ORDINANZA N. 174
ANNO 2012
[ELG:COLLEGIO]
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Alfonso QUARANTA Presidente
- Franco GALLO Giudice
- Luigi MAZZELLA "
- Gaetano SILVESTRI "
- Sabino CASSESE "
- Giuseppe TESAURO "
- Paolo Maria NAPOLITANO "
- Giuseppe FRIGO "
- Alessandro CRISCUOLO "
- Paolo GROSSI "
- Giorgio LATTANZI "
- Aldo CAROSI "
- Marta CARTABIA "
- Sergio MATTARELLA "
- Mario Rosario MORELLI "
[ELG:PREMESSA]
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’articolo 11 della legge 21 novembre 1991, n. 374 (Istituzione del giudice di pace), promosso dal Giudice di pace di Roma sul ricorso proposto da F.G. con ordinanza del 7 luglio 2011, iscritta al n. 1 del registro ordinanze 2012 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 5, prima serie speciale, dell’anno 2012.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 23 maggio 2012 il Giudice relatore Sergio Mattarella.
[ELG:FATTO]
[ELG:DIRITTO]
Ritenuto che il Giudice di pace di Roma ha sollevato, in riferimento agli articoli 3, primo e secondo comma, 4, primo comma, 25, primo comma, 35, primo comma, 97, terzo comma, e 106, primo e secondo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 11 della legge 21 novembre 1991, n. 374 (Istituzione del giudice di pace), nella parte in cui non prevede che il giudice competente per materia a dirimere ogni controversia sulle spettanze economiche del giudice di pace ivi previste sia il tribunale in funzione di giudice del lavoro;
che in punto di fatto il giudice remittente chiarisce di dover decidere in ordine ad un giudizio nel quale F.G., Giudice di pace presso l’ufficio di Verona, chiedeva l’emissione di un decreto ingiuntivo per la somma di euro 4.381,79, oltre interessi e spese legali, entro la competenza del giudice adito, per l’indebita decurtazione parziale, negli anni 2003–2011, dell’indennità forfettaria mensile di euro 258,23, prevista dall’art. 11, comma 3, della legge n. 374 del 1991;
che il remittente rileva che la consolidata giurisprudenza della Corte di cassazione ha affermato che la competenza a giudicare in materia di indennità spettanti al giudice di pace previste dal richiamato art. 11 della legge n. 374 del 1991 deve essere individuata in base al criterio generale del valore della causa;
che, da tale giurisprudenza, che ricomprende i giudici di pace nella categoria dei funzionari onorari ed esclude che il loro rapporto di lavoro possa essere assimilato al pubblico impiego ovvero ad un rapporto atipico subordinato o parasubordinato, deriva la impossibilità di una interpretazione costituzionalmente orientata della norma impugnata;
che la questione sarebbe rilevante, dal che in caso di suo accoglimento il giudice adito sarà tenuto a dichiarare la propria incompetenza, ed il ricorrente dovrà ripresentare l’istanza dinanzi al tribunale del lavoro territorialmente competente;
che la disposizione censurata, alla luce dell’interpretazione della richiamata giurisprudenza della Corte di cassazione, che il remittente assume quale diritto vivente, appare al giudice a quo in contrasto con gli invocati parametri costituzionali;
che un primo profilo di illegittimità viene individuato nella violazione dell’art. 3, primo e secondo comma, Cost., in quanto la norma impugnata, negando che il rapporto di servizio onorario del giudice di pace integri un rapporto di lavoro subordinato, «così escludendo il giudice di pace dalle garanzie processuali e sostanziali previste dal diritto del lavoro», contrasterebbe con il principio di ragionevolezza, e con quello di uguaglianza;
che, infatti, il rapporto di servizio onorario, caratterizzato dall’assenza di un concorso pubblico per l’accesso e dalla carenza dei vincoli di subordinazione, troverebbe giustificazione in riferimento alle più alte cariche dello Stato, quali il Presidente della Repubblica, i giudici costituzionali, i ministri, i deputati e i senatori, i componenti del Consiglio superiore della magistratura, mentre i magistrati ordinari «di carriera», nell’ambito delle alte cariche dello Stato, costituirebbero uno dei pochi esempi in cui non viene seguito il modello del funzionario onorario, essendo questi assimilati, sotto il profilo economico e previdenziale, ai pubblici impiegati, seppure la loro condizione giuridica sia caratterizzata da un sistema ordinamentale che mira a preservare l’indipendenza della loro funzione;
che, in riferimento alla categoria dei giudici di pace, nell’ordinanza di rimessione si sottolineano i caratteri distintivi rispetto ai funzionari onorari e le «incontrovertibili similitudini» con i magistrati «di carriera», costituite dalla loro qualificazione di giudici ordinari, ai sensi dell’art. 1 del regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12 (Ordinamento giudiziario), dall’esser tenuti, in base all’art. 10, comma 1, della legge n. 374 del 1991 «all’osservanza dei doveri previsti per i magistrati ordinari», nonché al rispetto delle tabelle di composizione dell’ufficio di appartenenza e degli ordini di servizio del coordinatore dell’ufficio, ai sensi dell’art. 15, comma 2, della legge n. 374 del 1991, ed a garantire la reperibilità al pari dei magistrati di carriera, con applicabilità diretta dell’art. 7-bis del citato r.d. n. 12 del 1941, essendo assoggettati alla sorveglianza del presidente del tribunale ed al potere disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, e destinatari dei provvedimenti organizzativi e concernenti il trattamento economico adottati dal Ministro della giustizia, mentre il trattamento fiscale del reddito dei giudici pace è assimilato al reddito da lavoro dipendente, con applicazione delle stesse trattenute del pubblico impiegato, escluse quelle previdenziali;
che pertanto, ad avviso del giudice a quo, i giudici di pace si distinguono da quelli «di carriera» «solo per l’esclusione dai diritti costituzionali fondamentali di autogoverno (…), di progressione in carriera, di stabilità del rapporto e di tutela previdenziale ed assistenziale» e la riaffermazione della natura onoraria del loro rapporto di lavoro costituisce solo il «pretesto» per negare «i più elementari diritti costituzionali giuslavoristici e le fondamentali garanzie ordinamentali di imparzialità ed indipendenza», e in questa prospettiva si afferma che il principio di ragionevolezza «impone» che le controversie relative al rapporto di servizio dei giudici di pace sia rimesso alla competenza del tribunale in funzione di giudice del lavoro, rilevandosi anche la presenza di tutti i requisiti di subordinazione o parasubordinazione previsti dall’art. 409 cod. proc. civ. e, sotto diverso profilo, l’insussistenza delle ragioni di eventuale comunanza di interessi che giustificano l’attribuzione alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo delle controversie di lavoro che coinvolgono i magistrati «di carriera», ribadendosi che «l’unica soluzione compatibile con i richiamati precetti costituzionali, senza che residui margine alcuno di discrezionalità in capo al Legislatore, è rappresentata dall’attribuzione delle controversie di lavoro del giudice di pace alla competenza del Tribunale in funzione di giudice del lavoro»;
che la disposizione impugnata sarebbe in contrasto con gli artt. 4, primo comma, 35, primo comma, 97, terzo comma, e 106, primo e secondo comma, Cost., dal momento che almeno per un quadriennio, e per ulteriori due quadrienni in caso di positiva valutazione di idoneità, il giudice di pace svolge attività giudiziaria a tempo pieno ed in via continuativa, e che la conferma si sostanzia in un giudizio di idoneità di merito ed integra «un nuovo concorso del giudice, non più per titoli, bensì per esame», così perdendo i connotati politico discrezionali evidenziati dalle pronunce della Corte di cassazione, e in tale ambito i richiamati artt. 97 e 106 Cost., prevedendo forme alternative a quella del concorso, per l’accesso alle pubbliche amministrazioni ed alla magistratura, non discriminano tra diversi funzionari a causa delle modalità di costituzione del rapporto ed in riferimento alla tutela dei diritti fondamentali dei lavoratori;
che infine, il Giudice di pace di Roma sostiene che la disposizione impugnata viola il principio di cui all’art. 25, primo comma, Cost., dal momento che il giudice del lavoro deve essere considerato il giudice naturale per le controversie relative a posizioni giuridiche derivanti dai rapporti di lavoro subordinato o parasubordinato e, quindi, anche in relazione ai giudizi concernenti il trattamento economico dei giudici di pace;
che è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sollevata sia dichiarata inammissibile o non fondata.
Considerato che il Giudice di pace di Roma dubita – in riferimento agli articoli 3, primo e secondo comma, 4, primo comma, 25, primo comma, 35, primo comma, 97, terzo comma, e 106, primo e secondo comma, della Costituzione – della legittimità costituzionale dell’art. 11 della legge 21 novembre 1991, n. 374 (Istituzione del giudice di pace), nella parte in cui non prevede che il giudice competente per materia a dirimere ogni controversia sulle spettanze economiche del giudice di pace ivi previste sia il tribunale in funzione di giudice del lavoro;
che nella prospettazione della violazione dell’art. 3 della Costituzione, il giudice remittente non considera che la giurisprudenza di questa Corte ha costantemente affermato l’impossibilità di assimilare le posizioni dei giudici onorari e dei magistrati che svolgono professionalmente ed in via esclusiva funzioni giudiziarie, e l’impossibilità di comparare tali posizioni ai fini della valutazione del rispetto del principio di uguaglianza, a causa dello svolgimento a diverso titolo delle funzioni giurisdizionali, connotate dall’esclusività solo nel caso dei magistrati ordinari di ruolo che svolgono professionalmente le loro funzioni (sentenza n. 60 del 2006, ordinanze n. 479 del 2000 e n. 272 del 1999);
che la ricostruzione del quadro normativo operata dal giudice a quo appare incompleta e contraddittoria, in quanto egli da un lato afferma la «assimilabilità del giudice di pace al magistrato di carriera», ma dall’altro non considera l’art. 3 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), che in deroga alla cosiddetta privatizzazione del pubblico impiego, ha confermato il previgente regime di diritto pubblico per alcune categorie, tra le quali i magistrati ordinari, amministrativi e contabili, né gli artt. 7 e 133, comma 1, lettera i), del codice del processo amministrativo approvato con decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104 (Attuazione dell’articolo 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69, recante delega al governo per il riordino del processo amministrativo), i quali hanno ribadito l’appartenenza alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo delle controversie relative ai rapporti di lavoro del personale in regime di diritto pubblico e, quindi, anche dei magistrati di ruolo che esercitano professionalmente attività giudiziarie;
che l’ordinanza di rimessione, per affermare comunque la tesi della necessaria competenza del giudice del lavoro, si limita a sostenere che essa «trae giustificazione esclusivamente dal disposto inviolabile dell’articolo 111, comma 2, della Costituzione, al fine di garantire la terzietà del giudice nelle controversie che attengono ad interessi patrimoniali del magistrato di carriera direttamente connessi all’esercizio della giurisdizione (potenziale interesse di qualsiasi magistrato ordinario alla risoluzione favorevole di una controversia sullo status giuridico di un collega)», non rilevando che, da un lato, le ragioni della conferma del precedente regime pubblicistico per i magistrati si rinvengono notoriamente nella peculiarità delle funzioni pubbliche da loro svolte, e, dall’altro, che la giurisprudenza di questa Corte ha escluso che le norme relative al trattamento economico dei medesimi assumano rilevanza alcuna in ordine alla decisione delle controversie soggette alla cognizione di questi, e che tali norme incidano sulla indipendenza degli organi giudiziari dagli altri poteri (ordinanze n. 421 del 2008, n. 104 del 2000, n. 515 e n. 379 del 1989, n. 326 del 1987);
che, da un ulteriore profilo, la giurisprudenza di questa Corte ha costantemente riconosciuto la discrezionalità e l’insindacabilità delle scelte del legislatore, che non siano caratterizzate da una manifesta irragionevolezza, nella disciplina di istituti processuali (ex multis, ordinanze n. 164, n. 82, n. 50 del 2010, n. 240 e n. 109 del 2006);
che infine, in riferimento agli altri parametri costituzionali, deve rilevarsi la evidente inconferenza del richiamo, nell’ordinanza di rimessione, agli artt. 97, terzo comma, e 106, primo e secondo comma, Cost., in quanto riferito ad una censura che attiene alla mancata previsione di una norma processuale relativa alla competenza per materia del giudice del lavoro, e la genericità delle argomentazioni con le quali il giudice remittente afferma la violazione di una pluralità di altri parametri invocati senza una motivazione specifica sull’illegittimità della norma censurata, limitandosi, in relazione agli artt. 4, primo comma, e 35, primo comma, Cost. a sostenere che «la Costituzione tutela ogni forma di lavoro, a prescindere dalla sua durata (…) e dalla sua esclusività» senza specificare le ragioni per le quali il sistema vigente non offrirebbe tale tutela, mentre con riguardo alla pretesa violazione del principio del giudice naturale di cui all’art. 25 Cost., si rileva la natura apodittica delle argomentazioni a sostegno di tale conclusione, e la mancata considerazione della giurisprudenza di questa Corte che ha ribadito che il suddetto principio non è violato quando il giudice sia stato designato in modo non arbitrario né a posteriori, oppure direttamente dal legislatore in conformità a regole generali (ex multis, ordinanza n. 63 del 2002);
che, pertanto la questione sollevata è manifestamente inammissibile.
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’articolo 11 della legge 21 novembre 1991, n. 374 (Istituzione del giudice di pace) sollevata, in riferimento agli artt. 3, primo e secondo comma, 4, primo comma, 25, primo comma, 35, primo comma, 97, terzo comma, e 106, primo e secondo comma, della Costituzione, dal Giudice di pace di Roma con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 2 luglio 2012.
F.to:
Alfonso QUARANTA, Presidente
Sergio MATTARELLA, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 6 luglio 2012.
[ELG:ALLEGATO]