SENTENZA N.
243
ANNO 2014
REPUBBLICA
ITALIANA
IN NOME DEL
POPOLO ITALIANO
LA CORTE
COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Giuseppe TESAURO
Presidente
- Sabino CASSESE Giudice
- Paolo
Maria NAPOLITANO ”
- Giuseppe FRIGO ”
- Alessandro CRISCUOLO ”
- Paolo GROSSI ”
- Giorgio LATTANZI ”
- Aldo CAROSI ”
- Marta CARTABIA ”
- Sergio MATTARELLA ”
- Mario
Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Giuliano AMATO ”
ha
pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio
di legittimità costituzionale dell’art. 445-bis
del codice di procedura civile
e dell’art. 10, comma 6-bis, del decreto-legge
30 settembre 2005, n. 203 (Misure di contrasto all’evasione fiscale e
disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria), convertito, con
modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 2 dicembre 2005, n. 248,
promosso dal Tribunale ordinario di Roma nel procedimento vertente tra R.A. e
l’INPS con ordinanza
del 18 gennaio 2013, iscritta al n. 204 del registro ordinanze 2013 e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 40, prima serie
speciale, dell’anno 2013.
Visti gli atti di costituzione di R.A. e dell’INPS;
udito nell’udienza pubblica del 23 settembre 2014 il
Giudice relatore Alessandro Criscuolo;
uditi gli avvocati Maurizio Cinelli e Giulio Cimaglia per R.A. e Mauro Ricci per l’INPS.
Ritenuto in
fatto
1.– Il Tribunale ordinario di Roma, in
composizione monocratica ed in funzione di giudice del lavoro, con ordinanza
del 18 gennaio 2013, ha sollevato – in riferimento agli artt. 3, 24, 38 e 111 della Costituzione
– questioni di legittimità costituzionale concernenti: 1) l’art. 445-bis del codice di procedura civile, in toto, nonché l’art. 10, comma 6-bis, del decreto-legge 30 settembre
2005, n. 248 [recte:
n. 203], (Misure di contrasto all’evasione fiscale e disposizioni urgenti in
materia tributaria e finanziaria), convertito,
con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della
legge 2 dicembre 2005, n. 248, «per contrasto con i principi di ragionevolezza
ed in violazione degli artt. 24, 38 e 111 Cost.»; 2)
l’art. 445-bis cod. proc. civ., in toto,
per violazione del principio di ragionevolezza, «atteso che il decreto di
omologa dell’accertamento del requisito sanitario previsto dal comma 5 di detto
art. non attribuisce al decreto medesimo la qualità di titolo esecutivo»; 3)
ancora l’art. 445-bis cod. proc. civ. per violazione del diritto di azione e di difesa
di cui all’art. 24 Cost., del principio di
ragionevolezza e dell’art. 38 Cost., in relazione: al
termine perentorio di cui al quarto comma dell’art. 445-bis cod. proc. civ.; al decreto di
omologa «pronunciato fuori udienza» di cui al quinto comma dello stesso
articolo; al termine perentorio di cui al sesto comma; infine, alla sanzione di
inammissibilità contemplata al sesto comma della ripetuta norma; 4) l’art. 445-bis, settimo comma, cod. proc. civ., introdotto dall’art. 27 della legge 12 novembre
2011, n. 183 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale
dello Stato – legge di stabilità 2012),
per contrasto con gli artt. 3, 24 e 111 Cost.
2.– Il rimettente premette che, con
ricorso proposto ai sensi del citato art. 445-bis cod. proc. civ., il signor R.A. ha
chiesto al Tribunale di Roma, in funzione di giudice del lavoro, l’accertamento
del requisito sanitario, allo scopo di ottenere il pagamento delle provvidenze
economiche per l’invalidità civile (indennità di accompagnamento), affermando
di avere inutilmente esperito il procedimento amministrativo e di essere
portatore di una invalidità/inabilità di grado tale da giustificare la
concessione del beneficio richiesto. Ha aggiunto che, instauratosi il
contraddittorio, l’Istituto nazionale della previdenza sociale (d’ora in
avanti, «INPS») ha concluso per il rigetto della domanda.
Ciò posto, il giudice a quo ritiene, in primo luogo, non
manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’intero
art. 445-bis cod. proc.
civ., rubricato «Accertamento tecnico preventivo obbligatorio», nonché
dell’art. 10, comma 6-bis, del d.l. n. 203 del 2005, convertito, con modificazioni, dalla
legge n. 248 del 2005 (come, da ultimo, modificato dall’art. 38, comma 8, del
decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, recante «Disposizioni urgenti per la
stabilizzazione finanziaria», convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma
1, della legge 15 luglio 2011, n. 111), per violazione del principio di
ragionevolezza, nonché degli artt. 24, 38 e 111 Cost.
Dopo avere esposto il contenuto della
normativa censurata, il giudicante osserva che l’art. 445-bis cod. proc. civ. concreterebbe
un’ipotesi di "giurisdizione condizionata”, nella quale l’accesso alla tutela
giurisdizionale è subordinato al previo adempimento di oneri procedurali a
carico delle parti. Sulla base di un costante principio affermato dalla giurisprudenza
di questa Corte – prosegue il rimettente – la previsione di una tale forma di
giurisdizione contrasterebbe con la Costituzione soltanto qualora non sia
giustificata da esigenze di carattere generale o da superiori finalità di
giustizia e non sia ispirata da criteri di ragionevolezza (sono richiamate, tra
le altre, le sentenze
n. 296 del 2008, n. 403 del 2007,
n. 251 del 2003
e n. 406 del
1993). In effetti, sempre ad avviso del giudice a quo, nel caso di specie si tratterebbe di una forma atipica di
"giurisdizione condizionata”, in quanto l’accertamento tecnico preventivo
(d’ora in avanti «ATP»), previsto dalla norma in questione, sarebbe diretto ad
acquisire elementi di prova rilevanti nel successivo ed eventuale giudizio di
merito, costituendo una vera e propria "anticipazione” del tempo di
espletamento della consulenza tecnica di ufficio, accertamento istruttorio
ineludibile nei giudizi in esame.
Secondo il giudicante, la norma
censurata limiterebbe, fino ad impedirlo, il diritto costituzionale di azione e
di difesa, previsto dall’art. 24 Cost., e darebbe
luogo ad una irragionevole disparità di trattamento tra soggetti uguali (ad
esempio i lavoratori di una stessa fabbrica), in base alla materia disciplinata
dalle norme processuali (provvedimenti assistenziali, previdenziali,
pensionistici gestiti dall’INPS).
In particolare, la norma de qua ridurrebbe l’organo
giurisdizionale a mero organismo sussidiario che svolgerebbe soltanto un ruolo,
al più, direttivo ovvero esecutivo degli interventi normativamente previsti (in
pratica: nomina il consulente tecnico d’ufficio [d’ora in avanti «CTU»] e fissa
l’inizio delle operazioni peritali ai sensi del terzo comma dell’art. 626 cod. proc. civ. – recte: 696 cod. proc. civ. –
richiamato dal comma 1 dell’art. 696-bis dello
stesso codice; qualora rilevi che l’accertamento tecnico preventivo non è stato
espletato, oppure che è iniziato, ma non si è concluso, assegna alle parti i
relativi termini; in assenza di contestazioni, omologa l’accertamento del
requisito sanitario). Si tratterebbe di atti diretti a disciplinare l’iter del procedimento, ma non
decisionali.
In sostanza, ancorché destinato a
svolgersi sotto la direzione di un giudice, il procedimento relativo all’ATP
avrebbe natura e carattere di attività svolta da organo non giurisdizionale. Il
giudice non parteciperebbe alla consulenza, né entrerebbe nel merito. Infatti,
quando omologa l’accertamento del requisito sanitario, lo dovrebbe fare secondo
le risultanze probatorie indicate nella relazione del CTU. Il che
confliggerebbe con l’art. 111, sesto comma, Cost.,
che esige la motivazione di tutti i provvedimenti giurisdizionali.
L’inoppugnabilità e l’immodificabilità del decreto di omologa completerebbero il
quadro, relegando al rango di spettatore il difensore della parte ricorrente,
al quale non sarebbe riservato un tempo e un luogo per la discussione del caso.
Andrebbe poi considerato che il comma 6-bis dell’art. 10 del d.l.
n. 203 del 2005, come convertito e da ultimo modificato, produrrebbe un
notevole scompenso del principio del contraddittorio, attribuendo al consulente
di parte INPS una sorta di libera mobilità e di intervento senza regole, di cui
non gode l’eventuale consulente di parte del lavoratore. La norma in questione
avrebbe introdotto un onere del CTU relativo all’informativa obbligatoria al
direttore dell’INPS circa l’inizio delle operazioni peritali; e ciò al fine di
consentire al medico di parte INPS «di partecipare alle operazioni peritali in
deroga al comma 1 dell’art. 201 del codice di procedura civile». Si tratterebbe
di un privilegio a favore del consulente della parte processuale INPS, peraltro
più forte, mentre il consulente della parte ricorrente, quella più debole,
dovrebbe ancora essere nominato con dichiarazione ricevuta dal cancelliere,
come prescritto dal citato art. 201.
Tale costruzione processuale violerebbe
il principio di ragionevolezza, risultando privo di razionalità il fatto di
obbligare la parte ricorrente a dotarsi di un accertamento tecnico non
costituente frutto di un sereno e "terzo” esame delle condizioni sanitarie del
soggetto, «ma il frutto delle inevitabili pressioni che la presenza, libera da
vincoli anche formali, del medico INPS può indurre e di fatto induce».
In sostanza, non sarebbe dato
comprendere perché il legislatore si sia determinato, per un verso, a
privilegiare la presenza della parte INPS nell’ATP, agevolandone la
partecipazione; per altro verso, a limitare il ruolo del giudice ad interventi
prestabiliti e scevri di contenuto decisorio; per altro verso ancora, ad
eliminare ogni presenza attiva del difensore, sicché spesso il ricorrente
sarebbe privo di qualsiasi assistenza.
Sarebbe difficile pensare che tale
procedimento abbia dietro di sé una ragione giustificatrice in quanto, nella
realtà, introdurrebbe una modifica processuale eccentrica e peggiorativa
rispetto a quella previgente, mentre le norme di diritto sostanziale
(assistenziale e previdenziale) sarebbero sempre uguali ed immutate nel tempo.
La normativa censurata avrebbe stravolto
l’intera disciplina di cui al Titolo IV, Capo II, del codice di procedura
civile, al tempo concepita per agevolare il ricorso al giudice in modo pieno
sin dalle sue prime fasi, proprio in considerazione della delicatezza della
materia.
Inoltre, la normativa in questione si
porrebbe in conflitto con l’art. 24 Cost., in quanto
la procedura di ATP creerebbe condizioni di sostanziale impedimento
all’esercizio del diritto di azione e di difesa, sia per l’inesistenza attiva
di un difensore tecnico, sia per la mancata previsione di un tempus per la
discussione del caso, «mentre l’unica verosimile presenza del difensore, nel
sesto comma dell’art. 445-bis cod. proc. civ., è relativa al ricorso introduttivo del giudizio
(ad accertamento tecnico preventivo oramai tutto effettuato sotto
l’onnipresenza del medico INPS), cui viene, peraltro, riservata la forca
caudina dell’inammissibilità per mancata specificazione dei motivi della
contestazione».
3.– Il rimettente richiama il disposto
dell’art. 445-bis, alla stregua del
quale il decreto di omologazione va notificato agli enti competenti i quali,
previa verifica di tutti gli ulteriori requisiti della normativa vigente,
provvedono entro 120 giorni al pagamento delle relative prestazioni. A suo
avviso, la mancata espressa attribuzione della qualità di titolo esecutivo –
necessaria ai sensi dell’art. 474 cod. proc. civ. per
i titoli giudiziali diversi dalla sentenza – porrebbe il problema se il decreto
costituisca titolo idoneo, in caso di mancato spontaneo pagamento entro il
termine indicato, a consentire l’accesso all’azione esecutiva.
La questione sarebbe tale da travolgere
l’intero articolo.
Infatti, in base alla formulazione della
norma, sarebbe logico ritenere che il procedimento in esame, nonostante
"l’accordo” implicito nel mancato deposito delle dichiarazioni di dissenso, non
sia idoneo a sfociare in un titolo esecutivo (con conseguente necessità di dare
impulso ad una ulteriore autonoma azione, anche monitoria); l’intera
"architettura” del nuovo procedimento mostrerebbe una irragionevolezza di
fondo, tale da mettere in dubbio la legittimità costituzionale dell’intera
normativa.
Imporre il previo svolgimento della
consulenza tecnica, con le caratteristiche previste dalla normativa censurata,
starebbe a significare che il procedimento si conclude con una sorta di
provvedimento meramente "dichiarativo” della sussistenza del requisito
sanitario, limitato all’an debeatur. In
questo quadro, sarebbe lecito dubitare che l’intervento normativo abbia una
finalità di deflazione, in quanto si risolverebbe in un rilevante
appesantimento delle condizioni di accesso alla tutela giurisdizionale. Al
riguardo, andrebbe richiamato l’art. 38 del d.l. n.
98 del 2011 (che ha introdotto l’art. 445-bis
cod. proc. civ.), il quale, nell’indicare gli scopi
della legge ammette che, tra i fini da questa perseguiti, vi è anche quello di
«deflazionare il contenzioso in materia previdenziale».
Resterebbe così confermato che il
legislatore ha inteso creare condizioni di accesso alla tutela giurisdizionale
più difficili rispetto al passato, quando dalla fase amministrativa si passava
direttamente a quella giudiziale, diretta da magistrato pleno iure, che disponeva anche degli ulteriori mezzi di penetrazione
della materia del contendere e di formazione del convincimento (interrogatorio
libero, prova testimoniale, acquisizione di documentazione presso terzi e così
via). Pertanto, poiché di norma il ricorso giurisdizionale non può non
comprendere anche la fase di formazione di un titolo di condanna idoneo a
consentire l’accesso all’azione esecutiva, nel caso in esame il "percorso”
imposto dalla legge, per la tutela dei diritti soggettivi in gioco,
contemplerebbe soltanto la possibilità di ottenere un provvedimento meramente
dichiarativo, come sarebbe dato desumere anche dal tenore testuale della
formula adottata.
Sarebbe evidente, dunque, il dubbio di
legittimità costituzionale dell’intero art. 445-bis per la non ragionevolezza di una ipotesi di giurisdizione
condizionata che, pur dando luogo ad un sostanziale "accordo”, non consentirebbe
la formazione immediata di un titolo esecutivo e comunque di una statuizione di
condanna, costringendo in prospettiva l’invalido a rivolgersi nuovamente al
giudice.
4.– L’art. 445-bis cod. proc. civ. presenterebbe, poi,
altri profili di illegittimità costituzionale, in relazione: a) al termine
perentorio per il deposito della dichiarazione di contestazione delle
conclusioni del CTU (quarto comma); b) al decreto di "omologa”
dell’accertamento sul requisito sanitario, che non ammette alcun preventivo
contraddittorio tra le parti (quinto comma); c) al termine perentorio per il
deposito del ricorso introduttivo della fase contenziosa (sesto comma); d) alla
sanzione di inammissibilità per la
mancata specificazione dei motivi della contestazione (sesto comma).
Le norme citate mostrerebbero il
reiterato ostacolo frapposto dal legislatore al diritto sancito dall’art. 24 Cost. Tale ostacolo – coinvolgente anche il principio di
ragionevolezza, nonché l’art. 38 Cost. perché si
riverbera sull’affermato diritto all’assistenza sociale – sarebbe manifestato:
dal termine perentorio di cui al comma 4, cui consegue una decadenza dal
diritto di azione; dal decreto di omologa che, pronunciato fuori udienza, non
prevede la possibilità di un contraddittorio preventivo; dal termine, ancora
perentorio, per il deposito del ricorso introduttivo; dalla inammissibilità del
ricorso di merito in difetto della specificazione dei motivi di contestazione.
In particolare, l’art. 445-bis stabilisce che, concluse le
operazioni di consulenza, con il deposito in cancelleria della relazione, il
giudice è chiamato a pronunciare un decreto di fissazione di un termine
perentorio non superiore a trenta giorni, entro il quale le parti devono
dichiarare con atto scritto, depositato in cancelleria, se intendono contestare
le conclusioni del CTU.
La norma, però, si limita a prevedere un
termine massimo, ma non un termine minimo, e questa mancanza, ad avviso del
rimettente, comporterebbe l’attribuzione al giudice del potere di determinare
la misura del termine – che, in teoria potrebbe essere anche assai ridotto –
con conseguente possibile lesione delle garanzie difensive minime.
Né gioverebbe obiettare che il nuovo
testo dell’art. 195 cod. proc. civ., come modificato
dalla legge 18 giugno 2009, n. 69 (Disposizioni per lo sviluppo economico, la
semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile),
prevede che il CTU debba trasmettere alle parti la relazione ed attendere prima
del deposito le loro eventuali osservazioni e che la dichiarazione di
contestazione non ha bisogno di grandi spazi perché può anche non contenere le
ragioni del dissenso. L’obiezione non avrebbe pregio in quanto la mancata
previsione di un termine minimo esporrebbe in modo irragionevole il difensore
ai rischi connessi al mancato rispetto di esso, anche tenuto conto del fatto
che la decisione di accettare o meno le conclusioni del CTU deve essere assunta
dalla parte personalmente, sicché il difensore ha necessità di un tempo di riflessione
per conferire con il cliente e consentirgli a sua volta di riflettere e,
magari, di consultare un medico di fiducia dal quale raccogliere un parere.
Questo tempo non potrebbe essere rimesso alla decisione, caso per caso, del
singolo giudice.
Il quinto comma dell’art. 445-bis prevede che il decreto di omologa
dell’accertamento sul requisito sanitario può essere pronunciato sul
presupposto della mancanza di contestazione con la forma del decreto emesso
"fuori udienza”. La fissazione di apposita udienza è esclusa in modo espresso
dalla norma, che non ammette, del tutto irragionevolmente, la possibilità di
contraddittorio tra le parti prima della pronuncia del decreto. Si pensi che,
pur non contestandosi la conclusione della consulenza favorevole al ricorrente,
ben potrebbe contestarsi la decorrenza della prestazione come differita dal CTU
rispetto alla data della domanda amministrativa.
Anche questa previsione normativa
solleverebbe dubbi di legittimità costituzionale, in quanto non consentirebbe
l’esercizio delle garanzie difensive nella fase che precede la pronunzia di un
decreto, dalla stessa norma qualificato come non impugnabile e non revocabile.
La mancata previsione di una previa audizione delle parti impedirebbe alle
stesse di sottoporre al giudice difese che potrebbero incidere sulla decisione.
Al sesto comma l’art. 445-bis prevede l’obbligo, in capo alla
parte che ha depositato la dichiarazione di contestazione, di depositare il
ricorso introduttivo della fase contenziosa entro il termine perentorio di
trenta giorni, decorrente dalla data di deposito in cancelleria della
dichiarazione di dissenso. A pena di inammissibilità il ricorso deve contenere
i motivi della contestazione.
I dubbi di legittimità costituzionale –
sempre con riferimento all’art. 24 Cost., ma anche al
deficit di ragionevolezza – sarebbero
legati al fatto che, pur in presenza di un mancato "accordo”, è imposto alla
parte di dare inizio al giudizio entro un termine espressamente dichiarato
perentorio. Tale carattere del termine forzerebbe il comportamento della parte,
limitando la possibilità, ad esempio, di ricerche volte all’acquisizione di
documentazione probatoria. Peraltro, andrebbe notato che un simile termine non
si rinviene in alcun altro procedimento d’istruzione preventiva e, in generale,
in caso di rigetto della domanda cautelare proposta ante causam.
La norma in questione, sempre nel comma
6, prevede l’inammissibilità del ricorso introduttivo del giudizio quando non
siano specificati i motivi della contestazione. Ad avviso del giudice a quo, risulterebbe evidente l’ulteriore
limitazione al diritto di azione, specialmente considerando che la sanzione
d’inammissibilità è correlata alla specificazione dei motivi di contestazione
senza, tuttavia, che la norma indichi quando ricorra l’ipotesi della carenza
dei suddetti motivi, in guisa da determinare criteri obiettivi di valutazione
che guidino il giudizio sulla inammissibilità medesima. Sussisterebbe, dunque,
violazione dell’art. 24 Cost., ma anche dell’art. 3
della medesima, sotto il profilo della disparità di trattamento introdotto
dall’art. 445-bis cod. proc. civ. tra il cittadino che agisce per la tutela di un
proprio diritto in sede ordinaria e chi deve agire per la tutela di un diritto
previdenziale assistenziale. Inoltre, la normativa censurata renderebbe impari
il trattamento, nello stesso ambito processuale previdenziale, tra chi, ai
sensi del citato art. 445-bis, deve
preventivamente dotarsi dell’accertamento tecnico e chi, invece, non è soggetto
a limitazioni ed oneri preventivi, perché richiede al giudice una prestazione
soltanto economica e/o, comunque, diversa da quelle ricadenti nella norma
denunciata.
5.– Infine, il rimettente ritiene
costituzionalmente illegittimo l’art. 445-bis,
settimo comma, cod. proc. civ., introdotto dall’art.
27 della legge n. 183 del 2011, per contrasto con gli artt. 3, 24 e 111 Cost.
Ad avviso del Tribunale di Roma, la
previsione d’inappellabilità della sentenza, che definisce il giudizio di cui
all’art. 445-bis, andrebbe
interpretata nel senso che non sono escluse dall’appellabilità le decisioni
pronunciate nel giudizio per il riconoscimento di una prestazione d’invalidità
nei casi in cui non sia in discussione la sussistenza del requisito sanitario.
In altri termini, l’interpretazione logico-sistematica della norma indurrebbe a
ritenere che il legislatore, allo scopo di «deflazionare il contenzioso in
materia previdenziale» e di «contenere la durata dei processi in materia
previdenziale, nei termini di durata ragionevole dei processi», abbia assunto
come parametro per definire l’area delle sentenze inappellabili soltanto il
caso in cui sia controverso l’accertamento della sussistenza del requisito
sanitario, lasciando al di fuori i procedimenti nei quali il mancato
riconoscimento del diritto assistenziale o previdenziale sia legato, invece, al
requisito amministrativo o contributivo o di altra natura.
Tale limitazione all’appello si porrebbe
in contrasto con il principio di ragionevolezza, desunto dall’art. 3 Cost., non tanto e non solo perché distinguerebbe tra
cittadini che si rivolgono al giudice previdenziale e cittadini che si
rivolgono al giudice civile in genere, ma anche perché porrebbe una disparità
di trattamento in relazione a fattispecie ugualmente tese a conseguire
prestazioni previdenziali e/o assistenziali di invalidità, non adeguatamente
giustificata dalle caratteristiche e finalità del giudizio e dalle proclamate
esigenze di celerità. Due soggetti, entrambi affetti da patologie ugualmente
invalidanti, verrebbero a trovarsi in condizioni disomogenee «a seconda se sia
in contestazione il requisito sanitario utile per l’accesso al beneficio o al
contrario quello amministrativo e/o contributivo e ciò in quanto solamente nel
secondo caso resterebbe salvo il doppio grado di merito».
La limitazione ad un unico grado di
giudizio per l’accertamento della sussistenza del requisito sanitario
ridurrebbe di fatto per l’invalido la possibilità di contestare il merito del
rapporto, potendo egli dolersi per esclusivi motivi di legittimità dell’unica
pronuncia conseguibile sul punto.
La ratio
dell’intervento legislativo, data dall’accelerazione del procedimento
mediante la negazione del rimedio dell’appello, rischierebbe di essere
vanificata, in quanto la parte ricorrente sarebbe obbligata a ricorrere
nuovamente al giudice al fine di ottenere la condanna al pagamento della
prestazione, nel caso di mancato spontaneo adempimento da parte dell’Istituto
previdenziale, pur nella presenza di tutti i requisiti costitutivi del diritto,
attesa la natura dichiarativa della statuizione resa ai sensi dell’art. 445-bis, sesto comma, cod. proc. civ. limitata all’accertamento della sussistenza del
presupposto sanitario.
L’intento di deflazionare il contenzioso
e di abbreviare la durata del processo sembrerebbe improbabile da realizzare e
potrebbe produrre una differenziata considerazione processuale del soggetto
invalido, a seconda del diverso presupposto costitutivo del diritto in
contestazione. In sostanza, la sentenza resa all’esito del giudizio di cui all’art.
445-bis, sesto comma, e la celerità
del procedimento da cui la stessa ha origine, non renderebbe la posizione
dell’invalido più garantita proprio nel momento in cui egli avrebbe bisogno di
una tutela cognitiva piena avente ad oggetto il proprio diritto.
Infatti, tenuto conto che, per le
controversie assistenziali e/o previdenziali in cui siano in contestazione
requisiti diversi da quello sanitario, nonché per le controversie concernenti
il riconoscimento di pensioni di reversibilità ai figli invalidi, degli assegni
di assistenza personale e continuativa di cui alla legge del 12 giugno 1984, n.
222 (Revisione della disciplina della invalidità pensionabile) e della pensione
di vecchiaia anticipata per motivi d’invalidità, il soggetto può esercitare
un’ordinaria azione di cognizione, non sarebbe ragionevole il diverso
trattamento riservato all’invalido che richieda l’accertamento del requisito
sanitario per il godimento delle prestazioni, trattandosi di fattispecie
sostanzialmente identiche e, comunque, di pronunce finalizzate all’accertamento
del proprio diritto e all’esistenza del rapporto.
L’illegittimità costituzionale della
normativa censurata sarebbe rilevabile, altresì, in relazione all’art. 111 Cost., nonché all’art. 24 Cost.
per l’accesso all’azione giudiziale, incidendo sull’esplicazione del diritto di
difesa. La preclusione all’appello e la previsione di un unico grado di merito
non troverebbe nel procedimento innanzi evidenziato un fondamento
ragionevolmente commisurato alla entità della limitazione apportata al diritto
di difesa e ai principi del giusto processo.
Inoltre, la previsione di
inappellabilità della sentenza comporterebbe la sua impugnabilità per
cassazione, ai sensi dell’art. 111, settimo comma, Cost.,
con conseguente incremento dei già gravosi carichi di lavoro di quella Corte.
6.–
Con atto depositato il 17 ottobre 2013 si è costituito nel giudizio di
legittimità costituzionale l’INPS, chiedendo che le questioni sollevate dal
Tribunale di Roma siano dichiarate non fondate.
7.– Con memoria depositata il 17 ottobre
2013 si è costituito nel giudizio di legittimità costituzionale il signor R.A.,
chiedendo l’accoglimento delle questioni sollevate con l’ordinanza di
rimessione.
La parte privata rileva, in primo luogo,
il contrasto della normativa censurata con l’art. 3 Cost.,
sotto il profilo della irragionevole disparità di trattamento nei riguardi di
tutte le altre controversie in materia di prestazioni di previdenza e
assistenza obbligatorie, di cui agli artt. 442 e seguenti, cod. proc. civ., nonché rispetto alle altre controversie
d’invalidità non richiamate dall’art. 445-bis
cod. proc. civ. e alle controversie d’invalidità
comprese nell’ambito applicativo di tale articolo, il diritto alla cui
prestazione sia subordinato al ricorrere non solo del requisito sanitario, ma
anche di altri requisiti (ad esempio di quello contributivo o reddituale).
Sviluppa, poi, una serie di argomentazioni dirette a far ritenere giustificate
le censure mosse dall’ordinanza di rimessione del Tribunale di Roma.
8.– In data 12 agosto 2014, il signor
R.A. ha depositato memoria illustrativa con la quale insiste per l’accoglimento
delle sollevate questioni di legittimità costituzionale, in riferimento agli
artt. 3, 24, 38 e 111 Cost.
Avuto riguardo alla finalità perseguita
dal legislatore con l’introduzione della censurata normativa, finalità volta a
deflazionare il contenzioso in materia previdenziale ed a contenere la durata
dei processi in tale materia in termini ragionevoli, la parte privata, nel
riportarsi a quanto già dedotto nell’atto di costituzione, svolge ulteriori
deduzioni in ordine alla irragionevolezza del procedimento di cui all’art. 445-bis cod. proc.
civ., nonché alla scelta della categoria di soggetti – destinatari di tutele
contro l’invalidità – tenuta obbligatoriamente all’utilizzo del detto strumento
processuale.
Al fine di un migliore inquadramento
della questione, il signor R.A. richiama il recente orientamento della
giurisprudenza di legittimità in materia (Corte di cassazione, sesta sezione civile,
sentenze 17 marzo 2014, n. 6084 e n. 6085; Corte di cassazione, sesta sezione
civile, sentenza 14 marzo 2014, n. 6010), secondo cui il tratto essenziale
dell’art. 445-bis cod. proc. civ. è la disposta scissione in due diverse fasi
delle controversie intese al conseguimento delle prestazioni assistenziali e
previdenziali connesse allo stato di invalidità: quella
concernente l’accertamento sanitario, regolata da un rito speciale (a
contraddittorio posticipato ed eventuale) e quella (non giudiziale, ma eventualmente
anche giudiziale) di concessione della prestazione, in cui va verificata
l’esistenza dei requisiti non sanitari.
Per tutte le controversie
in cui si intenda far valere il diritto a prestazioni assistenziali e
previdenziali (invalidità civile, cecità civile, sordità civile, handicap e
disabilità, nonché controversie aventi ad oggetto pensioni di inabilità e
assegni di invalidità, disciplinati dalla legge n. 222 del 1984), il procedimento
obbligatorio di ATP è inteso esclusivamente alla verifica delle condizioni
sanitarie.
Nella istanza di ATP il
ricorrente deve quindi indicare esclusivamente la prestazione previdenziale o
assistenziale richiesta e le sue condizioni di salute, quali unici dati
rilevanti in questa fase di verifica della invalidità.
Ove nessuna delle parti
muova contestazioni alla relazione del CTU, il giudice "omologa” l’accertamento
del requisito sanitario, emettendo un decreto «non impugnabile né
modificabile». La sussistenza del requisito sanitario nei termini espressi dal
CTU ovvero la sua inesistenza, se non sono mosse contestazioni, diventa quindi
intangibile. In questa fase la decisione è rimessa esclusivamente al consulente
medico, senza possibilità per il giudice di discostarsi dal suo parere. Unica
facoltà che al giudice residua è quella – prevista dall’art. 196 cod. proc.
civ. – di disporre la rinnovazione delle indagini o
di sostituire il consulente, di talché l’accertamento delle condizioni
sanitarie, in questa fase, è integralmente sottratto all’apprezzamento del
giudice, che è astretto al parere dell’esperto. Avverso il decreto di omologa
(che segue appunto automaticamente qualora non sorgano contestazioni), non vi
sono rimedi, giacché questo è espressamente dichiarato "non impugnabile”,
quindi non soggetto ad appello, né al ricorso straordinario ex art. 111 Cost.
Se, invece, una delle
parti contesta le conclusioni del CTU, si apre un procedimento contenzioso, con
onere della parte dissenziente di proporre ricorso al giudice, in un termine
perentorio, ricorso in cui essa, a pena di inammissibilità, deve specificare i
motivi della contestazione alle conclusioni del perito.
Si apre, così, una nuova
fase contenziosa, ancora limitata "solo” alla discussione sulla invalidità, fase
peraltro circoscritta agli elementi di contestazione proposti dalla parte
dissenziente (ricorrente). In questa fase contenziosa si rimettono, quindi, in
discussione le conclusioni cui il CTU era pervenuto nella fase anteriore ed il
giudice può disporre ulteriori accertamenti.
Questa fase contenziosa
(appunto successiva ed eventuale, che si apre solo al cospetto di contestazioni
all’ATP) si chiude con una sentenza, la quale non è appellabile. La non
appellabilità è stata sancita dall’art.
27, comma 1, lettera f), dalla legge
n. 183 del 2011, che ha aggiunto il comma 7 all’art. 445-bis cod. proc. civ.
Quanto sopra esposto si
riferisce – secondo il richiamato orientamento giurisprudenziale –
esclusivamente alla fase di accertamento dello stato invalidante, ma non
riguarda la fase successiva, relativa al riconoscimento del diritto alla
prestazione assistenziale o previdenziale richiesta.
Si comprende che quando il
procedimento di verifica delle condizioni sanitarie (con decreto di omologa
ovvero con sentenza definitiva del giudizio contenzioso conseguente alle
contestazioni) si concluda con l’accertamento della inesistenza della
invalidità, il giudizio si chiude, non essendovi più nulla da accertare,
essendo evidente che la prestazione richiesta non compete.
Quando invece, o
attraverso la fase di omologa o attraverso quella contenziosa, si accerti
l’esistenza di una invalidità che conferisce il diritto alla prestazione
previdenziale o assistenziale richiesta, si apre necessariamente la fase
successiva, quella, cioè, che concerne la verifica delle ulteriori condizioni
poste dalla legge per il suo riconoscimento.
La legge non descrive
espressamente i lineamenti di questa ulteriore fase, onerando semplicemente
l’ente di previdenza a procedere al pagamento della prestazione entro
centoventi giorni, previa verifica, in sede amministrativa, di detti ulteriori
requisiti.
A questo punto spetterà
all’ente previdenziale di compiere tale verifica, ancorché in molti casi essa
debba essere effettuata alla luce di elementi probatori che è necessariamente
onere della parte interessata di fornire (ad esempio limiti reddituali).
Ne deriva ancora che, ove
l’ente di previdenza non provveda alla liquidazione della prestazione, la parte
istante sarà tenuta a proporre un nuovo giudizio, che è a cognizione piena,
ancorché limitato (essendo ormai intangibile l’accertamento sanitario) alla verifica della esistenza di tutti i
requisiti non sanitari prescritti dalla legge per il diritto alla prestazione
richiesta.
Il relativo giudizio si concluderà,
con una sentenza che, in difetto di contrarie indicazioni della legge, sarà
soggetta agli ordinari mezzi di impugnazione, che dovranno ovviamente
incentrarsi solo sulla verifica dei requisiti diversi dall’invalidità.
La parte privata aggiunge che, con la
sentenza n. 6010 del 2014, la Corte di cassazione ha ritenuto che il giudice
adito con la istanza di ATP è esclusivamente
legittimato a procedere alla consulenza, senza potere operare
preliminari verifiche sulla esistenza degli altri requisiti extra sanitari.
Inoltre la parte privata precisa che,
con la sentenza n. 6085 del 2014, la Corte ha affermato il principio secondo
cui nel decreto di omologa il giudice deve necessariamente limitarsi ad
osservare le conclusioni del CTU, per cui possono considerarsi del tutto
ininfluenti i rilievi, eventualmente errati, svolti dal giudice nel suddetto
provvedimento.
La parte privata sottolinea che,
nonostante l’autorevole interpretazione dell’art. 445-bis cod. proc. civ. operata dalla Corte
di cassazione, restano aperte una serie di questioni che lasciano intravedere
ulteriori occasioni di un necessitato intervento del giudice, con sensibile
prolungamento del processo nel suo insieme (ad esempio, se la condizione di
proponibilità dell’ATP sia la dimostrazione del previo esperimento della
procedura amministrativa ed, in genere, l’allegazione di quanto necessario a
documentare la sussistenza dell’interesse ad agire del richiedente; se possano
essere indicate due o più prestazioni nello stesso ricorso per ATP; se la
proposizione del ricorso per ATP interrompa, oltre la prescrizione, anche la
decadenza di cui all’art. 42 del decreto-legge 30 settembre 2003, n. 269 –
Disposizioni urgenti per favorire lo sviluppo e per la correzione
dell’andamento dei conti pubblici, convertito, con modificazioni dall’art. 1,
comma 1, della legge 24 novembre 2003, n. 326; se, in considerazione delle
finalità acceleratorie della norma, il giudice, con il decreto di convocazione
delle parti, debba anche provvedere alla nomina del CTU; se all’udienza di
comparizione, l’INPS possa validamente eccepire il difetto dei requisiti per il
riconoscimento della prestazione e se tale eccezione impedisca la nomina del
CTU; se la parte privata, a fronte di una eventuale dichiarazione di
inammissibilità del ricorso di ATP, possa riproporre detto ricorso, adducendo
l’aggravamento o la sopravvenienza di fatti invalidanti, ai sensi dell’art. 149
delle disposizioni per l’attuazione del codice di procedura civile; se la
motivazione delle contestazioni alle conclusioni del CTU sia requisito
inderogabile; se sia ammissibile, a fronte della contestazione parziale delle
conclusioni del CTU, una conforme omologazione parziale; se il decreto di
omologa non conforme alle decisioni del CTU sia impugnabile o soltanto
modificabile, previa istanza di correzione materiale; se il giudizio
incardinato ai sensi dell’art. 442 cod. proc. civ.,
senza previa proposizione del ricorso per ATP, possa proseguire una volta
soddisfatta la condizione di procedibilità).
La parte privata rileva come la stessa
Corte di cassazione sia consapevole dei rischi di un possibile allungamento dei
tempi processuali di risoluzione della lite (nella sentenza n. 6010 del 2014,
la Corte afferma, infatti, che potrebbe «essere
antieconomico, quanto ai tempi ed al dispendio economico, decidere sulle
condizioni sanitarie al cospetto di elementi che già, prima facie, rendano ben edotti che la
prestazione non sarebbe comunque conseguibile»).
Alla luce della suddetta interpretazione
della giurisprudenza di legittimità, il signor R.A. evidenzia la manifesta
irragionevolezza della norma in questione, sia sotto il profilo strettamente
processuale, che sotto quello dell’inidoneità del detto procedimento al
raggiungimento dello scopo dichiarato.
Molteplici risulterebbero essere – ad
avviso della parte privata – le situazioni suscettibili di rendere tale
procedimento fattore di incremento degli incombenti a carico del giudice, di
allungamento dei tempi di risoluzione della lite, di aggravio complessivo per
gli oneri dell’amministrazione della giustizia, di penalizzazione eccessiva
della posizione della categoria dei soggetti ai quali il procedimento stesso è
imposto.
In particolare, la parte privata elenca,
a titolo esemplificativo, una serie di possibili ipotesi che renderebbero
palese la irragionevolezza della norma in questione, anche avuto riguardo alle
finalità di garantire una maggiore economicità dell’azione amministrativa, di
deflazione del contenzioso in materia previdenziale, di contenimento della
durata dei processi.
Il deducente rileva, inoltre, come la
inidoneità dell’ATP a perseguire la velocizzazione del processo risulterebbe
evidente già dalla semplice sommatoria dei tempi tecnici delle varie operazioni
e fasi di detto procedimento (sei/otto mesi della prima fase, destinati a
prolungarsi nel caso in cui detta fase non si chiuda con l’omologa, ma prosegua
con il procedimento contenzioso di contestazione della CTU, ai sensi degli
artt. 442 e seguenti, cod. proc. civ.; cinque mesi mediamente per introdurre la
seconda fase destinata alla decisione sui requisiti non sanitari, secondo i
tempi attuali del processo previdenziale ed assistenziale di cui all’art. 442 e
seguenti, cod. proc. civ.). Peraltro, aggiunge la parte privata, oggetto
del giudizio di merito di detta seconda fase sarebbero destinate ad essere non
solo le questioni relative ai requisiti non sanitari, ma anche eventuali
questioni di carattere sanitario relative ad aggravamenti o infermità
sopravvenute (art. 149 disp. att.
cod. proc. civ.).
Il deducente sottolinea, dunque, come,
nel caso di specie, il legislatore, nell’esercizio della sua discrezionalità,
avrebbe ecceduto i limiti della non manifesta irragionevolezza (ex plurimis,
sentenze n. 190
e n. 10 del 2013;
n. 144 del 2008).
Il signor R.A. ribadisce, in ogni caso,
la violazione dell’art. 3 Cost. sotto il profilo
della disparità di trattamento tra le controversie in materia di invalidità –
indicate espressamente nel comma 1 dell’art. 445-bis cod. proc. civ. – cui si applica
obbligatoriamente il procedimento di ATP, e quelle cui il detto procedimento
non si applica, pur ponendo le stesse esigenze di accertamento delle condizioni
psicofisiche (ad esempio, quelle finalizzate all’accertamento dell’inabilità
che dà diritto alla pensione di reversibilità, nonché del diritto all’assegno
di accompagnamento per l’assistenza ai pensionati, ai sensi dell’art. 5 della
legge n. 222 del 1984; dell’invalidità di cui all’art. 80 della legge 23
dicembre del 2000, n. 388 – Disposizioni per la formazione del bilancio annuale
e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2001; della contribuzione figurativa per sordomuti;
dell’invalidità e della inabilità da infortunio sul lavoro). Una disparità
tanto più evidente nel caso di invalidità da infortunio sul lavoro, atteso che
la legge n. 222 del 1984, alle cui controversie si applica l’ATP, svolge una
tutela surrogatoria di quella che si realizza mediante l’assicurazione
obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali (alle
cui controversie non si applica l’ATP) negli ambiti non coperti da quest’ultima
assicurazione.
Inoltre, ad avviso della parte privata,
il procedimento di ATP comporterebbe una irragionevole, e, peraltro, selettiva,
"compressione” della facoltà di esercizio dell’azione giudiziaria in materia di
diritti soggettivi perfetti, nell’ambito della tutela sociale garantita
dall’art. 38 Cost.
La parte privata deduce, altresì, la
maggiore gravosità del procedimento in questione – quanto ad adempimenti
processuali, condizioni di ammissibilità, aggiuntivi termini di decadenza,
costi, rallentamenti nel conseguimento della prestazione di legge – rispetto
alla disciplina generale valida per tutte le altre controversie di pari natura
di cui all’art. 442 e seguenti, cod. proc. civ.
Inoltre, la stessa pone in evidenza come
il "sacrificio” dell’interesse privato e, dunque, la penalizzazione
"discriminatoria” che la norma in questione impone alla parte privata,
potenzialmente più bisognosa di tutela in quanto invalida, non risulterebbe
giustificata da un effettivo bilanciamento con interessi di natura
pubblicistica, perché, per quanto sopra già osservato, il detto procedimento di
ATP non risulterebbe idoneo a garantire
la deflazione o velocizzazione del contenzioso nello specifico settore.
Infine, in punto di rilevanza della
questione, la parte privata sottolinea come la controversia, nella specie, non possa essere decisa se non attraverso
l’applicazione delle norme di legge censurate nell’ordinanza di rimessione.
L’eventuale accoglimento delle questioni, involgenti l’intero istituto
processuale, comporterebbe una pronuncia di inammissibilità di esse. Inoltre,
l’eccezione di illegittimità costituzionale in esame non avrebbe potuto essere
proposta nell’ambito del giudizio di ordinaria cognizione, stante il rischio
per il ricorrente di incorrere nella decadenza semestrale ai sensi dell’art. 42
del d.l. n. 269 del 2003, convertito. Peraltro,
l’eventuale declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 445-bis cod. proc.
civ. non creerebbe alcun vuoto di tutela, né oneri aggiuntivi per le finanze
pubbliche.
9.– In data 28 agosto 2014 l’INPS ha
depositato memoria illustrativa con la quale insiste per la declaratoria di non
fondatezza delle sollevate questioni di legittimità costituzionale.
In ordine al condizionamento
all’esercizio dell’azione giudiziaria di merito, denunciato dalla parte privata
«nonostante che anche per quanto riguarda le controversie oggetto della
disciplina dettata dall’art. 445-bis
cod. proc. civ. si verta in materia di diritti
soggettivi perfetti», l’INPS sottolinea che, al di là del fatto che il
procedimento di ATP, quanto meno nella prima fase, non ha ad oggetto un diritto
soggettivo perfetto, bensì l’accertamento di uno "status”, esistono nell’ordinamento giuridico istituti che non
tendono ad attuare diritti, ma ad integrare o a realizzare la fattispecie
costitutiva di uno "status” e che
sono affidati ad un giudice chiamato a svolgere, in tale veste, un’attività non
giurisdizionale in senso stretto (artt. 706-795 cod. proc.
civ. in materia di volontaria giurisdizione).
Quanto alla violazione dell’art. 3 Cost., che la parte privata prospetta sotto il profilo di
un assunto trattamento discriminatorio tra il regime speciale (introdotto
dall’art. 445-bis cod. proc. civ. solo per le controversie disciplinate dal comma
1) e quello ordinario previgente, di cui all’art. 442 e seguenti, cod. proc. civ., rimasto in essere per le seguenti controversie,
sempre in materia di previdenza e assistenza obbligatorie: inabilità del figlio
maggiorenne alla data del decesso del dante causa, titolare originario della
pensione, e diritto alla pensione di reversibilità ai sensi dell’art. 13 del
regio decreto-legge 14 aprile 1939, n. 636 (Modificazioni delle disposizioni sulle
assicurazioni obbligatorie per l’invalidità e la vecchiaia, per la tubercolosi
e per la disoccupazione involontaria, e sostituzione dell’assicurazione per la
maternità con l’assicurazione obbligatoria per la nuzialità e la natalità), e
dell’art. 22 della legge 21 luglio 1965, n. 903 (Avviamento alla riforma e
miglioramento dei trattamenti di pensione della previdenza sociale); diritto
all’assegno di accompagnamento per l’assistenza ai pensionati, ai sensi
dell’art. 5 della legge n. 222 del 1984; art. 80 della legge 23 dicembre 2000,
n. 388 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello
Stato – legge finanziaria 2001), che prevede l’accredito di due mesi di
contributi figurativi per ogni anno di servizio in presenza di un grado di
invalidità superiore al settantaquattro per cento concomitante al servizio
prestato nei detti anni, l’INPS – al di là della certezza sull’effettivo
mancato inserimento anche di queste ultime fattispecie nell’ambito di
operatività dell’art. 445-bis cod. proc. civ. – sottolinea la peculiarità, oltre che
l’eccezionalità, di tali previsioni, che ne giustificherebbe la diversità di
disciplina.
In ordine alla assunta ingiustificata
differenziazione, nell’ambito della stessa categoria di controversie rientranti
nel campo di applicazione dell’art. 445-bis
cod. proc. civ., tra alcune prestazioni per le quali
sono previsti, oltre a quello sanitario, anche altri requisiti (come quello
reddituale) e l’indennità di accompagnamento, l’INPS evidenzia che, anche per
quest’ultima, è richiesto, oltre al requisito sanitario, che il beneficiario
non sia stato ricoverato, per il periodo di godimento dell’indennità, in
istituti di cura con retta a carico dello Stato, con prova di ciò a carico
dell’interessato mediante autocertificazione
(documentazione ricadente nell’ambito della verifica degli altri requisiti
previsti dalla normativa vigente ai sensi dell’art. 445-bis, comma 5, cod. proc. civ.).
Quanto alla denunciata maggiore
gravosità della disciplina di cui all’art. 445-bis cod. proc. civ. rispetto alla
disciplina generale di cui agli artt. 442 e seguenti, cod. proc.
civ., l’INPS sottolinea che gli adempimenti sono i medesimi a partire dalle
forme richieste per il ricorso introduttivo.
L’INPS pone in rilievo come le condizioni
di ammissibilità sarebbero addirittura di minore complessità, avuto riguardo al
recente orientamento espresso dalla giurisprudenza di legittimità in materia
(Corte di cassazione, sesta sezione civile, sentenze 14 marzo 2014, n. 6010 e
17 marzo 2014, n. 6085), secondo cui il giudice dell’ATP e il giudice
competente a conoscere del successivo eventuale giudizio di merito di cui al
comma 6 dell’art. 445-bis cod. proc. civ., conseguente al mancato accordo delle parti e
alla mancata pronuncia del decreto di omologa, dovrebbero limitarsi a conoscere
del requisito sanitario, senza potere verificare la sussistenza dell’interesse
ad agire ai sensi dell’art. 100 cod. proc. civ., né
l’esistenza di una domanda amministrativa volta ad ottenere la prestazione cui
è collegato lo stato sanitario, né il possesso degli altri requisiti prescritti
dalla legge.
Ad avviso dell’INPS, l’interpretazione
dell’art. 445-bis cod. proc. civ., come prospettata dalla giurisprudenza di
legittimità, rischia di vanificare le aspettative di semplificazione della
procedura, di deflazione del contenzioso e di riduzione dei costi.
Diversamente, una interpretazione
costituzionalmente orientata della norma in questione, sempre al fine di
garantire la deflazione del contenzioso e l’acceleramento della conclusione dei
procedimenti per il riconoscimento delle prestazioni previdenziali ed
assistenziali, potrebbe consentire la verifica, da parte del giudice adito ai
sensi dell’art. 445-bis cod. proc. civ., della sussistenza delle condizioni dell’azione
(ad esempio, presentazione della domanda in sede amministrativa; mancato
avvenuto riconoscimento, in sede amministrativa, della prestazione o
provvidenza; mancata pendenza di un precedente giudizio sulla stessa domanda o
di un precedente procedimento amministrativo preclusivo di quello di ATP;
mancato decorso del termine di decadenza di cui all’art. 42, comma 3, del d.l. n. 269 del 2003, convertito dalla legge n. 326 del
2003, per le provvidenze di invalidità civile o all’art. 47 del decreto Presidente della Repubblica del 30 aprile
1970, n. 639 – Attuazione delle deleghe conferite al Governo con gli artt. 27 e
29 della legge 30 aprile 1969, n. 153, concernente revisione degli ordinamenti
pensionistici e norme in materia di sicurezza sociale; esperimento del
procedimento amministrativo con riguardo alle prestazioni previdenziali ai
sensi della legge n. 222 del 1984; mancanza di un previo giudicato afferente il
periodo cui si riferisce l’ATP; mancato superamento da parte dell’assistito
dell’età di sessantacinque anni nelle fattispecie aventi ad oggetto le
provvidenze non riconoscibili dopo tale data) o della palese insussistenza dei
requisiti amministrativi (ad esempio, la mancanza dei requisiti contributivi
per le prestazioni previdenziali ai sensi della legge n. 222 del 1984; il
possesso di redditi superiori a quelli previsti dalla legge per la quasi
totalità delle provvidenze di invalidità civile; la riduzione della capacità
lavorativa e il mancato svolgimento di attività lavorativa per l’assegno mensile
di assistenza, ai sensi dell’art. 13 della legge 30 marzo del 1971, n. 118
recante «Conversione in legge del decreto-legge 30 gennaio 1971, n. 5, e nuove
norme in favore dei mutilati ed invalidi civili»).
In ordine alla prospettata violazione
dell’art. 3 Cost. sotto il profilo della
irragionevolezza della disciplina di cui all’art. 445-bis cod. proc. civ., in quanto – a detta
della parte privata – per ottenere l’accertamento stabile, ai sensi dell’art.
2909 del codice civile, del diritto in contestazione, si dovrebbe
obbligatoriamente fare ricorso alla seconda fase che avrebbe come funzione
primaria quella di opposizione alle conclusioni della CTU, l’INPS osserva che:
a) se la prima fase si conclude con il decreto di omologa dell’accertamento
dello stato sanitario in senso favorevole alla parte privata, questa non ha
motivo di passare alla fase successiva,
in quanto il requisito sanitario non è più contestabile; b) se, invece, non vi
è l’accordo e si passa alla fase successiva, il giudizio di merito di cui al
sesto comma dell’art. 445-bis cod. proc. civ. avrà la medesima funzione rivestita in passato
dal giudizio di appello e si concluderà con una sentenza avente l’efficacia di
cui all’art. 2909 cod. civ.
L’INPS ritiene, inoltre, privi di pregio
i dubbi di legittimità costituzionale, in riferimento all’art. 3 Cost., sollevati dalla parte privata in ordine alla assunta
duplicazione del termine per il deposito delle osservazioni alla perizia ai
sensi dell’art. 195 cod. proc. civ. e di quello di
cui al quarto comma dell’art. 445-bis cod.
proc. civ. per il deposito della dichiarazione di
dissenso (non richiedente né osservazioni né motivazioni), alla dedotta brevità
del termine di trenta giorni di cui al sesto comma, per il deposito del ricorso
introduttivo del giudizio di merito (tale termine apparirebbe, invece, congruo,
su tale oggetto del contendere essendosi già disquisito in sede di ATP), alla
specificità dei motivi ai fini dell’ammissibilità del ricorso (tale requisito
condiziona anche l’ammissibilità dell’appello in materia di lavoro).
Del pari non condivisibili sarebbero, ad
avviso dell’INPS, le deduzioni della parte privata in ordine al possibile
aggravio degli adempimenti, essendo configurabile, piuttosto, una effettiva
deflazione del contenzioso, soprattutto se il procedimento di accertamento
sanitario sia avviato dalle parti private solo una volta accertata l’esistenza
dei requisiti amministrativi per beneficiare delle prestazioni previdenziali e
assistenziali.
L’INPS insiste, pertanto, affinché le questioni
di legittimità costituzionale dell’art. 445-bis
cod. proc. civ. siano dichiarate non fondate.
Considerato
in diritto
1.– Il Tribunale ordinario di Roma, in
composizione monocratica e in funzione di giudice del lavoro, con ordinanza del
18 gennaio 2013 (r.o. n. 204 del 2013) ha sollevato
questioni di legittimità costituzionale: 1) dell’art. 445-bis del codice di procedura civile, rubricato «Accertamento tecnico
preventivo obbligatorio», in toto,
nonché dell’art. 10, comma 6-bis, del
decreto-legge 30 settembre 2005, n. 203 (Misure di contrasto all’evasione
fiscale e disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria),
convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 2 dicembre
2005, n. 248, comma aggiunto dall’art. 20, comma 5-bis, del decreto-legge 1° luglio 2009, n. 78 (Provvedimenti
anticrisi nonché proroga di termini), convertito, con modificazioni, dalla
legge 3 agosto 2009, n. 102, e, poi, modificato dall’art. 38, comma 8, del
decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione
finanziaria), convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n.
111, in riferimento agli artt. 3, 24, 38 e 111 della Costituzione; 2) dell’art.
445-bis cod. proc.
civ., in toto, in riferimento agli
artt. 3 e 111 Cost.; 3) dell’art. 445-bis, quarto, quinto e sesto comma, cod. proc. civ., in riferimento agli artt. 3, 24 e 38 Cost.; 4) dell’art. 445-bis,
settimo comma, cod. proc. civ., in riferimento agli
artt. 3, 24 e 111 Cost.
Il rimettente premette di essere chiamato
a pronunciare su un ricorso per accertamento tecnico preventivo (d’ora in
avanti, «ATP»), ai sensi dell’art. 445-bis
cod. proc. civ., proposto da R.A. nei confronti
dell’Istituto nazionale della previdenza sociale (d’ora in avanti, «INPS»), per
ottenere il pagamento delle provvidenze economiche d’invalidità civile
(indennità di accompagnamento).
In punto di fatto il Tribunale espone
che, nell’atto introduttivo del giudizio a
quo, il ricorrente ha affermato di avere inutilmente esperito il
procedimento amministrativo e di essere portatore di una invalidità e/o
inabilità di grado tale da giustificare la concessione della prestazione
richiesta; che, instaurato il contraddittorio, l’INPS ha resistito al ricorso,
concludendo per il suo rigetto; che la parte privata ha sollevato questioni di
legittimità costituzionale della normativa citata, normativa che è articolata
nei seguenti termini.
L’art. 445-bis cod. proc. civ. (Accertamento tecnico
preventivo obbligatorio), articolo aggiunto dal numero 1 della lettera b),
comma 1, dell’art. 38 del d.l. n. 98 del 2011, come
modificato dalla relativa legge di conversione, con i termini di applicabilità
previsti dal comma 2 dello stesso art. 38, mentre il settimo comma è stato
aggiunto dalla lettera f, comma 1,
dell’art. 27 della legge 12 novembre 2011, n. 183 (Disposizioni per la
formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge di stabilità
2012), così dispone:
«Nelle controversie in materia di
invalidità civile, cecità civile, sordità civile, handicap e disabilità, nonché
di pensione di inabilità e di assegno di invalidità, disciplinati dalla legge
12 giugno 1984, n. 222, chi intende proporre in giudizio domanda per il
riconoscimento dei propri diritti presenta con ricorso al giudice competente ai
sensi dell’art. 442 codice di procedura civile, presso il Tribunale nel cui
circondario risiede l’attore, istanza di accertamento tecnico per la verifica
preventiva delle condizioni sanitarie legittimanti la pretesa fatta valere. Il
giudice procede a norma dell’art. 696-bis
codice di procedura civile, in quanto compatibile nonché secondo le previsioni
inerenti all’accertamento peritale di cui all’articolo 10, comma 6-bis, del decreto-legge 30 settembre
2005, n. 203, convertito, con modificazioni, dalla legge 2 dicembre 2005,
n.248, e all’art. 195.
L’espletamento dell’accertamento tecnico
preventivo costituisce condizione di procedibilità della domanda di cui al
primo comma. L’improcedibilità deve essere eccepita dal convenuto a pena di
decadenza o rilevata d’ufficio dal giudice, non oltre la prima udienza. Il
giudice ove rilevi che l’accertamento tecnico preventivo non è stato espletato
ovvero che è iniziato ma non si è concluso, assegna alle parti il termine di
quindici giorni per la presentazione dell’istanza di accertamento tecnico
ovvero di completamento dello stesso.
La richiesta di espletamento
dell’accertamento tecnico interrompe la prescrizione.
Il giudice, terminate le operazioni di
consulenza, con decreto comunicato alle parti, fissa un termine perentorio non
superiore a trenta giorni, entro il quale le medesime devono dichiarare, con
atto scritto depositato in cancelleria, se intendono contestare le conclusioni
del consulente tecnico dell’ufficio.
In assenza di contestazione, il giudice,
se non procede ai sensi dell’art. 196, con decreto pronunciato fuori udienza
entro trenta giorni dalla scadenza del termine previsto dal comma precedente
omologa l’accertamento del requisito sanitario secondo le risultanze probatorie
indicate nella relazione del consulente tecnico dell’ufficio provvedendo sulle
spese. Il decreto, non impugnabile né modificabile, è notificato agli enti
competenti, che provvedono, subordinatamente alla verifica di tutti gli
ulteriori requisiti previsti dalla normativa vigente, al pagamento delle
relative prestazioni, entro 120 giorni.
Nei casi di mancato accordo la parte che
abbia dichiarato di contestare le conclusioni del consulente tecnico
dell’ufficio deve depositare, presso il giudice di cui al primo comma, entro il
termine perentorio di trenta giorni dalla formulazione della dichiarazione di
dissenso, il ricorso introduttivo del giudizio, specificando, a pena di
inammissibilità, i motivi della contestazione.
La sentenza che definisce il giudizio
previsto dal comma precedente è inappellabile».
L’art. 10, comma 6-bis, del d.l. n. 203 del 2005,
convertito, con modificazioni, dalla legge n. 248 del 2005 – comma aggiunto
dall’art. 20, comma 5-bis, del d.l. n. 78 del 2009, come modificato dalla relativa legge
di conversione n. 102 del 2009, indi innovato dall’art. 38, comma 8, del d.l. n. 98 del 2011, come modificato dalla relativa legge
di conversione n. 111 del 2011 – così recita:
«Nei procedimenti giurisdizionali civili
relativi a prestazioni sanitarie previdenziali ed assistenziali, nel caso in
cui il giudice nomini un consulente tecnico d’ufficio, alle indagini assiste un
medico legale dell’ente, su richiesta del consulente nominato dal giudice, il
quale provvede ad inviare, entro 15 giorni antecedenti l’inizio delle
operazioni peritali, anche in via telematica, apposita comunicazione al
direttore della sede provinciale dell’INPS competente o a suo delegato. Alla
relazione peritale è allegato, a pena di nullità, il riscontro di ricevuta
della predetta comunicazione. L’eccezione di nullità è rilevabile anche
d’ufficio dal giudice. Il medico legale dell’ente è autorizzato a partecipare
alle operazioni peritali in deroga al comma primo dell’art. 201 del codice di
procedura civile. Al predetto componente competono le facoltà indicate nel
secondo comma dell’art. 194 del codice di procedura civile. Nell’ipotesi di
sentenze di condanna relative a ricorsi depositati a far data dal 1° aprile
2007 a carico del Ministero dell’economia e delle finanze o del medesimo in
solido con l’INPS, all’onere delle spese legali, di consulenza tecnica o del beneficio assistenziale provvede
comunque l’INPS».
1.1.– In questo quadro, il rimettente
dubita che l’art. 445-bis cod. proc. civ., in toto,
nonché l’art. 10, comma 6-bis, del d.l. n. 203 del 2005, convertito, con modificazioni, dalla
legge n. 248 del 2005, violino: l’art. 3 Cost., sotto
il profilo della irragionevolezza e della disparità di trattamento tra soggetti
uguali (ad esempio, lavoratori di una stessa fabbrica), in base alla materia
disciplinata dalla norma processuale (provvedimenti assistenziali,
previdenziali, pensionistici gestiti dall’INPS); l’art. 24 Cost.,
come diritto di azione e di difesa; l’art. 38 Cost.,
quale diritto alla assistenza sociale, e l’art. 111 Cost.
Infatti, il censurato art. 445-bis
avrebbe introdotto una nuova forma di «giurisdizione condizionata» (peraltro a
carattere atipico), non giustificata da «interessi generali» o da «pericoli di
abusi» o da «interessi sociali» o da «superiori finalità di giustizia» (sono
richiamate diverse pronunzie di questa Corte). Inoltre, l’art. 445-bis cod. proc.
civ. finirebbe per ridurre l’organo giudiziario «a mero organismo sussidiario
che svolge soltanto un ruolo al più direttivo ovvero esecutivo degli interventi
normativamente previsti» e, dunque, allo svolgimento di attività prestabilite e
prive di contenuto decisorio. A sua volta, il difensore della parte ricorrente
sarebbe ridotto al rango di spettatore, eliminandone ogni presenza attiva,
anche per la mancata previsione di un tempus per la discussione del caso. Ancora, in forza
dell’art. 10, comma 6-bis, del d.l. n. 203 del 2005, convertito, con modificazioni, dalla
legge n. 248 del 2005, in violazione del principio del contraddittorio si
sarebbe attribuito al consulente di parte INPS una sorta di libera mobilità e
di intervento senza regole, di cui non gode l’eventuale consulente di parte del
lavoratore, sicché l’accertamento tecnico preventivo, per come costruito,
finisce per essere il frutto, non già di un sereno e "terzo” esame delle
condizioni sanitarie del soggetto ricorrente, bensì delle "inevitabili
pressioni” che la presenza, libera da vincoli anche formali, del medico
dell’INPS di fatto induce.
1.2.– Il menzionato art. 445-bis cod. proc.
civ., in toto, poi, violerebbe gli
artt. 3 e 111 Cost., in quanto la mancata
attribuzione della qualità di titolo esecutivo al decreto di omologa sarebbe
indice del carattere irragionevole dell’intera norma, trattandosi di un
procedimento che, nonostante "l’accordo” implicito nel mancato deposito della
dichiarazione di dissenso, non consente la formazione immediata di un titolo
esecutivo e, comunque, di una statuizione di condanna (il decreto di omologa
dell’accertamento del requisito sanitario sarebbe un provvedimento meramente
dichiarativo della sussistenza del detto requisito, limitato all’an debeatur,
lasciando agli enti competenti il compito di accertare la sussistenza o meno
degli ulteriori presupposti necessari per il riconoscimento delle prestazioni,
nonché di quantificare gli importi dovuti e di provvedere al relativo
pagamento).
1.3.– Il rimettente prosegue osservando
che l’art. 445-bis cod. proc. civ., nei suoi commi quarto, quinto e sesto, si
porrebbe in contrasto con gli artt. 3, 24 e 38 Cost.
In particolare, l’art. 3 sarebbe violato sotto il profilo della
irragionevolezza e della disparità di trattamento, l’art. 24 come diritto di
azione e di difesa per la tutela dei diritti di natura previdenziale e l’art.
38 come diritto all’assistenza sociale.
Infatti, la norma censurata prevede: 1)
ai sensi del quarto comma, che, una volta concluse le operazioni peritali, il
giudice fissi il termine perentorio non superiore a trenta giorni, entro il
quale le parti devono dichiarare, a pena di decadenza, con atto scritto
depositato in cancelleria, se intendono contestare le conclusioni del
consulente di ufficio, senza prevedere, irragionevolmente, un termine minimo,
con possibile determinazione dello stesso da parte del giudice, caso per caso,
anche in misura molto ridotta e conseguente lesione delle garanzie minime della
parte, non essendo assicurato alla stessa un sufficiente tempus reflectendi per decidere se accettare o
meno le conclusioni del CTU; 2) ai sensi del quinto comma, che il decreto di
omologa dell’accertamento del requisito sanitario, emesso in difetto di
contestazione, ha la forma del decreto pronunciato fuori udienza, con
irragionevole esclusione di una previa audizione delle parti e, dunque, della
possibilità di contraddittorio tra le stesse; 3) ai sensi del sesto comma, che
la parte, la quale abbia dichiarato di contestare le conclusioni del CTU, è
tenuta a depositare il ricorso introduttivo della fase contenziosa entro il
termine perentorio di trenta giorni, decorrente dalla data di deposito in
cancelleria della dichiarazione di dissenso, con ciò imponendo,
irragionevolmente e in violazione del diritto di azione e di difesa, di dare
inizio al giudizio entro un termine espressamente dichiarato perentorio, con
conseguente decadenza nel caso di mancato rispetto dello stesso; 4) ancora ai
sensi del sesto comma, che il ricorso introduttivo del giudizio di merito deve
contenere, a pena di inammissibilità, la specificazione dei motivi della
contestazione, senza che siano indicati i criteri obiettivi di valutazione del
giudizio sulla inammissibilità medesima, con introduzione di un’ipotesi di
"giurisdizione condizionata”, in violazione degli artt. 24 e 3 Cost.
1.4.– Infine, il rimettente ritiene che l’art. 445-bis, settimo comma, cod. proc. civ. violi gli artt. 3, 24 e 111 Cost.,
in quanto, nello stabilire che «La sentenza che definisce il giudizio previsto
dal comma precedente è inappellabile», discriminerebbe irragionevolmente tra
fattispecie ugualmente tese a conseguire prestazioni previdenziali e
assistenziali di invalidità, a seconda del diverso presupposto costitutivo del
diritto in contestazione. L’inappellabilità delle sentenze sarebbe limitata a
quelle che definiscono controversie assistenziali e/o previdenziali in cui sia
in contestazione il solo requisito sanitario, mentre per le controversie previdenziali
e/o assistenziali in cui siano in contestazione requisiti diversi da quello
sanitario (ad esempio, reddituale, contributivo o di altra natura), ovvero per
le controversie assistenziali o previdenziali fuori dall’ambito applicativo
dell’art. 445-bis cod. proc. civ., sarebbe assicurato il doppio grado del giudizio
di merito, senza che tale limitazione sia giustificata dalle finalità del
legislatore di «deflazionare il contenzioso in materia previdenziale». La
prevista inappellabilità della sentenza di cui al settimo comma costituirebbe
una irragionevole limitazione alla piena realizzabilità e tutelabilità
dei diritti previdenziali e assistenziali, quali diritti soggettivi perfetti ed
indisponibili.
2.– Quest’ultima questione è
inammissibile.
In primo luogo, la garanzia del doppio
grado di giurisdizione non gode, di per sé, di copertura costituzionale (ex multis, ordinanze n. 42 del
2014; n. 190
del 2013; n.
410 del 2007 e n. 84 del 2003).
In ogni caso, si verte nella fattispecie in tema di conformazione degli
istituti processuali, non sindacabile da questa Corte per l’ampia
discrezionalità spettante al legislatore (ex
multis, sentenze
n. 65 del 2014 e n. 216 del 2013;
ordinanze n. 48
del 2014 e n.
190 del 2013).
3.– Nel merito, come si è detto, il
rimettente solleva questione di legittimità costituzionale dell’art. 445-bis cod. proc.
civ., in toto, nonché dell’art. 10,
comma 6-bis, del d.l. n. 203 del 2005, convertito,
con modificazioni, dalla legge n. 248 del 2005. La normativa censurata
violerebbe gli artt. 3, 24, 38 e 111 Cost.,
rispettivamente per irragionevolezza e disparità di trattamento, per contrasto
con il diritto di azione e di difesa in giudizio, per violazione del diritto
all’assistenza sociale ed, infine, sotto il profilo del principio di parità e
del contraddittorio, nonché della motivazione dei provvedimenti
giurisdizionali.
Il citato art. 445-bis avrebbe introdotto una nuova forma di giurisdizione
condizionata, peraltro "atipica”, «in quanto l’accertamento tecnico preventivo
è qui diretto ad acquisire elementi di prova direttamente rilevanti nel
successivo eventuale giudizio di "merito” e, in questo senso, può essere
considerato una vera e propria "anticipazione” del tempo di espletamento della
consulenza tecnica d’ufficio, che dei giudizi in esame, costituisce
accertamento istruttorio ineludibile».
Le suddette censure non sono fondate,
con riferimento a tutti i parametri evocati.
La normativa in questione non può
affatto ritenersi irragionevole. Invero, l’espletamento del previo accertamento
tecnico-preventivo è previsto come condizione di procedibilità e non di
proponibilità della domanda di merito volta al riconoscimento del diritto alla
prestazione assistenziale o previdenziale; la tutela garantita dall’art. 24 Cost. non comporta l’assoluta immediatezza dell’esperibilità del diritto di azione (sentenze n. 251 del
2003 e n.
276 del 2000); detta tutela giurisdizionale non deve necessariamente porsi
in relazione di immediatezza con il sorgere del diritto, ma la determinazione
concreta di modalità e di oneri non deve rendere difficile o impossibile
l’esercizio di esso (ex multis, sentenze n. 67 del
1990 e n.
186 del 1972). Il che, nella specie, certamente non si verifica. Infatti, «l’improcedibilità
deve essere eccepita dal convenuto a pena di decadenza o rilevata di ufficio
dal giudice, non oltre la prima udienza. Il giudice, ove rilevi che
l’accertamento tecnico preventivo non è stato espletato ovvero che si è
iniziato ma non si è concluso, assegna alle parti il termine di quindici giorni
per la presentazione dell’istanza di accertamento tecnico ovvero di
completamento dello stesso» (art. 445-bis,
secondo comma, cod. proc. civ.). Come si vede, si
tratta di adempimenti ordinari, che non comportano alcuna compressione dei
diritti della parte privata.
Quanto, poi, alla giurisdizione
condizionata, ancorché "atipica”, si deve osservare che la costante
giurisprudenza di questa Corte ha collegato la legittimità di forme di accesso
alla giurisdizione, subordinate al previo adempimento di oneri finalizzati al
perseguimento di interessi generali, al triplice requisito che il legislatore
non renda la tutela giurisdizionale eccessivamente difficoltosa (sentenza n. 406 del
1993), contenga l’onere nella misura meno gravosa possibile ed operi un
congruo bilanciamento tra l’esigenza di assicurare la tutela dei diritti e le
altre esigenze che il differimento dell’accesso alla stessa intende perseguire
(sentenza n. 98
del 2014).
Nel caso di specie non si tratta di
previo adempimento di oneri, nel senso di previo esperimento di rimedi
amministrativi, ma di un procedimento giurisdizionale sommario, sul modello di
quelli d’istruzione preventiva, a carattere contenzioso; in particolare, il
legislatore ha previsto un procedimento sommario, avente ad oggetto la verifica
delle condizioni sanitarie legittimanti la pretesa che s’intende far valere in
giudizio, cui fa seguito un (eventuale) giudizio di merito a cognizione piena.
In tale ipotesi, gli interessi generali
che il legislatore ha ritenuto di perseguire si concretano: a) nell’interesse
generale alla riduzione del contenzioso assistenziale e previdenziale nelle
ipotesi in cui il conseguimento della prestazione è subordinato
all’accertamento del requisito sanitario; b) nel contenimento della durata dei
processi in materia assistenziale e previdenziale in termini ragionevoli
(infatti, il decreto di omologazione potrebbe chiudere il procedimento se
l’ente previdenziale pagasse spontaneamente dopo aver verificato la sussistenza
degli altri requisiti costitutivi del diritto fatto valere); c) nel
conseguimento della certezza giuridica in ordine all’accertamento del requisito
medico-sanitario.
In questo quadro, non è sostenibile che
la normativa censurata limiti, fino ad impedirlo, il diritto costituzionale di
azione e di difesa. Al contrario, il legislatore ha effettuato un congruo
bilanciamento tra gli interessi generali di cui sopra e l’interesse della parte
a far valere il suo diritto di assistenza o previdenza, basato sullo stato di
invalidità, nell’ambito dell’esercizio della discrezionalità che compete al
medesimo legislatore.
Ne consegue la non fondatezza della
questione.
4.– Il rimettente censura ancora l’art.
445-bis cod. proc.
civ. in relazione ai parametri già richiamati (artt. 3, 24, 38 e 111 Cost.), in quanto la procedura prevista dalla norma avrebbe
ridotto l’organo giurisdizionale «a mero organismo sussidiario che svolge
soltanto un ruolo al più direttivo ovvero esecutivo degli interventi
normativamente previsti».
La questione non è fondata.
Contrariamente a quanto il rimettente
opina, il giudice, investito dell’istanza di accertamento tecnico preventivo
diretto alla verifica preventiva delle condizioni sanitarie legittimanti la
pretesa fatta valere, dispone di tutti i poteri all’uopo necessari. In
particolare, in forza del richiamo contenuto nell’art. 696-bis cod. proc. civ. (a sua volta
richiamato dall’art. 445-bis cod. proc. civ.), si applicano gli articoli da 191 a 197 del
detto codice, in quanto compatibili, sicché spettano al giudice tutti i poteri
procedimentali previsti dalla citata normativa, nonché il governo dei tempi del
procedimento, secondo le scansioni stabilite dal legislatore nell’esercizio
della sua discrezionalità. L’affermazione del rimettente, secondo cui,
«ancorché svolgentesi sotto la direzione di un giudice», il procedimento
relativo all’accertamento tecnico preventivo avrebbe natura e carattere di
attività svolta da organo non giurisdizionale, si rivela apodittica e, comunque, non fondata.
Priva di fondamento, poi, è la tesi
secondo la quale il giudice, quando omologa l’accertamento del requisito
sanitario, lo deve fare «secondo le risultanze probatorie indicate nella
relazione del consulente tecnico dell’ufficio». Il che sarebbe in conflitto con
l’art. 111, sesto comma, Cost., che esige la
motivazione di tutti i provvedimenti giurisdizionali. Invero, si deve osservare che l’omologazione
postula la mancanza di contestazioni, sicché la motivazione si rinviene nell’
"accordo tacito” tra le parti, salva la decisione del giudice di procedere ai
sensi dell’art. 196 cod. proc. civ. (richiamato
dall’art. 445-bis, quinto comma, cod. proc.
civ.).
5.– L’ordinanza di rimessione censura
l’art.445-bis cod. proc. civ. per violazione dei parametri già richiamati
(artt. 3, 24, 8 e 111 Cost.), in quanto la procedura
ivi prevista avrebbe ridotto il difensore della parte ricorrente al rango di
spettatore, eliminandone ogni presenza attiva, anche per la mancata previsione
di un tempus
per la discussione del caso (il procedimento si svolgerebbe senza neppure
un’udienza dopo avere raccolto la consulenza, mentre l’unica presenza del
difensore di cui al sesto comma del detto articolo sarebbe relativa al ricorso
introduttivo del giudizio "di merito”).
La questione non è fondata.
Ferma, anche in questo caso, la
discrezionalità non irragionevole del legislatore nella conformazione degli
istituti processuali, va rilevato che il difensore del ricorrente partecipa
attivamente a tutto il procedimento di ATP, che si svolge fin dall’inizio nel
contraddittorio delle parti. La stessa
nomina del CTU avviene con ordinanza emessa in contraddittorio (art. 696, terzo
comma, cod. proc. civ.). Le parti possono fare
osservazioni fino al deposito della consulenza (art. 195 cod. proc. civ.), che va loro comunicata. Esse, dopo il deposito
della relazione, possono presentare nel termine perentorio assegnato dal
giudice (non superiore a trenta giorni) eventuali contestazioni.
Non è esatto, dunque, ritenere che il
difensore della parte ricorrente sia relegato al rango di spettatore. In realtà
la disciplina normativa contempera le esigenze generali ad una ragionevole
durata dei procedimenti in materia assistenziale e previdenziale con quelle
delle parti, di azione e di difesa in giudizio.
6.– Gli artt. 445-bis cod. proc. civ. e 10, comma 6-bis, del d.l.
n. 203 del 2005, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 248 del 2005,
come da ultimo ancora modificato, avrebbero violato i parametri sopra evocati
(artt. 3, 24, 38, 111 Cost.), in quanto, in forza del
menzionato art. 10, comma 6-bis, in
contrasto col principio del contraddittorio, si sarebbe attribuita al
consulente di parte INPS «una sorta di libera mobilità e di intervento senza
regole» (la norma ha introdotto l’onere per il CTU di informare
obbligatoriamente il direttore dell’INPS circa l’inizio delle operazioni di
consulenza, al fine di consentire al medico di parte INPS di partecipare alle
stesse «in deroga al comma 1 dell’art. 201 cod. proc.
civ.»). Di tali prerogative non godrebbe l’eventuale consulente di parte del
lavoratore, sicché l’ATP, per come concepito e costruito, finirebbe per essere
non il frutto di un sereno e "terzo” esame delle condizioni sanitarie del
soggetto ricorrente, ma la conseguenza delle «inevitabili pressioni» che la
presenza, libera da vincoli anche formali, del medico dell’INPS di fatto
comporterebbe.
La questione non è fondata.
Come risulta dal dettato normativo del
citato 10, comma 6-bis, in deroga a
quanto stabilito dall’art. 201, primo comma, cod. proc.
civ., il giudice non assegna all’INPS un termine entro il quale nominare un
proprio consulente tecnico, ma è lo stesso CTU a dover chiedere la nomina del
medico legale dell’ente e a dover comunicare al direttore della competente sede
provinciale dell’INPS l’avvio delle operazioni di consulenza.
Attraverso questa modalità procedurale,
rientrante nel legittimo esercizio della discrezionalità del legislatore,
quest’ultimo non ha inteso attribuire al consulente di parte INPS una posizione
privilegiata in violazione del principio del contraddittorio, ma garantire il
contraddittorio anche tecnico fin dall’inizio delle operazioni processuali. Ciò
in considerazione degli interessi pubblici di cui il detto ente è portatore e
dei quali, quindi, va garantita la tutela, peraltro senza che la realizzazione
di tale esigenza incida sul libero espletamento dell’attività difensiva della
parte privata.
7.– Ad avviso del rimettente, l’art.
445-bis cod. proc.
civ., in toto, contrasterebbe con
l’art. 3 Cost., sotto il profilo della
irragionevolezza, e con l’art. 111 Cost., in quanto
la mancata attribuzione della qualità di titolo esecutivo al decreto di omologa
sarebbe indice della irragionevolezza dell’intera norma, trattandosi di un
procedimento che, nonostante l’accordo implicito nel mancato deposito delle
dichiarazioni di dissenso, non consentirebbe la formazione immediata di un
titolo esecutivo e, comunque, di una statuizione di condanna (il decreto di
omologa dell’accertamento del requisito
sanitario è un provvedimento dichiarativo della sussistenza di tale
requisito, limitato all’an debeatur,
lasciando agli enti competenti il compito di accertare gli ulteriori
presupposti necessari per il riconoscimento della prestazione o provvidenza,
nonché di quantificare gli importi dovuti e di provvedere al relativo
pagamento).
La questione non è fondata.
Invero, in difetto di contestazioni, con
il decreto di cui all’art. 445-bis,
quinto comma, cod. proc. civ. il giudice «omologa
l’accertamento del requisito sanitario secondo le risultanze probatorie
indicate nella relazione del consulente tecnico di ufficio». La mancata
attribuzione a tale decreto dell’efficacia di titolo esecutivo è coerente con
la natura del provvedimento, atto meramente dichiarativo della sussistenza o
meno del requisito medico-sanitario. Il decreto di omologa rende inoppugnabile
un’acquisizione probatoria, ma non decide sul merito della domanda, essendo
necessaria da parte dell’INPS la verifica anche degli altri requisiti, diversi
da quello medico-sanitario, che la legge prevede per l’attribuzione di un
determinato beneficio (ad esempio il requisito reddituale, l’età, il requisito
contributivo e così via).
Infatti, la norma censurata dispone che
il decreto di omologa sia notificato agli enti competenti, i quali provvedono,
subordinatamente alla verifica di tutti gli ulteriori requisiti stabiliti dalla
normativa vigente, al pagamento delle relative prestazioni entro centoventi
giorni.
In tale disciplina non si ravvisa alcuna
irragionevolezza, che sarebbe stata invece ben presente se si fosse attribuita
efficacia esecutiva ad un atto dichiarativo, per di più in carenza degli altri
requisiti richiesti dalla legge.
Quanto al richiamo all’art. 111 Cost., esso non è sorretto da alcuna adeguata motivazione.
8.– Infine, il rimettente solleva
questione di legittimità costituzionale dell’art. 445-bis, quarto, quinto e sesto comma , cod. proc.
civ. per asserita violazione degli artt. 3, 24 e 38 Cost.
La norma contrasterebbe con l’art. 3 Cost., sotto il profilo della irragionevolezza e della
disparità di trattamento, con l’art. 24 Cost., come
diritto di azione e di difesa per la tutela dei diritti di natura
previdenziale, e con l’art. 38 Cost. come diritto
all’assistenza sociale.
In particolare: 1) la norma censurata dispone
al quarto comma che, concluse le operazioni di consulenza, il giudice fissi un
termine perentorio non superiore a trenta giorni entro il quale le parti devono
dichiarare, con atto scritto depositato in cancelleria, se intendono contestare
le conclusioni del CTU. Ciò senza prevedere, irragionevolmente, un termine
minimo, con possibile determinazione dello stesso da parte del giudice, caso
per caso, anche in misura molto ridotta, con conseguente lesione delle garanzie
difensive minime della parte, alla quale non sarebbe assicurato un sufficiente
tempo di riflessione per decidere se accettare o meno le conclusioni del CTU;
2) la stessa norma stabilisce, al quinto comma, che il decreto di omologa
dell’accertamento del requisito sanitario, emesso «in assenza di
contestazione», ha la forma del decreto pronunciato fuori udienza, con
irragionevole esclusione di una previa audizione delle parti e, dunque, della
possibilità di contraddittorio tra le stesse prima della pronuncia del decreto
– qualificato come "non impugnabile” e "non revocabile” – con lesione
dell’esercizio delle loro garanzie difensive; 3) la norma censurata dispone, al
sesto comma, che la parte, la quale abbia dichiarato di contestare le
conclusioni del CTU, è tenuta a depositare il ricorso introduttivo della fase
contenziosa entro il termine perentorio di trenta giorni, decorrente dalla data
di deposito in cancelleria della dichiarazione di dissenso, con ciò imponendo,
irragionevolmente ed in violazione del diritto di azione e di difesa, anche in
presenza di un mancato accordo, di dare inizio al giudizio entro un termine
dichiarato perentorio, con conseguente decadenza nel caso di mancato rispetto
dello stesso; 4) ancora, il sesto comma della citata norma statuisce che il
ricorso introduttivo del giudizio di merito deve contenere, a pena di
inammissibilità, la specificazione dei motivi della contestazione, senza
indicare i criteri obiettivi di valutazione del giudizio sulla inammissibilità
medesima, con introduzione di una ipotesi di "giurisdizione condizionata”, in
violazione dell’art. 24 Cost., nonché dell’art. 3 Cost., sotto il profilo della irragionevolezza e della
disparità di trattamento tra chi agisce per la tutela di un proprio diritto in
sede ordinaria e chi per la tutela di un diritto previdenziale-assistenziale e,
nello stesso ambito, tra chi deve dotarsi – ai sensi dell’art. 445-bis cod. proc.
civ. – di un accertamento tecnico preventivo e chi non è soggetto a limiti od
oneri preventivi.
La questione, nelle sue varie
articolazioni, non è fondata.
Infatti, non può essere condivisa la tesi secondo la quale
non sarebbe conforme a Costituzione
l’art. 445-bis, quarto comma,
cod. proc. civ., nel momento in cui si limita a
prevedere la fissazione, da parte del giudice, di un termine perentorio, non
superiore a trenta giorni, per compiere l’adempimento prescritto dalla norma
medesima, senza stabilire la fissazione anche di un termine minimo per
contestare le conclusioni della consulenza tecnica.
Va premesso che i termini per il
compimento degli atti del processo sono stabiliti dalla legge; possono essere
stabiliti dal giudice, anche a pena di decadenza, soltanto se la legge lo
permette espressamente (art. 152, primo comma, cod. proc.
civ.).
Come già si è osservato, in tema di
disciplina del processo e di conformazione degli istituti processuali il
legislatore dispone di un’ampia discrezionalità, con il solo limite della
manifesta irragionevolezza o arbitrarietà delle scelte compiute. Nel caso di
specie, tale limite non può dirsi superato, perché il legislatore evidentemente
ha considerato superflua la fissazione di un termine minimo per l’attività di
mera contestazione delle conclusioni della CTU, in presenza di un termine
massimo già stabilito per tali contestazioni in trenta giorni. Si tratta di una
valutazione non irragionevole né arbitraria, a fronte della quale non ha pregio
l’argomentazione del rimettente, secondo la quale la mancata previsione di un
termine minimo esporrebbe il difensore ai rischi connessi al mancato rispetto
del termine stesso.
A prescindere dal carattere meramente
ipotetico della censura, si deve rilevare che, qualora il giudice assegni un
termine non congruo e la parte dimostri di essere incorsa in decadenza per
causa ad essa non imputabile, la stessa potrà chiedere di essere rimessa in termini (art. 153,
secondo comma, cod. proc. civ.).
Quanto alla censura relativa al quinto
comma dell’art. 445-bis cod. proc. civ., concernente la mancata previsione di un’udienza
in contraddittorio delle parti prima dell’adozione del decreto di omologa, si
deve osservare che detto provvedimento costituisce il punto di arrivo di una
procedura che si svolge nel contraddittorio delle parti fin dall’inizio. Esso
presuppone un "tacito accordo” delle parti medesime sull’esistenza del
requisito sanitario; infatti, segue l’avvenuta scadenza del termine fissato dal
giudice, non superiore a trenta giorni, affinché le parti avanzino
contestazioni sulle conclusioni della CTU. Pertanto l’adozione del decreto di
omologa "fuori udienza” non concreta alcuna lesione delle garanzie difensive e
del contraddittorio tra le parti.
In ordine alla censura relativa al sesto
comma dell’art. 445-bis cod. proc. civ., concernente il deposito del ricorso per il
giudizio di merito nel termine perentorio di trenta giorni dalla formulazione
della dichiarazione di dissenso e con la necessaria indicazione dei motivi
della contestazione, a pena della inammissibilità del ricorso, questa Corte ha
affermato che gli interventi diretti a comporre le contrapposte esigenze di
concedere alla parte ulteriori strumenti di difesa e di assicurare al processo
una ragionevole durata attraverso la previsione di termini perentori,
richiedono apprezzamenti rimessi esclusivamente al legislatore (ordinanze n. 305
del 2001 e n.
855 del 1988).
Si è anche precisato che la garanzia
costituzionale del diritto di difesa non comporta l’illegittimità di
preclusioni e decadenze processuali (sentenza n. 221 del
2008). Tale garanzia non può implicare che sia contrario alla Costituzione,
o irragionevole, imporre all’esercizio di facoltà o poteri processuali
limitazioni temporali, senza le quali i processi potrebbero durare per un tempo
indefinibile, con grave nocumento delle esigenze di giustizia. Ed inerisce alla
stessa natura dei termini perentori che essi non siano prorogabili e non
consentano provvedimenti di sanatoria, proprio per motivi di certezza e di
uniformità la cui ragionevolezza non può essere contestata. Anzi, nel processo
civile l’immutabilità dei termini perentori, legali e giudiziali, tende ad assicurare
una effettiva parità dei diritti delle parti, contemperando l’esercizio dei
rispettivi diritti di difesa (sentenza n. 106 del
1973).
La prefissione
di termini, con effetti di decadenza o di preclusione, è compatibile con l’art.
24 Cost., purché i termini stessi siano congrui e non
tali da rendere eccessivamente difficile per gli interessati la tutela delle
proprie ragioni (sentenza
n. 106 del 1973 citata). La lesione del diritto alla tutela giurisdizionale
si ha solo quando la irrazionale brevità del termine renda meramente apparente
la possibilità del suo esercizio.
Il termine perentorio di trenta giorni
per il deposito del ricorso, ai sensi dell’art. 445-bis, sesto comma, cod. proc. civ.,
risulta congruo, anche considerando che decorre dal deposito in cancelleria
della dichiarazione di dissenso della parte medesima. Esso non è tale da
rendere eccessivamente difficile agli interessati la tutela delle proprie
ragioni, tenendo, altresì, conto che già il ricorso, con il quale si propone
l’istanza di accertamento tecnico preventivo, contiene tutti gli elementi
propri di un ricorso giurisdizionale, ai sensi dell’art. 125 cod. proc. civ., o, quanto meno, l’esposizione sommaria delle
domande o eccezioni alle quali la prova è preordinata (art. 693 cod. proc. civ.) e, quindi, indica il diritto di cui il
ricorrente si afferma titolare e alla cui realizzazione è finalizzata la detta
istanza. Pertanto, il termine indicato contempera le esigenze di tutela del
diritto di difesa con quelle di garantire
una ragionevole durata del processo.
Da ciò consegue anche la ragionevolezza
della previsione in ordine alla necessaria specificazione nel detto termine, a
pena di inammissibilità del ricorso, dei motivi della contestazione.
Invero, non si tratta di una ipotesi di
"giurisdizione condizionata” – come asserisce il rimettente – ma della
necessaria delimitazione del thema decidendum del giudizio di merito.
Il richiamo all’art. 38 Cost. non è sorretto da adeguata motivazione.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara
inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 445-bis, settimo comma, del codice di
procedura civile, introdotto dall’art. 27, comma 1, lettera f), della legge 12 novembre 2011, n. 183
(Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato
– legge di stabilità 2012), sollevata – in riferimento agli artt. 3, 24 e 111
della Costituzione – dal Tribunale ordinario di Roma, in composizione
monocratica e in funzione di giudice del lavoro, con l’ordinanza indicata in
epigrafe;
2) dichiara
non fondate le questioni di legittimità costituzionale: a) dell’art. 445-bis, cod. proc.
civ., in toto, nonché dell’art. 10,
comma 6-bis, del decreto-legge 30
settembre 2005, n. 203 (Misure di contrasto all’evasione fiscale e disposizioni
urgenti in materia tributaria e finanziaria), convertito, con modificazioni,
dall’art. 1, comma 1, della legge 2 dicembre 2005, n. 248 – comma aggiunto
dall’art. 20, comma 5-bis, del
decreto-legge 1° luglio 2009, n. 78 (Provvedimenti anticrisi, nonché proroga di
termini), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 3
agosto 2009, n. 102, e poi modificato dall’art. 38, comma 8, del decreto-legge
6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria),
convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 15 luglio
2011, n. 111, in riferimento agli artt. 3, 24, 38 e 111 della Costituzione; b)
dell’art. 445-bis, cod. proc. civ., in toto,
in riferimento agli artt. 3 e 111 Cost.; c) dell’art.
445-bis, quarto, quinto e sesto
comma, cod. proc. civ., in riferimento agli artt. 3,
24 e 38 Cost.: questioni sollevate dal Tribunale
ordinario di Roma, in composizione monocratica e in funzione di giudice del
lavoro, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte
costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 ottobre
2014.
F.to:
Giuseppe TESAURO, Presidente
Alessandro CRISCUOLO, Redattore
Gabriella Paola MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 28 ottobre
2014.