Sentenza n. 141 del 2009

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SENTENZA N. 141

ANNO 2009

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-  Francesco                                       AMIRANTE            Presidente

-  Ugo                                                DE SIERVO            Giudice

-  Paolo                                             MADDALENA               “

-  Alfio                                              FINOCCHIARO            “

-  Alfonso                                          QUARANTA                 “

-  Franco                                           GALLO                         “

-  Gaetano                                         SILVESTRI                   “

-  Sabino                                           CASSESE                     “

-  Maria Rita                                      SAULLE                       “

-  Giuseppe                                        TESAURO                     “

-  Paolo Maria                                    NAPOLITANO              “

-  Giuseppe                                        FRIGO                         “

-  Alessandro                                     CRISCUOLO                “

-  Paolo                                             GROSSI                         “

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2, secondo periodo, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell’art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413), come modificato dall’art. 3-bis, comma 1, lettera b), del decreto-legge 30 settembre 2005, n. 203 (Misure di contrasto all’evasione fiscale e disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 2 dicembre 2005, n. 248, promosso dalla Commissione tributaria provinciale di Genova nel giudizio vertente tra Nicolò Patrone ed il Comune di Genova, con ordinanza depositata il 4 agosto 2008, iscritta al n. 377 del registro ordinanze 2008 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 49, prima serie speciale, dell’anno 2008.

Udito nella camera di consiglio del 1° aprile 2009 il giudice relatore Franco Gallo.

Ritenuto in fatto

1. – Nel corso di un giudizio riguardante l’impugnazione di una ingiunzione di pagamento del canone per l’installazione di mezzi pubblicitari nel Comune di Genova relativamente all’anno 2004, la Commissione tributaria provinciale di Genova, con ordinanza depositata il 4 agosto 2008, ha sollevato, in riferimento all’art. 102, secondo comma, della Costituzione, questione di legittimità dell’art. 2, comma 2, secondo periodo, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell’art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413) – come modificato dall’art. 3-bis, comma 1, lettera b), del decreto-legge 30 settembre 2005, n. 203 (Misure di contrasto all’evasione fiscale e disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 2 dicembre 2005, n. 248 –, nella parte in cui stabilisce che «Appartengono alla giurisdizione tributaria […] le controversie attinenti […] il canone comunale sulla pubblicità» previsto dall’art. 62 del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446.

2. – La Commissione tributaria rimettente premette, in punto di fatto, che: a) il ricorrente nel giudizio principale ha dedotto, quale motivo di impugnazione dell’ingiunzione di pagamento emessa dal Comune di Genova, di non avere esercitato alcuna attività nell’àmbito di tale Comune sin dal 2001, anno in cui aveva concesso in affitto la propria azienda ed aveva presentato denuncia di cessazione dell’attività d’impresa alla Camera di commercio ed all’Agenzia delle entrate competenti; b) il resistente Comune ha eccepito che l’ingiunzione di pagamento (preceduta, nella specie, da un non impugnato avviso di pagamento) non rientra nell’elenco degli atti autonomamente impugnabili davanti alle commissioni tributarie contenuto nell’art. 19, comma 3, del decreto legislativo n. 546 del 1992, con conseguente inammissibilità del ricorso del contribuente.

3. – Il giudice rimettente premette altresí, in punto di diritto, che: a) la controversia portata al suo esame ha ad oggetto non il pagamento dell’imposta sulla pubblicità disciplinata dal capo I del decreto legislativo 15 novembre 1993, n. 507, ma del canone per l’installazione di mezzi pubblicitari introdotto dall’art. 62 del d.lgs. n. 446 del 1997; b) in forza del comma 1 di quest’ultima disposizione, i Comuni hanno la potestà regolamentare «di escludere l’applicazione nel proprio territorio dell’imposta comunale sulla pubblicità di cui al capo I del decreto legislativo 15 novembre 1993, n. 507, sottoponendo le iniziative pubblicitarie che incidono sull’arredo urbano o sull’ambiente ad un regime autorizzatorio e assoggettandole al pagamento di un canone in base a tariffa»; c) la regola dell’alternatività tra l’«imposta comunale sulla pubblicità» ed il «canone per l’installazione dei mezzi pubblicitari», posta da detta disposizione, è spiegabile solo con la diversa natura – rispettivamente, tributaria e patrimoniale – dei prelievi; d) pertanto, il citato canone costituisce il corrispettivo, in base a tariffa, dell’autorizzazione all’installazione del mezzo pubblicitario e la controversia sul medesimo canone non ha natura tributaria; d) in una analoga ipotesi di controversia non tributaria, la Corte costituzionale, con sentenza n. 64 del 2008, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale, per violazione del secondo comma dell’art. 102 Cost., dell’art. 2, comma 2, secondo periodo, del d.lgs. n. 546 del 1992 – come modificato dall’art. 3-bis, comma 1, lettera b), del decreto-legge n. 203 del 2005 –, nella parte in cui stabilisce che «Appartengono alla giurisdizione tributaria anche le controversie relative alla debenza del canone per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche previsto dall’articolo 63 del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446, e successive modificazioni».

4. – Su tali premesse, il giudice a quo afferma, quanto alla non manifesta infondatezza della questione, che la norma censurata – nell’attribuire alla giurisdizione tributaria controversie aventi natura non tributaria, quali quelle attinenti al canone comunale sulla pubblicità – «fa venire meno il fondamento costituzionale della giurisdizione del giudice tributario» e, pertanto, víola l’art. 102, secondo comma, Cost.

5. – Quanto alla rilevanza, la Commissione tributaria osserva che la decisione sulla controversia oggetto di ricorso «postula che la stessa abbia natura tributaria» e che, pertanto, non sussista il difetto di giurisdizione, rilevabile d’ufficio, derivante dall’accoglimento della sollevata questione.

Considerato in diritto

1. – La Commissione tributaria provinciale di Genova dubita della legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2, secondo periodo, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell’art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413), come modificato dall’art. 3-bis, comma 1, lettera b), del decreto-legge 30 settembre 2005, n. 203 (Misure di contrasto all’evasione fiscale e disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 2 dicembre 2005, n. 248, nella parte in cui dispone che «Appartengono alla giurisdizione tributaria […] le controversie attinenti […] il canone comunale sulla pubblicità», previsto dall’art. 62 del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446.

In particolare, la Commissione tributaria provinciale afferma che la norma denunciata víola l’art. 102, secondo comma, della Costituzione, perché, attribuendo espressamente alla cognizione delle commissioni tributarie controversie non aventi ad oggetto un tributo, quali quelle relative al canone per l’installazione dei mezzi pubblicitari (CIMP), «fa venire meno il fondamento costituzionale della giurisdizione del giudice tributario».

2. – La questione non è fondata, perché il CIMP ha natura tributaria.

2.1. – Per giungere all’affermazione dell’illegittimità costituzionale della disposizione denunciata, il rimettente muove dalle seguenti due premesse: a) in base all’evocato parametro costituzionale, la giurisdizione tributaria è legittima solo se rimane circoscritta alle controversie aventi ad oggetto prelievi di natura tributaria; b) il predetto canone (CIMP), oggetto del giudizio principale, non ha questa natura.

2.2. – La prima di tali premesse è corretta. Per costante giurisprudenza di questa Corte, infatti, la giurisdizione del giudice tributario «deve ritenersi imprescindibilmente collegata» alla «natura tributaria del rapporto» (ordinanze n. 395 del 2007; n. 427, n. 94, n. 35 e n. 34 del 2006), con la conseguenza che l’attribuzione alla giurisdizione tributaria di controversie non aventi tale natura comporta la violazione del divieto costituzionale di istituire giudici speciali posto dall’art. 102, secondo comma, Cost. (sentenze n. 130 e n. 64 del 2008).

    2.3. – Non è, invece, corretta la seconda delle suddette premesse del giudice a quo, e cioè quella relativa             all’asserita natura di prelievo non fiscale del CIMP.

2.3.1. – In proposito va preliminarmente osservato che, in tema di giurisdizione tributaria, il legislatore, con l’art. 12, comma 2, della legge 28 dicembre 2001, n. 448 (in vigore dal 1° gennaio 2002), ha inteso abbandonare – almeno in linea di principio – il criterio dell’enumerazione tassativa dei prelievi oggetto delle controversie attribuite alla cognizione delle commissioni tributarie ed ha preferito estendere detta giurisdizione «a tutte le controversie aventi ad oggetto i tributi di ogni genere e specie», nonché «le sovrimposte e le addizionali, le sanzioni amministrative, comunque irrogate da uffici finanziari, gli interessi e ogni altro accessorio». Tale tendenza legislativa al progressivo ampliamento dell’oggetto della giurisdizione tributaria è stata successivamente confermata dall’art. 3-bis, comma 1, lettere a) e b), del sopra citato decreto-legge n. 203 del 2005, il quale, nel modificare i commi 1 e 2 dell’art. 2 del d.lgs. n. 546 del 1992, ha precisato che appartengono alla giurisdizione tributaria le controversie concernenti sia, in generale, i tributi di ogni genere e specie «comunque denominati» (lettera a); sia, in particolare, «la debenza del canone per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche previsto dall’articolo 63 del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446, e successive modificazioni, e del canone per lo scarico e la depurazione delle acque reflue per lo smaltimento dei rifiuti urbani, nonché le controversie attinenti l’imposta o il canone comunale sulla pubblicità e il diritto sulle pubbliche affissioni» (lettera b). Tuttavia, in base alla sopra ricordata giurisprudenza di questa Corte, la legittimità costituzionale dell’estensione della giurisdizione tributaria alle controversie concernenti i prelievi specificamente indicati nella lettera b) del comma 1 del citato art. 3-bis è subordinata all’effettiva natura tributaria delle controversie medesime e, quindi, dei prelievi che ne costituiscono l’oggetto. Non ha alcun rilievo, al riguardo, la denominazione usata dal legislatore, occorrendo riscontrare in concreto e caso per caso se si sia o no in presenza di un tributo. Ciò vale, ovviamente, anche per tutti quei prelievi la cui denominazione, a partire dalla metà degli anni novanta dello scorso secolo, è stata dal legislatore mutata da «imposta», «tassa» o «tributo» in «canone», «tariffa» o simili, nel quadro di un dichiarato intento di “defiscalizzazione”.

2.3.2. – Per valutare se, in concreto, il CIMP sia o no un tributo occorre, dunque, interpretarne la disciplina sostanziale alla luce dei criteri elaborati dalla giurisprudenza costituzionale per qualificare come tributarie alcune entrate: criteri che consistono nella doverosità della prestazione, in mancanza di un rapporto sinallagmatico tra parti, e nel collegamento di detta prestazione alla pubblica spesa in relazione a un presupposto economicamente rilevante (ex plurimis: sentenze n. 335 e n. 64 del 2008, n. 334 del 2006 e n. 73 del 2005). In mancanza di una giurisprudenza di legittimità sulla natura del CIMP, questa Corte deve necessariamente procedere ad un autonomo esame delle caratteristiche del prelievo, al fine di individuarne la natura; e ciò diversamente da quanto fatto, con la sentenza n. 64 del 2008, in relazione al canone per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche previsto dall’articolo 63 del d.lgs. n. 446 del 1997 (COSAP), sulla cui natura di corrispettivo privatistico si era piú volte espressa la Corte di cassazione.

2.3.3. – È appena il caso di sottolineare, in via preliminare, che per accertare la sussistenza di dette caratteristiche non rilevano né la formale denominazione del prelievo - come sopra accennato - né la regola dell’alternatività tra l’imposta comunale sulla pubblicità ed il CIMP stabilita dal comma 1 dell’art. 62 del d.lgs. n. 446 del 1997 («I comuni possono […] escludere l’applicazione, nel proprio territorio, dell’imposta comunale sulla pubblicità di cui al capo I del decreto legislativo 15 novembre 1993, n. 507, sottoponendo le iniziative pubblicitarie che incidono sull’arredo urbano o sull’ambiente ad un regime autorizzatorio e assoggettandole al pagamento di un canone in base a tariffa»).

Quanto al nomen iuris del prelievo, lo stesso comma 1 dell’art. 2 del d.lgs. n. 546 del 1992, ponendosi nella medesima prospettiva della giurisprudenza costituzionale (con le citate sentenze n. 335 e n. 64 del 2008, n. 334 del 2006 e n. 73 del 2005), precisa che appartengono alla giurisdizione tributaria le controversie concernenti «i tributi di ogni genere e specie comunque denominati». Ne discendono l’assoluta ininfluenza, ai fini del giudizio di costituzionalità, dell’autoqualificazione legislativa del prelievo e la conseguente necessità di desumere la natura del prelievo stesso dalla sola disciplina posta dal legislatore ordinario. Al riguardo, va sottolineato che la specifica indicazione delle controversie sul CIMP tra quelle di spettanza delle commissioni tributarie non ha un valore interpretativo univoco, perché può indifferentemente ricondursi tanto all’intento del legislatore di riaffermare il principio secondo cui la giurisdizione tributaria riguarda solo prelievi fiscali, quanto, al contrario, a quello di includere in tale giurisdizione tributaria anche controversie concernenti prelievi non aventi tale natura. È significativa in proposito la menzione, nello stesso comma 1, tra le controversie specificamente attribuite alla cognizione delle commissioni tributarie, di quelle relative alla «debenza» sia dell’«imposta comunale sulla pubblicità», della cui natura tributaria non si è mai dubitato, sia del CIMP.

Quanto, poi, all’assunto del rimettente, secondo cui dall’alternatività tra imposta sulla pubblicità e CIMP deriverebbe necessariamente la natura non fiscale di quest’ultimo, è sufficiente osservare in contrario che nulla osta a che un prelievo tributario sia sostituito da un prelievo della stessa natura, come dimostrato dai numerosi esempi di tributi surrogatori esistenti nell’ordinamento.

2.3.4. – Passando all’esame della disciplina legislativa del CIMP, occorre constatare l’evidente continuità tra detta disciplina e quella dell’imposta che esso sostituisce quando il Comune opti per la sua istituzione ai sensi del citato comma 1 dell’art. 62 del d.lgs. n. 446 del 1997.

Un primo elemento di sicura analogia attiene all’oggetto dei suddetti due prelievi. Il presupposto dell’imposta è costituito dalla «diffusione di messaggi pubblicitari» (cioè di messaggi diffusi nell’esercizio di un’attività economica allo scopo di promuovere la domanda di beni o servizi, ovvero di messaggi finalizzati a migliorare l’immagine del soggetto pubblicizzato), effettuata «attraverso forme di comunicazione visive od acustiche, diverse da quelle assoggettate al diritto sulle pubbliche affissioni», in luoghi pubblici ovvero aperti o esposti al pubblico (art. 5 del d.lgs. n. 507 del 1993). Analogamente, il canone è dovuto per «l’installazione di mezzi pubblicitari» (rubrica dell’art. 62 del d.lgs. n. 446 del 1997) o, piú precisamente, per l’effettuazione di «iniziative pubblicitarie che incidono sull’arredo urbano o sull’ambiente» (testo del medesimo art. 62). Al riguardo, non può porsi in dubbio che la mera “incidenza” dell’iniziativa pubblicitaria sull’arredo urbano o sull’ambiente, richiesta per l’applicazione del canone, è del tutto omologa alla diffusione di messaggi pubblicitari prevista per l’applicazione dell’imposta comunale sulla pubblicità; con la significativa conseguenza che non sono ipotizzabili attività pubblicitarie che costituiscano presupposto solo di detta imposta e non anche del CIMP. Al pari di ciò che avviene per l’imposta sulla pubblicità, l’obbligo di pagare il CIMP nasce, dunque, direttamente in forza della legge, per il solo fatto dell’installazione dei mezzi pubblicitari, con l’unica differenza - rilevante ai soli fini procedimentali - che tale installazione, per essere considerata legittima, deve essere preceduta, per l’imposta sulla pubblicità, da un’apposita dichiarazione del contribuente e, per il CIMP, dall’autorizzazione del Comune.

Dal sopra individuato presupposto oggettivo dei due suddetti prelievi discende, altresí, che essi sono dovuti indipendentemente dal fatto dell’occupazione di beni pubblici e, quindi, dalla possibilità di instaurare una correlazione tra tali prelievi e l’uso dei beni stessi. In particolare, né l’imposta né il canone possono essere qualificati come controprestazione dell’uso di aree pubbliche; uso, questo, che costituisce, invece, la giustificazione del COSAP o, in alternativa, il presupposto della TOSAP (tassa per l’occupazione di spazi e aree pubbliche). Ciò è ancora piú evidente nel caso in cui il mezzo pubblicitario sia installato in aree private. In tale caso, infatti, la stessa natura privata del bene sul quale avviene l’installazione esclude in radice la possibilità di configurare un nesso di corrispettività contrattuale tra il CIMP e l’utilizzazione dell’area.

Un secondo elemento di analogia è rappresentato dal fatto che il Comune, al fine di applicare sia l’imposta che il canone per la pubblicità, deve adottare un apposito regolamento che ha sostanzialmente lo stesso contenuto per ambedue i prelievi, quanto agli elementi strutturali e procedimentali che li caratterizzano. In particolare, ai fini dell’applicazione dell’imposta, detto regolamento deve precisare, ai sensi degli artt. 3 e 4 del d.lgs. n. 507 del 1993, tra l’altro: a) «le modalità di effettuazione della pubblicità» (comma 2 dell’art. 3); b) «le modalità per ottenere il provvedimento per l’installazione, nonché i criteri per la realizzazione del piano generale degli impianti» (comma 3 dello stesso art. 3); c) la tariffa, da determinarsi, per le affissioni di carattere commerciale, in relazione alla facoltà per il Comune di suddividere il territorio in due categorie, a seconda della loro importanza (art. 4), ed in relazione alla presenza di «rilevanti flussi turistici desumibili da oggettivi indici di ricettività» (comma 6 dell’art. 3). In modo analogo, il regolamento per l’applicazione del canone, ai sensi dell’art. 62 del d.lgs. n. 446 del 1997, deve precisare, tra l’altro: a) la «tipologia dei mezzi di effettuazione della pubblicità esterna» (comma 2, lettera a, dell’art. 3) e «le modalità di impiego dei mezzi pubblicitari» (lettera c dello stesso comma); b) «le procedure per il rilascio e per il rinnovo dell’autorizzazione» alle iniziative pubblicitarie (lettera b dello stesso comma); c) la tariffa, da determinarsi «con criteri di ragionevolezza e gradualità tenendo conto della popolazione residente, della rilevanza dei flussi turistici presenti nel comune e delle caratteristiche delle diverse zone del territorio comunale e dell’impatto ambientale in modo che detta tariffa […] non ecceda di oltre il 25 per cento le tariffe stabilite ai sensi del decreto legislativo 15 novembre 1993, n. 507, per l’imposta comunale sulla pubblicità […]» (lettera d dello stesso comma). Dal complesso di tali disposizioni, risulta evidente che il legislatore ha fissato, per la redazione dei regolamenti dei due prelievi, criteri affini, anche se non identici. Appare particolarmente significativo, al riguardo, che la tariffa del CIMP sia parametrata a quella dell’imposta, nel senso che la prima non può superare di piú di un quarto la seconda. Ne deriva che l’importo del canone, analogamente a quello dell’imposta, non è determinato in funzione del criterio della copertura del costo di un eventuale servizio prestato dal Comune a favore di chi installi il mezzo pubblicitario. Ciò conferma l’impossibilità di configurare un rapporto di corrispettività contrattuale.

Un altro motivo di analogia tra i prelievi è dato dal fatto che, per la pubblicità assoggettata a canone, si applica un sistema di controllo, accertamento e sanzioni amministrative degli abusi sostanzialmente corrispondente a quello previsto per la pubblicità assoggettata ad imposta. In relazione a quest’ultima, il d.lgs. n. 507 del 1993, prevede: a) l’applicazione dell’imposta anche nel caso di pubblicità effettuata in difetto od in difformità dalla dichiarazione che il soggetto passivo è tenuto a presentare preventivamente (art. 8); b) l’obbligo di vigilanza del Comune sulla corretta osservanza delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di pubblicità, alla violazione delle quali conseguono, a seconda dei casi, sanzioni amministrative non tributarie e tributarie, con rimozione degli impianti pubblicitari abusivi, loro sequestro (a séguito di ordinanza sindacale) a garanzia del pagamento dell’ammontare dell’imposta e degli accessori di questa nonché delle spese di rimozione e di custodia, anche con immediata copertura della pubblicità abusiva (art. 24, commi 1, 2, 3 e 4); c) l’adozione, da parte del Comune, di un «piano specifico di repressione dell’abusivismo, di recupero e riqualificazione con interventi di arredo urbano», eventualmente prevedendo procedure agevolative dirette a «favorire l’emersione volontaria dell’abusivismo», e ciò all’evidente fine di ridurre l’impatto della pubblicità sull’arredo urbano e sull’ambiente (art. 24, comma 5-bis). Analogamente, l’art. 62 del d.lgs. n. 446 del 1997 – proprio nel dichiarato intento di consentire al Comune il controllo preventivo, mediante un adeguato sistema di autorizzazioni, dell’impatto della pubblicità sull’arredo urbano e sull’ambiente – stabilisce che il regolamento istitutivo del CIMP debba prevedere: a) «l’equiparazione, ai soli fini del pagamento del canone, dei mezzi pubblicitari installati senza la preventiva autorizzazione a quelli autorizzati» (prima parte della lettera e del comma 2); b) per l’installazione dei mezzi pubblicitari non autorizzati, «sanzioni amministrative pecuniarie di importo non inferiore all’importo della relativa tariffa, né superiore al doppio della stessa tariffa» (seconda parte della medesima lettera e del comma 2); c) «la rimozione dei mezzi pubblicitari privi della prescritta autorizzazione, o installati in difformità della stessa, o per i quali non sia stato effettuato il pagamento del canone», nonché la «immediata copertura della pubblicità con essi effettuata» (comma 4).

In conclusione, i sottolineati forti tratti di continuità tra la disciplina del CIMP e quella dell’imposta sulla pubblicità evidenziano che il canone costituisce - seppure con diverso nomen iuris - un prelievo della stessa natura dell’imposta e presenta, perciò, tutte le caratteristiche del tributo, quali delineate dalla sopra richiamata giurisprudenza di questa Corte. Si è visto, infatti, che, con riguardo al CIMP, la disciplina degli elementi strutturali del prelievo e quella dei poteri e degli obblighi attinenti al controllo, all’accertamento e alle sanzioni degli abusi hanno la loro fonte nella legge e nel regolamento comunale, senza che sia dato alcun rilievo all’autonomia contrattuale delle parti.

2.3.5. – A tale conclusione non può opporsi che, nel caso di mezzo pubblicitario installato su beni pubblici, il CIMP ha natura di corrispettivo contrattuale, come risulterebbe dimostrato sia dall’analogia di detto prelievo con il COSAP, già ritenuto di natura non tributaria con la sentenza di questa Corte n. 64 del 2008, sia dalla differenziata disciplina legislativa dell’ipotesi di concorso della TOSAP e del COSAP, da un lato, con il CIMP e l’imposta sulla pubblicità, dall’altro.

Al contrario, proprio l’interpretazione sistematica della disciplina di tali prelievi conferma l’insussistenza di un rapporto sinallagmatico, sia esso di diritto privato comune o speciale, tra il soggetto tenuto al pagamento del canone per la pubblicità e il Comune.

2.3.5.1. - In primo luogo, va osservato, in proposito, che il CIMP, contrariamente al COSAP ed alla TOSAP, è connesso a un regime non concessorio – tale, cioè, da attribuire al concessionario diritti di cui altrimenti non sarebbe titolare – ma autorizzatorio, in senso proprio, delle iniziative pubblicitarie incidenti sull’arredo urbano o sull’ambiente (comma 1 dell’art. 62 del d.lgs. n. 446 del 1997). La previsione di un siffatto regime comporta che l’autore delle suddette iniziative è già titolare del diritto a esercitarle e che la previa autorizzazione, avendo la funzione di realizzare un controllo preventivo, non costituisce una controprestazione del Comune rispetto al pagamento del canone.

Una controprestazione rispetto al CIMP non potrebbe essere individuata neppure nell’uso dell’«arredo urbano» o dell’«ambiente», perché il Comune, nella specie, non è titolare di diritti propri su di essi, idonei ad essere scambiati sul mercato con atti di autonomia privata, ma è solo ente esponenziale dei relativi interessi pubblici e può vantare diritti solo sui singoli beni che compongono l’«arredo urbano» e l’«ambiente», in quanto tali beni appartengano al demanio o al patrimonio indisponibile o disponibile del Comune stesso.

2.3.5.2.- In secondo luogo, quanto all’assimilazione prospettata dal rimettente tra la disciplina del CIMP e quella del COSAP, va riconosciuto che vi sono alcune indubbie somiglianze tra i due prelievi. Infatti, anche il COSAP, in forza dell’art. 63 del d.lgs. n. 446 del 1997, al pari del CIMP, è sostitutivo di un precedente tributo, cioè della TOSAP (comma 1), ed è istituito e disciplinato dal Comune con regolamento, avendo riguardo all’individuazione dei presupposti amministrativi dell’attività oggetto del prelievo, alla determinazione della tariffa e ai controlli e sanzioni per l’attività abusiva (commi 1 e 2). Tuttavia, tali somiglianze attengono solo ad aspetti che non escludono la radicale diversità tra i due canoni.

Per quanto attiene al COSAP, infatti, il soggetto che occupa il bene pubblico è tenuto a prestare un corrispettivo (se titolare di concessione-contratto) o una indennità (se privo di tale concessione) per remunerare l’uso di un bene del demanio o del patrimonio indisponibile del Comune. Il pagamento del canone costituisce, cioè, la controprestazione dell’uso, legittimo od abusivo, del bene comunale e la natura non tributaria del COSAP non muta per il fatto che, riguardo alla particolare ipotesi di occupazione abusiva di beni comunali, la legge preveda l’obbligo per l’autore di tale illecito di corrispondere al Comune, oltre alle sanzioni amministrative, un’indennità predeterminata, commisurata al canone che sarebbe stato fissato ove la concessione fosse stata rilasciata. Tale previsione costituisce, infatti, una disposizione non di diritto tributario, ma di diritto privato speciale, perché ha la funzione di fissare in modo imperativo e forfetario l’entità del ristoro patrimoniale dovuto al Comune dall’autore dell’illecita occupazione e non ha, pertanto, la funzione distributiva che l’art. 53 Cost. assegna al tributo. Neppure la previsione di sanzioni amministrative, in aggiunta alla suddetta indennità di occupazione abusiva, esclude la natura privatistica del COSAP, perché, mediante l’occupazione sine titulo, si realizza pur sempre, oltre ad un illecito civile, la violazione – come tale sanzionabile in via amministrativa – delle norme poste a tutela dei beni pubblici soggetti a regime di concessione.

Per quanto attiene al CIMP, invece, al pagamento del canone non corrisponde - come si è visto - alcuna controprestazione da parte del Comune, perché né il consenso all’incidenza della pubblicità sull’arredo urbano o sull’ambiente, né il rilascio di autorizzazioni alle iniziative pubblicitarie possono qualificarsi come corrispettivi contrattuali a carico del Comune.

2.3.5.3. - In terzo luogo, deve ritenersi non rilevante, ai fini della qualificazione del CIMP, il fatto che la legge - nell’ipotesi di occupazione di beni pubblici a fini pubblicitari - da un lato, non escluda che la TOSAP o il COSAP si cumulino con l’imposta sulla pubblicità  (comma 7 dell’art. 9 del d.lgs. n. 507 del 1993; comma modificato dal comma 55 dell’art. 145 della legge 23 dicembre 2000, n. 388) e, dall’altro, disponga che la tariffa del CIMP sia «comprensiva» della TOSAP o del COSAP (comma 2, lettera d, dell’art. 62 del d.lgs. n. 446 del 1997; lettera modificata dal comma 5, lettera b, dell’art. 10 della legge 28 dicembre 2001, n. 448).

Infatti, tale diversità di disciplina non incide sulla sopra rilevata analogia tra il presupposto del CIMP e quello dell’imposta sulla pubblicità, in quanto la “comprensione” in un prelievo di natura tributaria, quale il CIMP, di un prelievo di natura privatistica come il COSAP non muta la natura del tributo “comprendente” – che è l’unico prelievo applicabile in tale fattispecie – e comunque non fa venir meno la distinzione concettuale tra il fatto dell’installazione di mezzi pubblicitari ed il fatto dell’occupazione di spazi ed aree pubbliche.

2.4. – Le sopra indicate caratteristiche strutturali e funzionali del CIMP, desumibili dalla sua complessiva disciplina, rendono evidente, dunque, che tale prelievo non è inquadrabile tra le entrate non tributarie, siano esse di diritto privato comune o speciale, ma costituisce una mera variante dell’imposta comunale sulla pubblicità e conserva la qualifica di tributo propria di quest’ultima. Le controversie aventi ad oggetto la debenza del CIMP, pertanto, hanno natura tributaria e la loro attribuzione alla cognizione delle commissioni tributarie, ad opera della disposizione denunciata, rispetta l’evocato parametro costituzionale.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2, secondo periodo, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell’art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413) – come modificato dall’art. 3-bis, comma 1, lettera b), del decreto-legge 30 settembre 2005, n. 203 (Misure di contrasto all’evasione fiscale e disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 2 dicembre 2005, n. 248 –, sollevata, in riferimento all’art. 102, secondo comma, della Costituzione, dalla Commissione tributaria provinciale di Genova, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Cosí deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 4 maggio 2009.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Franco GALLO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria l'8 maggio 2009.