ORDINANZA N. 52
ANNO 2015
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Alessandro CRISCUOLO Presidente
- Paolo Maria NAPOLITANO Giudice
- Giuseppe FRIGO ”
- Paolo GROSSI ”
- Giorgio LATTANZI ”
- Aldo CAROSI ”
- Marta CARTABIA ”
- Mario Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Giuliano AMATO ”
- Silvana SCIARRA ”
- Daria de PRETIS ”
- Nicolò ZANON ”
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 3, 8, 8-bis e 9-bis della legge 15 dicembre 1990, n. 386 (Nuova disciplina sanzionatoria degli assegni bancari), nel combinato disposto con gli artt. 1829 del codice civile, 32 e 50 del regio decreto 21 dicembre 1933, n. 1736 (Disposizioni sull’assegno bancario, sull’assegno circolare e su alcuni titoli speciali dell’Istituto di emissione, del Banco di Napoli e del Banco di Sicilia), promosso dal Giudice di pace di Acireale nel procedimento vertente tra M.L. e Poste Italiane spa, con ordinanza del 21 gennaio 2010, iscritta al n. 70 del registro ordinanze 2014 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 21, prima serie speciale, dell’anno 2014.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 25 febbraio 2015 il Giudice relatore Giuliano Amato.
Ritenuto che, con ordinanza depositata il 21 gennaio 2010, il Giudice di pace di Acireale ha sollevato, in riferimento agli artt. 2, 3, 24, 25 e 41 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli artt. 3, 8, 8-bis e 9-bis della legge 15 dicembre 1990, n. 386 (Nuova disciplina sanzionatoria degli assegni bancari), come modificati dal decreto legislativo 30 dicembre 1999, n. 507 (Depenalizzazione dei reati minori e riforma del sistema sanzionatorio, ai sensi dell’articolo 1 della legge 25 giugno 1999, n. 205), nel combinato disposto con gli artt. 1829 del codice civile, 32 e 50 del regio decreto 21 dicembre 1933, n. 1736 (Disposizioni sull’assegno bancario, sull’assegno circolare e su alcuni titoli speciali dell’Istituto di emissione, del Banco di Napoli e del Banco di Sicilia), nella parte in cui prevedono che, in caso di mancato pagamento di un assegno bancario per difetto di provvista, la banca comunichi l’avvio delle procedure di revoca dell’autorizzazione ad emettere assegni e di segnalazione alla centrale di allarme interbancaria («CAI»), anche laddove il traente abbia provveduto al pagamento del titolo di credito ed il beneficiario non abbia avviato alcuna iniziativa per il recupero del credito;
che il Giudice di pace premette di essere chiamato a decidere in ordine alla domanda, proposta da un correntista della società convenuta, Poste Italiane spa, al fine di ottenere l’accertamento della responsabilità della stessa convenuta, in particolare per avere avviato le procedure di revoca dell’autorizzazione ad emettere assegni e di segnalazione presso la CAI, previste per l’emissione di assegni senza provvista, ancorché nel caso in esame l’istituto di credito fosse a conoscenza della circostanza che l’assegno postale emesso dall’attore era stato interamente pagato al beneficiario;
che il rimettente, ravvisando molteplici profili di illegittimità nella condotta posta in essere dalla società convenuta, evidenzia che le disposizioni censurate − come modificate dagli artt. da 28 a 36 del d.lgs. n. 507 del 1999 − determinerebbero la violazione dell’art. 3 Cost., attesa la manifesta disparità di trattamento tra i soggetti che, emesso un titolo in assenza di provvista, non adempiono agli obblighi previsti dall’art. 3 della legge n. 386 del 1990 e non comunicano tali adempimenti all’istituto segnalante; e coloro che, emesso un titolo senza provvista, pur avendo adempiuto nel termine a tali obblighi, tuttavia non comunicano, ovvero comunicano in ritardo, gli adempimenti all’istituto di credito;
che viene inoltre denunciato un ingiustificato trattamento di favore per le banche e gli altri istituti di credito, i quali, attraverso l’intimazione di ulteriori sanzioni, interverrebbero in rapporti obbligatori ai quali sono estranei, assumendo un ruolo di autorità di vigilanza che non sarebbe loro riconosciuto da alcuna norma;
che il Giudice di pace ritiene che ricorra altresì la violazione dell’art. 24 Cost., per la lesione del diritto alla tutela giurisdizionale subita da coloro che hanno tentato di opporsi in un giudizio contro la descritta prassi operativa posta in essere dalle banche;
che sarebbe inoltre ravvisabile la violazione dell’art. 25 Cost., in quanto l’applicazione delle disposizioni impugnate determinerebbe una carenza di tutela del cittadino e del consumatore che, di fatto, si troverebbe punito in via preventiva ed in assenza di una normativa che lo preveda;
che il giudice a quo denuncia, infine, la violazione dell’art. 41 Cost., poiché la condotta posta in essere dalle banche sarebbe tale da scoraggiare l’accesso al credito e l’iniziativa economica privata;
che il giudice rimettente sottopone quindi alla valutazione della Corte un principio di diritto, volto a stabilire se l’interpretazione degli artt. 3, 8, 8-bis e 9-bis della legge n. 386 del 1990, consenta di ritenere legittima la condotta della banca che, anche nell’ipotesi in cui il titolo sia stato pagato, trattenga dal conto corrente del debitore commissioni e oneri accessori; minacci il debitore dell’avvio della segnalazione alla CAI e, in seguito, non avverta il debitore che la procedura di cui all’art. 9-bis è stata interrotta;
che nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile e comunque infondata;
che la difesa statale evidenzia, in primo luogo, che il giudice a quo richiederebbe una pronuncia non già sulla compatibilità delle norme di legge censurate con i parametri costituzionali, ma sulla corretta interpretazione della predetta legge, così utilizzando impropriamente il giudizio di legittimità costituzionale, che non è volto a fornire avalli alle interpretazioni dei giudici comuni; è a questi ultimi, infatti, che spetta la scelta, tra più interpretazioni possibili, di quella conforme a Costituzione;
che, in secondo luogo, l’inammissibilità della questione discenderebbe dal fatto che non viene censurata una norma, bensì una prassi applicativa, la quale porrebbe l’iniziativa per il pagamento della clausola penale, per l’emissione di assegni privi di provvista, in capo all’istituto di credito, anziché al creditore;
che l’Avvocatura generale dello Stato rileva, inoltre, il difetto di motivazione in ordine alla rilevanza della questione; nel caso in esame, infatti, sarebbe possibile un’interpretazione idonea a risolvere la controversia, senza applicazione delle norme sospettate di incostituzionalità; è lo stesso giudice a quo, sia pure riferendo una prospettazione della parte convenuta, a osservare che, essendo il titolo stato negoziato fuori piazza, il termine utile per il pagamento era di 15 giorni, con la conseguenza che – allorché la banca ha avviato la procedura di preavviso – la presentazione del titolo per il pagamento era tempestiva e sul conto corrente dell’attore era sopravvenuta la provvista; pertanto, non sarebbe integrata l’ipotesi di emissione di assegno senza provvista, di cui all’art. 2 della legge n. 386 del 1990, e la controversia sottoposta al giudice a quo potrebbe, quindi, essere definita sulla base di tale rilievo, a prescindere dalla decisione sulla questione di costituzionalità;
che, nel merito, la parte interveniente deduce l’infondatezza della questione di legittimità costituzionale sollevata dal Giudice di pace di Acireale, poiché le censure non terrebbero conto della ratio della disciplina recata dalla legge n. 386 del 1990 e dei valori giuridici da essa tutelati;
che l’Avvocatura dello Stato osserva in particolare che – sin da epoca antecedente all’entrata in vigore del d.lgs. n. 507 del 1999, che ha depenalizzato, tra gli altri, l’emissione di assegni senza provvista − il reato in esame aveva natura plurioffensiva, in quanto, attraverso la sua repressione in sede penale, si proteggeva anche l’interesse, di natura pubblicistica, alla fiducia nella idoneità dell’assegno a svolgere la sua funzione di mezzo di pagamento;
che il bene tutelato in via primaria dalle norme incriminatrici era rappresentato dalla fede pubblica, mentre l’interesse patrimoniale del prenditore di un titolo di credito rimasto insoluto veniva in rilievo solamente in via subordinata; si riteneva essenziale, dunque, garantire la fiducia che la collettività riponeva nella idoneità dell’assegno ad assolvere la sua tipica funzione economica di mezzo di pagamento, reprimendo ogni comportamento idoneo a comprometterla, mentre la tutela dell’interesse patrimoniale del singolo prenditore veniva considerata un effetto riflesso della protezione penale accordata al primo interesse;
che, ad avviso dell’Avvocatura dello Stato, anche successivamente alla depenalizzazione realizzata dal d.lgs. n. 507 del 1999, la struttura materiale degli illeciti sarebbe rimasta immutata rispetto alle precedenti previsioni, né sarebbe mutato il valore giuridico tutelato dalla previgente normativa penale;
che, pertanto, non sarebbe affatto irragionevole il sistema che preclude il preavviso di revoca, di cui al censurato art. 9-bis, non già per effetto del pagamento della somma dovuta, ma solo per effetto della “prova” del pagamento, da fornirsi nelle forme rigorose di cui all’art. 8, comma 3, della legge n. 386 del 1990.
Considerato che, con ordinanza depositata il 21 gennaio 2010, il Giudice di pace di Acireale ha sollevato, in riferimento agli artt. 2, 3, 24, 25 e 41 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli artt. 3, 8, 8-bis e 9-bis della legge 15 dicembre 1990, n. 386 (Nuova disciplina sanzionatoria degli assegni bancari), come modificati dal decreto legislativo 30 dicembre 1999, n. 507 (Depenalizzazione dei reati minori e riforma del sistema sanzionatorio, ai sensi dell’articolo 1 della legge 25 giugno 1999, n. 205), nel combinato disposto con gli artt. 1829 del codice civile, 32 e 50 del regio decreto 21 dicembre 1933, n. 1736 (Disposizioni sull’assegno bancario, sull’assegno circolare e su alcuni titoli speciali dell’Istituto di emissione, del Banco di Napoli e del Banco di Sicilia), nella parte in cui prevedono che, in caso di mancato pagamento di un assegno bancario per difetto di provvista, la banca comunichi l’avvio delle procedure di revoca dell’autorizzazione ad emettere assegni e di segnalazione alla centrale di allarme interbancaria («CAI»), anche laddove il traente abbia provveduto al pagamento del titolo di credito ed il beneficiario non abbia avviato alcuna iniziativa per il recupero del credito;
che viene in primo luogo denunciata la violazione dell’art. 3 Cost. per la manifesta disparità di trattamento che si determinerebbe tra i soggetti che, emesso un titolo in assenza di provvista, non adempiono agli obblighi derivanti dall’art. 3 della legge n. 386 del 1990 e non comunicano tali adempimenti all’istituto segnalante; e coloro che, emesso un titolo senza provvista, adempiono nel termine agli obblighi di cui al citato art. 3, ma non comunicano, ovvero comunicano in ritardo, tali adempimenti all’istituto di credito;
che, sotto un diverso profilo, viene denunciato un ingiustificato trattamento di favore, a vantaggio delle banche e degli altri istituti di credito, i quali, attraverso l’intimazione di ulteriori sanzioni, interverrebbero in rapporti obbligatori ai quali sono estranei, assumendo un ruolo di autorità di vigilanza che non è loro riconosciuto da alcuna norma;
che tuttavia la motivazione dell’ordinanza di rimessione non contiene indicazioni sufficienti ad una completa ricostruzione della fattispecie a quo, necessaria al fine di valutare la rilevanza della questione di legittimità costituzionale;
che, in particolare, non viene fornita alcuna certezza in ordine alle circostanze di fatto nelle quali si è svolta la condotta addebitata alla banca convenuta, non essendo possibile stabilire quale sia stata la successione cronologica e la collocazione spaziale degli eventi; ed invero, non è indicato quali siano il luogo di emissione, né quello di presentazione del titolo di credito per l’incasso;
che, da un lato, il giudice rimettente afferma che il termine di presentazione dell’assegno sarebbe stato di 8 giorni dall’emissione − così dando atto di ritenere che la presentazione sia avvenuta nello stesso Comune in cui è avvenuta l’emissione −, dall’altro lato, lo stesso giudice riferisce che il beneficiario avrebbe incassato l’assegno nel Comune di Milano ed evidenzia che pertanto il termine di pagamento sarebbe di 15, anziché di 8 giorni; né risulta, d’altra parte, se la circostanza dell’avvenuta presentazione a Milano, richiamata per respingere un argomento svolto dalla parte convenuta, sia effettivamente provata o sia stata solo riferita dalla stessa convenuta;
che da tale carenza discende l’impossibilità di determinare la scadenza del termine per la presentazione del titolo di credito, che è di 8 giorni, se la presentazione avviene nello stesso Comune, e di 15, se si verifica in un Comune diverso (art. 32 del r.d. n. 1736 del 1933);
che di conseguenza, non è possibile stabilire se la comunicazione del preavviso di revoca alla parte attrice fosse dovuta, ai sensi dell’art. 9-bis della legge n. 386 del 1990 (come sostiene la banca convenuta), ovvero fosse illegittima (non essendo prevista l’applicazione delle sanzioni amministrative per l’emissione di titoli presentati oltre il termine di legge);
che d’altra parte, non è neppure possibile stabilire se il pagamento del titolo, avvenuto a seguito della (seconda) presentazione in camera di compensazione, sia stato tempestivo; ed invero, qualora lo fosse, ciò basterebbe a sorreggere l’affermazione di responsabilità della banca convenuta, senza necessità di applicare le norme censurate, le quali si riferiscono alla ipotesi del mancato pagamento dell’assegno entro i termini previsti;
che inoltre, il rimettente non individua con esattezza la pretesa sostanziale fatta valere in giudizio dalla parte attrice, lasciando indeterminato – tra i molteplici profili di illegittimità ravvisati − quale sia il fondamento della responsabilità risarcitoria addebitata alla parte convenuta; né, conseguentemente, è possibile stabilire la correlazione esistente tra la pretesa azionata in giudizio e le norme censurate dal rimettente;
che pertanto – alla luce del principio di autosufficienza dell’ordinanza di rimessione − tale carenza costituisce motivo di inammissibilità della questione sollevata in riferimento alla violazione dell’art. 3 Cost., in quanto preclusiva della valutazione della rilevanza, non essendo stati forniti sufficienti elementi che consentano di ritenere che il giudizio non possa essere definito indipendentemente dalla questione di legittimità costituzionale;
che, in ogni caso, oltre a tale profilo di inammissibilità delle questioni, va altresì rilevato che l’ordinanza di rimessione non dedica alcuna puntuale motivazione in ordine alla ravvisata lesione degli altri parametri evocati (artt. 2, 24, 25 e 41 Cost.), e la denuncia della loro violazione rimane del tutto generica ed apodittica;
che, viceversa, il giudice a quo è tenuto a motivare sulla non manifesta infondatezza di ogni dubbio proposto in riferimento a ciascuno dei parametri evocati, attesa la necessità che siano specificati i motivi per cui si ritenga verificata la violazione delle norme costituzionali, traducendosi tale mancanza nella conseguente manifesta inammissibilità della questione (sentenze n. 243 del 2014, n. 141 e n. 21 del 2012; ordinanze n. 261, n. 216, n. 181, n. 174, n. 65, n. 60 e n. 48 del 2012);
che, pertanto, le carenze della motivazione in ordine alla delibazione della non manifesta infondatezza, in riferimento alla violazione degli artt. 2, 24, 25 e 41 Cost., conducono allo stesso esito di inammissibilità della questione.
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi avanti alla Corte costituzionale.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale degli articoli 3, 8, 8-bis e 9-bis della legge 15 dicembre 1990, n. 386 (Nuova disciplina sanzionatoria degli assegni bancari), come modificati dal degreto legislativo 30 dicembre 1999, n. 507 (Depenalizzazione dei reati minori e riforma del sistema sanzionatorio, ai sensi dell’articolo 1 della legge 25 giugno 1999, n. 205), nel combinato disposto con gli artt. 1829 del codice civile, 32 e 50 del regio decreto 21 dicembre 1933, n. 1736 (Disposizioni sull’assegno bancario, sull’assegno circolare e su alcuni titoli speciali dell’Istituto di emissione, del Banco di Napoli e del Banco di Sicilia), sollevata, in riferimento agli artt. 2, 3, 24, 25 e 41 della Costituzione, dal Giudice di pace di Acireale con l’ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 25 febbraio 2015.
F.to:
Alessandro CRISCUOLO, Presidente
Giuliano AMATO, Redattore
Gabriella Paola MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 26 marzo 2015.