SENTENZA N.
116
ANNO 2013
Commento alla decisione di
Nicola C. Salerno
La
Costituzione, le pensioni e l’equità
(per gentile concessione del Forum di Quaderni costituzionali)
REPUBBLICA
ITALIANA
IN NOME DEL
POPOLO ITALIANO
LA CORTE
COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Franco GALLO Presidente
- Luigi MAZZELLA Giudice
- Gaetano SILVESTRI "
- Sabino CASSESE "
- Giuseppe TESAURO "
- Paolo
Maria NAPOLITANO "
- Alessandro CRISCUOLO "
- Paolo GROSSI "
- Giorgio LATTANZI "
- Aldo CAROSI "
- Marta CARTABIA "
- Sergio MATTARELLA "
- Mario Rosario MORELLI "
- Giancarlo CORAGGIO "
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità
costituzionale dell’art. 18, comma 22-bis,
del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la
stabilizzazione finanziaria), convertito, con modificazioni, dalla legge 15
luglio 2011, n. 111, come modificato dall’articolo 24, comma 31-bis, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei
conti pubblici), convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre
2011, n. 214, promossi dalla Corte dei conti, sezione giurisdizionale
per la Regione Campania, con ordinanza del 20 luglio 2012, e dalla Corte dei
conti, sezione giurisdizionale per la Regione Lazio, con due ordinanze del 25
febbraio 2013, rispettivamente iscritte al n. 254 del registro ordinanze 2012
ed ai nn. 55 e 56 del registro ordinanze 2013 e pubblicate nella Gazzetta
Ufficiale della Repubblica n. 45, prima serie speciale, dell’anno 2012 e n.
12, prima serie speciale, dell’anno 2013.
Visti gli atti di costituzione di Bozzi Giuseppe ed
altri, dell’INPS, nella qualità di successore ex lege dell’INPDAP,
nonché gli atti di intervento del Gruppo Romano Giornalisti Pensionati e del
Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 7 maggio 2013 il
Giudice relatore Giuseppe Tesauro;
uditi gli avvocati Vincenzo Greco per il Gruppo
Romano Giornalisti Pensionati, Giovanni C. Sciacca per Bozzi Giuseppe ed altri,
Filippo Mangiapane per l’INPS, nella qualità di successore ex lege dell’INPDAP e
l’avvocato dello Stato Gabriella Palmieri per il Presidente del Consiglio dei
ministri.
Ritenuto in
fatto
1.–
La Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Campania, in
composizione monocratica, con ordinanza del 20 luglio 2012, iscritta al reg.
ord. n. 254 del 2012, ha sollevato, in riferimento agli articoli 2, 3, 36, 53,
42, terzo comma, e 97, primo comma, della Costituzione, questione di
legittimità costituzionale dell’articolo 18, comma 22-bis, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti
per la stabilizzazione finanziaria), convertito, con modificazioni, dalla legge
15 luglio 2011, n. 111.
1.1.–
Il rimettente premette che il ricorrente – magistrato Presidente della Corte
dei conti in quiescenza dal 21 dicembre 2007, titolare di pensione diretta di
importo superiore a euro 90.000,00 annui – ha chiesto il riconoscimento del
proprio diritto di percepire il trattamento pensionistico ordinario, privo
delle decurtazioni introdotte dall’art. 18, comma 22-bis, del d.l. 6 luglio n. 98 del 2011, convertito, con
modificazioni, dalla legge n. 111 del 2011, nonché la condanna
dell’Amministrazione ai conseguenti pagamenti. La Corte ricorda, inoltre, come
a sostegno del ricorso sia stata dedotta l’illegittimità costituzionale della
citata norma, per violazione degli artt. 2, 3, 24, 36, 41, 42, 53, 97, 100,
101, 108, 111 e 113 Cost.
1.2.–
In punto di rilevanza, il rimettente assume in primo luogo che il ricorso ha un
petitum separato e distinto dalla
questione di costituzionalità, sul quale è chiamato, in ragione della propria
competenza, a decidere, trattandosi di una domanda tesa ad ottenere il riconoscimento
del diritto a conservare il proprio trattamento pensionistico senza le
decurtazioni disposte dal citato comma 22-bis.
Inoltre, osserva che, laddove non si dubitasse della compatibilità
costituzionale della norma, la pretesa dovrebbe senz’altro essere dichiarata
infondata, in quanto le decurtazioni stipendiali censurate risultano fissate
direttamente ed inderogabilmente dalle «stringenti ed inequivoche disposizioni
di legge applicate doverosamente dall’amministrazione datrice di lavoro», senza
alcuna possibilità di interpretazioni alternative.
1.3.–
Ciò posto, il giudice a quo osserva
che la disposizione impugnata si colloca nel quadro di una serie di previsioni
finalizzate al contenimento della spesa pubblica ed alla stabilizzazione
finanziaria, in particolare in materia previdenziale, che impone ai pensionati
pubblici sacrifici di considerevole entità.
1.4.–
In primo luogo, secondo la Corte dei conti, la norma in questione si
configurerebbe come prestazione patrimoniale imposta, ai sensi dell’art. 23
Cost., nonché come prelievo forzoso di natura tributaria, non rispettoso,
tuttavia, dei principi di eguaglianza e ragionevolezza (art. 3 Cost.) correlati
a quello di capacità contributiva (art. 53 Cost.).
A
suo giudizio, infatti, l’imposizione del sacrificio economico individuale
avrebbe tutte le caratteristiche del prelievo tributario, perché realizzato
attraverso un atto autoritativo di carattere ablatorio, il cui gettito è
destinato al fabbisogno finanziario dello Stato sotto forma di risparmio di
spesa (richiama in proposito la sentenza di questa
Corte n. 11 del 1995).
Al
di là del nomen iuris utilizzato,
dunque, si tratterebbe di un prelievo forzoso di somme stipendiali, privo di
"sinallagmaticità” e destinato a copertura di fabbisogni finanziari
indifferenziati dello Stato apparato.
Il
rimettente osserva, tuttavia, che tale prestazione graverebbe soltanto su
«alcune categorie di pensionati, lasciando inspiegabilmente ed illogicamente
indenni tutte le altre categorie dei settori previdenziali privato ed autonomo:
categorie tutte caratterizzate dall’unitarietà riconducibile al principio
costituzionale di tutela dei pensionati». Non si tratterebbe di una mera
rideterminazione o "raffreddamento” dei livelli previdenziali pubblici, in
astratto possibile essendo acquisito il principio della possibilità di una
disciplina differenziata del rapporto previdenziale pubblico rispetto a quello
privato, ma di una vera e propria imposta, gravante non su tutti i pensionati,
ma esclusivamente su quelli pubblici.
Tale
disciplina si porrebbe in contrasto con il principio solidaristico di cui
all’art. 2 Cost., coordinato con i principi di eguaglianza, parità di
trattamento e capacità contributiva (artt. 3 e 53 Cost.).
Il
rimettente ricorda in proposito che la giurisprudenza di questa Corte, su
analoga questione relativa alla "manovra di bilancio” approntata con il
decreto-legge 19 settembre 1992, n. 384 (Misure urgenti in materia di previdenza, di sanità e di pubblico
impiego, nonché disposizioni fiscali), convertito, con modificazioni,
dalla legge 14 novembre 1992, n. 438 (ordinanze n. 341 del 2000
e n. 299 del
1999), aveva precisato che il sacrificio economico richiesto dal
provvedimento legislativo deve avere carattere eccezionale, transeunte, non
arbitrario e consentaneo allo scopo prefisso, sicchè non solo deve essere
limitato ad un ristretto periodo di tempo, ma deve anche essere razionalmente
ripartito fra categorie diverse di cittadini.
La
norma impugnata avrebbe violato, pertanto, i parametri costituzionali invocati
(artt. 3, 36 e 53 Cost.) non solo sotto il profilo della sproporzione ed
irrazionalità della misura, ma anche specificamente sotto il profilo della
disparità di trattamento, in quanto non sarebbero state colpite le altre
categorie di pensionati, pur se percettori di elevati trattamenti, e i
contribuenti in generale titolari degli stessi redditi.
Il
prelievo in questione, in definitiva, non solo non sarebbe idoneo a garantire
risparmi di spesa o introiti tali da realizzare significativamente l’obiettivo
di stabilizzazione della finanza pubblica, ma si presenterebbe come irrazionale
e discriminatorio, essendo diretto a colpire una limitata categoria di
soggetti, anzichè la collettività nel suo insieme, nel rispetto del principio
di proporzionalità, in violazione quindi sia del principio solidaristico, che
di quello di uguaglianza e di assoggettamento al prelievo fiscale in
proporzione alla capacità retributiva.
Richiamando,
poi, testualmente precedenti ordinanze di rimessione di altri giudici, il rimettente
afferma che il legislatore avrebbe «inspiegabilmente ed ingiustificatamente
aumentato gli squilibri, trascurando del tutto di colpire le ricchezze evase al
fisco e persino gli introiti derivanti da rendite ben conosciute (quali le
rendite catastali e finanziarie), per concentrarsi su una fascia specifica di
pensionati, colpevoli unicamente di appartenere al settore pubblico e di avere
redditi facilmente accertabili ed ancora più facilmente "attaccabili”».
1.5.–
La norma censurata infine, secondo il giudice a quo, si porrebbe anche in contrasto con gli artt. 42, terzo
comma, e 97, primo comma, Cost., in quanto realizzerebbe per via legislativa un
intervento ablatorio della proprietà, colpendo una determinata categoria di
soggetti, in assenza di previa valutazione degli interessi coinvolti e senza
che sia prevista la corresponsione di un’indennità di ristoro, in quanto,
«l’accurato esame degli interessi in gioco e la ponderata decisione della
misura e delle modalità del sacrificio secondo il principio costituzionale di
buon andamento (art. 97 Cost.) non può non valere anche per il
legislatore-amministratore».
2.–
È intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri,
concludendo per l’infondatezza della questione.
La
manovra di finanza pubblica oggi censurata sarebbe, a suo giudizio, intervenuta
in maniera non dissimile dalla manovra del 1993 (art. 7 del d.l. n. 384 del
1992, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 438 del 1992), rispetto
alla quale la Corte costituzionale aveva dichiarato analoghe questioni
manifestamente infondate (ordinanza n. 299
del 1990). In quelle occasioni questa Corte aveva affermato che norme di
tale natura non si ponevano in contrasto con l’art. 3 Cost., in quanto
intervenute «in un momento assai delicato per la vita economico-finanziaria del
paese».
Inoltre,
a sostegno dell’infondatezza della questione, l’Avvocatura dello Stato ricorda
altresì che anche la sentenza n. 223 del
2012 ha ribadito la possibilità dell’utilizzo necessario da parte del
legislatore di strumenti eccezionali in situazioni di difficoltà economica,
«nel difficile compito di contemperare il soddisfacimento degli interessi
finanziari e di garantire i servizi e la protezione di cui tutti i cittadini
necessitano».
Ciò
posto, in questo caso la norma impugnata non si porrebbe in contrasto con
l’art. 3 Cost., giacché si tratterebbe di un intervento che non limita la
platea dei soggetti passivi ai soli pensionati pubblici, ma si rivolge a tutti
i percettori di trattamenti pensionistici corrisposti da enti gestori di forme
di previdenza obbligatorie, e quindi anche ai già dipendenti del settore
privato ed alle gestioni pensionistiche dei lavoratori autonomi.
Inoltre,
secondo il Presidente del Consiglio dei ministri, anche in riferimento all’art.
53 Cost. l’intervento censurato sarebbe pienamente rispettoso dei criteri di
capacità contributiva e di progressività.
Infine,
viene contestata la questione sollevata con riferimento all’art. 42 Cost., in
quanto, trattandosi di materia tributaria, non sarebbe concepibile alcun
indennizzo come ristoro per un prelievo fiscale.
Da
ultimo, l’Avvocatura dello Stato rileva che l’impatto sulla finanza pubblica
della normativa censurata, alla luce delle relazioni tecniche presentate in
Parlamento nel corso dell’iter di
conversione del d.l. n. 98 del 2011, viene stimato in circa 26 milioni di euro
per anno.
3.–
Nel giudizio si è costituito l’INPS (Istituto Nazionale della Previdenza
Sociale), successore ex lege
dell’INPDAP (Istituto Nazionale di Previdenza e Assistenza per i Dipendenti
dell’Amministrazione Pubblica), ai sensi dell’art. 21 del decreto-legge 6
dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei
conti pubblici), convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre
2011, n. 214, eccependo in via pregiudiziale l’inammissibilità della questione
per carenza di giurisdizione del giudice rimettente.
Secondo
l’ente previdenziale, poiché il prelievo previsto dal citato art. 18, comma 22-bis, alla luce della costante
giurisprudenza costituzionale (sentenze n. 421 del 1995,
n. 11 del 1995,
n. 63 del 1990
e n. 146 del
1972) ha natura di prestazione patrimoniale imposta, la giurisdizione
sarebbe riservata in via esclusiva alle Commissioni tributarie (sentenza della
Corte di cassazione civile, sezioni unite, 27 ottobre 2011, n. 22381). La
circostanza secondo la quale il prelievo fiscale operato dal sostituto
d’imposta determinerebbe una materiale riduzione dell’importo erogato al
pensionato, non sarebbe infatti idonea all’individuazione della giurisdizione
in capo al Giudice delle pensioni, poiché il trattamento oggetto di prelievo
forzoso rimarrebbe integro «tal quale determinato dall’Ente previdenziale,
senza alcuna modificazione delle poste contabili già individuate».
3.1.–
Nel merito, la parte costituita ritiene la questione infondata, in primo luogo
con riferimento all’art. 3 Cost., in quanto la disposizione in esame
riguarderebbe l’intera platea dei titolari di trattamenti pensionistici, ivi
compresi quelli integrativi, senza l’asserita esclusione degli ordinamenti
previdenziali privato ed autonomo. Tale assunto sarebbe, poi, dimostrato dalle
modalità applicative seguite dall’INPDAP prima, dall’INPS e dagli enti gestori
di forme di previdenza obbligatoria, poi, i quali hanno emanato apposite
circolari al fine di regolare le modalità concrete per disporre il prelievo.
Neppure
sarebbe sussistente, secondo l’INPS, una discriminazione rispetto alla
generalità dei consociati, in quanto secondo la consolidata giurisprudenza di
questa Corte, la formulazione dell’art. 53 Cost. andrebbe valutata in termini
non assoluti, ma relativi, imponendo di interpretare il principio
dell’universalità dell’imposizione in necessario coordinamento con il principio
solidaristico e di uguaglianza di cui agli artt. 2 e 3 Cost., essendo ben
possibile l’introduzione, per singole categorie di cittadini, di specifici
tributi, purché nei limiti della ragionevolezza.
Infine,
quanto alla questione relativa alla violazione del principio della
espropriabilità della proprietà privata, salva corresponsione di un indennizzo,
ai sensi dell’art. 42, terzo comma, Cost., il dubbio sarebbe infondato, in
quanto la speciale ablazione della proprietà privata, ordinata al fine del
concorso dei consociati alle pubbliche spese di cui all’art. 53 Cost., non
prevede, né potrebbe prevedere, alcun indennizzo.
4.–
Con le due ordinanze, di identico tenore ed entrambe depositate in data 25
febbraio 2013, iscritte rispettivamente al registro ordinanze con i nn. 55 e 56
del 2013, la Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Lazio, ha
sollevato, in riferimento agli articoli 2, 3, 53, Cost., questioni di
legittimità costituzionale dell’art. 18, comma 22-bis, del d.l. n. 98 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla
legge n. 111 del 2011.
4.1.–
Il rimettente premette che i ricorrenti – tutti magistrati ordinari, magistrati
della Corte dei conti, magistrati militari titolari di pensione ordinaria
diretta, ovvero aventi causa da magistrati della Corte dei conti e da
magistrati amministrativi – hanno proposto ricorso avverso il trattamento
pensionistico loro attribuito a partire dal mese di agosto 2011, nella parte in
cui è assoggettato al "contributo di perequazione” previsto dal comma 22-bis dell’art. 18 del d.l. n. 98 del
2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 111 del 2011, come
reintrodotto dall’art. 2, comma l, del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138
(Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo
sviluppo), convertito, con modificazioni, dalla legge 14 settembre 2011, n.
148, nelle percentuali ivi stabilite, come risultanti dalle rispettive
certificazioni CUD per l’anno 2011.
Nell’ordinanza
iscritta al reg. ord. n. 55 del 2013, si afferma che i ricorrenti hanno
chiesto, altresì, la corresponsione della mancata rivalutazione automatica del
loro trattamento pensionistico in applicazione del comma 25 dell’art. 24 del
d.l. n. 201 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 214 del
2011.
Tutti
i ricorrenti hanno chiesto, dunque, la corresponsione del proprio trattamento
pensionistico senza assoggettamento al predetto "contributo di perequazione” e
con conseguente condanna alla restituzione di quanto trattenuto per tali
titoli, con rivalutazione monetaria e interessi sino al soddisfo.
4.2.–
In particolare, i ricorrenti hanno chiesto alla Corte dei conti, nel giudizio
di cui all’ordinanza iscritta al reg. ord. n. 55 del 2013, di rimettere alla
Corte costituzionale le questioni di costituzionalità: A) del comma 22-bis dell’art. 18. del d.l. n. 98 del
2011, per contrasto con gli artt. 2, 3, 53, 23 e 97 Cost.; B) del comma 25
dell’art. 24 del d.l. n. 20l del 2011 convertito, con modificazioni, dalla
legge n. 214 del 2011, per contrasto con gli artt. 3, 53, 97, 36 e 38 Cost.
Quanto
alla questione di legittimità costituzionale di cui al punto B), il giudice a quo, ancorché rilevante, la riteneva
manifestamente infondata con separato provvedimento.
4.3.– Nel giudizio di cui
all’ordinanza iscritta al reg. ord. n. 56 del 2013, i ricorrenti hanno chiesto
alla Corte dei conti, di rimettere alla Corte costituzionale le questioni di
legittimità costituzionale: A) del comma 22-bis
dell’art. 18 del d.l. n. 98 del 2011, per contrasto con gli artt. 2, 3, 53, 23
e 97 Cost.; B) dell’art. 2, commi l e 2, del d.l. n. 138 del 2011, convertito,
con modificazioni, dalla legge n. 148 del 2011; C) dell’art. l, commi l e 5,
della legge 6 luglio 2012, n. 96 (Norme in materia di riduzione dei contributi pubblici in favore dei
partiti e dei movimenti politici, nonché misure per garantire la trasparenza e
i controlli dei rendiconti dei medesimi. Delega al Governo per l’adozione di un
testo unico delle leggi concernenti il finanziamento dei partiti e dei
movimenti politici e per l’armonizzazione del regime relativo alle detrazioni
fiscali).
La
Corte riteneva irrilevante la questione sub
B) e manifestamente infondata quella sub
C).
4.4.–
Ciò posto, il giudice a quo – dopo
aver osservato, in punto di rilevanza, di trovarsi nell’impossibilità di poter
definire il giudizio indipendentemente dalla risoluzione della questione di
legittimità costituzionale – in ordine alla specifica eccezione sollevata dalla
resistente INPS, quale successore ex lege
dell’INPDAP, afferma la propria giurisdizione sulle domande avanzate.
Secondo
il rimettente, la giurisdizione della Corte dei conti in materia di pensioni ha
carattere esclusivo, in quanto affidata al criterio di collegamento costituito
dalla materia. In essa sono, dunque, comprese tutte le controversie in cui il
rapporto pensionistico costituisca elemento identificativo del petitum sostanziale ovvero sia comunque
in questione la misura della prestazione previdenziale.
La
circostanza che il contributo di perequazione sia previsto da una norma "di
natura tributaria” non trasformerebbe il rapporto tra enti gestori di forme di
previdenza obbligatorie e beneficiari dei relativi trattamenti pensionistici in
un rapporto tributario.
Nella fattispecie tale rapporto, al quale è estranea
l’Amministrazione finanziaria – coerentemente non evocata in giudizio – non
riguarderebbe una contestazione diretta della debenza all’Erario della somma
trattenuta, ovvero un rapporto tributario tra contribuente ed Amministrazione.
Le controversie relative all’indebito pagamento dei tributi seguirebbero,
infatti, la regola della devoluzione alla giurisdizione speciale del giudice
tributario soltanto allorchè si debba impugnare uno degli atti previsti
dall’art. 19 del decreto legislativo 31 dicembre
1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega
al Governo contenuta nell’art. 30
della legge 30 dicembre 1991, n. 413) e il convenuto in senso
formale sia uno dei soggetti indicati nell’art. 10 di tale decreto legislativo.
Quando la controversia si svolga tra due soggetti privati in assenza di un
provvedimento impugnabile soltanto dinanzi al giudice tributario, il giudice
ordinario, quindi, si riapproprierebbe della giurisdizione, non rilevando che
la composizione della lite necessiti della interpretazione di una norma
tributaria.
4.5.–
Quanto alle questioni sub A), il
rimettente, con ordinanze identiche quanto a motivazione, premette che questa
Corte ha espressamente riconosciuto la natura tributaria della misura in
questione. In particolare, viene ricordato che la sentenza n. 241 del
2012 ha affermato che il "contributo di perequazione” di cui comma 22-bis dell’art. 18 del d.l. n. 98 del 2011
«ha natura certamente tributaria, in quanto costituisce un prelievo analogo a quello
effettuato sul trattamento economico complessivo dei dipendenti pubblici […]
nella parte dichiarata illegittima da questa Corte con la sentenza n. 223 del
2012 e la cui natura tributaria è stata espressamente riconosciuta dalla
medesima sentenza». La norma impugnata, infatti, integrerebbe una decurtazione
patrimoniale definitiva del trattamento pensionistico, con acquisizione al
bilancio statale del relativo ammontare, che presenta tutti i requisiti
richiesti dalla giurisprudenza della Corte per caratterizzare il prelievo come
tributario, ovvero, indipendentemente dal nomen
iuris attribuitole dal legislatore, quelli di un prelievo coattivo
finalizzato al concorso delle pubbliche spese, posto a carico di un soggetto
passivo in base ad uno specifico indice di capacità contributiva che deve
esprimere l’idoneità di tale soggetto all’obbligazione tributaria.
Il
giudice a quo, inoltre, dopo aver
richiamato i principi enucleati nella sentenza n. 223 del
2012, assume che l’impugnato art. 18, comma 22-bis, del d.l. n. 98 del 2011 si pone in contrasto con gli articoli
3 e 53 Cost.
In primo
luogo, infatti, a parità di reddito con la categoria dei lavoratori (pubblici o
privati), il prelievo sarebbe ingiustificatamente posto a carico della sola
categoria dei pensionati degli enti gestori di forme di previdenza
obbligatoria, con conseguente irragionevole limitazione della platea dei
soggetti passivi. Il legislatore, affrontando l’eccezionale situazione
economica avrebbe utilizzato uno strumento eccezionale, senza tuttavia
garantire il rispetto dei principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale
e, in particolare, del principio di uguaglianza (come specificato dalla citata sentenza n. 223 del
2012, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 9,
comma 2, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, recante «Misure urgenti in
materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica»,
convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122).
Peraltro,
la norma censurata si porrebbe in contrasto con gli articoli artt. 2, 3 e 53
Cost. anche in quanto lo speciale prelievo di solidarietà si imporrebbe nei
confronti dei soli magistrati in pensione, come conseguenza indotta dalla
dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’analogo prelievo scrutinato
dalla sentenza
n. 223 del 2012. Conseguentemente, il principio di uguaglianza in relazione
alla capacità contributiva di cui agli artt. 3 e 53 Cost. sarebbe ulteriormente
vulnerato, nella specie, in quanto la suddetta categoria di pensionati verrebbe
«colpita in misura maggiore rispetto ai titolari di altri redditi e, più
specificamente, di redditi da lavoro dipendente» (in analogia con quanto deciso
dalla sentenza
n. 119 del 1981).
La
Corte rimettente, inoltre, assume quale ulteriore motivo di censura anche la
stessa entità del contributo di perequazione, posto in comparazione con quello
previsto dall’art. 2, comma 2, del decreto-legge n. 138 del 2011, convertito,
con modificazioni, dalla legge n. 148 del 2011. Sarebbe, infatti, irragionevole
ed ingiustificato che – con riferimento a interventi di solidarietà connotati
da sostanziale identità di ratio – i contribuenti
titolari di un reddito complessivo superiore a 300.000 euro siano tenuti al
versamento di un contributo di solidarietà del 3% sulla parte di reddito che
eccede il predetto importo, qualunque siano le componenti del loro reddito
complessivo, compresi i redditi pensionistici, mentre i ricorrenti siano tenuti
(per far fronte alla medesima eccezionale situazione economica) ad un prelievo
maggiore. Sintomatico sarebbe peraltro che, oltre la soglia di reddito di
300.000 euro lordi annui, a parità di reddito, l’una categoria (tendenzialmente
universale) subisce un’imposizione del 3%, l’altra (circoscritta ai soli
pensionati titolari di trattamenti di quiescenza corrisposti da enti gestori di
forme di previdenza obbligatoria) un’imposizione del 15%, in violazione dei
canoni costituzionali dell’eguaglianza e della ragionevolezza stabiliti
dall’art. 3 Cost., nonché del canone della capacità contributiva e del criterio
di progressività delle imposte sanciti dall’art. 53 Cost.
Secondo
la Corte dei conti, quindi, qualora la norma impugnata non venisse espunta
dall’ordinamento giuridico, determinerebbe un ulteriore profilo di
irrazionalità complessiva del sistema delle imposte speciali, inducendo un
correlato irragionevole effetto discriminatorio, tenuto conto che lo stesso
contributo di solidarietà di cui citato art. 2, comma 2, del d.l. n. 138 del
2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 148 del 2011, non si
applica sui redditi di cui all’articolo 9, comma 2, del d.l. n. 78 del 2010,
con conseguente «irragionevole ed arbitrario disallineamento normativo
derivante dall’asimmetricità nel meccanismo impositivo del contributo di
solidarietà».
5.–
Anche in tali giudizi è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri,
ribadendo le argomentazioni svolte nell’altro giudizio, in particolare con
riferimento alla legittimità di manovre di bilancio poste in essere «in un
momento assai delicato per la vita economico-finanziaria del paese» ed alla
conseguente infondatezza delle questioni, non trattandosi di un intervento che
limita la platea dei soggetti passivi ai soli pensionati pubblici, in quanto si
rivolge a tutti i percettori di trattamenti pensionistici corrisposti da enti
gestori di forme di previdenza obbligatorie. Non rileverebbe, infatti, la qualificazione
pubblicistica o privatistica del rapporto di lavoro, ma unicamente la natura
del trattamento, come sarebbe dimostrato, peraltro, dalla circolare INPS n. 109
del 2011, la quale espressamente dispone che, ai fini dell’individuazione dei
soggetti per i quali opera il contributo, devono essere presi in considerazione
tutti i trattamenti pensionistici obbligatori e i trattamenti pensionistici
integrativi e complementari, sia erogati dall’INPS che da enti diversi
dall’INPS.
Inoltre,
secondo il Presidente del Consiglio dei ministri, anche in riferimento all’art.
53 Cost. l’intervento censurato sarebbe pienamente rispettoso dei criteri di
capacità contributiva e di progressività.
6.–
Anche in questi giudizi si è costituito l’INPS, con atto di tenore identico a
quello relativo al giudizio iscritto al reg. ord. n. 254 del 2012.
7.–
Nel giudizio iscritto al reg. ord. n. 55 del 2013, si sono costituite le parti
private ricorrenti nel giudizio a quo,
che hanno ripercorso pedissequamente le motivazioni dell’ordinanza di
rimessione, sostenendo che, alla luce della natura di prestazione imposta del
prelievo, la norma censurata sarebbe illegittima perché in contrasto con il
principio di uguaglianza tributaria e di capacità contributiva nonché con il
principio solidaristico, essendo una misura che colpirebbe soltanto la
categoria dei pensionati, anche in considerazione dell’intervenuta pronuncia di
illegittimità costituzionale relativa al contributo di cui all’art. 9, comma 2,
del d.l. n. 78 del 2010. A giudizio dei ricorrenti, le motivazioni adottate
dalla Corte con riferimento a quella norma sarebbero applicabili anche al caso
di specie, tenuto conto della pacifica "natura di retribuzione differita” da
attribuire alle pensioni (citano in proposito la sentenza n. 30 del
2004).
8.–
Nel medesimo giudizio è intervenuto il Gruppo Romano Giornalisti Pensionati, il
quale, premesso di essere un’associazione, senza fini di lucro, che intende
tutelare i suoi circa 300 soci che hanno subito le decurtazioni pensionistiche,
tramite l’INPGI, fra i quali 4 dei 12 che compongono l’attuale consiglio
direttivo, e di poter essere dunque annoverato fra gli enti esponenziali di
interessi diffusi, conclude per l’accoglimento delle questioni, precisando,
quanto all’ordinanza n. 254 del 2012, che il
tertium comparationis non potrebbe essere individuato nei pensionato
privati, alla luce del tenore letterale della disposizione.
Considerato
in diritto
1.–
Sono sottoposte all’esame della Corte questioni di legittimità costituzionale
dell’articolo 18, comma 22-bis, del
decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione
finanziaria), convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111,
nel testo successivamente modificato dall’articolo 24, comma 31-bis,
del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il
consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, dalla
legge 22 dicembre 2011, n. 214, sollevate dalla Corte dei conti, sezione
giurisdizionale per la Regione Campania e per la Regione Lazio, con tre
ordinanze depositate rispettivamente il 20 luglio 2012 ed il 22 febbraio 2013,
iscritte al reg. ord. n. 254 del 2012 e nn. 55 e 56 del 203.
2.–
Secondo la Corte dei conti, sezione giurisdizionale della Campania (ordinanza
iscritta al reg. ord. n. 254 del 2012), la norma censurata, disponendo che, a
decorrere dal 1° agosto 2011 e fino al 31 dicembre 2014, i trattamenti
pensionistici corrisposti da enti gestori di forme di previdenza obbligatorie,
i cui importi complessivamente superino 90.000 euro lordi annui, sono
assoggettati ad un contributo di perequazione pari al 5 per cento della parte
eccedente il predetto importo fino a 150.000 euro, nonché pari al 10 per cento
per la parte eccedente 150.000 euro e al 15 per cento per la parte eccedente
200.000 euro, si porrebbe in contrasto con gli articoli 2, 3, 36 e 53, della
Costituzione in quanto tale prelievo, avendo natura tributaria – perché
realizzato attraverso un atto autoritativo di carattere ablatorio, con
destinazione del gettito al fabbisogno finanziario dello Stato –, sarebbe
operato in violazione dei principi di eguaglianza e ragionevolezza, correlati a
quello di capacità contributiva. L’intervento censurato, in primo luogo,
colpirebbe la sola categoria dei pensionati pubblici, «lasciando
inspiegabilmente ed illogicamente indenni tutte le altre categorie dei settori
previdenziali privato ed autonomo: categorie tutte caratterizzate
dall’unitarietà riconducibile al principio costituzionale di tutela dei
pensionati»; in secondo luogo, analoga
misura non sarebbe prevista per i contribuenti in generale, titolari degli
stessi redditi.
A
giudizio della Corte campana, poi, la disciplina in esame recherebbe vulnus anche agli artt. 42, terzo comma,
e 97, primo comma, Cost., poichè realizzerebbe per via legislativa un
intervento ablatorio della proprietà, colpendo una determinata categoria di
soggetti, in assenza di previa valutazione degli interessi coinvolti e senza
che sia prevista la corresponsione di un’indennità di ristoro, in quanto
«l’accurato esame degli interessi in gioco e la ponderata decisione della
misura e delle modalità del sacrificio secondo il principio costituzionale di buon
andamento (art. 97 Cost.) non può non valere anche per il
legislatore-amministratore».
2.1.–
Le ordinanze iscritte al reg. ord. nn. 55 e 56 del 2013, di identico tenore ed
entrambe emesse dalla Corte dei conti, sezione giurisdizionale del Lazio, assumono
che la norma impugnata violerebbe gli artt. 2, 3 e 53 Cost., poichè, come
precisato anche dalla sentenza n. 241 del
2012 di questa Corte, pur avendo il «contributo di perequazione» natura
«certamente tributaria, in quanto costituisce un prelievo analogo a quello
effettuato sul trattamento economico complessivo dei dipendenti pubblici […]
nella parte dichiarata illegittima dalla Corte con la sentenza n. 223 del
2012», e pur essendo stato adottato in una eccezionale situazione
economica, non garantirebbe il rispetto dei principi fondamentali di
uguaglianza a parità di reddito con la categoria dei lavoratori (pubblici o privati),
essendo ingiustificatamente posto a carico della sola categoria dei pensionati
degli enti gestori di forme di previdenza obbligatoria, con conseguente
irragionevole limitazione della platea dei soggetti passivi.
Il
contributo in questione sarebbe stato adottato, poi, in violazione del
principio di uguaglianza in relazione alla capacità contributiva, perché
imposto nei confronti dei soli magistrati in pensione, categoria «colpita in
misura maggiore rispetto ai titolari di altri redditi e, più specificamente, di
redditi da lavoro dipendente», come conseguenza indotta dalla dichiarazione di
illegittimità costituzionale dell’analogo prelievo dichiarato illegittimo dalla
sentenza n. 223
del 2012.
Inoltre,
posto in comparazione con il contributo previsto dall’art. 2, comma 2, del
decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138 (Ulteriori misure urgenti per la
stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo), convertito, con modificazioni,
dalla legge 14 settembre 2011, n. 148, il prelievo sarebbe palesemente
irragionevole ed ingiustificato, perché – con riferimento a interventi di
solidarietà connotati da sostanziale identità di ratio – i contribuenti titolari di un reddito complessivo superiore
a 300.000 euro sarebbero tenuti al versamento di un contributo di solidarietà
del 3% sulla parte di reddito che eccede il predetto importo, qualunque siano
le componenti del loro reddito complessivo, compresi redditi pensionistici,
mentre i ricorrenti nei giudizi principali, sarebbero tenuti (per far fronte
alla medesima eccezionale situazione economica) ad un prelievo maggiore, in
violazione non solo dei canoni costituzionali dell’eguaglianza e della
ragionevolezza, ma anche di quelli della capacità contributiva e del criterio
di progressività delle imposte.
Infine,
la disposizione in esame determinerebbe, a giudizio dei rimettenti, un
irragionevole effetto discriminatorio, in quanto lo stesso contributo di
solidarietà di cui al citato art. 2, comma 2, del d.l. n. 138 del 2011, non
trova applicazione sui redditi di cui all’articolo 9, comma 2, del
decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di
stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito, con
modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, con conseguente
«irragionevole ed arbitrario disallineamento normativo derivante
dall’asimmetricità nel meccanismo impositivo del contributo di solidarietà».
3.–
Tutte le ordinanze hanno ad oggetto la stessa norma, censurata con
argomentazioni in larga misura coincidenti, e, quindi, va disposta la riunione
dei giudizi, ai fini di un’unica trattazione e di un’unica pronuncia.
4.–
Preliminarmente, va confermata l’ordinanza letta nella
pubblica udienza del 7 maggio 2013, che ha dichiarato inammissibile
l’intervento spiegato nel giudizio iscritto al reg. ord. n. 55 del 2013 dal
Gruppo Romano Giornalisti Pensionati. L’intervento di soggetti estranei al
giudizio principale è ammissibile soltanto per i terzi titolari di un interesse
qualificato, inerente in modo diretto e immediato al rapporto sostanziale
dedotto in giudizio e non semplicemente regolato, al pari di ogni altro, dalla
norma o dalle norme oggetto di censura (ex
plurimis: ordinanza
letta all’udienza del 23 ottobre 2012, confermata con la sentenza n. 272 del
2012; ordinanza
letta all’udienza del 23 marzo 2010, confermata con la sentenza n. 138 del
2010; ordinanza
letta all’udienza del 31 marzo 2009, confermata con la sentenza n. 151 del
2009; sentenze n. 94 del 2009,
n. 96 del 2008
e n. 245 del
2007).
Nel
giudizio, da cui traggono origine le questioni di legittimità costituzionale, i
rapporti sostanziali dedotti in causa riguardano profili che possono riguardare
le posizioni previdenziali dei soci dell’ente intervenuto, ma non concernono
direttamente prerogative o diritti dei medesimi, con conseguente
inammissibilità dell’intervento.
5.–
Ancora in via preliminare, va respinta l’eccezione, sollevata dall’INPS, di
inammissibilità della questione, sotto il profilo che la giurisdizione
spetterebbe non al rimettente, ma al giudice tributario.
In
considerazione dell’autonomia del giudizio incidentale di costituzionalità
rispetto a quello principale, questa Corte ha costantemente affermato che il
difetto di giurisdizione può rilevare soltanto nei casi in cui appaia
macroscopico, così che nessun dubbio possa aversi sulla sua sussistenza; non
anche quando il rimettente abbia motivato in maniera non implausibile in ordine
alla sua giurisdizione (da ultimo sentenze n. 279 del 2012
e n. 241 del
2008). Nella specie, i rimettenti, in particolare nelle ordinanze n. 55 e
n. 56 del 2013, sulla specifica eccezione sollevata dalla parte costituita in
quel giudizio, hanno affermato la propria giurisdizione sulla base di
motivazioni del tutto plausibili. A loro giudizio, la natura tributaria della
norma che prevede il contributo di perequazione non trasforma il rapporto tra
enti gestori di forme di previdenza obbligatorie e beneficiari dei relativi
trattamenti pensionistici in un rapporto tributario, in quanto la devoluzione
alla giurisdizione speciale del giudice tributario presuppone che sia impugnato
uno degli atti previsti dall’art. 19 del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo
tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell’art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413)
e che il convenuto in senso formale sia uno dei soggetti indicati nell’art. 10
di tale decreto legislativo.
A
fronte di siffatta espressa statuizione, il sindacato di questa Corte non può
che arrestarsi, attesa la non implausibilità di una simile motivazione,
peraltro in linea con i principi espressi dalle sezioni unite della Corte di
cassazione, in sede di regolamento di giurisdizione, richiamati dalle ordinanze
di rimessione.
6.–
La questione sollevata in riferimento agli articoli 3 e 53 Cost. è fondata.
7.–
La norma censurata si inserisce nell’ambito del d.l. n. 98 del 2011, recante
disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria, emanato nel quadro di
una più articolata manovra di stabilizzazione che ha avuto inizio con il d.l.
n. 78 del 2010, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 122 del 2010, recante
misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività
economica, sviluppatasi in seguito attraverso altri interventi, contenuti nel
d.l. n. 138 del 2011. In tali manovre sono state contemplate, per quanto
attiene specificamente alle situazioni evocate dalle ordinanze in esame, misure
dirette a perseguire un generale "raffreddamento” delle dinamiche retributive
del pubblico impiego, oltre a interventi temporanei di riduzione delle
retribuzioni e ad interventi "di solidarietà”, variamente articolati, quanto a
diverse categorie di cittadini, posti a carico sia del personale dipendente
dalle pubbliche amministrazioni, sia della generalità di cittadini.
Per quanto qui interessa, con riferimento alla norma censurata, questa Corte ha ricostruito la portata dell’attuale formulazione e dell’attuale vigenza della disposizione. La legge 14 settembre 2011, n. 148, nel non convertire in legge l’originaria formulazione del comma 1 dell’art. 2 del d.l. n. 138 del 2011 (che aveva abrogato il comma 22-bis dell’art. 18 del d.l. n. 98 del 2011), ha sostituito, come già osservato nella sentenza n. 241 del 2012, il comma non convertito con una disposizione che si è limitata a riaffermare la perdurante efficacia del comma 22-bis dell’art. 18 del d.l. n. 98 del 2011 («le disposizioni di cui agli articoli […] 18, comma 22-bis, del decreto-legge 6 luglio 2011 n. 98, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111, continuano ad applicarsi nei termini ivi previsti rispettivamente dal 1° gennaio 2011 al 31 dicembre 2013 e dal 1° agosto 2011 al 31 dicembre 2014»). Conseguentemente, con la mancata conversione, la stessa abrogazione è venuta meno, con effetto retroattivo, ai sensi dell’art. 77, terzo comma, Cost., cosí da determinare la reviviscenza del comma 22-bis abrogato dal decreto non convertito.
7.1.–
Va altresì osservato che, alla luce del chiaro tenore letterale, la
disposizione trova applicazione, in relazione alle erogazioni di trattamenti
pensionistici obbligatoria, sia in favore del personale del pubblico impiego,
sia in relazione a tutti gli altri trattamenti corrisposti da enti gestori di
forme di previdenza obbligatori, ivi incluse le forme pensionistiche che garantiscono
prestazioni in aggiunta o ad integrazione del trattamento pensionistico
obbligatorio (comprese quelle di cui al decreto legislativo 16 settembre 1996,
n. 563, recante «Attuazione della delega conferita dall’articolo 2, comma 23,
lettera b), della legge 8 agosto 1995, n. 335, in materia di trattamenti
pensionistici, erogati dalle forme pensionistiche diverse da quelle
dell’assicurazione generale obbligatoria, del personale degli enti che svolgono
le loro attività nelle materie di cui all’art. 1 del D.Lgs.C.P.S. 17 luglio
1947, n. 691», al decreto legislativo 20 novembre 1990, n. 357, recante
«Disposizioni sulla previdenza degli enti pubblici creditizi», al decreto
legislativo 5 dicembre 2005, n. 252, recante «Disciplina delle forme
pensionistiche complementari»), nonché i trattamenti che assicurano prestazioni
definite dei dipendenti delle regioni a statuto speciale e degli enti di cui
alla legge 20 marzo 1975, n. 70 (Disposizioni sul riordinamento degli enti
pubblici e del rapporto di lavoro del personale dipendente), e successive
modificazioni.
7.2.–
Questa Corte ha già espressamente qualificato l’intervento di perequazione in
questione come avente natura tributaria, non solo allorché si è occupata,
dichiarandone l’illegittimità costituzionale, dell’analogo intervento di cui
all’art. 9, comma 2 del decreto-legge n. 78 del 2010 (sentenza n. 223 del
2012), ma anche e soprattutto allorchè ha esaminato la stessa norma oggi
impugnata, con la citata sentenza n. 241 del
2012. In tale pronuncia è stato affermato che «il contributo oggetto di
censura è previsto a carico dei trattamenti pensionistici corrisposti da enti
gestori di forme di previdenza obbligatorie ed ha natura certamente tributaria,
in quanto costituisce un prelievo analogo a quello effettuato sul trattamento
economico complessivo dei dipendenti pubblici (sopra descritto al punto 7.3.)
previsto dallo stesso comma 1 nella parte dichiarata illegittima da questa
Corte con la suddetta sentenza n. 223 del
2012 e la cui natura tributaria è stata espressamente riconosciuta dalla
medesima sentenza. La norma impugnata, infatti, integra una decurtazione
patrimoniale definitiva del trattamento pensionistico, con acquisizione al
bilancio statale del relativo ammontare, che presenta tutti i requisiti
richiesti dalla giurisprudenza di questa Corte per caratterizzare il prelievo
come tributario (ex plurimis,
sentenze n. 223
del 2012; n.
141 del 2009; n.
335, n. 102
e n. 64 del 2008;
n. 334 del 2006;
n. 73 del 2005)».
Nella
specie, la Corte ribadisce la natura tributaria della norma impugnata, e pertanto
la correttezza della premessa interpretativa che ha condotto i rimettenti
ad impugnare la norma per violazione
degli artt. 3 e 53 Cost.
7.3.–
Le principali censure dei rimettenti individuano nella misura in questione un
intervento impositivo irragionevole e discriminatorio ai danni di una sola
categoria di cittadini. L’intervento riguarda, infatti, i soli pensionati,
senza garantire il rispetto dei principi fondamentali di uguaglianza a parità
di reddito, attraverso una irragionevole limitazione della platea dei soggetti
passivi, divenuta peraltro ancora più evidente, in conseguenza della
dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’analogo prelievo di cui al
comma 2 dell’art. 9 del d.l. n. 78 del 2010 (sentenza n. 223 del
2012).
Così
correttamente individuato il rapporto di comparazione fra soggetti titolari di
trattamenti pensionistici erogati da enti gestori di forme di previdenza
obbligatorie e tutti gli altri titolari di redditi, anche e non solo da lavoro
dipendente, come reso palese nelle ordinanze nn. 54 e 55 del 2013, la
questione, come con la pronuncia n. 223 del 2012, va scrutinata in riferimento
al contrasto con il principio della "universalità della imposizione” ed alla
irragionevolezza della sua deroga, avendo riguardo, quindi, non tanto alla
disparità di trattamento fra dipendenti o fra dipendenti e pensionati o fra
pensionati e lavoratori autonomi od imprenditori, quanto piuttosto a quella fra
cittadini.
Va
infatti, al riguardo, precisato che i redditi derivanti dai trattamenti
pensionistici non hanno, per questa loro origine, una natura diversa e minoris generis rispetto agli altri
redditi presi a riferimento, ai fini dell’osservanza
dell’art. 53 Cost., il quale non consente trattamenti in pejus di determinate categorie di redditi da lavoro.
Questa Corte ha, anzi, sottolineato (sentenze
n.
30 del 2004, n.
409 del 1995, n.
96 del 1991) la particolare tutela che il nostro ordinamento riconosce ai
trattamenti pensionistici, che costituiscono, nei diversi sistemi che la legislazione
contempla, il perfezionamento della fattispecie previdenziale conseguente ai
requisiti anagrafici e contributivi richiesti.
A
fronte di un analogo fondamento impositivo, dettato dalla necessità di reperire
risorse per la stabilizzazione finanziaria, il legislatore ha scelto di
trattare diversamente i redditi dei titolari di trattamenti pensionistici: il
contributo di solidarietà si applica su soglie inferiori e con aliquote
superiori, mentre per tutti gli altri cittadini la misura è ai redditi oltre
300.000 euro lordi
annui, con un’aliquota del 3 per cento, salva in questo caso
la deducibilità dal reddito.
La
giurisprudenza di questa Corte ha precisato che «la Costituzione non impone
affatto una tassazione fiscale uniforme, con criteri assolutamente identici e
proporzionali per tutte le tipologie di imposizione tributaria; ma esige invece
un indefettibile raccordo con la capacità contributiva, in un quadro di sistema
informato a criteri di progressività, come svolgimento ulteriore, nello
specifico campo tributario, del principio di eguaglianza, collegato al compito
di rimozione degli ostacoli economico-sociali esistenti di fatto alla libertà
ed eguaglianza dei cittadini-persone umane, in spirito di solidarietà politica,
economica e sociale (artt. 2 e 3 della Costituzione)» (sentenza n. 341 del
2000). Il controllo della Corte in ordine alla lesione dei principi di cui
all’art. 53 Cost., come specificazione del fondamentale principio di
uguaglianza di cui all’art. 3 Cost., non può, quindi, che essere ricondotto ad
un «giudizio sull’uso ragionevole, o meno, che il legislatore stesso abbia
fatto dei suoi poteri discrezionali in materia tributaria, al fine di
verificare la coerenza interna della struttura dell’imposta con il suo
presupposto economico, come pure la non arbitrarietà dell’entità
dell’imposizione» (sentenza n. 111 del
1997).
In relazione
agli interventi di stabilizzazione della finanza pubblica, nel cui contesto si
colloca la disposizione in esame, questa Corte ha evidenziato la sostanziale
coincidenza dei prelievi tributari posti in comparazione, ritenendo
irragionevole il diverso trattamento fra dipendenti pubblici e contribuenti in
generale (sentenza
n. 223 del 2012).
Anche
in questo caso, è necessario analogamente rilevare l’identità di ratio della norma oggi censurata
rispetto sia all’analoga disposizione già dichiarata illegittima, sia al
contributo di solidarietà (l’art. 2 del d.l. n. 138 del 2011) del 3 per cento
sui redditi annui superiori a 300.000 euro, quest’ultimo assunto anche quale tertium comparationis.
Al
fine di reperire risorse per la stabilizzazione finanziaria, il legislatore ha
imposto ai soli titolari di trattamenti pensionistici, per la medesima
finalità, l’ulteriore speciale prelievo tributario oggetto di censura,
attraverso una ingiustificata limitazione della platea dei soggetti passivi.
Va
pertanto ribadito, anche questa volta, quanto già affermato nella citata sentenza n. 223 del
2012, e cioè che tale sostanziale identità di ratio dei differenti interventi "di solidarietà”, determina un
giudizio di irragionevolezza ed arbitrarietà del diverso trattamento riservato
alla categoria colpita, «foriero peraltro di un risultato di bilancio che
avrebbe potuto essere ben diverso e più favorevole per lo Stato, laddove il
legislatore avesse rispettato i principi di eguaglianza dei cittadini e di
solidarietà economica, anche modulando diversamente un "universale” intervento
impositivo». Se da un lato l’eccezionalità della situazione economica che lo
Stato deve affrontare è suscettibile di consentire il ricorso a strumenti
eccezionali, nel difficile compito di contemperare il soddisfacimento degli
interessi finanziari e di garantire i servizi e la protezione di cui tutti
cittadini necessitano, dall’altro ciò non può e non deve determinare ancora una
volta un’obliterazione dei fondamentali canoni di uguaglianza, sui quali si
fonda l’ordinamento costituzionale.
Nel
caso di specie, peraltro, il giudizio di irragionevolezza dell’intervento
settoriale appare ancor più palese, laddove si consideri che la giurisprudenza
della Corte ha ritenuto che il trattamento pensionistico ordinario ha natura di
retribuzione differita (fra le altre sentenza n. 30 del
2004, ordinanza
n. 166 del 2006); sicché il maggior prelievo tributario rispetto ad altre
categorie risulta con più evidenza discriminatorio, venendo esso a gravare su
redditi ormai consolidati nel loro ammontare, collegati a prestazioni
lavorative già rese da cittadini che hanno esaurito la loro vita lavorativa,
rispetto ai quali non risulta più possibile neppure ridisegnare sul piano
sinallagmatico il rapporto di lavoro.
Va,
quindi, pronunciata l’illegittimità costituzionale dell’art. 18, comma 22-bis, del d.l. n. 98 del 2011,
convertito, con modificazioni, dalla legge n. 111 del 2011, come modificato
dall’art. 24, comma 31-bis, del d.l.
n. 201 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 214 del 2011.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti
i giudizi,
dichiara l’illegittimità costituzionale
dell’articolo 18, comma 22-bis, del
decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione
finanziaria), convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n.
111, come modificato dall’articolo 24, comma 31-bis, del decreto-legge 6
dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni
urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito,
con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214.
Così deciso in Roma,
nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 3 giugno 2013.
F.to:
Franco GALLO, Presidente
Giuseppe TESAURO, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 5 giugno 2013.