SENTENZA N. 215
ANNO 2014
REPUBBLICA
ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Sabino CASSESE Presidente
- Giuseppe TESAURO Giudice
- Paolo Maria NAPOLITANO ”
- Giuseppe FRIGO ”
- Alessandro CRISCUOLO ”
- Paolo GROSSI ”
- Aldo CAROSI ”
- Marta CARTABIA ”
- Sergio MATTARELLA ”
- Mario Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Giuliano AMATO ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità
costituzionale dell’art. 16 della legge
23 luglio 1991, n. 223 (Norme in materia di cassa integrazione, mobilità,
trattamenti di disoccupazione, attuazione di direttive della Comunità europea,
avviamento al lavoro ed altre disposizioni in materia di mercato del lavoro),
promosso dalla Corte d’appello di Venezia nel procedimento civile vertente tra D.S. e l’Istituto nazionale della previdenza sociale
(INPS), con ordinanza
del 2 maggio 2012, iscritta al n. 221 del registro ordinanze 2012 e pubblicata
nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 41, prima serie speciale,
dell’anno 2012.
Visti l’atto di costituzione dell’INPS, nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei
ministri;
udito nell’udienza pubblica del 10 giugno 2014 il Giudice relatore Alessandro Criscuolo;
uditi l’avvocato Antonietta Coretti per l’INPS e l’avvocato dello Stato Luca Ventrella per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1.– La Corte d’appello di Venezia,
sezione lavoro, con ordinanza depositata il 2 maggio 2012 (r.o.
n. 221 del 2012), ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 38 della Costituzione,
questioni di legittimità costituzionale dell’art. 16 della legge 23 luglio
1991, n. 223 (Norme in materia di cassa integrazione, mobilità, trattamenti di
disoccupazione, attuazione di direttive della Comunità europea, avviamento al
lavoro ed altre disposizioni in materia di mercato del lavoro), «nella parte in
cui esclude per i lavoratori interinali, successivamente assunti con contratto
di lavoro a tempo indeterminato, la possibilità di cumulare nell’anzianità
aziendale utile ai fini del riconoscimento del diritto all’indennità di
mobilità anche il periodo prestato in forza del contratto di lavoro
interinale».
1.1.– La rimettente premette di essere
chiamata a pronunciare nel giudizio di appello promosso, con ricorso depositato
il 28 agosto 2008 (r.g. n.
665/2008), dalla signora D.S. nei confronti
dell’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS), avverso la sentenza
del Tribunale ordinario di Vicenza, sezione lavoro, 30 agosto 2007, n. 219.
In punto di fatto, la Corte d’appello
espone: che la sig.ra D.S.
ha lavorato presso la società Worldgem spa, quale
impresa utilizzatrice, dal 19 giugno al 31 dicembre del 2000, in forza di
contratto di lavoro temporaneo, stipulato ai sensi della legge 24 giugno 1997,
n. 196 (Norme in materia di promozione dell’occupazione), sottoscritto con
l’agenzia Lavoro Temporaneo spa; che il contratto è stato prorogato fino al 31
marzo 2001; che, successivamente, è stato stipulato un nuovo contratto di
lavoro temporaneo con scadenza al 31 gennaio 2002, successivamente prorogato
fino al 31 dicembre 2002; che il 2 agosto 2002 la lavoratrice è stata assunta
dalla impresa utilizzatrice con contratto di lavoro a tempo indeterminato, a
decorrere dal 2 settembre 2002 fino al licenziamento avvenuto in data 30 aprile
2003; che il 2 maggio 2003 la lavoratrice ha chiesto all’INPS l’erogazione
della indennità di mobilità, ma la sua istanza è stata respinta.
La rimettente precisa che la domanda,
oggetto del giudizio, si fonda sull’applicabilità, anche alla concreta
situazione dell’appellante, dell’art. 16 della legge
n. 223 del 1991, che riconosce il diritto all’indennità di mobilità ai
lavoratori occupati alle dipendenze della impresa ammessa alla mobilità per
almeno dodici mesi, di cui almeno sei di lavoro effettivamente prestato, ivi
compresi i periodi di sospensione del lavoro derivanti da ferie, festività e
infortuni, con un rapporto di lavoro a carattere continuativo e, comunque, non
a termine.
La Corte territoriale riferisce che, con
la sentenza di primo grado, è stata esclusa la possibilità di computare, nel
periodo utile ai fini della maturazione del diritto all’indennità di mobilità, quello lavorato dalla ricorrente presso
l’impresa utilizzatrice in forza di contratti di lavoro interinale. Il giudice
a quo osserva che, computando anche il periodo prestato in forza di
quest’ultimo tipo di rapporto, la lavoratrice rientrerebbe nella previsione
dell’art. 16 della legge n. 223 del 1991, in quanto
risulterebbe dipendente con contratto di lavoro a tempo indeterminato alla data
della messa in mobilità ed avrebbe prestato la propria attività presso la
medesima impresa da almeno dodici mesi continuativi.
In questa
accezione – aggiunge la Corte rimettente – risulterebbe sussistente anche il
requisito della continuità del rapporto, dal momento che il passaggio dal
contratto di lavoro interinale a quello subordinato alle dirette dipendenze
dell’impresa sarebbe avvenuto «senza soluzione di continuità».
La rimettente rileva che, all’epoca
della formulazione della norma in esame, nel nostro ordinamento non esistevano
figure di rapporti di lavoro subordinato diverse da
quelle tradizionali del contratto a tempo determinato, disciplinato dalla legge
18 aprile 1962, n. 230 (Disciplina del contratto di lavoro a tempo
determinato), la quale lo ammetteva soltanto in alcune ipotesi eccezionali, e
del contratto a tempo indeterminato, dato che l’utilizzazione di manodopera da
parte di soggetto diverso dal datore di lavoro formale era vietata dalla legge
23 ottobre 1960, n. 1369 (Divieto di intermediazione ed interposizione nelle
prestazioni di lavoro e nuova disciplina dell’impiego di mano d’opera negli
appalti di opere e di servizi), e non esistevano forme diverse riconducibili
all’area, di origine extragiuridica, della cosiddetta "flessibilità”.
La Corte d’appello osserva che, nel
quadro normativo sommariamente richiamato, l’art. 16
della legge n. 223 del 1991, nell’escludere dal proprio ambito di applicazione
i rapporti di lavoro fondati su un contratto a tempo determinato, mirava ad
escludere le ipotesi di ricorso fraudolento a questo tipo di contratto, al solo
scopo di includere i relativi lavoratori nei benefici riconosciuti a seguito
della messa in mobilità.
Il collegio rimettente rileva che gli
attuali problemi applicativi della norma, come quelli prospettati nel giudizio
a quo, devono essere considerati con riguardo al mutato quadro normativo,
caratterizzato dall’introduzione, a partire dalla
legge n. 197 del 1996 (recte: legge 24 giugno 1997,
n. 196 «Norme in materia di promozione dell’occupazione), di forme legittime di
diversa imputazione dei rapporti di lavoro subordinato, riferibili sul piano
formale ad un’agenzia di lavoro, e, sul piano sostanziale, all’effettivo
utilizzatore della prestazione lavorativa.
Il rapporto di lavoro tra l’appellante e
la Worldgem spa si sarebbe svolto, nel periodo dal 19
giugno 2000 al 30 agosto 2002, nell’ambito della disciplina dettata dalla legge
n. 197 del 1996 (recte: n. 196 del 1997). In
sostanza, l’appellante sarebbe stata dipendente di Lavoro Temporaneo spa ed utilizzata da Worldgem spa in
forza di contratto di lavoro temporaneo; successivamente, «senza soluzione di
continuità», a partire dal 2 settembre 2002, essa sarebbe stata assunta da Worldgem spa in forza di contratto di lavoro a tempo
indeterminato fino alla data del licenziamento, avvenuto il 30 aprile 2003.
1.2.– Il giudice a quo ritiene che
occorra verificare se la situazione dell’appellante, formalmente fuori
dall’ambito di applicazione della norma, sia compatibile con i principi
costituzionali, in particolare con l’art. 3 Cost.
Ad avviso della Corte d’appello, si
dovrebbe valutare la peculiarità della posizione dei lavoratori dipendenti da
un’agenzia di lavoro interinale nel mercato del lavoro e, quindi,
nell’ordinamento giuridico non solo nazionale, ma anche europeo, considerando,
al riguardo, la direttiva comunitaria 19 novembre 2008, n. 2008/104/CE
(Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio relativa
al lavoro tramite agenzia interinale), attuata con il decreto legislativo 2
marzo 2012, n. 24 (Attuazione della direttiva 2008/104/CE, relativa al lavoro
tramite agenzia interinale).
In particolare – precisa la Corte di
merito – tanto la disciplina comunitaria che quella nazionale rispondono al principio della identità delle condizioni di
lavoro e di occupazione tra lavoratori interinali e quelli impiegati
direttamente dall’utilizzatore.
Al riguardo, la rimettente riporta il
considerando n. 14 della direttiva comunitaria n. 2008/104/CE, secondo cui: «Le
condizioni di base di lavoro e d’occupazione applicabili
ai lavoratori tramite agenzia interinale dovrebbero essere almeno identiche a
quelle che si applicherebbero a tali lavoratori se fossero direttamente
impiegati dalla impresa utilizzatrice per svolgervi lo stesso lavoro», nonché
l’art. 23 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276 (Attuazione delle
deleghe in materia di occupazione e mercato del lavoro, di cui alla legge 14 febbraio
2003, n. 30), come modificato dall’art. 7 del d.lgs. n. 24 del 2012, secondo
cui: «Per tutta la durata della missione presso un utilizzatore, i lavoratori
dipendenti dal somministratore hanno diritto a condizioni di base di lavoro e
d’occupazione complessivamente non inferiori a quelle dei dipendenti di pari
livello dell’utilizzatore, a parità di mansioni svolte».
La Corte territoriale rileva, inoltre,
come tanto la direttiva comunitaria, che la normativa nazionale di attuazione
(che, sul punto, ha modificato la formulazione dell’art. 23
del d.lgs. n. 276 del 2003), prevedano il diritto del lavoratore interinale o
somministrato di essere informato dall’utilizzatore dei posti vacanti, in modo
da potere concorrere, unitamente ai dipendenti di quest’ultimo, alla copertura
di quei posti con contratto di lavoro a tempo indeterminato (art. 6 della
direttiva comunitaria n. 2008/104/CE e art. 23, ultimo comma, del d.lgs. n. 276
del 2003, come modificato dall’art. 7 del d.lgs. n. 24 del 2012).
La rimettente ricorda anche che l’art. 6, comma 2, della citata direttiva comunitaria vieta agli
Stati membri di adottare norme che impediscano la stipulazione di un contratto
di lavoro a tempo indeterminato tra l’impresa utilizzatrice e il lavoratore
interinale al termine della missione.
La Corte territoriale ritiene che le
norme richiamate siano particolarmente rilevanti nella fattispecie in esame, in
quanto, da un lato, affermano il principio di parità di trattamento tra
lavoratori interinali e lavoratori direttamente dipendenti dalle imprese
utilizzatrici, non solo nei trattamenti base, ma anche nelle forme di accesso
ai servizi offerti da queste ultime e, dall’altro, evidenziano la tendenza
normativa a favorire quei percorsi di inserimento del
lavoratore interinale presso l’azienda utilizzatrice.
La vicenda in oggetto sarebbe
inquadrabile proprio nel percorso di inserimento del
lavoratore interinale nell’impresa utilizzatrice nonché di stabilizzazione del
rapporto di lavoro delineato dalla direttiva comunitaria e dalla legge
nazionale di attuazione, essendo stata l’appellante, al termine della missione,
assunta dall’impresa utilizzatrice con contratto di lavoro a tempo
indeterminato.
Ad avviso della Corte d’appello, le
peculiarità del rapporto di lavoro tra l’appellante e l’impresa utilizzatrice, nonché la relativa disciplina dettata sul piano del diritto
comunitario e nazionale, inducono a dubitare della legittimità costituzionale
dell’art. 16 della legge n. 223 del 1991, nella parte in cui esclude dal
beneficio della indennità di mobilità quei lavoratori che, pur potendo vantare
un periodo di attività aziendale continuativa di dodici mesi, si trovino nella
condizione di imputare formalmente parte di questo periodo ad un rapporto con
una agenzia di lavoro interinale.
Il collegio rimettente osserva, al
riguardo, che la stessa giurisprudenza di legittimità, con particolare riguardo
all’applicazione della norma in oggetto ai lavoratori a domicilio, abbia sottolineato la centralità che, nella individuazione
dell’ambito di applicazione della stessa, assume il riferimento alla anzianità
"aziendale”.
In particolare, secondo la Corte di cassazione, con la locuzione "anzianità aziendale”
la norma in questione farebbe riferimento non già al dato topografico,
costituito dal luogo di svolgimento della prestazione lavorativa, ma al suo
coordinamento con il ciclo produttivo aziendale, qualificato tanto
dall’elemento della collaborazione che dall’inserimento dell’attività
lavorativa nel contesto dell’organizzazione dell’impresa, attraverso
l’esecuzione di prestazioni analoghe o complementari a quelle tipiche
dell’impresa utilizzatrice (ex multis, Corte di
cassazione, prima sezione civile, sentenza 16 giugno 2000, n. 8221; Corte di
cassazione, sezione lavoro, sentenza 18 giugno 1999, n. 6150).
Questi richiami condurrebbero a ritenere
che la situazione del lavoratore temporaneo, il quale sia stato stabilizzato
dall’impresa utilizzatrice attraverso la stipulazione di un contratto di lavoro
a tempo indeterminato, non possa essere equiparata a quella del lavoratore
dipendente in forza di un contratto a carattere non continuativo
o a termine.
La Corte d’appello osserva, in
particolare, che la situazione del lavoratore interinale, successivamente
assunto con contratto di lavoro a tempo indeterminato dall’impresa
utilizzatrice, sarebbe caratterizzata dalla riconducibilità dell’intera
attività lavorativa alla stessa realtà aziendale, secondo quelle
caratteristiche di collaborazione e di inserimento nel ciclo produttivo
dell’impresa già valorizzate dalla giurisprudenza di legittimità richiamata.
Peraltro, la successiva assunzione, con contratto di lavoro a tempo
indeterminato, risponderebbe a quella esigenza di
stabilizzazione dei rapporti di lavoro interinale che è alla base della
legislazione comunitaria e nazionale.
1.3.– In questo quadro, la norma
censurata violerebbe l’art. 3 Cost., creando una situazione irragionevolmente
distinta da quella dei lavoratori subordinati a tempo indeterminato che,
invece, si vedrebbero riconosciuto quel beneficio, a
parità di anzianità di servizio effettivamente prestato a favore dell’impresa.
In sostanza, la situazione dei
lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato a seguito di un periodo
svolto in forza di contratto di lavoro interinale verrebbe ad
essere ingiustificatamente differenziata rispetto a quella dei lavoratori a
tempo indeterminato, di pari anzianità lavorativa, all’interno dell’azienda,
con irragionevole esclusione per i primi dal beneficio della indennità di
mobilità, ancorché sussistano principi tesi ad assicurare la parità di
trattamento all’interno dell’impresa utilizzatrice e a favorire la
stabilizzazione dei rapporti di lavoro interinali.
La rimettente ricorda, al riguardo, che
la giurisprudenza costituzionale avrebbe più volte affermato il principio di
parità di trattamento in materia previdenziale e assistenziale, allorquando le
disparità derivanti dalle leggi ordinarie siano state ritenute prive di
ragionevolezza (ex plurimis, sentenze n. 369 del
1985; n. 108
del 1977 e n.
103 del 1968).
La Corte d’appello ricorda, in
particolare, che, nella sentenza n. 121 del
2006, relativa alla estensione ai lavoratori a termine della indennità di
disoccupazione spettante ai lavoratori a tempo parziale verticale, questa Corte
ha sottolineato, anche con riferimento alla tutela di cui all’art. 38 Cost., la
centralità del requisito della persistenza del rapporto di lavoro della prima
categoria, quale elemento sufficiente a fondare una più ampia tutela contro la
disoccupazione, evidenziando la rilevanza, sotto questo aspetto, del requisito
della continuità del rapporto e della prestazione lavorativa.
La rimettente ritiene che la norma
censurata contrasti anche con l’art. 38 Cost., in quanto, con riguardo ai
lavoratori temporanei il cui rapporto sia stato successivamente
stabilizzato, escluderebbe irragionevolmente la continuità del rapporto di
lavoro quale elemento fondante il diritto alla indennità di mobilità.
Inoltre, l’art. 38 Cost. sarebbe violato
in quanto il legislatore non potrebbe privare
ingiustificatamente di tutela i lavoratori che si trovino in situazioni simili.
Al riguardo, il collegio rimettente
richiama la sentenza
n. 285 del 2003, con la quale questa Corte , nell’escludere l’illegittimità
costituzionale dell’art. 11 della legge n. 223 del 1991, ha sottolineato la
specificità della disciplina dettata per i lavoratori edili, ponendo in rilievo
il carattere generale della prestazione della indennità di mobilità.
La rimettente ritiene, pertanto, le
sollevate questioni di costituzionalità non manifestamente infondate, in
quanto, in forza della formulazione della norma e dell’assenza di specifiche
disposizioni previste dalla disciplina comunitaria e nazionale in materia, non sarebbe possibile sopperire alla lacuna normativa attraverso
un’attività interpretativa costituzionalmente orientata.
1.4.– Inoltre, essa reputa le questioni
rilevanti, in quanto il riconoscimento del diritto
azionato in giudizio dipenderebbe direttamente dalla soluzione della questione
prospettata, con specifico riferimento alla possibilità di computare nel
periodo di anzianità aziendale, utile per il riconoscimento della indennità di
mobilità, anche il periodo prestato in forza di un rapporto di lavoro
interinale.
La rimettente esclude che la rilevanza
delle prospettate questioni possa venire meno per la mancanza di una previa
verifica degli ulteriori presupposti necessari per la concessione
alla ricorrente dell’indennità di mobilità.
Al riguardo, il giudice a quo richiama
la sentenza n. 6
del 1999, con la quale questa Corte ha affermato, in riferimento all’art. 6
della legge n. 223 del 1991 e alla copertura contributiva, la piena legittimità
di un sistema che consentisse l’accertamento a posteriori dei presupposti per
il riconoscimento della indennità di mobilità.
2.– Con memoria depositata in data 25
ottobre 2012, si è costituito in giudizio l’INPS, chiedendo che le questioni di
legittimità costituzionale siano dichiarate inammissibili o, nel merito, non
fondate.
Preliminarmente, l’Istituto precisa che
la vicenda oggetto del giudizio a quo si è svolta nel vigore della disciplina
del rapporto di lavoro interinale di cui alla legge n.
196 del 1997.
Al riguardo, l’Istituto resistente
ricorda che, secondo la giurisprudenza di legittimità, il rapporto di lavoro
interinale, disciplinato dalla legge n. 196 del 1997, ha luogo attraverso la
stipulazione di due distinti contratti: quello di fornitura di prestazioni di
lavoro temporaneo, stipulato tra l’impresa fornitrice e quella
utilizzatrice, e quello tra il lavoratore e l'impresa fornitrice, con
conseguente scissione del rapporto di lavoro fra gestione normativa, che
compete alla fornitrice, e quella tecnico-produttiva, che compete
all’utilizzatrice (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 10 aprile
2012, n. 5667).
L’INPS sottolinea
che, secondo la giurisprudenza di legittimità, il presupposto legittimante
della fattispecie complessa risultante dal contratto di fornitura di
prestazioni di lavoro temporaneo e dal contratto per prestazioni di lavoro temporaneo
è costituito dalle «esigenze di carattere temporaneo» di cui all’art. 1, comma
1, della legge n. 196 del 1997 (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza
12 gennaio 2012, n. 232).
L’Istituto resistente richiama anche la sentenza di questa
Corte n. 58 del 2006, nella quale si è precisato che, con il contratto per
prestazioni di lavoro temporaneo, l’impresa fornitrice assume il lavoratore a
tempo determinato, corrispondente alla durata della prestazione lavorativa
presso l’impresa utilizzatrice, o a tempo indeterminato. Il prestatore di
lavoro temporaneo, dipendente dell’impresa fornitrice, svolge, per la durata
della prestazione lavorativa presso l’impresa utilizzatrice, la propria
attività, nell’interesse e sotto la direzione e il controllo di questa;
nell’ipotesi di contratto a tempo indeterminato, rimane a disposizione
dell’impresa fornitrice per i periodi in cui non svolge la prestazione
lavorativa presso un’impresa utilizzatrice.
L’INPS ricorda, peraltro, che,
nell’ambito della disciplina del lavoro "temporaneo” di cui alla legge n. 196
del 1997, rilevante ratione temporis,
è espressamente previsto che «Il prestatore di lavoro temporaneo ha diritto a
fruire di tutti i servizi sociali ed assistenziali di
cui godono i dipendenti dell’impresa utilizzatrice addetti alla stessa unità
produttiva, esclusi quelli il cui godimento sia condizionato […] al
conseguimento di una determinata anzianità di servizio» (art. 6, comma 4) e che
«Il prestatore di lavoro temporaneo non è computato nell’organico dell’impresa
utilizzatrice ai fini dell’applicazione di normative di legge […]» (art. 6,
comma 5). Inoltre, è anche previsto che «Gli oneri contributivi e
previdenziali, previsti dalle vigenti disposizioni legislative, sono a carico
delle imprese fornitrici che, ai sensi e per gli effetti di cui all’articolo 49 della legge 9 marzo 1989, n. 88 sono inquadrate nel
settore terziario» (art. 9, comma 1, prima parte).
In primo luogo, l’INPS eccepisce
l’inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale per inesatta
identificazione del quadro normativo.
Sotto questo
aspetto, l’Istituto resistente osserva che, vertendo il prospettato dubbio di
legittimità costituzionale sulla impossibilità di riconoscere il medesimo
trattamento previdenziale o assistenziale al lavoratore interinale rispetto ai
lavoratori dipendenti dell’impresa utilizzatrice, in ragione della necessità di
considerare una determinata anzianità di servizio presso l’azienda, il collegio
rimettente avrebbe dovuto semmai censurare il richiamato art. 6, comma 4, della
legge n. 196 del 1997.
In secondo luogo, l’INPS eccepisce anche
l’inammissibilità per irrilevanza delle questioni nel giudizio a quo.
Al riguardo, osserva che l’art. 16, comma 1, della legge n. 223 del 1991, non solo non
ammette, ai fini della anzianità aziendale utile per maturare il diritto alla
indennità di mobilità, la possibilità di cumulare i periodi lavorativi svolti
presso l’azienda utilizzatrice, in forza di un contratto di lavoro interinale,
a quelli svolti in virtù della stabilizzazione presso la medesima azienda, ma
prevede espressamente la necessità di una determinata anzianità aziendale «con
un rapporto di lavoro a carattere continuativo e comunque non a termine» (Corte
di cassazione, sezione unite civili, sentenza 21 marzo 2001, n. 106).
Pertanto, l’eventuale accoglimento della
questione come prospettata – dell’art. 16 della legge
n. 223 del 1991, «nella parte in cui esclude per i lavoratori interinali,
successivamente assunti con contratto di lavoro a tempo indeterminato, la
possibilità di cumulare nell’anzianità aziendale utile ai fini del
riconoscimento del diritto all’indennità di mobilità anche il periodo prestato
in forza del contratto di lavoro interinale» – non impedirebbe il rigetto della
domanda nel giudizio a quo, non potendosi, nella specifica fattispecie,
maturare la necessaria "anzianità aziendale” in forza di un rapporto di lavoro
"continuativo”, ma solo in virtù della «somma di vari periodi di lavoro a
termine» (possibilità che continuerebbe ad essere esclusa dal medesimo art.
16).
Nel merito, l’INPS deduce la non
fondatezza delle questioni di legittimità costituzionale.
Invero, in ordine alla
dedotta violazione dell’art. 3 Cost., l’Istituto resistente osserva che tutti i
trattamenti di disoccupazione diversi dall’indennità ordinaria richiedono quale
requisito di accesso una anzianità lavorativa minima specificamente e
differentemente indicata dalle rispettive norme di legge istitutive.
In particolare,
l’Istituto osserva che l’indennità di mobilità e gli altri trattamenti speciali
di disoccupazione sono riservati soltanto a coloro che, per avere maturato una
prestabilita anzianità lavorativa presso l’impresa che ha intimato i licenziamenti
collettivi, per riduzione del personale o cessazione dell’attività aziendale,
risentono maggiormente delle conseguenze pregiudizievoli della disoccupazione
rispetto ad altri lavoratori inseriti nella medesima impresa in forza di
contratti di lavoro a termine, stante la mancata stabilità di questi ultimi
nell’organizzazione produttiva.
La ratio
sottesa alla norma censurata consisterebbe nel fatto di scongiurare
assunzioni fraudolente e fittizie nell’imminenza dei licenziamenti al
verificarsi dello stato di crisi.
Ad avviso dell’INPS, avuto riguardo alla evidenziata ratio legis, non potrebbe ravvisarsi discriminazione alcuna tra i
lavoratori continuativamente e stabilmente inseriti nell’attività aziendale e quelli
utilizzati, per un certo periodo di tempo, dalla stessa impresa in forza di un
contratto (tra l’impresa fornitrice e quella utilizzatrice) di fornitura di
prestazione di lavoro temporaneo, trattandosi di situazioni oggettivamente non
comparabili, non essendo peraltro prevedibile, al momento della cosiddetta
stabilizzazione (trasformazione in rapporto di lavoro a tempo indeterminato con
la impresa utilizzatrice), una protrazione dell’attività lavorativa di questi
ultimi per il tempo necessario ai fini dell’accesso all’indennità di mobilità.
L’Istituto resistente ritiene, quindi,
che la situazione del lavoratore "temporaneo” sia, piuttosto, assimilabile a
quella del lavoratore a termine per il quale è espressamente esclusa
la tutela dell’indennità di mobilità.
Pertanto, secondo l’INPS, la mancata
attribuzione della indennità di mobilità ai lavoratori cosiddetti "temporanei”,
anche a seguito della trasformazione del rapporto di lavoro, non violerebbe il
principio di eguaglianza, stante le differenti discipline delle categorie di
lavoratori considerate nell’ordinanza di rimessione che renderebbero
«eterogenee ed incomparabili le situazioni poste a raffronto» (ex plurimis, ordinanza n. 92 del
2009).
Al riguardo, l’Istituto sottolinea i molteplici profili di differenziazione tra le
diverse categorie di lavoratori poste a confronto.
In particolare, il lavoratore
"temporaneo” è dipendente della società fornitrice che eroga la retribuzione e
versa i contributi previdenziali.
Inoltre, mentre, ai sensi dell’art. 16, comma 2, lettera a), della legge n. 223 del 1991, i
datori di lavoro di cui al comma 1, sono tenuti al versamento di un contributo
nella misura dello 0,30 per cento delle retribuzioni assoggettate al contributo
integrativo per l’assicurazione contro la disoccupazione involontaria, gli
oneri contributivi dei lavoratori "temporanei” sono a carico dell’impresa
fornitrice (art. 9, comma 1, prima parte, della legge n. 196 del 1997) che, essendo
inquadrata nel settore terziario, non versa il contributo per l’erogazione
della indennità di mobilità.
Pertanto, al lavoratore "temporaneo” somministrato non potrebbe riconoscersi il diritto di
accedere all’indennità di mobilità, ancorché presti attività lavorativa presso
un’impresa del settore industriale.
Infine, l’Istituto resistente ritiene
che la soluzione invocata dal collegio rimettente intacchi l’area riservata
alla discrezionalità del legislatore.
L’INPS sottolinea
l’inconferenza delle norme nazionali e comunitarie
richiamate dalla Corte d’appello, in quanto esse riguarderebbero il rispetto
del principio della identità delle condizioni di lavoro e di occupazione dei
lavoratori interinali e di quelli impiegati direttamente dall’utilizzatore e
non già la tutela previdenziale degli stessi.
Anche con riferimento alla
assunta assimilazione nella ordinanza di rimessione della condizione dei
lavoratori "interinali” a quella dei lavoratori a domicilio, l’INPS evidenzia
che il lavoratore a domicilio è pur sempre un lavoratore subordinato
dell’azienda (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 21 ottobre 2010, n.
21625 e sentenza del 16 ottobre 2006, n. 22129).
L’INPS esclude anche la violazione
dell’art. 38 Cost., in quanto l’anzianità aziendale
maturata presso l’ultima impresa, sebbene non possa valere ai fini
dell’ottenimento della indennità di mobilità, non precluderebbe l’attribuzione
della indennità ordinaria di disoccupazione di minore importo ma pur sempre
adeguata alle esigenze di vita del lavoratore rimasto disoccupato.
L’Istituto resistente sottolinea, al
riguardo, che l’indennità ordinaria di disoccupazione e l’indennità di mobilità
sono in rapporto di genus a species
(sentenza n. 234
del 2011) ed, entrambe, rientrano nel novero delle prestazioni contro la
disoccupazione involontaria, apprestando temporaneamente all’assicurato i mezzi
occorrenti al suo sostentamento.
3.– Con atto depositato in data 6
novembre 2012, è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le
questioni di legittimità costituzionale siano dichiarate inammissibili o, nel
merito, non fondate.
In primo luogo, la difesa statale
ritiene che la Corte rimettente non abbia sperimentato la possibilità di effettuare una interpretazione della norma censurata
costituzionalmente orientata.
In particolare, il giudice a quo avrebbe
ritenuto che la norma in oggetto non possa trovare applicazione con riferimento
alla ipotesi di una lavoratrice, dipendente da una
società di lavoro interinale, ma impiegata in un’altra società utilizzatrice,
in forza di contratti di lavoro a tempo determinato, ancorché la stessa fosse
stata successivamente assunta con contratto a tempo indeterminato, nel caso in
cui il licenziamento fosse avvenuto prima del decorso del termine di dodici
mesi dalla conclusione di tale ultima tipologia di contratto.
Ad avviso del Presidente del Consiglio
dei ministri, il collegio rimettente non avrebbe verificato se, con riguardo
alla concreta fattispecie in esame, fosse possibile configurare, in capo alla
ricorrente, il diritto alla corresponsione della indennità
di mobilità per essere stati stipulati una serie di contratti di lavoro
temporaneo che, al di là della terminologia utilizzata, potessero aver dato
luogo ad un rapporto di lavoro "continuativo” e non già puramente "a tempo
determinato”.
Invero, secondo la difesa erariale,
ferma restando l’inapplicabilità della indennità di
mobilità al rapporto di lavoro a tempo determinato ed avuto riguardo alla
tutela accordata al rapporto interinale dalla normativa comunitaria, la Corte
d’appello avrebbe potuto verificare se, nella fattispecie concreta, la
successione di contratti di lavoro stipulati dalla ricorrente potesse essere
interpretata nel senso di un rapporto di tipo "continuativo”, come tale,
rientrante, comunque, nella applicazione dell’art. 16 della legge n. 223 del
1991.
La difesa dello Stato richiama, al riguardo,
l’ordinanza n.
367 del 2003, con la quale questa Corte ha dichiarato inammissibile la
questione di legittimità costituzionale sollevata, in riferimento agli artt. 2,
3 e 38 Cost., degli artt. 16, comma 1, e 8, comma 4-bis, della legge n. 223 del
1991, nella parte in cui non prevedono – ai fini dell’integrazione del
requisito dell’anzianità aziendale di almeno dodici mesi quale presupposto
perché i dipendenti che perdono il posto di lavoro possano beneficiare
dell’indennità di mobilità – il cumulo del periodo di lavoro prestato, senza
soluzione di continuità, con passaggio diretto presso imprese dello stesso
settore di attività che abbiano il medesimo assetto proprietario di quelle presso
le quali in precedenza sia intercorso il rapporto lavorativo.
Nella richiamata pronuncia, questa Corte
ha dichiarato inammissibile la questione per insufficiente motivazione sulla
rilevanza, avendo il giudice rimettente omesso di verificare se la concreta
vicenda societaria dedotta in giudizio fosse inquadrabile nelle fattispecie
della mera trasformazione della società o del trasferimento d’azienda, non comportanti soluzione di continuità nell’anzianità aziendale
dei lavoratori dipendenti.
In secondo luogo, la difesa statale
eccepisce l’inammissibilità delle questioni per non avere la Corte rimettente verificato la effettiva esistenza di una disparità di
trattamento, per situazioni omologhe, tra i lavoratori cosiddetti interinali
poi stabilizzati (assunti da una società interinale ed utilizzati a tempo
determinato da altra società e, successivamente, assunti a tempo
indeterminato), i lavoratori assunti direttamente con contratto a tempo
indeterminato ed i lavoratori a tempo determinato (per i quali è pacifica
l’inapplicabilità dell’istituto della indennità di mobilità).
Peraltro – osserva il Presidente del
Consiglio – l’ordinanza di rimessione sembrerebbe operare un salto logico
perché avrebbe quale conseguenza quella di applicare l’istituto della indennità di mobilità – prevista per i lavoratori a
tempo indeterminato – anche ai lavoratori assunti a tempo determinato.
La difesa erariale ritiene, in ogni
caso, nel merito, le questioni non fondate.
Infatti, difetterebbe il requisito della
"continuità” del rapporto, se si ritenessero i ripetuti contratti di lavoro
stipulati dalla ricorrente come contratti a tempo determinato.
La difesa dello Stato sottolinea
che il legislatore, quando ha voluto prevedere norme di favore per situazioni
di disagio economico, ha introdotto i cosiddetti "ammortizzatori sociali in
deroga”, prevedendo, tra le altre misure, la corresponsione della indennità di
mobilità per tutti i lavoratori licenziati anche se assunti con contratto a
tempo determinato (decreto ministeriale 1º febbraio 2012, n. 64127, per la
Regione Abruzzo; decreto ministeriale 25 gennaio 2012, n. 63990, per la Regione
Calabria; decreto ministeriale 1º febbraio 2012, n. 641218, per la Regione
Campania; decreto ministeriale 18 aprile 2012, n. 65543, per la Regione Liguria;
decreto ministeriale 24 ottobre 2011, n. 62516, per la Regione Marche).
Dette disposizioni di agevolazione
sarebbero di stretta interpretazione e non potrebbero essere estese oltre i
casi tassativamente stabiliti.
Da ultimo, la difesa erariale evidenzia
i conseguenti maggiori oneri per la finanza pubblica nel caso di accoglimento
della questione di costituzionalità, stante l’anomala estensione dei soggetti
beneficiari della indennità di disoccupazione ai sensi
dell’art. 16 della legge n. 223 del 1991.
4.– In data 15 maggio 2014, l’INPS ha
depositato memoria illustrativa, insistendo per la declaratoria di inammissibilità ovvero, in subordine, di non fondatezza
delle sollevate questioni di legittimità costituzionale.
Considerato in diritto
1.– La Corte d’appello di Venezia,
sezione lavoro, dubita, in riferimento agli artt. 3 e
38 della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’art. 16 della
legge 23 luglio 1991, n. 223 (Norme in materia di cassa integrazione, mobilità,
trattamenti di disoccupazione, attuazione di direttive della Comunità europea,
avviamento al lavoro ed altre disposizioni in materia di mercato del lavoro),
«nella parte in cui esclude per i lavoratori interinali, successivamente
assunti con contratto di lavoro a tempo indeterminato, la possibilità di
cumulare nell’anzianità aziendale utile ai fini del riconoscimento del diritto
all’indennità di mobilità anche il periodo prestato in forza del contratto di
lavoro interinale».
La rimettente, chiamata a pronunciare
nel giudizio di appello promosso dalla sig.ra D.S. nei confronti dell’Istituto nazionale della
previdenza sociale (INPS) avverso la sentenza del Tribunale ordinario di
Vicenza, sezione lavoro, 30 agosto 2007, n. 219, premette che la signora D.S. aveva svolto, dal 19 giugno 2000 al 30 agosto 2002, la
propria attività lavorativa presso l’impresa utilizzatrice Worldgem
spa, in forza di successivi contratti per prestazioni di lavoro temporaneo
stipulati, ai sensi della legge 24 giugno 1997, n. 196 (Norme in materia di
promozione dell’occupazione), con l’impresa fornitrice Lavoro Temporaneo spa;
che la lavoratrice era stata poi assunta direttamente dalla Wordlgem
spa con contratto a tempo indeterminato, a decorrere dal 2 settembre 2002 fino
al licenziamento, avvenuto il 30 aprile 2003; che, con la sentenza appellata,
era stata rigettata la domanda di condanna dell’ente previdenziale al pagamento
dell’indennità di mobilità, sul presupposto che la ricorrente non avesse
maturato, ai sensi dell’art. 16 della legge n. 223 del 1991, il periodo utile
ai fini del riconoscimento della detta indennità, per non essere computabile
nell’anzianità aziendale il periodo lavorato dalla stessa presso l’impresa
utilizzatrice in forza dei contratti di lavoro interinali.
Ad avviso del collegio rimettente, la
norma censurata violerebbe:
a) l’art. 3 Cost., sotto il profilo della irragionevole disparità di trattamento in materia
previdenziale e assistenziale, in quanto l’art. 16 della legge n. 223 del 1991,
nell’escludere per i lavoratori interinali, successivamente assunti con
contratto di lavoro a tempo indeterminato, la possibilità di cumulare
nell’anzianità aziendale utile ai fini del riconoscimento del diritto
all’indennità di mobilità anche il periodo prestato in forza del contratto di lavoro
interinale, differenzierebbe ingiustificatamente la situazione dei lavoratori
assunti con contratto a tempo indeterminato, a seguito di un periodo svolto in
forza di contratto di lavoro interinale, rispetto a quella dei lavoratori a
tempo indeterminato di pari anzianità lavorativa all’interno dell’azienda, con
irragionevole esclusione per i primi del beneficio della indennità di mobilità.
Ciò ancorché sussistano principi, sia nella normativa comunitaria che nazionale, tesi ad assicurare la parità di trattamento
all’interno dell’impresa utilizzatrice e a favorire la stabilizzazione dei
rapporti di lavoro interinali (sono richiamati la direttiva comunitaria 19
novembre 2008, n. 2008/104/CE, «Direttiva del Parlamento europeo e del
Consiglio relativa al lavoro tramite agenzia interinale» e l’art. 23 del
decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, «Attuazione delle deleghe in
materia di occupazione e mercato del lavoro, di cui alla legge 14 febbraio
2003, n. 30», come modificato dall’art. 7 del decreto legislativo 2 marzo 2012,
n. 24 «Attuazione della direttiva 2008/104/CE, relativa al lavoro tramite
agenzia interinale»);
b) l’art. 38 Cost., in quanto la norma
censurata, escludendo irragionevolmente la "continuità” del rapporto di lavoro
– quale elemento fondante del diritto alla indennità di mobilità – per i
lavoratori interinali il cui rapporto sia stato successivamente stabilizzato,
priverebbe ingiustificatamente della tutela della indennità di mobilità, quale
prestazione assistenziale a carattere generale (sentenza n. 285 del
2003), lavoratori che si trovano in situazioni analoghe a quelli assunti
direttamente dall’impresa utilizzatrice a tempo indeterminato.
Nel giudizio di legittimità
costituzionale, con memoria depositata in data 25 ottobre 2012, si è costituito
l’INPS chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o non fondate.
Con atto depositato in data 6 novembre
2012, è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, concludendo per l’inammissibilità o la non fondatezza delle
questioni.
2.– Vanno, preliminarmente, esaminate le
eccezioni di inammissibilità sollevate dall’ente
previdenziale sotto un duplice profilo: da una parte, è eccepita l’inesatta
identificazione del quadro normativo, dovendo, semmai, essere oggetto di
censura l’art. 6, comma 4, della legge 24 giugno 1997, n. 196 (Norme in materia
di promozione dell’occupazione), applicabile alla fattispecie ratione temporis; dall’altra, si
deduce il difetto di rilevanza della questione, in quanto l’eventuale
accoglimento di essa non impedirebbe il rigetto della domanda nel giudizio a
quo, potendo, nel caso di specie, maturare la necessaria «anzianità aziendale»
solo in virtù di un cumulo di «vari periodi di lavoro a termine», ipotesi
espressamente esclusa dall’ambito di applicazione della norma censurata.
2.1.– La prima eccezione di inammissibilità non è fondata.
L’art. 6, comma
4, della legge n. 196 del 1997 (applicabile ratione temporis alla fattispecie de qua) stabiliva: «Il prestatore
di lavoro temporaneo ha diritto di fruire di tutti i servizi sociali ed
assistenziali di cui godono i dipendenti dell’impresa utilizzatrice addetti
alla stessa unità produttiva, esclusi quelli il cui godimento sia condizionato
all’iscrizione ad associazioni o società cooperative o al conseguimento di una
determinata anzianità di servizio». Si tratta di una norma a carattere generale
che, nell’ambito del rapporto di lavoro temporaneo, disciplinava gli obblighi
dell’impresa utilizzatrice. Nel giudizio a quo viene in rilievo, invece, la
diversa fattispecie del lavoratore interinale successivamente
stabilizzato, in ordine al quale, ai sensi dell’art. 16 della legge n. 223 del
1991, non è dato computare, ai fini della maturazione della anzianità aziendale
utile per fruire della indennità di mobilità, il periodo di lavoro svolto in
forza di lavoro interinale. Il quadro normativo, dunque, risulta
correttamente individuato.
2.2.– Anche la seconda eccezione di inammissibilità sollevata dall’INPS va disattesa.
Invero, non si possono sovrapporre sic et simpliciter le diverse tipologie di rapporto di lavoro
"interinale” e di rapporto di lavoro "a termine”. Nel
caso di specie, è pacifico che la signora D.S.,
prima di essere assunta con contratto a tempo indeterminato dalla Wordlgem spa, ha svolto l’attività lavorativa – alle
dipendenze di Lavoro Temporaneo spa e nell’interesse nonché sotto la direzione
di Wordlgem spa – in forza di contratto «per
prestazioni di lavoro temporaneo», che trova disciplina nella legge n. 196 del
1997.
3.– Vanno, altresì, respinte le
eccezioni di inammissibilità sollevate dal Presidente
del Consiglio dei ministri.
3.1.– In primo luogo, la difesa dello
Stato ritiene che le questioni siano inammissibili per non avere il collegio
rimettente sperimentato una interpretazione della
norma censurata conforme a Costituzione, nel senso di potere includere
nell’applicazione di quest’ultima la fattispecie concreta della successione di
contratti di lavoro stipulati dalla ricorrente, da qualificarsi in termini di
rapporto lavorativo di tipo "continuativo” e non già puramente "a tempo
determinato”.
Sul punto, si deve osservare che la
Corte rimettente, dopo avere inquadrato l’attività lavorativa
svolta della signora D.S. in termini di rapporto di
lavoro interinale successivamente stabilizzato con l’assunzione, a tempo
indeterminato, da parte della stessa società utilizzatrice, ha escluso
espressamente, alla luce della formulazione della norma censurata ed in assenza
di specifiche disposizioni previste dalla disciplina comunitaria e nazionale in
materia, la possibilità di sopperire alla carenza normativa attraverso
un’attività ermeneutica costituzionalmente orientata. Si tratta di una
motivazione non implausibile, che non appare meritevole
di censura.
3.2.– Altro profilo di
inammissibilità, eccepito dal Presidente del Consiglio, concerne la
asserita mancata verifica, da parte della rimettente, della effettiva esistenza
di una disparità di trattamento tra i lavoratori interinali poi stabilizzati, i
lavoratori assunti direttamente con contratto a tempo indeterminato e i
lavoratori a tempo determinato, nonché la mancata considerazione della
conseguenza dell’accoglimento della questione, in termini di applicabilità
dell’istituto della indennità di mobilità anche ai lavoratori assunti a tempo
determinato.
Al riguardo, si deve rilevare che –
premessa la non sovrapponibilità tra le diverse tipologie di rapporto di lavoro
"interinale” e di rapporto di lavoro "a tempo
determinato” – il giudice a quo ha sollevato le questioni, con una motivazione
non implausibile, proprio ponendo a confronto le
categorie di lavoratori interinali poi stabilizzati, con assunzione con
contratto a tempo indeterminato e di lavoratori assunti direttamente con contratto
a tempo indeterminato.
4. – Nel merito, le questioni non sono
fondate.
Dalla lettura congiunta della
motivazione e del dispositivo emerge che esse sono da ritenere sollevate con
riferimento all’art. 16, comma 1, della legge n. 223
del 1991, che così stabilisce: «Nel caso di disoccupazione derivante da
licenziamento per riduzione di personale ai sensi dell’articolo 24 da parte
delle imprese, diverse da quelle edili, rientranti nel campo di applicazione
della disciplina dell’intervento straordinario di integrazione salariale, il
lavoratore, operaio, impiegato o quadro, qualora possa far valere una anzianità
aziendale di almeno dodici mesi, di cui almeno sei di lavoro effettivamente
prestato, ivi compresi i periodi di sospensione del lavoro derivanti da ferie,
festività e infortuni, con un rapporto di lavoro a carattere continuativo e
comunque non a termine, ha diritto alla indennità di mobilità ai sensi
dell’articolo 7».
Tale norma è ritenuta dalla Corte
rimettente in contrasto con gli artt. 3 e 38 Cost.
«nella parte in cui esclude per i lavoratori interinali, successivamente
assunti con contratto di lavoro a tempo indeterminato, la possibilità di
cumulare nell’anzianità aziendale utile ai fini del riconoscimento del diritto
all’indennità di mobilità anche il periodo prestato in forza del contratto di
lavoro interinale».
4.1.– La violazione dell’art. 3 Cost. è
prospettata sotto il profilo della «irragionevole disparità di trattamento» tra
i lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato, a seguito di un
periodo svolto in forza di contratto di lavoro interinale, e i lavoratori a
tempo indeterminato di pari anzianità lavorativa
all’interno dell’azienda, con irragionevole esclusione per i primi del
beneficio della indennità di mobilità, ancorché sussistano principi, sia nella
normativa comunitaria che nazionale, tesi ad assicurare la parità di
trattamento all’interno dell’impresa utilizzatrice e a favorire la
stabilizzazione dei rapporti di lavoro interinali (sono richiamati la direttiva
comunitaria n. 2008/104/CE nonché l’art. 23 del d.lgs. n. 276 del 2003, come
modificato dall’art. 7 del d.lgs. n. 24 del 2012).
Questa tesi non può essere condivisa.
A prescindere dal rilievo che la normazione comunitaria e interna ora richiamata non risulta
applicabile, ratione temporis,
alla fattispecie, si deve premettere che questa Corte, con giurisprudenza
costante, ha affermato il principio secondo cui, in materia di previdenza e
assistenza sociale, il legislatore gode di ampia discrezionalità che,
attraverso un bilanciamento dei valori contrapposti, incontra il solo limite
del rispetto dei principi di eguaglianza e ragionevolezza (ex plurimis, sentenze n. 120
e n. 36 del 2012;
n. 234 del 2011;
n. 234 del 2008
e n. 202 del
1999; ordinanza
n. 448 del 1999).
Nella vicenda in esame, non è
ravvisabile la violazione di tali principi, perché le fattispecie messe a confronto non sono omogenee.
Invero, nel caso oggetto del giudizio a
quo, il rapporto di lavoro interinale si è svolto ai sensi della legge n. 196
del 1997, all’epoca vigente ratione temporis (gli artt. da 1 a 11
della citata legge sono stati abrogati dall’art. 85, comma 1, lettera f), del
d.lgs. n. 276 del 2003).
Orbene, per giurisprudenza costante
della Corte di cassazione, nel rapporto interinale
viene in rilievo un collegamento negoziale tra due contratti: quello di
fornitura di prestazioni di lavoro temporaneo, stipulato tra l’impresa
fornitrice e quella utilizzatrice per il soddisfacimento di specifiche esigenze
di carattere temporaneo (art. 1), e quello tra l’impresa fornitrice e il
lavoratore (art. 3), con scissione tra la gestione normativa, che compete alla
fornitrice, e quella tecnico-produttiva del lavoratore, che compete
all’utilizzatrice (ex multis, Corte di cassazione,
sezione lavoro, sentenze 10 aprile 2012, n. 5667 e 27 febbraio 2003, n. 3020).
Il lavoratore temporaneo così assunto svolge
per la durata della prestazione lavorativa la propria attività presso l’impresa
utilizzatrice nonché nell’interesse e sotto la
direzione ed il controllo della medesima; nell’ipotesi di contratto a tempo
indeterminato il lavoratore rimane a disposizione dell’impresa fornitrice per i
periodi in cui non svolge la prestazione lavorativa presso un’impresa
utilizzatrice.
L’impresa fornitrice è obbligata verso
il lavoratore al pagamento diretto del trattamento economico e dei contributi
previdenziali e assistenziali (con responsabilità
solidale dell’impresa utilizzatrice).
La Corte rimettente – nell’asserire che
«il rapporto di lavoro tra l’appellante e la Worldgem
spa si è svolto, dal 19 giugno 2000 al 30 agosto 2002, nell’ambito della
disciplina dettata dalla legge n. 197 del 1996 [recte:
n. 196 del 1997]; che, in sostanza, l’appellante è stata dipendente di Lavoro
Temporaneo spa ed utilizzata da Worldgem
spa in forza di contratto di lavoro temporaneo; che, successivamente, senza
soluzione di continuità, a partire dal 2 settembre 2002, l’appellante è stata
assunta da Worldgem spa in forza di contratto di
lavoro a tempo indeterminato fino alla data del licenziamento avvenuto in data
30 aprile 2003» – confonde i due piani, formale e sostanziale, del rapporto di
lavoro.
Infatti, nel caso di specie, sono
diversi i titolari, dal lato dei datori di lavoro, dei reiterati contratti «per
prestazioni di lavoro temporaneo» (dal 19 giugno 2000 al 30 agosto 2002) e del
successivo contratto di lavoro a tempo indeterminato (dal 2 settembre 2002 al
30 aprile 2003). In particolare, titolare dei contratti per prestazione di
lavoro temporaneo è stata la società Lavoro Temporaneo spa (e utilizzatrice Worldgem spa), mentre titolare del successivo contratto di
lavoro a tempo indeterminato è stata Worldgem spa.
Pertanto, sussisteva
una diversità strutturale dei rapporti di lavoro messi a confronto.
Non sono, quindi, comparabili, in quanto eterogenee, le diverse situazioni dei lavoratori
assunti da un’impresa con contratto a tempo indeterminato, dopo un periodo
svolto in forza di contratto di lavoro "interinale”, e dei lavoratori assunti
fin dall’inizio a tempo indeterminato dalla medesima impresa.
Inoltre, non può ravvisarsi – come,
invece, assume il collegio rimettente – una «pari anzianità
lavorativa» tra le due tipologie di lavoratori messe a confronto.
L’art. 16,
comma 1, della legge n. 223 del 1991, ai fini della indennità di mobilità,
richiede una anzianità di servizio di almeno dodici mesi (di cui almeno sei
mesi di lavoro effettivamente prestato), con un rapporto di lavoro a titolo
continuativo e comunque non a termine (ex plurimis,
Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 23 marzo 2002, n. 4192; Corte di
cassazione, sezione unite civili, sentenza 12 marzo 2001, n. 106), presso la
medesima impresa che poi abbia attivato la procedura di mobilità (Corte di
cassazione, sezione lavoro, sentenza 16 maggio 2008, n. 12406).
La continuità del rapporto di lavoro, ai
fini del computo della anzianità aziendale utile per
fruire della indennità di mobilità, presuppone lo svolgimento dell’attività
lavorativa alle dipendenze del medesimo datore di lavoro che ha azionato la
detta procedura.
Tale interpretazione, dominante nella
giurisprudenza di legittimità, soffre deroghe nei casi di mera trasformazione
della società o di trasferimento di azienda ai sensi dell’art. 2112 del codice
civile, cioè in ipotesi che non comportano soluzioni di continuità
nell’anzianità aziendale dei lavoratori dipendenti (ordinanza n. 367
del 2003), ovvero qualora specifici interventi legislativi riconoscano
eccezionali e transitorie deroghe rispetto alla regola stabilita dal citato
art. 16, comma 1, della legge n. 223 del 1991. Tali ipotesi non ricorrono nella
vicenda in esame.
Un ulteriore
argomento per escludere la possibilità di considerare, ai fini della
concessione della indennità di mobilità, un’anzianità aziendale anche solo in
parte imputabile al rapporto di lavoro con un’impresa fornitrice o
somministratrice, è ravvisabile nel rilievo che, ai sensi del censurato art.
16, comma 1, possono godere della indennità di mobilità, al maturarsi di una
determinata anzianità aziendale, i lavoratori licenziati da imprese rientranti
nel campo di applicazione della disciplina dell’intervento straordinario di
integrazione salariale (imprese industriali che occupino più di quindici
dipendenti, salvo i casi eccezionali di prevista estensione della disciplina
della integrazione salariale straordinaria), mentre le imprese fornitrici o
somministratrici sono inquadrate nel «settore terziario» ai sensi dell’art. 49
della legge 9 marzo 1989, n. 88 «Ristrutturazione dell’Istituto nazionale della
previdenza sociale e dell’Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli
infortuni sul lavoro» (richiamato dall’art. 9 della legge n. 196 del 1997 e
dall’art. 25 del d.lgs. n. 276 del 2003), e, dunque, sono fuori dal campo di
applicazione della detta normativa.
La eterogeneità delle fattispecie messe
a confronto, dunque, rende priva di fondamento la censura in ordine alla
assunta violazione del principio di «parità di trattamento» all’interno
dell’impresa utilizzatrice, sicché non risulta violato l’art. 3 Cost. (sentenze n. 108 del
2013; n. 234
del 2008; n.
184 del 2000 e n.
413 del 1995; ordinanza
n. 92 del 2009).
4.2.– Il contrasto con l’art. 38 Cost. è
prospettato sotto il profilo della irragionevole esclusione del requisito della
"continuità” del rapporto di lavoro – quale elemento fondante il diritto alla
indennità di mobilità – per i lavoratori interinali il cui rapporto sia stato
successivamente stabilizzato, con ingiustificata privazione della tutela della
indennità di mobilità, quale prestazione assistenziale a carattere generale (sentenza n. 285 del
2003), per i lavoratori che si trovano in situazioni analoghe a quelli
assunti direttamente dall’impresa (utilizzatrice) a tempo indeterminato.
Neanche tale parametro costituzionale risulta essere stato violato.
Sul punto, si deve osservare che l’art.
38, secondo comma, Cost., rimette alla discrezionalità del legislatore la
determinazione dei tempi, dei modi e della misura delle prestazioni sociali
sulla base di un razionale contemperamento con la soddisfazione di altri
diritti, anch’essi costituzionalmente garantiti, e nei limiti delle
compatibilità finanziarie (sentenza n. 426 del
2006).
L’art. 38, secondo comma, Cost., che è
immediatamente operante nell’ordinamento giuridico e rilevante, in particolare,
ai fini del sindacato di costituzionalità sulle leggi ordinarie, attribuendo valore
di principio fondamentale al diritto dei lavoratori a che siano «preveduti ed
assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio,
malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria», impone che, in
caso di eventi, i quali incidono sfavorevolmente sull’attività lavorativa,
siano ai lavoratori assicurate provvidenze atte a garantire la soddisfazione
delle loro esigenze di vita (sentenza n. 22 del
1969). Ma tale disposizione non va intesa in senso
letterale e con valore assoluto. È il sistema delle assicurazioni nel suo
complesso, infatti, che è chiamato a far fronte e obbedisce alle esigenze
garantite dal precetto costituzionale (sentenza n. 80 del
1971). Per cui questo non risulta violato se, come
nell’ipotesi prevista dalla norma oggetto della denuncia, in maniera specifica
siano poste regole, con cui, nel rispetto degli altri precetti e principi
costituzionali, viene condizionata l’insorgenza di dati diritti o di questi è
disciplinato l’esercizio.
In particolare, l’indennità di mobilità
rientra nel più ampio genus delle assicurazioni
sociali contro la disoccupazione ed, in particolare, nell’ambito dei cosiddetti
"ammortizzatori sociali” (sentenza n. 184 del
2000), essendo – a differenza della Cassa integrazione guadagni, connessa
ad uno stato transitorio di crisi dell’impresa – finalizzata a favorire il
ricollocamento del lavoratore in altre imprese e, dunque, collegata ad una
crisi irreversibile del datore di lavoro. Essa, cioè, deve considerarsi un vero
e proprio trattamento di disoccupazione (sentenza n. 234 del
2011).
La norma censurata rappresenta una esplicazione della discrezionalità non irragionevole del
legislatore.
Infatti, l’avere condizionato
l’insorgenza del diritto del lavoratore disoccupato alla indennità
di mobilità alla sussistenza di una serie di condizioni prestabilite (anzianità
aziendale di almeno dodici mesi, di cui almeno sei di lavoro effettivamente
prestato, con un rapporto di lavoro a carattere continuativo e non a termine),
costituisce una regola non irragionevole con cui il legislatore stesso ha
contemperato e bilanciato un trattamento (speciale) di disoccupazione
maggiormente consistente, per importo e durata, rispetto a quello ordinario,
con la necessità di una anzianità lavorativa minima, alle dipendenze del
medesimo datore di lavoro, specificamente indicata dalle norme di legge.
4.3.– In conclusione, la norma censurata
costituisce il frutto di una razionale scelta discrezionale del legislatore,
nel rispetto degli artt. 3 e 38 Cost.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 16,
comma 1, della legge 23 luglio 1991, n. 223 (Norme in materia di cassa
integrazione, mobilità, trattamenti di disoccupazione, attuazione di direttive
della Comunità europea, avviamento al lavoro ed altre disposizioni in materia
di mercato del lavoro), sollevate dalla Corte d’appello di Venezia, sezione
lavoro, in riferimento agli artt. 3 e 38 della Costituzione, con l’ordinanza
indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma,
nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 luglio 2014.
F.to:
Sabino CASSESE, Presidente
Alessandro CRISCUOLO, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 18 luglio
2014.