Sentenza n. 111

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SENTENZA N. 111

ANNO 1997

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Dott. Renato GRANATA, Presidente

- Prof. Giuliano VASSALLI

- Prof. Francesco GUIZZI

- Prof. Cesare MIRABELLI

- Prof. Fernando SANTOSUOSSO

- Avv. Massimo VARI

- Dott. Cesare RUPERTO

- Dott. Riccardo CHIEPPA

- Prof. Gustavo ZAGREBELSKY

- Prof. Valerio ONIDA

- Prof. Carlo MEZZANOTTE  

- Avv. Fernanda CONTRI

- Prof. Guido NEPPI MODONA

- Prof. Piero Alberto CAPOTOSTI  

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 1, 5, 6, 12, 17, comma 1 -- in relazione agli artt. 22-38 e 129 del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (Approvazione del testo unico delle imposte sui redditi) e agli artt. 1 e 3 del decreto-legge 30 settembre 1992, n. 394 (Disposizioni concernenti la istituzione di una imposta sul patrimonio netto delle imprese), convertito in legge 26 novembre 1992, n. 461 -- e 18 del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504 (Riordino della finanza degli enti territoriali a norma dell'articolo 4 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), promossi con ordinanze emesse il 7 novembre 1995 dalla Commissione tributaria di primo grado di Livorno, l'11 gennaio 1996 e il 9 novembre 1995 dal TAR dell'Abruzzo, Sezione staccata di Pescara, rispettivamente iscritte ai nn. 63, 460 e 461 del registro ordinanze 1996 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 7 e 21, prima serie speciale, dell'anno 1996.

  Visti gli atti di costituzione della Alleanza Assicurazioni s.p.a. e della Associazione della proprietà edilizia della Provincia di Chieti, nonchè gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

  udito nell'udienza pubblica del 26 novembre 1996 il Giudice relatore Massimo Vari;

  uditi gli avvocati Nicoletta Dolfin per l'Alleanza Assicurazioni s.p.a., Giovanni Pitruzzella per l'Associazione della proprietà edilizia della Provincia di Chieti e l'avvocato dello Stato Carlo Salimei per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

  1.1.-- Nel corso di un giudizio promosso dalla Alleanza Assicurazioni s.p.a. contro l'Amministrazione delle finanze, per l'impugnativa del silenzio-rifiuto formatosi sull'istanza di rimborso dell'imposta comunale sugli immobili, versata dalla ricorrente per l'anno 1993, la Commissione tributaria di primo grado di Livorno, con ordinanza emessa il 7 novembre 1995 (R.O. n. 63 del 1996), ha sollevato questione di legittimità costituzionale di molteplici disposizioni contenute nel decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504 (Riordino della finanza degli enti territoriali a norma dell'articolo 4 della legge 23 ottobre 1992, n. 421).

  1.2.-- Le questioni sollevate riguardano, in primo luogo, gli artt. 1 e 5, la cui legittimità costituzionale viene posta in dubbio, per violazione degli artt. 3, 42, terzo comma, e 53 della Costituzione. In relazione al primo parametro, l'ordinanza reputa del tutto irrazionale e contrastante con i principi di uguaglianza e di capacità contributiva l'istituzione di un'imposta patrimoniale ordinaria avente ad oggetto i soli immobili posseduti, ossia una sola componente del patrimonio del soggetto passivo, sì da creare una palese disparità di trattamento tra i cittadini, a seconda che il loro patrimonio sia o meno costituito (in prevalenza o in tutto) da tale categoria di beni.

  Al tempo stesso viene lamentata la violazione degli artt. 42, terzo comma, e 53 della Costituzione, e in particolare la lesione del principio di capacità contributiva, giacchè la legge, nel determinare (art. 5) la base imponibile, con riferimento al valore degli immobili, non terrebbe conto delle eventuali passività che il proprietario ha dovuto contrarre per acquistare o costruire il bene, assumendo perciò quale manifestazione di capacità contributiva un indice solo fittizio di ricchezza.

  1.3.-- I commi 2 e 7 del medesimo art. 5 formano del pari oggetto di denuncia, in riferimento agli artt. 3 e 53 della Costituzione, quanto ai criteri per la determinazione della base imponibile, individuata attraverso moltiplicatori fissi da applicare alle rendite catastali. Secondo l'ordinanza tali criteri violano il principio di effettività della capacità contributiva e quello di ragionevolezza in ragione della elevatezza dei moltiplicatori, della vincolatività e/o incontrovertibilità dei valori così ottenuti, come pure della illogicità ed irrazionalità insite nella mancata previsione di correttivi in relazione al regime vincolistico di determinazione del canone di locazione.

  1.4.-- Viene, inoltre, posta in dubbio la legittimità costituzionale di altre due disposizioni dello stesso decreto legislativo n. 504 del 1992, e cioé dell'art. 6 nonchè dell'art. 17, comma 1, "combinato con i disposti" degli artt. 22-38 e 129 del t.u. 22 dicembre 1986, n. 917 (Approvazione del testo unico delle imposte sui redditi) e degli artt. 1 e 3 del decreto-legge 30 settembre 1992, n. 394 (Disposizioni concernenti la istituzione di una imposta sul patrimonio netto delle imprese), convertito, con modificazioni, nella legge 26 novembre 1992, n. 461, osservando che la previsione di un'aliquota oltremodo elevata e la indetraibilità del tributo dall'imponibile della imposta personale sul reddito si combina, oltretutto, con ulteriori imposte che colpiscono pesantemente il reddito e il patrimonio immobiliare, comportando un effetto espropriativo in violazione degli artt. 42 e 53 della Costituzione.

  1.5.-- Sotto il profilo dell'eccesso di delega, risulta denunciato, poi, l'art. 18, comma 3, che, nell'attribuire, per l'anno 1993, all'amministrazione finanziaria la potestà impositiva in materia di ICI, prevede che essa operi in virtù delle vigenti disposizioni in tema di accertamento, riscossione e sanzioni agli effetti delle imposte erariali sui redditi. Al riguardo si osserva che il legislatore delegante aveva attribuito la potestà di imposizione in materia di ICI al Comune, contemplando, per le violazioni, sanzioni soltanto amministrative piuttosto tenui, come risulta dall'art. 4, lettera a), numeri 14 e 15 della legge n. 421 del 1992.

  1.6.-- Forma, infine, oggetto di censura, per violazione degli artt. 3, 24, 113 e 53 della Costituzione, l'art. 12, il quale prevede, anche in presenza di opposizione all'accertamento, la riscossione coattiva immediata delle somme liquidate dal Comune per imposta, sanzioni ed interessi. Secondo l'ordinanza, la riscossione immediata ed integrale dell'intero carico tributario nonchè della totalità delle sanzioni irrogate, stravolgerebbe in radice il principio generale, da tempo radicato nell'ordinamento tributario, secondo il quale, in presenza di un atto di impugnazione del contribuente, l'ente impositore procede alla riscossione graduale e frazionata delle imposte accertate, nonchè dei relativi interessi, rinviando le sanzioni.

  2.-- E' intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni vengano dichiarate inammissibili e infondate.

  La difesa erariale, nel riportarsi alle pronunzie già emesse dalla Corte e, da ultimo, alla sentenza n. 21 del 1996 (in tema di ISI), rileva che l'ICI é una imposta a carattere patrimoniale la cui base imponibile é determinata oggettivamente partendo dai redditi catastali e che, pertanto, non può tenere conto dei costi sopportati per acquisire il patrimonio nè del reddito prodotto (o non prodotto).

  Quanto, poi, al denunciato eccesso di delega in cui sarebbe incorso l'art. 18, l'Avvocatura dello Stato osserva che l'Amministrazione finanziaria, nel 1993, ha utilizzato sì i mezzi procedimentali stabiliti per le imposte dirette, ma secondo la disciplina sostanziale dell'ICI, quale risulta dal decreto legislativo n. 504 del 1992. La questione, peraltro, sarebbe irrilevante nel giudizio a quo, il cui oggetto riguarda la richiesta di rimborsi di somme regolarmente pagate senza applicazione di sanzioni.

  Anche la questione sulla asserita illegittimità della disposizione dell'art. 12, oltre che essere irrilevante, in quanto, nella specie, la relativa riscossione é avvenuta per versamento diretto, sarebbe comunque infondata, poichè la regola della riscossione frazionata, peraltro non assoluta, viene applicata sulla parte dell'imposta liquidata in riferimento ad una base imponibile da accertare secondo un giudizio di valutazione economica, e non sulla parte dell'imposta riferita ai valori dichiarati o a valori predeterminati, come sono appunto quelli catastali.

  3.-- Si é altresí costituito in giudizio il contribuente, il quale, premesso che le questioni sollevate sono state in gran parte dichiarate inammissibili dalla Corte con sentenza n. 263 del 1994 soltanto per motivi procedurali, evidenzia anzitutto che l'ICI é una imposta patrimoniale ordinaria e speciale gravante sul valore lordo del patrimonio del soggetto passivo limitatamente alla parte costituita da beni di natura immobiliare; ciò sarebbe in contrasto con i principi affermati dalla Corte nelle sentenze nn. 159 del 1985, 143 del 1995 e 21 del 1996, nelle quali la imposizione su patrimoni esclusivamente di natura immobiliare é stata ritenuta conforme a Costituzione in virtù del carattere straordinario e del tutto temporaneo dei tributi ivi considerati, come pure (nel caso dell'imposta straordinaria sugli immobili) della contestuale istituzione di un prelievo gravante sulle liquidità finanziarie.

  Il fatto che la base imponibile prescinda del tutto da eventuali passività che il proprietario ha dovuto contrarre per acquistare o costruire l'immobile, comporterebbe poi un contrasto sia con i principi affermati dalla giurisprudenza costituzionale in ordine alla necessità di far riferimento ad indici effettivi di capacità contributiva (sentenza n. 69 del 1965), sia con quelli rilevati dall'analisi della disciplina adottata nella gran parte dei Paesi dotati di imposizioni di tipo patrimoniale sia, infine, con la disciplina positiva di tutti i tributi a carattere patrimoniale introdotti in passato nel nostro ordinamento.

  Il criterio di determinazione della base imponibile, consistente nella utilizzazione di moltiplicatori fissi di entità oltremodo elevata applicati alle rendite catastali, senza che sia consentito al contribuente di fornire la prova contraria di un diverso valore in comune commercio del bene, si porrebbe in contrasto con l'unico sistema idoneo a dar garanzia dell'esistenza dell'effettiva capacità contributiva del contribuente: quello, cioé, del valore venale del bene, accolto, del resto, dal legislatore nella stessa disciplina dell'ICI, limitatamente ad alcune specie di immobili (aree edificabili, fabbricati demoliti o sottoposti a restauro), nonchè in quella di tutte le principali imposte sui trasferimenti (imposta di registro, imposta sulle successioni e donazioni, imposta ipotecaria e catastale).

  Atteso che il prospettato difetto della disciplina in esame sta nel non aver affiancato al criterio di determinazione automatica un meccanismo di presunzione legale relativa, a tale vizio di incostituzionalità la Corte potrebbe porre rimedio con una pronuncia additiva.

  In conclusione, la mancata previsione di qualsivoglia correttivo idoneo a tener conto delle situazioni in cui la perdurante vigenza della disciplina vincolistica dell'equo canone comporti una notevole depressione del reddito e del valore dell'immobile; la previsione di un'aliquota oltremodo elevata; l'indetraibilità dell'ICI; dall'imponibile dell'imposta sul reddito; la compresenza nell'ordinamento di ulteriori tributi, che colpiscono il reddito ed il patrimonio immobiliare, sono tutti elementi che comportano il "rastrellamento fiscale di una cifra superiore all'intero reddito del cespite", con la conseguenza di incidere sul capitale in senso espropriativo e di costringere all'alienazione del bene. Ciò ignorando che la stessa Corte (sentenze nn. 120 del 1984, 144 del 1972 e 120 del 1972) ha riconosciuto il principio generale della deduzione di imposta da imposta ed ha censurato la irragionevolezza della discrezionalità esercitata dal legislatore nella fissazione della misura dei tributi. Non si considera, inoltre, che la legislazione dei Paesi in cui esiste il tributo patrimoniale ordinario si preoccupa di inserire nel sistema fiscale -- accanto ad un tasso d'imposta sufficientemente esiguo -- anche clausole di salvaguardia (tax ceiling) atte a fissare un tetto nel carico tributario, allo scopo di evitare che il totale dell'imposta patrimoniale e delle altre imposte sul reddito superi percentuali predeterminate, fino a comportare la stessa incisione della fonte di reddito.

  Nel caso di specie sarebbe, invece, evidente l'effetto ablatorio scaturente dalla struttura dell'imposta in esame e dalla sua combinazione con l'imposta personale e l'imposta straordinaria sul capitale netto delle imprese.

  4.-- In prossimità della udienza la parte privata ha depositato un memoria nella quale, replicando alle deduzioni dell'Avvocatura dello Stato, si sostiene la non pertinenza del richiamo alla sentenza n. 21 del 1996, considerato che il tributo oggetto del presente giudizio ha caratteristiche ben diverse dall'imposta straordinaria sugli immobili alla quale si riferisce la richiamata pronunzia.

  Si osserva, tra l'altro, che la questione relativa all'asserito carattere discriminatorio dell'ISI nei confronti dei possessori di immobili é stata dichiarata infondata con la motivazione della contestuale istituzione, accanto al predetto tributo, di una imposta straordinaria sulle liquidità finanziarie costituite da depositi bancari e postali. Anche le motivazioni con le quali si sono ritenuti irrilevanti gli altri profili di incostituzionalità prospettati in quella sede (la mancata considerazione delle passività gravanti sugli immobili ai fini della determinazione della base imponibile ISI e la indeducibilità di quest'ultimo tributo dall'imponibile dell'imposta personale), incentrate sul carattere straordinario del prelievo, limitato ad un solo anno, non possono valere per ricondurre nell'alveo dei precetti costituzionali l'ICI, tributo ordinario sul patrimonio immobiliare, destinato come tale a colpire, in via continuativa e permanente, l'indice di ricchezza che ne costituisce l'oggetto.

  Quanto, poi, all'argomentazione dell'Avvocatura, secondo la quale l'ICI, basandosi sul valore dell'immobile determinato con il sistema catastale, non può tenere conto nè dei costi sopportati per acquisire il cespite nè del reddito prodotto, la memoria osserva che il metodo valutativo catastale avrebbe dovuto, comunque, comportare la deducibilità delle passività afferenti il patrimonio immobiliare dal valore del bene, al fine di assicurare il necessario collegamento tra capacità contributiva e prelievo. Così pure si sarebbero dovuti contemplare correttivi idonei a consentire di assumere a parametro dell'imposta l'effettivo valore dell'immobile quando per qualsivoglia ragione (ad esempio, per effetto della perdurante vigenza del regime vincolistico delle locazioni) la rendita catastale risulti notevolmente superiore al reddito e, di riflesso, al valore venale del bene.

  5.-- Anche l'Avvocatura generale dello Stato ha depositato una memoria in cui si ribadiscono gli argomenti a sostegno della richiesta di inammissibilità ed infondatezza delle questioni.

  Vengono richiamate le sentenze nn. 263 del 1994 e 21 del 1996, nonchè l'ordinanza n. 328 del 1995, nelle quali é stata riconosciuta la compatibilità di una imposizione patrimoniale con i principi costituzionali e sono state affermate (sentenza n. 21 del 1996) l'astrattezza e la carenza di coerenti elementi valutativi in merito al profilo della mancata previsione della deduzione delle passività gravanti sull'immobile. Nell'eccepire l'inammissibilità di vari profili d'incostituzionalità evidenziati dalla parte (vincolatività degli estimi catastali, necessità di assumere come riferimento i valori reali, illegittimità delle presunzioni assolute, necessità di tenere conto dei regimi vincolistici sulle locazioni), trattandosi di censure ignorate o appena accennate nell'ordinanza di rimessione, l'Avvocatura assume che, una volta ammessa la legittimità del sistema catastale, ne diventano incontestabili alcune conseguenze: il valore catastale é indipendente dal se e dal come della locazione, mentre del regime vincolistico si tiene conto solo quando si rilevano i valori effettivi.

  Inoltre, la misura dell'aliquota, riferita ad un valore quale quello catastale, "sempre inferiore a quello effettivo", potrebbe essere oggetto di censura in questa sede soltanto sotto il profilo dell'irragionevolezza, certamente assente. Infine, la questione della indeducibilità dell'ICI dalla base imponibile IRPEF ed IRPEG, anche se fosse proponibile, riguarderebbe pur sempre queste ultime imposte e non l'ICI.

  6.-- Nel corso di un giudizio instaurato dalla Associazione della proprietà edilizia della Provincia di Chieti, unitamente a Sebastiani Daniela, per chiedere l'annullamento della delibera n. 4382 del 26 febbraio 1993, con la quale il Commissario prefettizio del Comune di Chieti aveva determinato l'aliquota ICI per l'anno 1993, il TAR dell'Abruzzo, sezione di Pescara, con ordinanza emessa l'11 gennaio 1996 (R.O. n. 460 del 1996), ha sollevato, in riferimento agli artt. 23, 76, 77 e 128 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli artt. 6 e 18 del già menzionato decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504, nella parte in cui prevedono che la determinazione dell'aliquota venga stabilita con deliberazione della giunta comunale.

  Con i predetti artt. 6 e 18, il legislatore delegato avrebbe attribuito alla giunta comunale la competenza a determinare l'aliquota dell'ICI, pur in assenza di specifica delega in tal senso, dal momento che l'art. 4, numero 6, della legge n. 421 del 1992 si é limitato a delegare il Governo a prevedere, tra l'altro, la possibilità da parte del "Comune" di determinare l'aliquota, senza incidere sul vigente riparto di competenze tra gli organi comunali.

  Rammenta l'ordinanza che la legge 8 giugno 1990, n. 142, dopo aver introdotto la regola della competenza specifica del consiglio (art. 32) e residuale della giunta, ha disposto che tra gli atti fondamentali del consiglio rientrano quelli riguardanti l'istituzione e l'ordinamento dei tributi (art. 32, lettera g). La disposizione richiamata ha perciò affidato alla specifica competenza del consiglio, cioé all'organo "di indirizzo e di controllo politico-amministrativo", il potere di adottare tutti gli atti fondamentali relativi alla disciplina dei tributi, in linea con la legislazione vigente circa l'attribuzione al consiglio della competenza a determinare le aliquote dei vari tributi locali e in stretta connessione con altre due competenze del medesimo organo e cioé l'esercizio del potere regolamentare e l'approvazione del bilancio. Quanto al potere regolamentare, rileva il giudice a quo che il principio della riserva di legge in materia tributaria comporta che "la potestà degli enti locali di integrare la disciplina legislativa con disposizioni che la completano appare conforme al disposto del predetto art. 23 solo ove disposta con atti generali ed astratti"; mentre, quanto al potere di approvare il bilancio, sarebbe "evidente la stretta connessione delle scelte effettuate in tale sede con quelle relative alla materia tributaria".

  7.-- Con altra ordinanza, di analogo contenuto, emessa il 9 novembre 1995 (R.O. n. 461 del 1996) -- nel corso di un procedimento instaurato innanzi al TAR dell'Abruzzo dalla Associazione della proprietà edilizia della Provincia di Pescara, unitamente a Lucilla Curato, per l'annullamento della delibera 19 gennaio 1993, n. 5, con la quale la giunta comunale di Pianella aveva determinato l'aliquota ICI per l'anno 1993 -- lo stesso TAR dell'Abruzzo, sezione di Pescara, ha sollevato questione di legittimità costituzionale degli artt. 6 e 18 del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504, nella parte in cui prevedono che la determinazione dell'aliquota venga stabilita con deliberazione della giunta comunale, per violazione degli artt. 23, 76 e 77 della Costituzione.

  8.-- In entrambi i giudizi (R.O. n. 460 e n. 461 del 1996) é intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o non fondate.

  La difesa erariale, eccepito preliminarmente il difetto di rilevanza della sollevata questione, in quanto nel ricorso proposto innanzi al TAR non sarebbe stato dedotto il vizio di incompetenza della giunta comunale, assume che il decreto legislativo n. 504 del 1992, nel precisare (verosimilmente allo scopo di evitare incertezze sulla individuazione dell'organo competente) che la deliberazione é adottata dalla giunta, non modificherebbe la norma generale, ma detterebbe semplicemente una norma specifica non eccedente rispetto alla delega e certamente compatibile con la legge n. 142. Difatti, mentre l'art. 32 di quest'ultima legge riserva al consiglio comunale, fra i compiti di indirizzo e di controllo politico-amministrativo, l'istituzione e l'ordinamento dei tributi e la disciplina generale delle tariffe (argomenti cioé di fondamentale rilevanza che concernono, nella totalità dei relativi caratteri, la introduzione di un tributo in connessione con la istituzione o il dimensionamento dei servizi), ben più modesta portata rivestirebbe -- per converso -- la determinazione, anno per anno, della aliquota di un'imposta che il Comune non ha il potere di istituire o non istituire. Se é vero che la determinazione dell'aliquota si riconnette alle scelte che il Comune adotta in sede di approvazione del bilancio, la quale, anzi, deve precedere, secondo la giurisprudenza del Consiglio di Stato, la determinazione dell'aliquota stessa, tale premessa avvalora la conclusione che, dopo l'approvazione del bilancio da parte del consiglio comunale, si tratterà di porre in essere "un atto consequenziale a direzione obbligata che non risponde minimamente ai caratteri degli atti fondamentali dell'art. 32 della legge n. 142".

  9.-- Nel giudizio relativo all'ordinanza di cui al R.O. n. 460 del 1996, si é costituita in giudizio l'Associazione della proprietà edilizia della Provincia di Chieti, concludendo per l'accoglimento della questione.

  La memoria, nel richiamare l'art. 128 della Costituzione, assume che la competenza della giunta per la determinazione dell'aliquota ICI sarebbe in contrasto con il riparto di competenze fissato dalla legge 8 giugno 1990, n. 142, legge generale della Repubblica in materia di enti locali, le cui disposizioni non possono essere oggetto di deroghe tacite o implicite ad opera di leggi particolari o generali, per espresso divieto dell'art. 1, comma 3, della legge medesima.

  Peraltro neppure la legge n. 421 del 1992 avrebbe mutato il riparto delle competenze tra gli organi comunali tracciato dalla legge sulle autonomie, limitandosi invece a demandare al Comune la facoltà di determinare l'aliquota dell'ICI con una dizione, quindi, non idonea, neanche sotto il profilo della deroga tacita o implicita -- ugualmente inammissibile -- ad individuare la competenza in capo ad un organo comunale diverso rispetto a quello indicato dal legislatore del 1990.

  10.-- Nell'imminenza dell'udienza, l'Associazione della proprietà edilizia della Provincia di Chieti ha presentato, nel giudizio di cui al R.O. n. 460 del 1996, una ulteriore memoria, insistendo per la declaratoria di illegittimità delle disposizioni denunciate. Richiamati gli artt. 128 e 5 della Costituzione, si osserva che le disposizioni censurate avrebbero attuato in modo illegittimo ed irragionevole la delega conferita dall'art. 4 della legge n. 421 del 1992. Posto che l'atto di determinazione dell'aliquota ha natura normativa, non sussisteva alcuna giustificazione nella scelta di stravolgere l'ordine del riparto delle competenze. Rilevato che l'art. 4 della legge n. 421 del 1992, nel rimettere al legislatore delegato "la determinazione di un'aliquota unica da parte del Comune", sancisce un principio di per sè autosufficiente ed idoneo ad essere direttamente applicato ed attuato, soprattutto per quel che concerne il riparto di competenze tra gli organi del Comune, la memoria osserva che non trova qui spazio il rapporto di "riempimento" tra norma delegante e norma delegata al quale si riferisce talora la giurisprudenza: la delega conferita dal Parlamento aveva ad oggetto esclusivamente l'istituzione di tributi, per cui il legislatore delegato era vincolato al rispetto della legislazione vigente non tributaria, ossia dei principi della legislazione comunale e provinciale, tra cui si collocano quelli degli artt. 30 e seguenti della legge n. 142 del 1990, tanto più che il legislatore delegante non ha operato deroghe o abrogazioni espresse di tale legge, come l'art. 1 della medesima avrebbe invece richiesto, essendo la legge n. 142, per certi versi, una c.d. legge rinforzata. In ogni caso, anche ad ammettere che, nonostante la detta clausola, la legge n. 142 resti una legge ordinaria come le altre, essa dovrebbe, in via interpretativa, presumersi operante di fronte ad ogni altra legge che non ne disponga ex professo la deroga o l'abrogazione.

  L'incostituzionalità delle norme censurate viene infine lamentata non solo in nome dei corretti rapporti tra fonti del diritto, ma anche per forti ragioni di sostanza, giacchè si rileva che la manomissione delle competenze del consiglio -- competenze indicate tassativamente dalla legge n. 142 del 1990, tanto che la materia é sottratta allo statuto comunale ed é ridotta la possibilità di intervento, in via d'urgenza, della giunta -- appare ancor più grave in seguito alle riforme introdotte dalla legge n. 81 del 1993, sull'elezione diretta del sindaco. Nel nuovo assetto del sistema di governo locale solo l'attività del consiglio, e non anche quella della giunta o del sindaco, é contraddistinta da effettività, pubblicità e trasparenza.

  Le disposizioni censurate, non considerando che la riserva al Consiglio delle competenze normative e di indirizzo corrisponde all'esigenza di salvaguardare la libertà dei cittadini, alterano perciò in modo rilevante un delicato equilibrio di garanzie sostanziali in ambito comunale.

Considerato in diritto

  1.-- Con le ordinanze in epigrafe la Commissione tributaria di primo grado di Livorno e il TAR dell'Abruzzo sollevano questioni che investono, sotto vari profili, la disciplina dell'imposta comunale sugli immobili (ICI), istituita a far tempo dal 1993, con decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504 recante "Riordino della finanza degli enti territoriali, a norma dell'articolo 4 della legge 23 ottobre 1992, n. 421".

  Come si desume da quest'ultimo articolo, obiettivo della legge é quello di favorire l'autonomia tributaria degli enti locali, a beneficio dei quali, una volta entrata a regime la disciplina, viene devoluto il gettito del tributo, istituito con contestuale soppressione sia dell'ILOR sui redditi dei fabbricati a qualsiasi uso destinati, ivi compresi quelli strumentali od oggetto di locazione, i redditi dominicali delle aree fabbricabili e dei terreni agricoli, nonchè i redditi agrari di cui all'art. 29 del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 e successive modificazioni; sia dell'INVIM, limitatamente agli incrementi di valore maturati successivamente al 31 dicembre 1992 (art. 17, commi 6 e 7, del decreto legislativo n. 504 del 1992).

  L'imposta assume come base imponibile il valore degli immobili (art. 5, comma 1), intendendosi per tali i fabbricati, le aree fabbricabili e i terreni agricoli, siti nel territorio dello Stato, a qualsiasi uso destinati, ivi compresi quelli strumentali o alla cui produzione o scambio é diretta l'attività dell'impresa.

  Dall'esame dell'art. 1, comma 2, della normativa in questione si rileva che il presupposto dell'imposta é rappresentato dal "possesso" dei beni. Di essa, secondo le specificazioni dell'art. 3, sono soggetti passivi il proprietario, ovvero il titolare del diritto di usufrutto, uso o abitazione, nonchè -- per gli immobili concessi in superficie, enfiteusi o locazione finanziaria -- il concedente cui viene attribuito, peraltro, diritto di rivalsa, rispettivamente, sul superficiario, enfiteuta o locatario (art. 3).

  2.-- I giudizi, avendo ad oggetto questioni fra loro connesse, vanno riuniti per essere decisi con una unica sentenza.

  3.-- La Commissione tributaria di primo grado di Livorno solleva un duplice ordine di censure che attengono, da un lato, alla struttura sostanziale del tributo, quale regolata dagli artt. 1, 5, 6 e 17, comma 1, del decreto legislativo n. 504 del 1992, norme ritenute in contrasto con gli artt. 3, 42 e 53 della Costituzione e, dall'altro, alla disciplina delle fasi procedimentali che mettono capo alla riscossione, quali si evincono dagli artt. 18 e 12 del suddetto decreto legislativo, disposizioni reputate viziate, la prima, per eccesso di delega e, la seconda, per violazione degli artt. 3, 24, 113 e 53 della Costituzione stessa.

  4.-- Di queste ultime censure l'Avvocatura dello Stato eccepisce, in via pregiudiziale, l'inammissibilità, riguardando norme che non trovano applicazione nel giudizio principale.

   L'eccezione é fondata. L'art. 18, comma 3, riserva, per l'anno 1993, all'Amministrazione finanziaria dello Stato i vari adempimenti relativi alla liquidazione, rettifica delle dichiarazioni, accertamento, irrogazione delle sanzioni e degli interessi, nonchè alla riscossione delle somme dovute per ICI, disponendo che essa operi a norma delle disposizioni che riguardano l'accertamento e la riscossione delle imposte erariali sui redditi nonchè l'irrogazione delle relative sanzioni. Dal canto suo l'art. 12 conferisce al Comune il potere di procedere alla riscossione coattiva immediata delle somme liquidate per imposta, sanzioni ed interessi, anche in caso di impugnazione del relativo accertamento, ove le somme stesse non vengano corrisposte nei modi previsti dall'art. 10, comma 3, e cioé tramite versamento diretto.

  Considerato che, nel caso oggetto di controversia, il pagamento dell'imposta é avvenuto per versamento diretto, le disposizioni denunciate non rientrano fra quelle di cui il giudice rimettente é tenuto a far applicazione nel giudizio a quo, con conseguente inammissibilità delle sollevate questioni per irrilevanza ai fini della decisione.

  5.-- Le altre censure, sono da ritenere in parte infondate e in parte inammissibili per quanto appresso si dirà.

  6.-- La prima doglianza concerne gli artt. 1 e 5, che, ad avviso del rimettente, colliderebbero con gli artt. 3, 42, terzo comma, e 53 della Costituzione, per vari convergenti motivi. In primo luogo, si deduce che i principi di uguaglianza e di capacità contributiva risulterebbero lesi da una disposizione quale quella dell'art. 1, istitutiva di un'imposta patrimoniale ordinaria che concentra la pressione fiscale sui soli beni immobili, irrazionalmente discriminati rispetto agli altri cespiti patrimoniali di pari entità, ma di diversa composizione qualitativa. In secondo luogo si lamenta che l'art. 5 individui la base imponibile del tributo nel valore lordo dei beni, sì da colpire un indice "meramente fittizio ed immaginario" di ricchezza, senza tenere, invece, conto delle eventuali passività che il proprietario abbia dovuto contrarre per acquistare o costruire gli immobili tassati.

  L'uno e l'altro ordine di considerazioni non possono essere, tuttavia, condivisi.

  La prima censura, investendo i criteri secondo i quali risultano definite dalla legge le situazioni significative di capacità contributiva, induce a rammentare l'ampia discrezionalità riservata al legislatore in relazione alle varie finalità cui, di volta in volta, si ispira l'attività di imposizione fiscale. Tale discrezionalità, come la Corte ha costantemente affermato, consente al legislatore stesso, sia pure con il limite della non arbitrarietà, di determinare i singoli fatti espressivi della capacità contributiva che, quale idoneità del soggetto all'obbligazione di imposta, può essere desunta da qualsiasi indice rivelatore di ricchezza (reddito, consumo, patrimonio nella sua oggettività ovvero nel momento specifico del suo incremento, ecc.).

  Allo stesso modo non é di per sè lesivo del principio di uguaglianza e di capacità contributiva il fatto che il legislatore individui, di volta in volta, quali indici rivelatori di capacità contributiva, le varie specie di beni patrimoniali sia di natura mobiliare che immobiliare, come risulta dalla legislazione vigente, in ordine alla quale si possono esemplificativamente ricordare: l'imposta sul patrimonio netto delle imprese (legge 26 novembre 1992, n. 461), l'imposta sui fondi comuni di investimento mobiliare (legge 23 marzo 1983, n. 77), l'imposta sul valore globale netto dell'asse ereditario (decreto legislativo 31 ottobre 1990, n. 346), l'imposta sulla proprietà di autoveicoli ed autoscafi (decreto-legge 30 dicembre 1982, n. 953, convertito nella legge 28 febbraio 1983, n. 53).

  Il fatto, dunque, che vengano colpiti dall'ICI solo cespiti aventi natura immobiliare non é, di per sè, significativo di illegittimità della relativa disposizione.

  Quanto poi all'altro profilo prospettato, e cioé quello della mancata deduzione dalla base imponibile delle passività contratte dal proprietario per acquistare o costruire il bene, va considerato, anzitutto, che l'imposizione ICI non tende a colpire solo i proprietari ma, più in generale, i titolari delle situazioni previste dall'art. 3, in quanto idonee, nella loro varietà, ad individuare di norma coloro che, avendo il godimento del bene, si avvantaggiano, con immediatezza, dei servizi e delle attività gestionali dei Comuni, a beneficio dei quali il gettito viene, a regime, destinato, in sostituzione di altri tributi contestualmente soppressi. In ogni caso non é irrazionale la mancata considerazione dei mezzi impiegati per acquisire o costruire l'immobile; mezzi che a ben vedere afferiscono quali passività non a questo ultimo, bensì al patrimonio generale del soggetto che li assume in carico.

  7.-- Il medesimo art. 5 viene, ulteriormente, denunciato, per violazione degli artt. 3 e 53 della Costituzione, con specifico riferimento alle disposizioni contenute nei commi 2 e 7. La prima di esse fa rinvio, per la determinazione del valore dei fabbricati, alle risultanze del catasto, stabilendo l'applicazione alle rendite ivi iscritte di moltiplicatori determinati con i criteri e le modalità di cui al primo periodo dell'ultimo comma dell'art. 52 del d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131; la seconda prevede, invece, per la determinazione del valore dei terreni agricoli, l'applicazione al reddito dominicale di un moltiplicatore pari a settantacinque. Ad avviso del rimettente, la determinazione della base imponibile secondo il metodo dei moltiplicatori fissi si porrebbe in contrasto con il principio di effettività della capacità contributiva e con il principio di ragionevolezza a causa della elevatezza dei coefficienti, della vincolatività e/o incontrovertibilità dei valori ottenuti attraverso di essi, nonchè, infine, della illogicità ed irrazionalità insita nella mancata previsione di correttivi idonei a tenere conto dell'esistenza di regimi vincolistici di determinazione del canone, comportanti una depressione sia del reddito sia del valore dell'immobile.

  Premesso che la questione relativa al comma 7 é da reputare inammissibile, non risultando dall'ordinanza che innanzi al giudice a quo sia in discussione la tassazione di terreni agricoli, é agevole osservare, quanto al comma 2, che l'adozione dei moltiplicatori fissi e la incontrovertibilità della loro misura non sono altro che la logica conseguenza dei dati utilizzati dal legislatore per pervenire alla determinazione del valore del bene. Il ricorso ad elementi desunti, per evidenti ragioni di uniformità e semplificazione dell'accertamento, dal catasto fabbricati, e in particolare dalle rendite ivi iscritte, comporta, infatti, l'adozione di un procedimento esattamente inverso a quello che fu, a suo tempo, recepito dal decreto-legge 23 gennaio 1993, n. 16, convertito nella legge 24 marzo 1993, n. 75, per determinare la redditività media delle unità immobiliari urbane. Secondo detta disciplina alla determinazione delle rendite catastali si perviene, infatti, attraverso l'applicazione, ai valori di mercato degli immobili, di coefficienti di redditività o (se si vuole) di saggi di interesse sul capitale fondiario, fissati, come é noto, nella misura dell'1, del 2 e del 3% (rispettivamente per le abitazioni, per gli studi professionali e per i negozi), sì da essere esattamente speculari ai moltiplicatori.

  La giustificazione dell'entità dei moltiplicatori risiede dunque nella logica ispiratrice del sistema sopra delineato e nella correlazione sussistente fra i vari elementi che lo compongono; sistema dotato, oltretutto, di una sua flessibilità, dovuta alla non invariabilità sia delle rendite sia dei moltiplicatori, i quali, benchè fissati, per l'anno in contestazione innanzi al giudice a quo, e cioé il 1993, direttamente dal legislatore, sono suscettibili di periodiche revisioni in caso di sensibili divergenze dai valori di mercato (art. 5, comma 2, del decreto legislativo n. 504 del 1992, che fa rinvio all'art. 52, ultimo comma, del d.P.R. n. 131 del 1986).

  Sotto l'altro profilo dedotto non sembra poi a questa Corte che a mettere in dubbio la legittimità dei risultati così ottenuti possa valere, come ipotizza l'ordinanza, la mancata previsione di correttivi volti a tener conto di fattori decrementativi legati, in specifiche situazioni, al regime vincolistico delle locazioni. Infatti la disciplina stabilita nel citato comma 2 dell'art. 5 é coerente, da un lato, con una scelta legislativa che, prevedendo un computo la cui base é rappresentata dai dati catastali, si rifà, per l'accertamento della base imponibile, a criteri di determinazione legale di valori tipo, e cioé a metodi che non possono di per sè reputarsi contrari a Costituzione; e, dall'altro, con una situazione legislativa volta, da qualche tempo, a superare il regime vincolistico delle locazioni.

  8.-- Resta, infine, da esaminare la doglianza che investe contestualmente gli artt. 6 e 17, comma 1; quest'ultimo posto in relazione, dall'ordinanza, con gli artt. 22-38 e 129 del t.u. 22 dicembre 1986, n. 917 e con gli artt. 1 e 3 del decreto-legge 30 settembre 1992, n. 394, convertito, con modificazioni, nella legge 26 novembre 1992, n. 461.

  Si lamenta in particolare la violazione degli artt. 42 e 53 della Costituzione per l'effetto espropriativo e lesivo della capacità contributiva, derivante dalla elevata entità dell'aliquota dell'ICI, assommata all'indeducibilità del tributo dall'imponibile dell'imposta personale sul reddito, nonchè all'esistenza di ulteriori imposizioni fiscali che, secondo il rimettente, colpirebbero pesantemente il reddito ed il patrimonio immobilare.

  La prima delle disposizioni censurate e cioé l'art. 6 prevede che l'aliquota dell'ICI sia stabilita, con deliberazione della giunta comunale, in misura unica e in una percentuale del valore dell'immobile compresa fra il 4 e il 6 per mille, con facoltà di elevazione al 7 per straordinarie esigenze di bilancio; la seconda disposizione e cioé l'art. 17, comma 1, stabilisce, invece, l'indeducibilità dell'ICI agli effetti delle imposte erariali sui redditi.

  Le doglianze, nell'evocare congiuntamente i parametri dell'art. 42 e dell'art. 53 della Costituzione, sottolineano l'effetto espropriativo ed, al tempo stesso, lesivo della capacità contributiva che, ad avviso dell'ordinanza, deriverebbe, oltre che dall'elevatezza dell'aliquota, dagli altri concorrenti fattori indicati.

Dette considerazioni inducono la Corte a richiamare, in linea generale, il principio, peraltro non del tutto nuovo nella sua giurisprudenza, secondo il quale dalla legge tributaria nasce soltanto una obbligazione pecuniaria verso lo Stato ovvero gli altri enti pubblici (sentenza n. 9 del 1959). Che il prelievo tributario si realizzi dunque attraverso la mera costituzione di un vincolo obbligatorio, alla cui osservanza il soggetto passivo é tenuto con tutto il suo patrimonio, e non soltanto con il bene colpito, é del resto confermato dal fatto che sarebbe certamente riduttivo identificare la capacità contributiva, che é alla base di tale vincolo, con la proprietà di uno specifico bene patrimoniale ovvero con quella di un reddito, esprimendo, invece, essa l'idoneità generale del singolo a concorrere alle spese pubbliche, in relazione alla molteplicità degli obiettivi di politica fiscale che il legislatore può perseguire, con l'imposizione tributaria, e che, talora, vanno anche al di là della mera esigenza dell'acquisizione di entrate al bilancio dello Stato.

  Non é privo di significato, da questo punto di vista, il fatto che la Costituzione repubblicana, diversamente dalla formula dell'art. 25 dello Statuto Albertino (che prevedeva il contributo ai "carichi dello Stato" in proporzione degli "averi"), faccia riferimento al più ampio concetto di "capacità contributiva" e, cioé, all'attitudine economica del singolo; capacità contributiva della quale, secondo quanto risulta anche dagli atti dell'Assemblea Costituente, costituiscono corollari, da un canto, la strutturazione del sistema fiscale secondo criteri di progressività e, dall'altro, l'esenzione dall'imposizione dei c.d. minimi vitali.

  Ciò se, da un canto, consente di ribadire quanto già più volte affermato da questa Corte, e cioé l'estraneità della materia espropriativa all'ambito dell'art. 53 della Costituzione (sentenze nn. 283 del 1993, 22 del 1965 e 9 del 1959), induce, dall'altro, a constatare come sia proprio l'art. 53 la corretta prospettiva nella quale va ricondotto il giudizio sull'uso ragionevole, o meno, che il legislatore stesso abbia fatto dei suoi poteri discrezionali in materia tributaria, al fine di verificare la coerenza interna della struttura dell'imposta con il suo presupposto economico, come pure la non arbitrarietà dell'entità dell'imposizione. Ovviamente l'esigenza che si pone di riferire le valutazioni di costituzionalità, in via prioritaria, al fondamentale parametro dell'art. 53, non esclude che, in occasione di tale giudizio, possa emergere anche la coesistente lesione di altri interessi costituzionalmente protetti, tra i quali quello oggetto dell'art. 42 evocato dal rimettente, ma certamente non solo esso. E' sufficiente por mente al tema del favor per la proprietà della casa di abitazione (art. 47 della Costituzione), argomento che esula, tuttavia, dalla problematica posta dal giudice rimettente, e sul quale, pertanto, la Corte non ha in questa occasione motivo di pronunciarsi.

  Così stabiliti i limiti del controllo che compete al giudice delle leggi, questa Corte ritiene che le doglianze del giudice rimettente circa l'elevatezza in sè dell'aliquota ICI quale prevista dall'art. 6 non siano sorrette da elementi che possano portare a considerarla, nel rapporto che é dato ragionevolmente stabilire fra l'aliquota stessa e il valore del bene in sè, frutto di un arbitrio lesivo della capacità contributiva, ai sensi dell'art. 53 della Costituzione. Ciò escluso, non v'é, di conseguenza, nessuna ricaduta nemmeno sull'art. 42 della Costituzione.

  Quanto agli altri argomenti addotti a sostegno dell'eccessività del livello della tassazione, la menzione fatta dall'ordinanza delle ulteriori imposizioni fiscali che colpirebbero pesantemente il reddito ed il patrimonio immobiliare é di per sè troppo generica per poter essere presa in considerazione in una materia, quale quella tributaria, contrassegnata, proprio per i delicati fini cui si ispira, da ampia discrezionalità del legislatore e nell'ambito della quale non spettano al giudice della legittimità delle leggi valutazioni di opportunità o di convenienza riferite all'ordinamento generale dei tributi ovvero all'entità del carico fiscale, salvo il controllo sotto il profilo dell'arbitrarietà o irragionevolezza delle norme. Circa poi il più puntuale richiamo fatto dall'ordinanza all'art. 17, comma 1, in tema di indeducibilità dell'ICI, si rileva che la questione -- benchè prospettata con testuale richiamo della disciplina della imposizione sui redditi fondiari (artt. 22-38 e 129 del t.u. n. 917 del 1986), nonchè di quella dell'imposta sul patrimonio netto delle imprese (artt. 1 e 3 del decreto-legge n. 394 del 1992) -- viene focalizzata sul punto specifico della deducibilità dell'imposta di cui si tratta dall'imponibile IRPEF. In ogni caso e a tacer d'altro, può obiettarsi che trattandosi di questione che attiene al regime giuridico e alla fase applicativa di imposte diverse da quella oggetto del giudizio principale, essa non può, come già altra volta osservato (sentenza n. 21 del 1996), trovare ingresso in questa sede e va, pertanto, dichiarata inammissibile.

  9.-- Le questioni portate all'esame della Corte con le due ordinanze del TAR dell'Abruzzo riguardano, invece, gli artt. 6 e 18 del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504, denunciati, rispettivamente, per violazione degli artt. 23, 76, 77 e 128 della Costituzione (ordinanza emessa l'11 gennaio 1996, di cui al R.O. n. 460 del 1996) e per violazione degli artt. 23, 76 e 77 (ordinanza emessa il 9 novembre 1995, di cui al R.O. n. 461 del 1996).

  10.-- L'Avvocatura dello Stato, assumendo che, nei giudizi proposti innanzi al giudice a quo, non vi é, fra i motivi dedotti dai ricorrenti, quello della incompetenza della giunta comunale, eccepisce l'inammissibilità delle questioni sollevate da entrambe le ordinanze.

  Tale inammissibilità, sia pure per motivi diversi da quelli prospettati dall'Avvocatura, sussiste solo per la prima ordinanza. Da questa si rileva, infatti, che la determinazione dell'aliquota é avvenuta, nella specie, ad opera del commissario prefettizio, sicchè non può reputarsi rilevante ai fini del decidere una questione che non concerne i poteri di quest'ultimo, bensì quelli della giunta. L'eccezione stessa va, invece, disattesa per la seconda ordinanza dal cui contesto risulta che il prospettato difetto di competenza dell'organo forma oggetto di specifica censura da parte del ricorrente.

  11.-- Tuttavia, la questione, ancorchè ammissibile in rito, é infondata nel merito.

  12.-- Assume il rimettente che gli artt. 6 e 18 del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504, nella parte in cui prevedono che l'aliquota ICI sia fissata con "deliberazione della giunta comunale", abbiano inciso -- pur in assenza di specifica delega in tal senso -- sul riparto di competenze tra consiglio e giunta, quale si desume dall'art. 32 della legge 8 giugno 1990, n. 142, che, dopo aver introdotto il principio generale sulla competenza specifica del consiglio e residuale della giunta, annovera fra gli atti fondamentali di competenza del primo, "l'istituzione e l'ordinamento dei tributi" (comma 2, lettera g dello stesso articolo). L'ordinanza, nel rilevare, inoltre, che la competenza testè ricordata si pone in connessione con altre due attribuzioni del consiglio, e cioè l'esercizio del potere regolamentare e l'approvazione del bilancio, ritiene che "la potestà degli enti locali di integrare la disciplina legislativa con disposizioni che la completano appare conforme al disposto dell'art. 23" solo ove esplicata con atti generali ed astratti.

  13.-- Quanto alla denunciata violazione dell'art. 23 é il caso di ricordare immediatamente che il principio della riserva di legge, in materia di prestazioni imposte, va inteso in senso relativo come obbligo per il legislatore di determinare preventivamente e sufficientemente criteri direttivi di base e linee generali di disciplina dell'attività amministrativa (sentenza n. 157 del 1996). Non ha perciò fondamento l'assunto dell'ordinanza, volto sostanzialmente a prefigurare una sorta di proiezione del vincolo di cui all'art. 23 anche sugli atti di competenza dell'ente locale, ipotizzando, in sostanza, in aggiunta alla riserva di legge, e quasi ad ulteriore sviluppo di essa, anche una sorta di riserva di regolamento.

  14.-- Neppure fondata é l'altra doglianza proposta dal rimettente e cioé quella riguardante l'eccesso di delega in cui le disposizioni censurate sarebbero incorse rispetto a quanto stabilito dall'art. 4, comma 1, lettera a), numero 6, della legge n. 421 del 1992, che autorizzava l'emanazione di disposizioni dirette "all'istituzione, a decorrere dall'anno 1993, dell'imposta comunale immobiliare (ICI)".

  La tesi che il Governo, nell'emanare le disposizioni di cui agli artt. 6 e 18, non avrebbe potuto prescindere dalla ripartizione di competenza fra giunta e consiglio, fissata nell'art. 32 della legge n. 142 del 1990, viene a riproporre il tema generale dei criteri che il legislatore delegato é tenuto ad osservare nell'esercizio del compito al medesimo affidato, in relazione a quelli che se ne possano considerare i limiti espliciti od impliciti. Tema sul quale la Corte ha avuto occasione di evidenziare il naturale rapporto di "riempimento" che lega la norma delegata a quella delegante, alla luce della ratio che ispira quest'ultima. Pertanto il silenzio della legge di delegazione non osta all'emanazione di norme che rappresentino un coerente sviluppo e completamento della scelta espressa dal legislatore delegante e delle ragioni ad essa sottese (sentenza n. 141 del 1993), ancorchè il potere debba essere esercitato in modo non solo conforme alle finalità che l'hanno determinato, ma anche aderente al sistema delineato nella legislazione precedente (sentenza n. 28 del 1970).

  Tale giurisprudenza non vale, tuttavia, a dar fondamento alla tesi prospettata dall'ordinanza, proprio alla luce dei dati normativi offerti dalla legge n. 142 del 1990, fra i quali assume primario rilievo l'art. 1, il quale stabilisce che "ai sensi dell'art. 128 della Costituzione, le leggi della Repubblica non possono introdurre deroghe ai principi della presente legge se non mediante espressa modificazione delle sue disposizioni"; formula che, secondo quanto comunemente si ritiene, vale quale criterio interpretativo per i futuri successivi interventi legislativi in materia, nel senso che i principi della legge n. 142 restano operanti di fronte ad ogni altra legge che non ne disponga ex professo la deroga o l'abrogazione. Ma anche a ritenere che il predetto art. 1 sia canone ermeneutico utilizzabile per definire, nel caso qui in esame, portata e contenuto della delega apprestata dalla legge n. 421 del 1992, é da escludere che possa parlarsi di violazione della delega stessa, in ragione di deroghe apportate, nel suo silenzio, ai principi della legge n. 142 del 1990. Nell'ambito dell'art. 32, occorre, anzitutto, distinguere fra i principi che si desumono dal comma 1, a mente del quale "il consiglio comunale é l'organo di indirizzo e di controllo politico amministrativo", e le disposizioni che puntualmente indicano, nel successivo comma 2, gli atti fondamentali rientranti nella competenza del consiglio, tra i quali "l'istituzione e l'ordinamento dei tributi". Escluso dunque che si possa parlare di modifica dei principi sopra ricordati, quel che ulteriormente convince dell'assenza del lamentato vizio di eccesso di delega é la circostanza che, a ben vedere, le disposizioni denunciate si limitano a specificare uno degli elementi costitutivi di una fattispecie normativa che di per sè non é riconducibile al paradigma dell'art. 32, comma 2.

  Infatti, diversamente da quest'ultima disposizione, nel caso qui considerato, secondo le specifiche indicazioni in tal senso della legge n. 421 del 1992, é il legislatore stesso, in parte direttamente e in parte attraverso lo svolgimento della delega conferita al Governo, a prevedere e a disciplinare il tributo, mentre all'ente locale non é data la possibilità nè di istituire nè di dettare l'ordinamento dell'imposta, bensì soltanto di determinarne l'aliquota entro limiti predeterminati, fermo restando che, in caso di mancata delibera, vale comunque il minimo fissato per legge, secondo quanto espressamente prevede l'art. 6 del decreto legislativo n. 504 del 1992. Anche per questa ragione é da escludere che si tratti di una disposizione esorbitante dai limiti della delega; mentre restano fuori dalla considerazione della Corte, trattandosi di disposizioni intervenute in epoca successiva, da un canto la riforma del sistema di governo comunale realizzato dalla legge 25 marzo 1993, n. 81, alla quale si richiama la parte privata e, dall'altro, la recente nuova disciplina dell'ICI contenuta nell'art. 3, comma 53, della legge 23 dicembre 1996, n. 662.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

  riuniti i giudizi,

  1) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale degli artt. 5, comma 7, 12, 17, comma 1 -- in relazione agli artt. 22-38 e 129 del t.u. 22 dicembre 1986, n. 917 e agli artt. 1 e 3 del decreto-legge 30 settembre 1992, n. 394, convertito, con modificazioni, nella legge 26 novembre 1992, n. 461 -- e 18, comma 3, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504 (Riordino della finanza degli enti territoriali, a norma dell'articolo 4 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), sollevata dalla Commissione tributaria di primo grado di Livorno, in riferimento agli artt. 3, 24, 42, 53, 76 e 113 della Costituzione, con l'ordinanza emessa il 7 novembre 1995;

  2) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 1, 5 e 6 del suddetto decreto legislativo n. 504 del 1992, sollevata in riferimento agli artt. 3, 42, terzo comma e 53 della Costituzione, con la medesima ordinanza;

  3) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale degli artt. 6 e 18 del già citato decreto legislativo n. 504 del 1992, sollevata, in riferimento agli artt. 23, 76, 77 e 128 della Costituzione, dal TAR dell'Abruzzo, Sezione di Pescara, con l'ordinanza emessa l'11 gennaio 1996;

  4) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 6 e 18 del medesimo decreto legislativo n. 504 del 1992 sollevata, in riferimento agli artt. 23, 76 e 77 della Costituzione, dal medesimo TAR, con l'ordinanza emessa il 9 novembre 1995.

  Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 aprile 1997.

Renato GRANATA. Presidente

Massimo VARI, Redattore.

Depositata in cancelleria il 22 aprile 1997.