Sentenza n. 21 del 1996

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SENTENZA N.21

ANNO 1996

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

-     Avv. Mauro FERRI, Presidente

-     Prof. Luigi MENGONI

-     Prof. Enzo CHELI

-     Dott. Renato GRANATA

-     Prof. Giuliano VASSALLI

-     Prof. Cesare MIRABELLI

-     Prof. Fernando SANTOSUOSSO

-     Avv. Massimo VARI

-     Dott. Cesare RUPERTO

-     Dott. Riccardo CHIEPPA

-     Prof. Gustavo ZAGREBELSKY

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 7 del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333 (Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica), convertito, con modificazioni, nella legge 8 agosto 1992, n. 359, promosso con ordinanza emessa il 2 febbraio 1995 dalla Commissione tributaria di primo grado di Piacenza sul ricorso proposto da Carlo Faverzani contro l'Intendenza di Finanza di Piacenza, iscritta al n. 193 del registro ordinanze 1995 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 15, prima serie speciale, dell'anno 1995.

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio dell'8 novembre 1995 il Giudice relatore Massimo Vari.

Ritenuto in fatto

 

1.-- La Commissione tributaria di primo grado di Piacenza, con ordinanza del 2 febbraio 1995 (R.O. n. 193 del 1995) -- emessa nel giudizio sul ricorso proposto da Carlo Faverzani nei confronti dell'Amministrazione finanziaria avverso il silenzio-rifiuto formatosi sull'istanza di rimborso dell'imposta straordinaria immobiliare versata nel 1992 -- ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 53, 24 e 42 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 7 del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333 (Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica), convertito, con modificazioni, nella legge 8 agosto 1992, n. 359.

Il giudice remittente, premesso che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 263 del 1994, "ha 'salvato' gli estimi (benché riferiti al valore degli immobili anziché alla loro redditività) solo in quanto 'provvisori'" ed "in quanto la loro compatibilità o meno con il nostro ordinamento costituzionale dovrebbe essere valutata nell'ambito delle singole imposte", sospetta di illegittimità costituzionale la norma denunciata nella parte in cui stabilisce che l'importo del tributo è da calcolare sulla base del valore degli immobili determinato secondo le tariffe d'estimo di cui al decreto ministeriale 27 settembre 1991.

Viene in particolare lamentata violazione:

1) dell'art. 3 della Costituzione, sotto il profilo del contrasto con il principio di uguaglianza, giacché sarebbero colpiti "solo i possessori di beni immobili (facilmente tassabili) a differenza delle altre categorie di cittadini che possiedono patrimoni di altra natura (es. mobiliari), che ne sono andati esenti";

2) dello stesso art. 3 della Costituzione nonché degli artt. 53 e 42, in quanto la disposizione, nel prevedere il pagamento dell'imposta "nella misura stabilita con atti amministrativi illegittimi", non si conformerebbe "né al principio della capacità contributiva né a quello della progressività", essendo la tassazione stabilita su "un'ipotesi astratta di fruttuosità del valore capitale dell'immobile determinato in base a criteri di tipo 'patrimoniale', che la stessa norma mostra di voler abbandonare per i periodi di imposta successivi al 1994, palesando così anche la propria intrinseca irrazionalità". Al riguardo l'ordinanza, osservato che la stessa Corte non ha "assolto in assoluto il sistema catastale", ma anzi ha più volte "fatto richiamo alla necessità di una riforma", rinvia a quelle pronunzie, secondo le quali "il principio di cui all'art. 53 si basa sull'effettività", per cui sono illegittime le imposte fondate su criteri che non si conformano a tale principio, "ma presuppongono solo 'in astratto' la redditività". Osserva, inoltre, riguardo all'art. 3 della Costituzione, che la stessa Corte (sentenza n. 50 del 1965) ha affermato che "ad un indice effettivo deve farsi capo per determinare la quantità dell'imposta che da ciascun obbligato si può esigere".

Quanto all'art. 42 della Costituzione, si censura la mancata previsione della deducibilità, ai fini della determinazione della base imponibile, delle passività che gravano sull'immobile, in contrasto anche con l'art. 53 e con un effetto "al limite ablatorio" del bene, tenendo per di più conto della "indetraibilità" dell'ISI ai fini IRPEF o IRPEG. Secondo il remittente, se "l'art. 53 della Costituzione non vieta l'istituzione di imposte di tipo patrimoniale" e se appartiene alle scelte del legislatore la deducibilità delle somme corrisposte a titolo di imposta dall'imponibile ai fini delle imposte dirette, tuttavia le imposte patrimoniali sono conformi al dettato costituzionale "solo se possono essere pagate con il reddito, in quanto, diversamente, imporrebbero l'alienazione del bene assumendo carattere espropriativo". Invero, la stessa sentenza n. 263 del 1994, riferendosi al "rischio di determinazione di rendite catastali tali da superare per la loro misura il reddito effettivo", avrebbe "sostanzialmente" riconosciuto "fondato il sospetto di incostituzionalità delle tariffe d'estimo basate sul valore dell'immobile, assolvendole poi in base a due motivi di ordine diverso e non di merito";

3) degli stessi artt. 3 e 53 della Costituzione nonché dell'art. 24, giacché la norma denunciata, "differendo al periodo successivo all'entrata in vigore dei nuovi estimi la possibilità per i contribuenti di recuperare quanto eventualmente pagato in eccedenza per l'ISI ed il relativo contenzioso", sottoporrebbe "medio tempore il contribuente ad una tassazione avulsa dalla sua capacità contributiva e nel contempo ripristinatoria del principio solve et repete", senza peraltro prevedere il diritto alla percezione degli interessi.

2.-- E' intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, per chiedere che la questione venga dichiarata "in parte non ammissibile ed in toto non fondata".

La difesa erariale rileva, preliminarmente, l'inammissibilità del terzo dei profili prospettati dall'ordinanza di rimessione, sia perché l'asserita "tassazione avulsa" non è prevista dalla disposizione denunciata, sicché si avrebbe aberractio ictus, sia perché la possibilità di recuperare quanto eventualmente pagato in eccedenza (sulla base di estimi successivamente ridotti) non riguarderebbe l'ISI, ma sarebbe prevista (e non dalla norma sub iudice) ai soli fini delle imposte sui redditi e soltanto per le riduzioni eventualmente derivate dall'applicazione dei commi 1-bis e 1-ter dell'art. 2 della legge n. 75 del 1993 (i pochi concreti casi non hanno, peraltro, interessato gli immobili di che trattasi). Inammissibile sarebbe anche il profilo riguardante l'art. 24 della Costituzione, atteso che "non può parlarsi di solve et repete e che il parametro costituzionale riguarda solo il processo giurisdizionale".

Quanto poi ai primi due profili, si rileva che l'ordinanza di rimessione ricalca argomenti esposti in ordinanze del TAR Umbria (R.O. nn. 31 e 33 del 1994) con riguardo all'ICI, osservando, nel contempo, che la Commissione remittente tende essenzialmente a valorizzare l'inciso contenuto nella sentenza n. 263 del 1994 ove si legge che "imposte ordinarie che a tali rendite si rifacessero porterebbero ad una sostanziale progressiva erosione del bene". Osservato che potrebbe risultare assorbente la considerazione che la ISI è una imposta straordinaria, si rileva che, tuttavia, per scongiurare l'eventualità della riproposizione di analoghi dubbi con riferimento all'ICI, andrebbe affrontata la sostanza della questione: "e cioè se le imposte commisurate a valori patrimoniali incontrino o meno un limite pervero non previsto dalla Costituzione" che consisterebbe nella "possibilità di far fronte all'onere di dette imposte mediante i 'frutti' effettivamente conseguiti".

Al riguardo l'Avvocatura osserva che le imposte su valori patrimoniali per loro natura colpiscono non i frutti ma proprio il capitale; esse chiamano a concorrere alle spese pubbliche non i percettori di redditi, ma i possessori di beni in quanto tali. Secondo la difesa erariale, il carattere di imposta patrimoniale dell'ISI -- e, a fortiori, dell'ICI -- resta, peraltro, tutt'altro che dimostrato, potendosi anzi addurre argomenti di segno opposto. Il parametro di cui all'art. 42 della Costituzione, d'altra parte, concerne l'espropriazione per motivi di interesse generale, non anche l'imposizione tributaria sul possesso o sul reddito o sul trasferimento di una specie di beni. Né può sostenersi che ISI (ed ICI) siano misure di confisca.

3.-- In una successiva memoria, la difesa erariale rileva che l'ordinanza di rimessione non adduce che in concreto l'ISI abbia effettivamente avuto l'ipotizzato carattere espropriativo, donde l'inammissibilità del profilo prospettato, che sarebbe, comunque, infondato nel merito.

Si deduce, altresí, che, ammessa la distinzione tra imposizione tributaria sul patrimonio e/o sul reddito ed espropriazione, "la linea di confine non può coincidere -- nel caso di imposizione patrimoniale -- con il reddito effettivo" e in genere con l'ammontare dei frutti del bene.

Nessuna norma costituzionale impedirebbe, peraltro, di colpire fiscalmente il patrimonio in quanto tale; ed anzi potrebbe dubitarsi della compatibilità, con l'art. 53, secondo comma, della Costituzione, di un sistema tributario che escludesse totalmente le imposte sul patrimonio.

Considerato in diritto

 

1.-- Con l'ordinanza in epigrafe, la Commissione tributaria di primo grado di Piacenza ha sollevato, in relazione agli artt. 3, 53, 24 e 42 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 7 del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333 (Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica), convertito, con modificazioni, nella legge 8 agosto 1992, n. 359.

La disposizione censurata istituisce un'imposta straordinaria immobiliare sul valore dei fabbricati, siti nel territorio dello Stato a qualsiasi uso destinati, costituito, per i fabbricati iscritti in catasto, da quello risultante dall'applicazione di un moltiplicatore all'ammontare delle rendite catastali determinate a seguito della revisione generale disposta con il decreto del Ministro delle finanze 20 gennaio 1990.

Venuta meno, a seguito dell'annullamento da parte del giudice amministrativo, la disciplina contenuta in quest'ultimo decreto, unitamente a quella del successivo del 27 settembre 1991 che, in conformità al primo, aveva stabilito le nuove tariffe di estimo per l'intero territorio nazionale con effetto dal primo gennaio 1992, il remittente implicitamente assume, in ciò conformandosi all'orientamento espresso da questa Corte (v. sentenza n. 309 del 1995), che il riferimento fatto dal comma 3 del denunciato art. 7 alle rendite catastali di cui al menzionato decreto 20 gennaio 1990 sia da ritenere tuttora operante, in ragione della nuova base di legittimazione conferita, alla disciplina dei provvedimenti annullati, dall'art. 2 del decreto-legge 23 gennaio 1993, n. 16, convertito, con modificazioni, nella legge 24 marzo 1993, n. 75.

2.-- Secondo l'ordinanza, la disposizione censurata, nello stabilire che l'importo del tributo sia calcolato sulla base del valore degli immobili, determinato secondo le nuove tariffe d'estimo di cui al decreto ministeriale 20 gennaio 1990, si porrebbe in contrasto con:

- l'art. 3 della Costituzione, in quanto colpisce "solo i possessori di beni immobili (facilmente tassabili) a differenza delle altre categorie di cittadini che possiedono patrimoni di altra natura (es. mobiliari), che ne sono andati esenti";

- lo stesso art. 3 nonché gli artt. 53 e 42 della Costituzione, prevedendo, in contrasto con il principio della capacità contributiva e con quello della progressività, una tassazione stabilita su "un'ipotesi astratta di fruttuosità del valore capitale dell'immobile determinato in base a criteri di tipo 'patrimoniale', che la stessa norma mostra di voler abbandonare per i periodi di imposta successivi al 1994, palesando così anche la propria intrinseca irrazionalità"; e questo a tener conto non solo della circostanza che la giurisprudenza costituzionale non avrebbe "assolto in assoluto il sistema catastale", evidenziando, anzi, la necessità di una sua riforma, ma anche dell'effetto, al limite, "ablatorio" del bene, derivante dalla mancata previsione della deduzione delle "passività che gravano sull'immobile, ai fini della determinazione della base imponibile" come pure della "indetraibilità" dell'ISI ai fini IRPEF o IRPEG;

- gli stessi artt. 3 e 53 della Costituzione, nonché l'art. 24 della Costituzione, in quanto, "differendo al periodo successivo all'entrata in vigore dei nuovi estimi la possibilità per i contribuenti di recuperare quanto eventualmente pagato in eccedenza per l'ISI ed il relativo contenzioso", "sottopone medio tempore il contribuente ad una tassazione avulsa dalla sua capacità contributiva e, nel contempo, ripristinatoria del principio solve et repete", "senza peraltro prevedere il diritto alla percezione degli interessi".

3.-- Non fondata è, anzitutto, la questione relativa al trattamento discriminatorio di cui, secondo l'ordinanza, verrebbero fatti oggetto i possessori di immobili, per effetto dell'introduzione dell'imposta straordinaria, rispetto ai possessori di patrimoni di altra natura. In proposito non si può non rammentare, in linea generale, il principio ripetutamente affermato dalla giurisprudenza costituzionale, secondo il quale resta affidata alla discrezionalità del legislatore l'individuazione delle situazioni espressive della idoneità dei singoli cittadini all'obbligazione di imposta, salvo il controllo di costituzionalità sotto il profilo della non arbitrarietà e non irrazionalità (sentenze nn. 42 del 1992 e 143 del 1995).

Ma, a parte il principio testé richiamato, la lamentata disparità di trattamento va comunque esclusa perché la disposizione di cui all'art. 7 in esame, nell'ambito di misure correttive della finanza pubblica, fondate, oltre che sulle riduzioni di spesa, sull'aumento delle entrate, coinvolge in tali obiettivi di risanamento del bilancio dello Stato non solo i patrimoni immobiliari, ma anche quelli rappresentati dalle liquidità finanziarie, tanto che al sesto comma, introduce anche la ritenuta del 6 per mille sui depositi bancari, con una norma che ha superato positivamente il controllo di costituzionalità (v. sentenza n. 143 del 1995). E questo a tacere di altri provvedimenti, coevi, rispondenti alle medesime finalità.

4.-- La disposizione in esame forma, poi, oggetto di una complessa e articolata censura, anch'essa non fondata, che, in riferimento agli artt. 3, 53 e 42 della Costituzione, si basa essenzialmente sull'assunto della mancanza, nella situazione presa in considerazione dal legislatore, di elementi espressivi di una effettiva idoneità del soggetto all'obbligazione di imposta, anche sotto il profilo del principio di progressività. Trattasi, almeno in parte, della riproposizione di profili già sottoposti da altri giudici all'esame della Corte e da quest'ultima ritenuti non fondati, come quello secondo il quale la tassazione delle rendite immobiliari si fonderebbe su un'ipotesi astratta di fruttuosità del valore capitale dell'immobile, determinato in base a criteri di tipo patrimoniale che la stessa norma mostra di voler abbandonare per i periodi di imposta successivi al 1994.

Al riguardo la Corte (in particolare nella sentenza n. 263 del 1994, ma anche nella successiva sentenza n. 309 del 1995), dopo aver rilevato che gli attuali criteri di determinazione delle rendite catastali si ispirano verosimilmente alla constatazione di una scarsa attuale rappresentatività del mercato delle locazioni, in ordine alla potenziale capacità di produrre reddito da parte del bene, ha precisato che il previsto mutamento di indirizzo normativo in materia trova la sua ragione nella più recente tendenza legislativa, volta, come è noto, a superare il regime vincolistico delle locazioni.

Quanto all'invocato principio di progressività, occorre aggiungere che esso si riferisce, secondo costante giurisprudenza, all'ordinamento tributario nel suo complesso e non alle singole imposte (v. sentenze nn. 263 del 1994 e 143 del 1995).

Non nuova, e del pari non fondata, nella linea della denunciata mancanza, nella situazione ipotizzata dal legislatore, di indici rivelatori di ricchezza (e quindi di una effettiva capacità contributiva), appare anche la censura rivolta dall'ordinanza al sistema catastale. La Corte già a suo tempo ha affermato la non irragionevolezza dell'imposizione basata sulle rendite catastali, anche se esse non coincidono con il reddito effettivamente percepito, essendo la capacità contributiva rivelata non solo dal reddito, ma anche dall'attitudine di un bene a produrlo (sentenza n. 16 del 1965).

Occorre, peraltro, considerare che, secondo il meccanismo di tassazione previsto per l'ISI, il sistema catastale rileva non in quanto indicativo di un reddito, bensì quale strumento per risalire al valore del bene; valore al quale è commisurata l'imposta.

Il remittente, nel rilevare, poi, che le imposte patrimoniali sono conformi al dettato costituzionale solo se possono essere pagate con il reddito, lamenta la mancata previsione, ai fini della determinazione della base imponibile ISI, della deduzione delle passività gravanti sull'immobile, con un effetto che, secondo l'ordinanza, potrebbe rivelarsi al limite "ablatorio", ove anche si consideri che l'imposta straordinaria non è deducibile dall'imponibile IRPEF e dall'imponibile IRPEG.

La Corte osserva che l'imposta straordinaria sugli immobili costituisce un tributo la cui istituzione, come emerge dai lavori parlamentari, aveva il fine di reperire mezzi per il bilancio dello Stato in una situazione economica del Paese che appariva di notevole gravità, esigendo dai cittadini sacrifici straordinari -- peraltro limitati ad un solo anno -- sicché sono proprio tali caratteri a consentire, secondo un canone di giudizio altre volte seguito (sentenze n. 143 del 1995 e n. 159 del 1985), di escludere la violazione degli invocati principi costituzionali, non potendosi negare il collegamento oggettivo del tributo, così come disciplinato, ad un concreto presupposto impositivo.

Il carattere decisivo di questi rilievi esonera, d'altro canto, la Corte dall'approfondire la problematica di principio adombrata dal giudice remittente, non solo circa la riconducibilità dell'ISI fra le imposte patrimoniali ma anche circa i limiti in cui possono ritenersi conformi a Costituzione le stesse imposte patrimoniali come pure in ordine alla mancata previsione della deduzione delle passività gravanti sull'immobile; profilo, quest'ultimo, prospettato, peraltro, in linea del tutto ipotetica, senza offrire concreti elementi valutativi riferiti alla fattispecie.

Fermo quanto sopra, per quanto attiene poi all'ulteriore problematica che viene adombrata nell'ordinanza, della mancata previsione della deducibilità dell'ISI dall'imponibile IRPEF e IRPEG, la questione è qui posta impropriamente, in quanto relativa al regime giuridico e quindi alla fase applicativa delle predette IRPEF e IRPEG. E questo non senza ricordare, in ogni caso, la discrezionalità di cui, in materia di deducibilità di oneri, gode, ai fini dell'imposizione sui redditi, il legislatore, secondo criteri volti a conciliare -- sulla base di valutazioni politico-economiche -- le esigenze finanziarie dello Stato con quelle del cittadino, chiamato a contribuire ai bisogni della vita collettiva, non meno importanti delle esigenze della vita individuale (sentenze nn. 134 e 143 del 1982; ordinanza n. 556 del 1987; sentenza n. 574 del 1988).

5.-- Quanto, infine, all'ultimo profilo di censura, che attiene alla prospettata violazione degli artt. 3, 53 e 24 della Costituzione, il remittente ritiene che la tesi da lui sostenuta di una tassazione che risulterebbe avulsa dalla capacità contributiva trovi, nella specie, ulteriore conferma anche nel previsto differimento, al periodo successivo all'entrata in vigore dei nuovi estimi, sia della possibilità per i contribuenti di recuperare quanto eventualmente pagato in eccedenza per l'ISI, sia del relativo contenzioso; con ripristino del principio del solve et repete e senza che sia prevista la corresponsione di interessi sulle somme versate in eccedenza.

A ben vedere la censura, così come prospettata, si scinde in due profili.

Il primo è inteso a ribadire, in via di principio, l'inesistenza di una effettiva capacità contributiva in ragione del carattere non definitivo della tassazione.

Al riguardo va preliminarmente precisato che il giudice remittente muove dall'erroneo assunto che secondo la disciplina vigente in materia -- ove le rendite catastali, rideterminate con decreto ministeriale, secondo i nuovi criteri previsti a decorrere, in un primo momento dal 1· gennaio 1995, ma ormai dal 1° gennaio 1997 in forza dell'art. 1, comma 5, del decreto-legge 28 giugno 1995, n. 250, convertito dalla legge 8 agosto 1995, n. 349, dovessero risultare inferiori a quelle di cui al decreto ministeriale 27 settembre 1991 -- il contribuente possa tenerne conto ai fini dell'imposta personale da corrispondere per il 1992.

In effetti, come la Corte ha già avuto occasione di rilevare (sentenza n. 263 del 1994), la normativa vigente in materia, in particolare l'art. 2 del decreto-legge 23 gennaio 1993, n. 16, così come modificato dalla legge di conversione n. 75 del 1993, prevede una eventualità di revisione delle rendite catastali, con un raffronto che, però, agli effetti sopra accennati, deve essere operato non fra le tariffe di estimo che entreranno in vigore dal 1997 e quelle di cui al decreto del Ministro delle Finanze 27 settembre 1991, bensì fra quelle di cui a quest'ultimo decreto e quelle risultanti all'esito dei ricorsi alle Commissioni censuarie, proposti dai Comuni ai sensi dei commi 1-bis, 1-ter e 1-quater dello stesso art. 2 della legge n. 75 del 1993.

Ma anche in questa più corretta prospettiva la questione -- da intendersi evidentemente come prospettazione da parte del remittente dell'esigenza che l'imposizione tributaria, per rispondere all'effettiva capacità contributiva, debba basarsi su presupposti non suscettibili di essere rimessi in discussione -- non può ritenersi fondata in quanto, come questa Corte ha già rilevato nella sentenza n. 309 del 1995, non si può ritenere violato il principio di capacità contributiva per il solo fatto che una disposizione preveda, in via oltretutto eventuale, la revisione degli estimi, senza coinvolgere i criteri di determinazione delle rendite fissati dal legislatore, bensì i soli risultati applicativi di essi, in vista di una loro più esatta determinazione.

Quanto al secondo profilo, lo stesso, ponendosi come logicamente autonomo dal primo, appare volto a censurare una pretesa reintroduzione del principio del solve et repete, senza che sia prevista la corresponsione di interessi sulle somme versate in eccedenza.

Sotto tale profilo la questione è da ritenersi inammissibile in quanto essa investe propriamente non la disposizione oggetto di denuncia nell'ordinanza di remissione bensì quella, diversa, contenuta nell'art. 2 della legge n. 75 del 1993 che, oltre a conferire nuova base di legittimità ai decreti sulle rendite catastali, integrando per questa parte l'art. 7 denunciato, contiene ulteriori autonome previsioni normative, che appaiono irrilevanti in ordine all'oggetto del giudizio pendente innanzi alla Commissione tributaria remittente.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara:

a) inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 7 del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333 (Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica), convertito, con modificazioni, nella legge 8 agosto 1992, n. 359, sollevata dalla Commissione tributaria di primo grado di Piacenza, sotto il profilo della pretesa reintroduzione del principio del solve et repete e della mancata previsione degli interessi su quanto eventualmente pagato in eccedenza per l'ISI dal contribuente, in riferimento agli artt. 3, 53 e 24 della Costituzione, con l'ordinanza in epigrafe;

b) non fondate le altre questioni di legittimità costituzionale del predetto art. 7, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 53 e 42 della Costituzione, con la medesima ordinanza.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24 gennaio 1996.

Mauro FERRI, Presidente

Massimo VARI, Redattore

Depositata in cancelleria il 5 febbraio 1996.