Sentenza n. 141 del 1996

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SENTENZA N.141

ANNO 1996

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

-     Avv. Mauro FERRI, Presidente

-     Prof. Luigi MENGONI

-     Prof. Enzo CHELI

-     Dott. Renato GRANATA

-     Prof. Giuliano VASSALLI

-     Prof. Francesco GUIZZI

-     Prof. Cesare MIRABELLI

-     Prof. Fernando SANTOSUOSSO

-     Avv. Massimo VARI

-     Dott. Cesare RUPERTO

-     Dott. Riccardo CHIEPPA

-     Prof. Valerio ONIDA

-     Prof. Carlo MEZZANOTTE

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 15, comma 1, lettera e), della legge 19 marzo 1990, n. 55 (Nuove disposizioni per la prevenzione della delinquenza di tipo mafioso e di altre gravi forme di manifestazione di pericolosità sociale), come modificato dall'art. 1 della legge 18 gennaio 1992, n. 16 (Norme in materia di elezioni e nomine presso le regioni e gli enti locali), promosso con ordinanza emessa il 26 giugno 1995 dalla Corte costituzionale, iscritta al n. 507 del registro ordinanze 1995 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 39, prima serie speciale, dell'anno 1995.

Visti gli atti di intervento di Mancini Giacomo, Cito Giancarlo e del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 21 febbraio 1996 il Giudice relatore Francesco Guizzi.

Ritenuto in fatto

 

1.1. -- Con ordinanza del 10 ottobre 1994, il Tribunale di Patti - giudicando sul ricorso proposto da Luciano Milio per l'annullamento dell'elezione di Vincenzo Roberto Sindoni a Sindaco del Comune di Capo d'Orlando - ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 51 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 15, comma 1, lettera e), della legge 19 marzo 1990, n. 55 (Nuove disposizioni per la prevenzione della delinquenza di tipo mafioso e di altre gravi forme di manifestazione di pericolosità sociale), come modificato dall'art. 1 della legge 18 gennaio 1992, n. 16 (Norme in materia di elezioni e nomine presso le regioni e gli enti locali), nella parte in cui riconduce la non candidabilità anche alla condotta di detenzione di sostanza stupefacente come regolamentata dal d.P.R. 5 giugno 1993, n. 171.

Ora, osserva il giudice a quo, l'art. 15 della legge 19 marzo 1990, n. 55, come modificato dall'art. 1 della legge 18 gennaio 1992, n. 16, stabilisce al comma 1, lettera e), la non candidabilità, con conseguente nullità dell'eventuale elezione (comma 4), di coloro nei cui confronti pende procedimento penale per un delitto di cui all'art. 74 (recte: 73) del testo unico approvato con d.P.R. n. 309 del 1990, "concernente la produzione o il traffico di dette sostanze". Pur essendo il riferimento all'art. 73 di stretta interpretazione, il senso dell'incidentale testé riportata ("concernente la produzione o il traffico") non può tuttavia essere quello di circoscrivere soltanto ad alcune ipotesi la previsione. Esso va inteso come rinvio alla rubrica dell'art. 73 ("produzione e traffico") che coinvolge tutte le condotte descritte, ed è dunque causa di non candidabilità l'essere sottoposti a giudizio per una qualsiasi delle condotte descritte dal citato art. 73.

Rileva il Tribunale che a seguito del d.P.R. 5 giugno 1993, n. 171 - emesso in forza del risultato positivo del referendum abrogativo del 18 e 19 aprile 1993 - la fattispecie di reato contestata al Sindoni ha rilevanza penale quando la sostanza sia destinata a terzi, dal momento che è stata depenalizzata la detenzione per uso personale. Per altro verso, però, inibendosi al giudice dell'azione elettorale l'accertamento, anche in via incidentale, dell'ipotesi di cui alla contestazione (il discrimine tra illecito penale e amministrativo essendo riservato al giudice penale), si dovrebbe statuire l'ineleggibilità per fatti la cui rilevanza penale è ormai dubbia. Di qui, il sospetto di illegittimità dell'art. 15, comma 1, lettera e), della legge citata, nella parte in cui sancisce la non candidabilità di coloro che siano stati rinviati a giudizio per il reato di cui all'art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990, potendosi configurare una situazione di detenzione per uso personale - perciò depenalizzata - non accertabile dal giudice dell'azione elettorale. Sì che ad avviso del Collegio rimettente la norma è in contrasto:

- con l'art. 3 della Costituzione, perché si vengono a equiparare, in difetto di un potere di valutazione, posizioni diverse come quelle dello spacciatore e del detentore per uso personale, nei confronti del quale sia esercitata l'azione penale sulla scorta della normativa previgente;

- con l'art. 51 della Costituzione, perché l'applicazione della norma porterebbe a statuire l'ineleggibilità anche in assenza di una preclusione legislativa.

1.2. -- E' intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che si dichiari non fondata la questione.

2.1. -- Nel corso di detto giudizio, con l'ordinanza n. 297 emessa il 26 giugno 1995 (e iscritta al n. 507 del registro ordinanze dello stesso anno) questa Corte ha sollevato dinanzi a sé, in riferimento agli artt. 2, 3, 27, secondo comma, e 51, primo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 15, comma 1, lettera e), della legge 19 marzo 1990, n. 55, come modificato dall'art. 1 della legge 18 gennaio 1992, n. 16, nella parte in cui prevede la non candidabilità alle elezioni regionali, provinciali, comunali e circoscrizionali di coloro per i quali, in relazione ai delitti indicati nella precedente lettera a), è stato disposto il giudizio, ovvero per coloro che sono stati presentati o citati a comparire in udienza per il giudizio.

Nell'anzidetta ordinanza, la Cortesottolinea come - rispetto alla questione particolare sollevata dal Tribunale di Patti - sia pregiudiziale il vaglio di legittimità costituzionale della norma che stabilisce, in via generale, la non candidabilità a cariche elettive quando sia stato disposto, per determinati reati, il rinvio a giudizio. Il dubbio di legittimità costituzionale del citato art. 15, comma 1, lettera e), della legge n. 55 del 1990 va posto in riferimento alla presunzione di non colpevolezza dell'imputato sino alla condanna definitiva, di cui all'art. 27, secondo comma, nonché agli artt. 2, 3 e 51, primo comma, della Costituzione.

2.2. -- Nel giudizio introdotto dall'ordinanza di questa Corte è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, ricordando come la non candidabilità abbia carattere cautelare; e sostenendo che non rileva il principio costituzionale di non colpevolezza, per cui la questione sarebbe infondata anche sulla base della considerazione che nell'ordinamento sussistono cause di ineleggibilità non ancorate ad alcuna presunzione, né ad alcun indizio o sospetto d'illecito, ma a semplici ragioni di opportunità o di convenienza (si richiama in proposito l'art. 10 del d.P.R. 30 marzo 1957, n. 361).

2.3. -- E' stato depositato, il 22 settembre 1995, atto di intervento di Giacomo Mancini, sospeso dalla carica di Sindaco di Cosenza, ai sensi dell'art. 15, comma 4-bis, della legge in esame, il quale afferma di avere interesse all'esito del presente giudizio di costituzionalità, perché la decisione relativa alla non candidabilità non potrà non riflettersi sulla sospensione dei candidati eletti.

Nell'imminenza della camera di consiglio (il 12 gennaio 1996) è stato infine depositato, tardivamente, atto di intervento di Giancarlo Cito, anch'egli sospeso dalla carica di Sindaco di Taranto.

Considerato in diritto

 

1. -- Questa Corte è stata investita dal Tribunale di Patti della questione di legittimità costituzionale dell'art. 15, comma 1, lettera e), della legge 19 marzo 1990, n. 55, come modificato dall'art. 1 della legge 18 gennaio 1992, n. 16, nella parte in cui sancisce la non candidabilità, con conseguente nullità dell'elezione, di coloro i quali sono stati rinviati a giudizio per un delitto di cui all'art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990, pur potendosi configurare in concreto una condotta di detenzione di sostanze stupefacenti, per uso personale, depenalizzata ai sensi del d.P.R. 5 giugno 1993, n. 171 (emesso a seguito di referendum abrogativo). I parametri invocati sono l'art. 3, per l'irragionevole equiparazione di situazioni diverse, e l'art. 51 della Costituzione, perché potrebbe sussistere l'ineleggibilità anche nell'ipotesi, accertabile dal giudice penale, di avvenuta depenalizzazione del fatto.

Viene ora all'esame la questione di legittimità costituzionale sollevata da questa Corte, in via pregiudiziale, nel corso del giudizio incidentale promosso dal Tribunale di Patti. La questione investe, in riferimento agli artt. 2, 3, 27, secondo comma, e 51, primo comma, della Costituzione, lo stesso art. 15, comma 1, lettera e), della citata legge n. 55 del 1990, novellata dalla legge n. 16 del 1992, nella parte in cui prevede la non candidabilità alle elezioni regionali, comunali, provinciali e circoscrizionali di coloro per i quali - in relazione ai delitti indicati nella precedente lettera a) - è stato disposto il giudizio, ovvero di coloro che sono stati presentati o citati a comparire in udienza per il giudizio.

2. -- Preliminarmente va dichiarato inammissibile sia l'atto di intervento di Giancarlo Cito, perché tardivo, sia quello di Giacomo Mancini, dal momento che, analogamente al Cito, il Mancini non era parte nel giudizio promosso con l'ordinanza emessa dal Tribunale di Patti.

3. -- Occorre dunque valutare la legittimità costituzionale della norma che stabilisce, in via generale, la non candidabilità a cariche elettive di coloro per i quali sia stato disposto il giudizio, con riguardo ai reati indicati.

La questione è fondata in base ai principi contenuti negli articoli 2, 3 e 51 della Costituzione.

Individuando la ratio della legge n. 16 del 1992, la quale ha profondamente modificato l'impianto della legge n. 55 del 1990, questa Corte ha riconosciuto che, nelle sue varie disposizioni, essa tutela beni di primaria importanza, minacciati dall'infiltrazione della criminalità organizzata di stampo mafioso negli enti locali: le misure eccezionali adottate tendono a salvaguardare il buon andamento e la trasparenza delle amministrazioni pubbliche, l'ordine e la sicurezza, la libera determinazione degli organi elettivi (sentenze nn. 118 del 1994, 197 del 1993 e 407 del 1992). Proprio al fine di garantire questi valori, la legge n. 16 del 1992 integra le misure interdittive, provvisorie, già previste dalla legge n. 55 del 1990 nei confronti dei titolari di organi di amministrazione attiva, e per la prima volta introduce fattispecie di non candidabilità che incidono sulla costituzione delle assemblee elettive; fattispecie che, interferendo sulla formazione della rappresentanza, devono essere sottoposte a un controllo particolarmente stringente. In tale ipotesi, infatti, la norma incide direttamente sul diritto di partecipazione alla vita pubblica, quindi sui meccanismi che danno concretezza al principio della rappresentatività democratica nel governo degli enti locali, in quanto enti esponenziali delle collettività sottostanti (cfr. sentenza n. 97 del 1991).

La normativa in esame prevede la non candidabilità alle elezioni comunali, provinciali e circoscrizionali, nonché regionali, di coloro i quali sono stati condannati, anche con sentenza non definitiva, per alcuni delitti (ad es. associazione di tipo mafioso, di cui all'art. 416-bis del codice penale, o peculato, art. 314, concussione, art. 317, etc.), e di coloro per i quali è disposto il giudizio limitatamente ad alcuni dei delitti previsti, nella specie quelli, di notevole gravità, indicati alla lettera a) dell'art. 15 citato. La legge n. 16 interviene, dunque, anche sulla posizione dei componenti le assemblee rappresentative e di coloro che intendono concorrere alle cariche elettive, nell'esercizio del diritto di elettorato passivo.

Ora, tale non candidabilità va considerata come particolarissima causa di ineleggibilità (sentenza n. 407 del 1992) che il legislatore ha configurato in relazione a vicende processuali (condanna o rinvio a giudizio), e anche nel caso in cui siano adottate misure di prevenzione per indiziati di appartenenza a una delle associazioni di cui all'art. 1 della legge 31 maggio 1965, n. 575, come sostituito dall'art. 13 della legge 13 settembre 1982, n. 646. L'elezione di coloro che versano nelle condizioni di non candidabilità è nulla (art. 15, comma 4), senza che sia in alcun modo possibile per l'interessato rimuovere l'impedimento all'elezione, come invece è ammesso per le cause di ineleggibilità derivanti da uffici ricoperti attraverso la presentazione delle dimissioni o il collocamento in aspettativa (cfr. ancora la sentenza n. 97 del 1991).

La verifica di legittimità costituzionale deve effettuarsi innanzitutto alla luce del diritto di elettorato passivo, che l'art. 51 della Costituzione assicura in via generale, e che questa Corte ha ricondotto alla sfera dei diritti inviolabili sanciti dall'art. 2 della Costituzione (sentenze nn. 571 del 1989 e 235 del 1988). Né tale controllo può arrestarsi dinanzi all'osservazione che esiste un nesso di strumentalità tra la non candidabilità e i valori di rilievo costituzionale testé ricordati: le restrizioni del contenuto di un diritto inviolabile sono ammissibili solo nei limiti indispensabili alla tutela di altri interessi di rango costituzionale, e ciò in base alla regola della necessarietà e della ragionevole proporzionalità di tale limitazione (sentenza n. 467 del 1991, cons. dir., n. 5; sui limiti posti a diritti inviolabili da esigenze di conservazione dell'ordine pubblico, v., fra le varie, le sentenze nn. 138 del 1985 e 102 del 1975). Qui si deve accertare se la non candidabilità sia dunque indispensabile per assicurare la salvaguardia di detti valori, se sia misura proporzionata al fine perseguito o non finisca piuttosto per alterare i meccanismi di partecipazione dei cittadini alla vita politica, delineati dal titolo IV, parte I, della Carta costituzionale, comprimendo un diritto inviolabile senza adeguata giustificazione di rilievo costituzionale.

Nel compiere tale verifica, non bisogna dimenticare che "l'eleggibilità è la regola, e l'ineleggibilità l'eccezione": le norme che derogano al principio della generalità del diritto elettorale passivo sono di stretta interpretazione e devono contenersi entro i limiti di quanto è necessario a soddisfare le esigenze di pubblico interesse cui sono preordinate (v. già la sentenza n. 46 del 1969, indi la sentenza n. 166 del 1972, fino alle sentenze nn. 571 del 1989 e 344 del 1993). Considerazioni che questa Corte ha già svolto con riguardo alle cause di ineleggibilità, peraltro sempre rimovibili dall'interessato: e, perciò, si richiede che il limite sia effettivamente indispensabile.

4. -- Ora, la previsione della ineleggibilità, e della conseguente nullità dell'elezione, è misura che comprime, in un aspetto essenziale, le possibilità che l'ordinamento costituzionale offre al cittadino di concorrere al processo democratico. Chi è sottoposto a procedimento penale, pur godendo della presunzione di non colpevolezza ai sensi dell'art. 27, secondo comma, della Costituzione, è intanto escluso dalla tornata elettorale: un effetto irreversibile che in questo caso può essere giustificato soltanto da una sentenza di condanna irrevocabile. Questa, d'altronde, è richiesta per la limitazione del diritto di voto, ai sensi dell'art. 48 della Costituzione; sotto questo specifico profilo l'art. 51, primo comma, e l'art. 48, terzo comma, fanno sistema nel senso di precisare e circoscrivere, per quanto concerne gli effetti di vicende penali, il rinvio alla legge che l'art. 51 opera per i requisiti di accesso alle cariche elettive.

La sancita ineleggibilità assume i caratteri di una sanzione anticipata, mancando una sentenza di condanna irrevocabile e, nel caso di semplice rinvio a giudizio, addirittura prima che il contenuto dell'accusa sia sottoposto alla verifica dibattimentale; e inoltre, ove si guardi al rapporto tra rappresentanti e rappresentati, viene alterata - senza che ciò sia imposto dalla tutela dei beni pubblici cui è preordinata la legge in esame - quella "corretta e libera concorrenza elettorale" che questa Corte ha considerato valore costituzionale essenziale, tanto da sindacare in suo nome disposizioni con cui si statuiscono cause di ineleggibilità irragionevoli e dagli effetti sproporzionati, come nel caso dell'art. 7, primo comma, lettera a), del d.P.R. 30 marzo 1957, n. 361, che approva il testo unico delle leggi recanti norme per l'elezione alla Camera dei deputati (cfr. in tal senso, da ultimo, la sentenza n. 344 del 1993).

Finalità di ordine cautelare - le uniche che possono farsi valere in presenza di un procedimento penale non ancora conclusosi con una sentenza definitiva di condanna - valgono a giustificare misure interdittive provvisorie, che incidono sull'esercizio di funzioni pubbliche da parte dei titolari di uffici, e anche dei titolari di cariche elettive, ma non possono giustificare il divieto di partecipare alle elezioni.

L'art. 15 della legge in esame è d'altronde inficiato da interna contraddizione. Quelle stesse situazioni che - se presenti al momento dell'elezione - determinano, ai sensi del comma 1, l'ineleggibilità di coloro che vi si trovano, qualora invece sopravvengano dopo l'elezione comportano la mera sospensione dell'eletto, e non la decadenza (comma 4-bis), mentre questa consegue solo alla condanna definitiva (comma 4-quinquies). Sono dunque evidenti l'incongruenza e la sproporzione di una misura irreversibile come la non candidabilità, in forza di quei presupposti ai quali la legge attribuisce fisiologicamente - ove sopravvenuti - l'effetto meramente sospensivo. La previsione della sospensione appare adeguata a tutelare le pubbliche funzioni, mentre la non candidabilità risulta sproporzionata rispetto ai valori salvaguardati dalla legge n. 16, con particolare riguardo al buon andamento e alla libera autodeterminazione degli organi elettivi locali (sentenze nn. 118 del 1994 e 407 del 1992), sì che è illegittima anche alla luce del principio di ragionevolezza.

Solo una sentenza irrevocabile, nella specie, può giustificare l'esclusione dei cittadini che intendono concorrere alle cariche elettive; né vale obiettare che si tratta di elezioni amministrative, e non di quelle politiche generali, perché pure in questo caso è in gioco il principio democratico, assistito dal riconoscimento costituzionale delle autonomie locali.

E' assorbita la questione sollevata in riferimento all'art. 27, secondo comma, della Costituzione.

5. -- Le ragioni che inducono questa Corte a ritenere incostituzionale la norma sulla non candidabilità prevista dall'art. 15, comma 1, lettera e), nell'ipotesi di rinvio a giudizio, valgono allo stesso titolo con riguardo alle altre fattispecie che la legge collega a sentenze di condanna non ancora passate in giudicato o a provvedimenti giurisdizionali non definitivi che comportano l'applicazione di misure di prevenzione. Ciò sulla base del fondamento costituzionale del diritto di elettorato passivo, quale aspetto essenziale della partecipazione dei cittadini alla vita democratica, vulnerato in egual misura dalle varie ipotesi di non candidabilità, di cui all'art. 15: di modo che la declaratoria di illegittimità costituzionale della lettera e) deve essere estesa, in applicazione dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, alle altre fattispecie di non candidabilità, di cui all'art. 15, comma 1, lettere a), b), c), d), f), che hanno come presupposto una sentenza non ancora passata in giudicato ovvero un provvedimento applicativo di una misura di prevenzione non definitiva. Così assicurandosi, per il profilo considerato, razionalità e, insieme, coerenza interna e certezza alla disciplina elettorale.

Va precisato altresì che i principi sin qui affermati da questa Corte valgono anche per la disposizione di cui alla citata lettera f), che fa discendere la non candidabilità dall'applicazione di una misura di prevenzione pure quando il relativo provvedimento non abbia carattere definitivo. E' sintomatico che l'art. 2, comma 1, lettera b), del d.P.R. 20 marzo 1967, n. 223, modificato da ultimo dalla legge 16 gennaio 1992, n. 15 - significativamente coeva alla n. 16, oggetto del presente giudizio - fa venir meno il diritto di elettorato attivo per coloro che sono sottoposti, in forza di provvedimenti definitivi, alle misure di prevenzione di cui all'art. 3 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423, come modificato dall'art. 4 della legge 3 agosto 1988, n. 327. Il citato art. 15, comma 1, lett. f), estende invece la non candidabilità a coloro nei cui confronti il tribunale ha applicato, "anche se con provvedimento non definitivo", una misura di prevenzione.

La declaratoria di illegittimità costituzionale non tocca la disposizione dell'art. 15, comma 4-bis, che sancisce la sospensione di diritto degli eletti per i quali sopraggiunga una delle situazioni di cui al medesimo art. 15, comma 1. Disposizione, questa, che - letta nel sistema - dovrà considerarsi applicabile anche al caso in cui tali situazioni sussistano già al momento dell'elezione, sì che una contraria interpretazione risulterebbe gravemente irragionevole e fonte di ingiustificata disparità di trattamento.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

a) dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 15, comma 1, lettera e), della legge 19 marzo 1990, n. 55 (Nuove disposizioni per la prevenzione della delinquenza di tipo mafioso e di altre gravi forme di manifestazione di pericolosità sociale), come modificato dall'art. 1 della legge 18 gennaio 1992, n. 16 (Norme in materia di elezioni e nomine presso le regioni e gli enti locali), nella parte in cui prevede la non candidabilità alle elezioni regionali, provinciali, comunali e circoscrizionali di coloro per i quali, in relazione ai delitti indicati nella precedente lettera a), è stato disposto il giudizio, ovvero per coloro che sono stati presentati o citati a comparire in udienza per il giudizio;

b) dichiara, in applicazione dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, l'illegittimità costituzionale del citato art. 15, comma 1, lettere a), b), c), d), nella parte in cui prevede la non candidabilità alle elezioni regionali, provinciali, comunali e circoscrizionali, di coloro i quali siano stati condannati, per i delitti indicati, con sentenza non ancora passata in giudicato;

c) dichiara, in applicazione dell'art. 27 della legge n. 87 del 1953, l'illegittimità costituzionale del citato art. 15, comma 1, lettera f), nella parte in cui prevede la non candidabilità alle elezioni regionali, provinciali, comunali e circoscrizionali di coloro nei cui confronti il tribunale ha applicato una misura di prevenzione quando il relativo provvedimento non abbia carattere definitivo.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23 aprile 1996.

Mauro FERRI, Presidente

Francesco GUIZZI, Redattore

Depositata in cancelleria il 6 maggio 1996.