
temporaneamente l’eletto da tale mandato, sicché si deve concludere che la
scelta operata dal legislatore nell’esercizio della sua discrezionalità non ha superato
i confini di un ragionevole bilanciamento degli interessi costituzionali in
gioco.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 11, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 31
dicembre 2012, n. 235 (Testo unico delle disposizioni in materia di
incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo
conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi, a norma
dell’articolo 1, comma 63, della legge 6 novembre 2012, n. 190), in relazione
all’art. 10, comma 1, lettera c), del medesimo decreto legislativo, sollevata,
in riferimento agli artt. 2, 4, secondo comma, 51, primo comma, e 97, secondo
comma, della Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale per la
Campania con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della
Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 ottobre 2015.
F.to:
Alessandro CRISCUOLO, Presidente
Daria de PRETIS, Redattore
Gabriella Paola MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 19 novembre
2015.
Allegato:
Ordinanza letta
all'udienza del 20 ottobre 2015