SENTENZA N. 20
ANNO 2019
Commenti
alla decisione di
I. Antonio Ruggeri, La Consulta rimette a punto
i rapporti tra diritto eurounitario e diritto interno con una pronunzia in
chiaroscuro (a prima lettura di Corte
cost. n. 20 del 2019), in questa Studi 2019/I, 113 ,
II. Giuseppe Bronzini, La
sentenza n. 20/2019 della Corte costituzionale italiana verso un
riavvicinamento all’orientamento della Corte di giustizia? per g.c. di Questione Giustizia
III. Oreste Pollicino, Giorgio Repetto, Not to be Pushed Aside: the Italian
Constitutional Court and the European Court of Justice per
g.c. di Verfassungsblog
IV. Roberto Conti, Giudice
comune e diritti protetti dalla Carta UE: questo matrimonio s’ha da fare o no?
per g.c. di Giustizia Insieme
V. Grazia Vitale, I
recenti approdi della Consulta sui rapporti tra Carte e Corti. Brevi
considerazioni sulle sentenze nn. 20 e 63 del 2019 della Corte costituzionale,
per g.c. di Federalismi.it
VI. Stefano Catalano, Doppia
pregiudizialità una svolta ‘opportuna’ della Corte costituzionale, per g.c.
di Federalismi.it
VII. Benedetto Ponti, Il luogo adatto dove bilanciare. Il
"posizionamento” del diritto alla riservatezza e alla tutela dei dati personali
vs il diritto alla trasparenza nella sentenza n. 20/2019, per g.c. di Istituzioni
del Federalismo
VIII. Marina Chiarelli, L’ANAC
e gli obblighi di trasparenza dopo la sentenza n. 20 del 2019, per g.c. di Federalismi.it
IX. Stefania Leone, Il regime
della doppia pregiudizialità alla luce della sentenza n. 20 del 2019 della
Corte costituzionale, per g.c. della Rivista
AIC
X. Vera Fanti, La
trasparenza amministrativa tra principi costituzionali e valori
dell’ordinamento europeo: a margine di una recente sentenza della Corte
costituzionale (n. 20/2019), per g.c. di Federalismi.it
XI. Ida Angela Nicotra, Privacy
vs trasparenza, il Parlamento tace e il punto di equilibrio lo trova la Corte,
per g.c. di Federalismi.it
XII. Gino Scaccia, Corte
costituzionale e doppia pregiudizialità: la priorità del giudizio incidentale
oltre la Carta dei diritti? per g.c. del Forum di Quaderni Costituzionali
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente: Giorgio
LATTANZI;
Giudici : Aldo CAROSI,
Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO,
Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio
BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità
costituzionale dell’art. 14, commi 1-bis e 1-ter, del decreto
legislativo 14 marzo 2013, n. 33 (Riordino della disciplina riguardante il
diritto di accesso civico e gli obblighi di pubblicità, trasparenza e
diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni),
promosso dal Tribunale
amministrativo regionale del Lazio, sezione prima quater, con ordinanza del 19
settembre 2017, iscritta al n. 167 del registro ordinanze 2017 e pubblicata
nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 48, prima serie speciale,
dell’anno 2017.
Visti l’atto di
costituzione di R. A. e altri, nonché l’atto d’intervento del Presidente del
Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 20 novembre
2018 il Giudice relatore Nicolò Zanon;
uditi gli avvocati Micaela Grandi e Stefano
Orlandi per R. A. e altri e l’Avvocato dello Stato Gianna Galluzzo per il
Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 19
settembre 2017, il Tribunale amministrativo regionale del Lazio, sezione prima
quater, ha sollevato, in riferimento agli artt. 2, 3, 13 e 117, primo comma, della
Costituzione – quest’ultimo in relazione agli artt. 7, 8 e 52 della Carta
dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7
dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, all’art. 8 della
Convenzione
per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU),
firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4
agosto 1955, n. 848, all’art. 5 della Convenzione
n. 108 sulla protezione delle persone rispetto al trattamento automatizzato di
dati di carattere personale, adottata a Strasburgo il 28 gennaio 1981,
ratificata e resa esecutiva con la legge 21 febbraio 1989, n. 98, nonché
agli artt. 6, paragrafo 1, lettera c), 7, lettere c) ed e), e 8, paragrafi 1 e
4, della direttiva
95/46/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 24 ottobre 1995, relativa
alla tutela delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati
personali, nonché alla libera circolazione di tali dati – questioni di
legittimità costituzionale dell’art. 14, commi 1-bis e 1-ter, del decreto
legislativo 14 marzo 2013, n. 33 (Riordino della disciplina riguardante il
diritto di accesso civico e gli obblighi di pubblicità, trasparenza e
diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni).
Le indicate disposizioni –
inserite dall’art. 13, comma 1, lettera c), del decreto legislativo 25 maggio
2016, n. 97 (Revisione e semplificazione delle disposizioni in materia di
prevenzione della corruzione, pubblicità e trasparenza, correttivo della legge
6 novembre 2012, n. 190 e del decreto legislativo 14 marzo 2013, n. 33, ai
sensi dell’articolo 7 della legge 7 agosto 2015, n. 124, in materia di
riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche) – vengono censurate «nella
parte in cui prevedono che le pubbliche amministrazioni pubblichino i dati di
cui all’art. 14, comma 1, lettere c) ed f) dello stesso decreto legislativo
anche per i titolari di incarichi dirigenziali».
1.1.– Il TAR Lazio espone
che i ricorrenti nel giudizio a quo – dirigenti di ruolo inseriti nell’organico
dell’ufficio del Garante per la protezione dei dati personali – agiscono per
l’annullamento: della nota del Segretario generale del Garante per la
protezione dei dati personali n. 34260/96505 del 14 novembre 2016; delle note
del medesimo organo, n. 37894/96505, n. 37897/96505, n. 37899/96505, n. 37892/96505,
n. 37893/96505, n. 37898/96505, del 15 dicembre 2016, «previa eventuale
disapplicazione dell’art. 14, comma 1-bis, d.lgs. 14 marzo 2013, n. 33», oppure
previa rimessione alla Corte di giustizia dell’Unione europea o alla Corte
costituzionale «della questione in ordine alla compatibilità delle disposizioni
sopra citate con la normativa europea e costituzionale».
Il medesimo TAR rileva che
la nota n. 34260/96505 del 14 novembre 2016 del Segretario generale del Garante
per la protezione dei dati personali – in adempimento delle prescrizioni
previste all’art. 14, comma 1-bis, del d.lgs. n. 33 del 2013, nella parte in
cui prevede che le pubbliche amministrazioni pubblichino nel proprio sito web
alcuni dati relativi ai titolari di incarichi dirigenziali – ha invitato i
ricorrenti a inviare entro un dato termine la relativa documentazione, e
precisamente: copia dell’ultima dichiarazione dei redditi presentata, oscurando
i dati eccedenti; dichiarazione, aggiornata alla data di sottoscrizione, per la
pubblicità della situazione patrimoniale, da rendersi secondo uno schema
allegato alla richiesta; dichiarazione di negato consenso per il coniuge non
separato e i parenti entro il secondo grado, ovvero, in caso di avvenuta
prestazione del consenso, copia delle dichiarazioni dei redditi dei suddetti
soggetti e dichiarazioni aggiornate per la pubblicità delle rispettive
situazioni patrimoniali; dichiarazione dei dati relativi ad eventuali altre
cariche presso enti pubblici o privati o altri incarichi con oneri a carico
della finanza pubblica assunte dagli interessati.
Ricorda poi che alla violazione dell’obbligo
di comunicazione consegue, ai sensi dell’art. 47, comma 1, del d.lgs. n. 33 del
2013, una sanzione amministrativa, parimenti soggetta a pubblicazione, a carico
del singolo dirigente responsabile della mancata comunicazione.
1.2.– Il TAR Lazio ricostruisce, nel suo
sviluppo storico, il quadro normativo pertinente agli obblighi di trasparenza
gravanti sui dirigenti pubblici, fino allo stato attuale, risultante dalle
modifiche apportate dal d.lgs. n. 97 del 2016.
Quest’ultimo ha equiparato gli obblighi di
trasparenza gravanti sui dirigenti a quelli imposti ai titolari di incarichi
politici, di amministrazione, di direzione o di governo di livello statale, regionale
e locale, attraverso l’introduzione del censurato comma 1-bis dell’art. 14 del
d.lgs. n. 33 del 2013, a norma del quale «[l]e pubbliche amministrazioni
pubblicano i dati di cui al comma 1 per i titolari di incarichi o cariche di
amministrazione, di direzione o di governo comunque denominati, salvo che siano
attribuiti a titolo gratuito, e per i titolari di incarichi dirigenziali, a
qualsiasi titolo conferiti, ivi inclusi quelli conferiti discrezionalmente
dall’organo di indirizzo politico senza procedure pubbliche di selezione».
Il comma 1 dell’art. 14
appena citato indica come oggetto dell’obbligo di comunicazione i seguenti
dati: a) l’atto di nomina o di proclamazione, con l’indicazione della durata
dell’incarico o del mandato elettivo; b) il curriculum; c) i compensi di
qualsiasi natura connessi all’assunzione della carica e gli importi di viaggi
di servizio e missioni pagati con fondi pubblici; d) i dati relativi
all’assunzione di altre cariche, presso enti pubblici o privati, ed i relativi
compensi a qualsiasi titolo corrisposti; e) gli altri eventuali incarichi con
oneri a carico della finanza pubblica e l’indicazione dei compensi spettanti;
f) le dichiarazioni e le attestazioni di cui agli artt. 2, 3 e 4 della legge 5
luglio 1982, n. 441 (Disposizioni per la pubblicità della situazione
patrimoniale di titolari di cariche elettive e di cariche direttive di alcuni
enti) – relative alla dichiarazione dei redditi e alla dichiarazione dello
stato patrimoniale, quest’ultima concernente il possesso di beni immobili o
mobili registrati, azioni, obbligazioni o quote societarie –, limitatamente al
soggetto interessato, al coniuge non separato e ai parenti entro il secondo
grado, ove gli stessi vi consentano, con la previsione che venga data evidenza
al mancato consenso.
1.3.– In questo contesto,
il rimettente rileva che, secondo i ricorrenti, il livello di trasparenza
richiesto dalla normativa appena illustrata determinerebbe il trattamento
giuridico dei dati indicati a carico di un notevolissimo numero di soggetti,
approssimativamente stimati in circa centoquarantamila unità, senza contare né
i coniugi né i parenti fino al secondo grado, in base a elaborazioni attribuite
all’Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni
(ARAN). Ricorda che essi sottolineano il carattere limitativo della
riservatezza individuale di un trattamento che non troverebbe rispondenza in
alcun altro ordinamento nazionale, ponendosi in contrasto con il «principio di
proporzionalità di derivazione europea». Il trattamento in questione si
fonderebbe «sull’erronea assimilazione di condizioni non equiparabili fra loro
(dirigenti delle amministrazioni pubbliche e degli altri soggetti cui il
decreto si applica e titolari di incarichi politici)», prescindendo «dall’effettivo
rischio corruttivo insito nella funzione svolta».
1.4.– Riferisce il TAR
Lazio che, con ordinanza n. 1030 del 2 marzo 2017, la domanda di sospensione
interinale dell’esecuzione degli atti gravati, incidentalmente formulata in
ricorso, è stata accolta.
1.5.– Il rimettente, in via
preliminare, articola un’ampia motivazione per rigettare l’eccezione
pregiudiziale di difetto di giurisdizione, avanzata, nel giudizio a quo, dal
Garante per la protezione dei dati personali, sulla scorta dell’espressa previsione
della devoluzione delle controversie al giudice ordinario prevista dall’art.
152 del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 (Codice in materia di
protezione dei dati personali), nella formulazione vigente al momento della
proposizione del ricorso.
In particolare osserva che,
nel giudizio in esame, si discute non dell’applicazione di norme del d.lgs. n.
196 del 2003 o di provvedimenti del Garante in materia di protezione dei dati
personali o di loro mancata adozione, bensì di questioni e provvedimenti che
afferiscono alle norme in materia di trasparenza, di cui al d.lgs. n. 33 del
2013, con conseguente applicabilità dell’art. 50 del testo legislativo da
ultimo citato, a norma del quale «[l]e controversie relative agli obblighi di
trasparenza previsti dalla normativa vigente sono disciplinate dal decreto
legislativo 2 luglio 2010, n. 104». Ne deriverebbe la giurisdizione del giudice
amministrativo, dal momento che l’art. 133, comma 1, lettera a), numero 6,
dell’Allegato 1 (Codice del processo amministrativo) al decreto legislativo 2
luglio 2010, n. 104 (Attuazione dell’articolo 44 della legge 18 giugno 2009, n.
69, recante delega al governo per il riordino del processo amministrativo)
indica, tra le materie di giurisdizione esclusiva attribuite al giudice
amministrativo, il «diritto di accesso ai documenti amministrativi e violazione
degli obblighi di trasparenza amministrativa».
1.6.– Rigettate altre
eccezioni preliminari, il rimettente enumera le fonti sovranazionali rilevanti
nel caso di specie, soffermandosi, in particolare, sugli artt. 6, paragrafo 1,
lettera c), e 7, lettere c) ed e), della direttiva
95/46/CE, ed evidenziando come i principi da essi espressi siano stati
confermati nella nuova normativa in materia di protezione dei dati personali di
cui al regolamento
(UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 aprile 2016,
relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei
dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati e che abroga la
direttiva 95/46/CE (regolamento generale sulla protezione dei dati),
entrato in vigore il 24 maggio 2016, pur con efficacia differita al 25 maggio
2018.
Dalle illustrate
disposizioni il rimettente ricava il principio secondo cui la tutela delle
persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla
libera circolazione di tali dati, non osta a una normativa nazionale che
imponga la raccolta e la divulgazione dei dati sui redditi dei dipendenti
pubblici, a condizione, però, che sia provato che la divulgazione, laddove
puntuale, ovvero riferita anche ai nominativi dei dipendenti, risulti
necessaria e appropriata per l’obiettivo di buona gestione delle risorse
pubbliche.
Secondo il TAR Lazio,
infatti, i principi di proporzionalità, pertinenza e non eccedenza
costituiscono il canone complessivo che governa il rapporto tra esigenza, privata,
di protezione dei dati personali, ed esigenza, pubblica, di trasparenza.
1.7.– In punto di non
manifesta infondatezza, il rimettente evidenzia la necessità di adottare un
sistema rigido di prevenzione della corruzione, la cui percezione è da intendersi
anche come carenza di trasparenza, ma afferma che ciò dovrebbe avvenire sempre
nel rispetto dei principi di proporzionalità e ragionevolezza delle misure
adottate.
Afferma, in particolare,
che «la denunzia di incompatibilità con la normativa europea e costituzionale
formulata dai ricorrenti in relazione ai contestati dati oggetto di
divulgazione risulta non manifestamente infondata», sotto i profili di seguito
elencati.
1.8.– Quanto alla
equiparazione dei dirigenti pubblici con i titolari di incarichi politici
(originari destinatari della previsione di cui all’art. 14, comma 1, del d.lgs.
n. 33 del 2013) e all’assenza di qualsiasi differenziazione tra le figure
dirigenziali, il rimettente osserva che la previsione normativa violerebbe l’art. 3 Cost. perché
assimilerebbe condizioni che, «all’evidenza, non sono equiparabili fra loro»,
per «genesi, struttura, funzioni esercitate e poteri statali di riferimento».
A tale proposito evidenzia
che i rapporti e le responsabilità che correlano le due figure ai cittadini si
collocano su piani non comunicanti, ciò che renderebbe «del tutto implausibile
la loro riconduzione, agli esclusivi fini della trasparenza, nell’ambito di un
identico regime».
1.9.– La mancata
differenziazione tra le categorie dirigenziali soggette alla misura, in base,
ad esempio, all’amministrazione di appartenenza, alla qualifica, alle funzioni
in concreto ricoperte, ai compensi percepiti, sarebbe parimenti «indice di una
non adeguata calibrazione della disposizione in parola», tenuto conto della
molteplicità delle categorie dirigenziali rinvenibili nell’ordinamento vigente
e della connessa varietà ed estensione dei segmenti di potere amministrativo
esercitato: la misura riguarderebbe, secondo le elaborazioni dell’ARAN, oltre
centoquarantamila dirigenti, senza alcuna considerazione dell’effettivo rischio
corruttivo insito nella funzione svolta.
1.10.– Altro sintomo di
irragionevolezza della disciplina viene individuato nel fatto che la
divulgazione on line di una quantità enorme di dati comporterebbe dei rischi di
alterazione, manipolazione e riproduzione per fini diversi, che potrebbero
frustrare le esigenze di informazione veritiera e, quindi, di controllo, alla
base della normativa.
Le stesse modalità di
diffusione dei dati reddituali e patrimoniali (relativi ai dirigenti, ai
coniugi e ai parenti entro il secondo grado, ove essi acconsentano, e salva la
menzione dell’eventuale mancato consenso), desunti dalla dichiarazione dei
redditi, non supererebbero il test di proporzionalità condotto sulla misura in
esame. Infatti, ai sensi degli artt. 7-bis e 9 del d.lgs. n. 33 del 2013, le
amministrazioni cui compete la pubblicazione on line dei dati non possono
disporre filtri e altre soluzioni tecniche atte ad impedire ai motori di
ricerca web di indicizzarli o di renderli non consultabili. Tali modalità di
pubblicazione renderebbero quest’ultima «indubbiamente foriera di usi da parte
del pubblico che possono trasmodare […] dalla finalità della trasparenza, sino
a giungere alla messa a rischio della sicurezza degli interessati».
Osserva a tale proposito il
TAR Lazio che la «pubblicazione di massicce quantità di dati» non si traduce
automaticamente nell’agevolazione della ricerca di quelli più significativi a
determinati fini, soprattutto da parte dei singoli cittadini, i quali anzi non
avrebbero a disposizione efficaci strumenti di lettura e di elaborazione di dati
sovrabbondanti o eccessivamente diffusi. Il regime di trasparenza in funzione
di contrasto alla corruzione dovrebbe invece essere finalizzato, a parere del
rimettente, a tutelare l’intera collettività e non solo i soggetti «complessi»
a vario titolo operanti nell’ordinamento vigente. Allo stato, solo questi
ultimi sarebbero in possesso di strumenti idonei «a decrittare importanti masse
di informazioni», e sarebbero perciò i soli in grado di trarre, dai dati
oggetto degli obblighi informativi imposti dalle disposizioni censurate,
«conclusioni coerenti con quanto complessivamente reso disponibile e con gli
obiettivi propri della legislazione di cui trattasi». Ne deriverebbe la
frustrazione dell’esigenza di consentire quella forma diffusa di controllo sul perseguimento
delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche, che pure
costituisce la finalità perseguita dal d.lgs. n. 33 del 2013.
1.11.– Le disposizioni
censurate, sotto i profili in precedenza segnalati, si porrebbero, dunque, in
contrasto con diversi parametri costituzionali.
1.11.1.– In primo luogo
sarebbe leso l’art.
117, primo comma, Cost., che vincola la potestà legislativa esercitata
dallo Stato e dalle Regioni al rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli
derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali, tra cui
si collocano i principi di proporzionalità, pertinenza e non eccedenza nel
trattamento dei dati personali.
1.11.2.– In secondo luogo
sarebbe violato l’art.
3 Cost., per il contrasto con il «principio di uguaglianza formale e
sostanziale», in conseguenza sia dell’irragionevole parità di trattamento che
la disposizione riserva ai titolari di incarichi politici e ai titolari di
incarichi dirigenziali, categorie ritenute non assimilabili in quanto soggette
a regimi giuridici incomparabili, sia per l’irragionevole parificazione di
tutti gli incarichi dirigenziali, effettuata senza distinguere, conformemente
alla natura dell’interesse pubblico perseguito dalla norma, la portata degli
obblighi di pubblicità on line in ragione delle caratteristiche delle loro
tipologie, ovvero in riferimento al grado di esposizione dell’incarico pubblico
al rischio di corruzione e all’entità delle risorse pubbliche assegnate
all’ufficio della cui gestione il soggetto interessato deve rispondere.
1.11.3.– Sarebbero altresì
violati gli artt. 2
e 13 Cost., che
tutelano i diritti inviolabili dell’uomo e la libertà personale, stante la
«suscettibilità della prescrizione imposta ai dirigenti di comunicare, ai fini
della loro pubblicazione, i dati in contestazione, desunti dalla dichiarazione
dei redditi, invece che una loro ragionata elaborazione, più funzionale alle
finalità perseguite dalla trasparenza amministrativa e atta a scongiurare
incontrovertibilmente la diffusione di dati sensibili o di dati, per un verso,
superflui ai fini perseguiti dalla norma, per altro verso, suscettibili di
interpretazioni distorte».
1.12.– Il TAR Lazio si
mostra consapevole del fatto che la Corte di giustizia delle Comunità europee (sentenza
20 maggio 2003, nelle cause riunite C-465/00, C-138/01 e C-139/01, Österreichischer Rundfunk e altri), ha ritenuto che gli artt. 6, paragrafo 1,
lettera c), e 7, lettere c) ed e), della direttiva 95/46/CE – che hanno
«trovato conferma» nelle disposizioni del regolamento n. 2016/679/UE – sono
direttamente applicabili, nel senso che essi possono essere fatti valere da un
singolo dinanzi ai giudici nazionali per evitare l’applicazione delle norme di
diritto interno contrarie a tali disposizioni.
Esclude tuttavia che la
norma contestata sia suscettibile di essere disapplicata «per contrasto con
normative comunitarie», posto che non sarebbe individuabile una «disciplina
self-executing di tale matrice direttamente applicabile alla fattispecie
oggetto di giudizio».
Ritiene, infatti, che i
principi di proporzionalità, pertinenza e non eccedenza di fonte europea
invocati dai ricorrenti nel giudizio principale non sarebbero altro che
«criteri in base ai quali effettuare una ponderazione della conformità» ad essi
della disciplina censurata. Ma tale operazione necessariamente sconterebbe «i
differenti caratteri e la diversa portata dell’interesse pubblico generale che
si intende tutelare attraverso il regime di trasparenza, e che può avere una
configurazione diversa, a seconda del sistema nazionale considerato».
Il TAR Lazio evidenzia,
dunque, che le strade percorribili sarebbero due: un rinvio pregiudiziale alla
Corte di giustizia dell’Unione europea oppure la rimessione di una questione di
legittimità costituzionale alla Corte costituzionale.
Tra i due rimedi opta per
la rimessione alla Corte costituzionale «della questione di costituzionalità
relativa all’art. 14, comma 1-bis, d.lgs. 14 marzo 2013, n. 33, nella parte in
cui prevede che le pubbliche amministrazioni pubblichino i dati di cui all’art.
14 comma 1, lett. c) ed f), dello stesso decreto legislativo anche per i
titolari di incarichi dirigenziali».
1.13.– In punto di rilevanza
delle questioni di legittimità costituzionale, il rimettente ribadisce che gli
atti impugnati nel giudizio principale costituiscono diretta applicazione della
norma sospettata di contrasto con la Costituzione, sicché solo dalla
dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma censurata potrebbe
derivare il richiesto accoglimento del ricorso per illegittimità derivata degli
atti impugnati.
1.14.– Il rimettente
ritiene non manifestamente infondata anche la questione di legittimità
costituzionale del comma 1-ter del medesimo art. 14 del d.lgs. n. 33 del 2013,
secondo cui «[c]iascun dirigente comunica all’amministrazione presso la quale
presta servizio gli emolumenti complessivi percepiti a carico della finanza
pubblica, anche in relazione a quanto previsto dall’articolo 13, comma 1, del
decreto-legge 24 aprile 2014, n. 66, convertito, con modificazioni, dalla legge
23 giugno 2014, n. 89. L’amministrazione pubblica sul proprio sito
istituzionale l’ammontare complessivo dei suddetti emolumenti per ciascun
dirigente».
A suo parere, infatti,
l’oggetto della pubblicazione prevista dall’ultimo periodo del predetto comma
1-ter costituirebbe un dato aggregato che contiene quello di cui al comma 1,
lettera c), dello stesso articolo e potrebbe, anzi, corrispondere del tutto a
quest’ultimo, laddove il dirigente non percepisca altro emolumento diverso
dalla retribuzione per l’incarico assegnato.
Di qui la decisione «di
estendere, d’ufficio, ai sensi dell’art. 23 della l. 11 marzo 1953, n. 87,
recante norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte
Costituzionale, la questione di legittimità costituzionale anche al comma 1-ter
dell’art. 14 del d.lgs. 33/2013, limitatamente alla prescrizione di cui
all’ultimo periodo», a norma del quale «[l]’amministrazione pubblica sul
proprio sito istituzionale l’ammontare complessivo dei suddetti emolumenti per
ciascun dirigente».
In ordine alla motivazione
in punto di rilevanza e di non manifesta infondatezza della ulteriore questione
sollevata, il rimettente si limita a richiamare «integralmente le
argomentazioni già esposte in ordine all’art. 14, comma 1-bis, d.lgs. 14 marzo
2013, n. 33».
2.– Si sono costituite le
parti private R. A. e altri, le quali hanno ripercorso, nelle loro difese, la
vicenda amministrativa e poi giudiziaria che ha condotto alla proposizione
delle questioni di legittimità costituzionale.
2.1.– Preliminarmente, esse
hanno contestato la negazione, da parte del TAR Lazio adito, del carattere
self-executing del diritto europeo richiamato nel ricorso introduttivo del
giudizio, in considerazione del fatto che tale carattere sarebbe stato, invece,
espressamente riconosciuto, quantomeno agli artt. 6, paragrafo 1, lettera c), e
7, lettere c) ed e), della direttiva 95/46/CE, dalla citata
sentenza del 20 maggio 2003 della Corte di giustizia.
A sostegno hanno richiamato
altre decisioni della Corte di Lussemburgo in materia di protezione dei dati
personali, dalle quali traggono la convinzione che spetti al giudice
amministrativo adito pronunciarsi sulla compatibilità con il diritto europeo
self-executing della norma censurata.
Hanno tuttavia
riconosciuto, «[i]n alternativa», che, venendo in rilievo norme della CDFUE
(artt. 7 e 8), «alla luce di quanto da ultimo deciso con sentenza n.
269/2017», spetti alla Corte costituzionale pronunciarsi anche sulla
compatibilità della norma censurata con tali parametri.
2.2.– In ordine alla non
manifesta infondatezza delle questioni sollevate nell’ordinanza di rimessione,
le parti private hanno sviluppato gli argomenti già illustrati dal TAR Lazio,
concludendo per l’accoglimento delle questioni di legittimità costituzionale
dell’art. 14, commi 1-bis e 1-ter, del d.lgs. n. 33 del 2013.
2.3.– In subordine, le
parti private hanno chiesto alla Corte costituzionale di sollevare, ai sensi
dell’art. 267 del Trattato
sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE), come modificato dall’art. 2 del
Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007 e ratificato dalla legge 2 agosto
2008, n. 130, questioni pregiudiziali vertenti sull’interpretazione della direttiva
95/46/CE.
2.4.– Tali parti hanno,
infine, chiesto «l’anonimizzazione dei dati degli esponenti in sede di
pubblicazione degli atti, ai sensi dell’art. 52 D. Lgs. 196/2003».
3.– È intervenuto il
Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura
generale dello Stato, il quale ha chiesto che le questioni siano dichiarate
inammissibili o comunque infondate.
3.1.– In relazione alla
prospettata violazione dell’art. 117, primo comma,
Cost., secondo l’Avvocatura generale, «la stessa categoria del "trattamento
dei dati personali” non pare ragionevolmente riferibile alla pubblicazione dei
compensi di qualsiasi natura connessi all’assunzione della carica, degli
importi di viaggi di servizio e missioni pagati con fondi pubblici», che è
oggetto dell’obbligo imposto dall’art. 14, comma 1-bis, lettera c), del d.lgs.
n. 33 del 2013.
Si tratterebbe, al
contrario, di informazioni pubbliche, «in quanto concernenti l’uso di risorse
pubbliche», sicché i «cittadini-contribuenti» avrebbero «diritto – ed interesse
– a sapere come le risorse pubbliche sono gestite da parte delle pubbliche
amministrazioni».
3.2.– In via generale
l’Avvocatura osserva che il legislatore nazionale dispone di un margine di
apprezzamento – attribuito agli Stati membri dallo stesso ordinamento europeo
in materia di protezione dei dati personali – nel ponderare il proprio regime
di trasparenza nel settore pubblico in rapporto alla tutela dei dati personali.
Ciò premesso, l’Avvocatura
generale ritiene che il legislatore nazionale, nell’adozione delle norme di cui
al d.lgs. n. 33 del 2013 oggetto di censura, abbia operato correttamente il
dovuto bilanciamento «alla luce dei test di proporzionalità, non eccedenza,
pertinenza, finalità e ragionevolezza».
3.3.– L’Avvocatura generale
ricorda che la commissione incaricata dell’attuazione della delega contenuta
nella legge 6 novembre 2012, n. 190 (Disposizioni per la prevenzione e la
repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione)
ha messo in evidenza che l’adozione delle norme in materia di trasparenza nasce
dall’esigenza di applicare un sistema rigido di prevenzione della corruzione,
«in virtù dei numerosi moniti provenienti da rilevanti organizzazioni
internazionali (Onu, Greco, OCSE) e dalla stessa Unione europea, che hanno
raccomandato più volte all’Italia l’adozione di misure severe e drastiche,
soprattutto ispirate a una logica di integrità e trasparenza».
L’Avvocatura generale
richiama anche «le classifiche stilate dall’organizzazione "Transparency
International” che hanno classificato l’Italia tra i Paesi in cui è più elevata
la percezione della corruzione (da intendersi anche come carenza di
trasparenza)».
In questo contesto,
appunto, sarebbero stati calati i canoni di proporzionalità, pertinenza, non
eccedenza e ragionevolezza, che il legislatore italiano avrebbe utilizzato nel
bilanciamento tra l’interesse pubblico alla trasparenza e l’interesse
individuale alla riservatezza, giungendo all’adozione di misure di trasparenza
«ampie e rigorose».
3.4.– L’interveniente
richiama gli studi dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo
economico (OCSE) in tema di gestione del conflitto di interessi e di asset
disclosure per i funzionari pubblici, evidenziando che il livello di
divulgazione dei dati, in media, sarebbe strettamente correlato alla posizione
dirigenziale. Di qui la conclusione che «i manager tendono ad avere più
obblighi in materia di pubblicità rispetto ai funzionari».
3.5.– Con riferimento alla
prospettata violazione dell’art. 3 Cost.,
l’Avvocatura generale osserva che «è proprio il fatto di essere permanentemente
e stabilmente al servizio delle pubbliche amministrazioni, con funzioni gestionali
apicali», a costituire la giustificazione del regime aperto, di massima
trasparenza, per i gestori della cosa pubblica, «quanto se non più che per i
titolari di incarichi politici».
Quanto all’assenza di
gradualità degli obblighi di pubblicazione in relazione alla tipologia di
incarico dirigenziale, l’Avvocatura generale suggerisce un’interpretazione
costituzionalmente orientata – che porterebbe alla declaratoria d’infondatezza
della questione posta sotto tale peculiare profilo – che sarebbe, del resto,
già stata operata in sede esecutiva, attraverso apposite linee guida emanate
dall’Autorità nazionale anticorruzione (ANAC), laddove si prevede, ai sensi
dell’art. 3, comma 1-ter, del d.lgs. n. 33 del 2013, che per i dirigenti di
Comuni sotto i quindicimila abitanti si provveda alla pubblicazione dei dati di
cui all’art. 14, comma 1, lettere da a) ad e), ma non di quelli previsti alla
lettera f), vale a dire le attestazioni patrimoniali e la dichiarazione dei
redditi, con estensione della medesima disciplina in favore dei dirigenti
scolastici.
3.6.– Sarebbe parimenti
infondata, a giudizio dell’interveniente, anche la questione di legittimità
costituzionale sollevata in riferimento agli artt. 2 e 13 Cost.
Il prospettato sacrificio
della libertà personale a causa della pubblicazione dei dati (anziché di una
loro «ragionata elaborazione») desumibili dalla dichiarazione dei redditi
sarebbe scongiurato dal fatto che – in sede applicativa – sarebbe «comunque
dovuto il necessario coordinamento delle disposizioni di cui all’art. 14 cit.
con le vigenti norme di rango primario in materia di tutela dei dati
personali».
Infine, con riferimento al
nucleo familiare, «è la stessa legge a prevedere la pubblicazione dei dati solo
su base volontaria», sicché sarebbe esclusa la violazione dei parametri
costituzionali evocati.
3.7.– Inammissibile per
difetto di rilevanza sarebbe, infine, la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 14, comma 1-ter, del d.lgs. n. 33 del 2013, sollevata
d’ufficio, in quanto il giudizio principale verterebbe su atti che non danno
applicazione a tale comma, sicché la decisione del caso concreto prescinderebbe
dalla norma in questione.
In ogni caso, militerebbero
per l’infondatezza anche di tale ulteriore questione le argomentazioni addotte
con riferimento alle censure mosse all’art. 14, comma 1-bis, del d.lgs. n. 33
del 2013.
4.– Le parti private, in
prossimità dell’udienza pubblica del 20 novembre 2018, hanno depositato memoria
illustrativa, nella quale hanno ripreso il contenuto dell’atto di costituzione
e controdedotto rispetto agli argomenti illustrati dall’Avvocatura generale
dello Stato.
In primo luogo esse hanno
ribadito che il punto nodale della vicenda è costituito dai «rapporti tra le
fonti dei diritti fondamentali», essendo violate insieme norme sia della CDFUE
(artt. 7 e 8), sia della Costituzione, sia della CEDU,
nell’ambito di una questione di legittimità costituzionale sollevata con
l’evocazione, come parametri interposti, anche di altre norme di diritto
dell’Unione – la direttiva
95/46/CE (le cui disposizioni sono poi state riprodotte nel regolamento
n. 2016/679/UE) – che, al pari della CDFUE, pure avrebbero efficacia
diretta.
Secondo le parti private,
di fronte ai prospettati dubbi di compatibilità della disciplina italiana con
tale complessiva cornice normativa dell’Unione europea, il TAR Lazio avrebbe
dovuto, in base all’art. 267 del TFUE, disapplicare le norme nazionali oppure
operare un rinvio pregiudiziale alla Corte di Lussemburgo.
Ciò posto, le parti private
hanno chiesto alla Corte costituzionale di valutare se dichiarare inammissibili
le questioni di legittimità costituzionale per l’immediata applicabilità del
diritto europeo violato dalla normativa censurata, oppure adire con un rinvio
pregiudiziale la Corte di giustizia, ovvero, ancora, ritenere «assorbente» la
questione di legittimità costituzionale.
Con riferimento agli
argomenti addotti dall’Avvocatura generale dello Stato, le parti private
contrastano la tesi secondo cui i dati indicati dalla lettera c) dell’art. 14,
comma 1-bis, del d.lgs. n. 33 del 2013 non sarebbero dati personali, quanto
piuttosto informazioni concernenti l’uso di risorse pubbliche e, come tali,
naturalmente pubbliche.
Le parti private, poi,
contestano gli argomenti dell’interveniente fondati sul margine di
apprezzamento riconosciuto agli Stati nazionali nel dettare discipline in
materia di trasparenza amministrativa. Esse affermano, infatti, che le norme
della direttiva 95/46/CE, prima, e del regolamento n. 2016/679/UE, dopo, non
lascerebbero agli Stati membri alcuna libertà di disciplinare, con margini di
autonomia, i principi in esse indicati.
In ogni caso, anche il
bilanciamento effettuato dal legislatore nazionale tra valori aventi tutti un
rilievo costituzionale sarebbe viziato dalla prevalenza assoluta riconosciuta
alla trasparenza amministrativa rispetto alla tutela della riservatezza delle
persone. A sostegno di tale conclusione, le parti private riportano ampi
stralci dell’atto di segnalazione n. 6 del 20 dicembre 2017 trasmesso dall’ANAC
al Parlamento ed al Governo.
Le parti private, infine,
controdeducono rispetto alla possibilità d’interpretazione costituzionalmente
orientata della disciplina censurata suggerita dall’interveniente e fondata
sulla possibilità che l’ANAC intervenga, con proprie linee guida, ad introdurre
una sorta di graduazione degli obblighi di pubblicazione, differenziando le
categorie di dirigenti che sono ad essi soggette. Ritengono, infatti, che non
spetti ad un’autorità amministrativa «"correggere il tiro” (e non di poco) di
una disposizione legislativa (che si ritiene emendabile)», in quanto l’unica
via percorribile a tal fine, ricorrendone i presupposti, sarebbe la
disapplicazione della norma interna in contrasto con il diritto europeo o la
pronuncia d’illegittimità costituzionale.
Considerato in diritto
1.– Il Tribunale
amministrativo regionale del Lazio, sezione prima quater, dubita della
legittimità costituzionale dell’art. 14, commi 1-bis e 1-ter, del decreto
legislativo 14 marzo 2013, n. 33 (Riordino della disciplina riguardante il
diritto di accesso civico e gli obblighi di pubblicità, trasparenza e
diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni).
Le disposizioni censurate
sono state inserite nell’art. 14 del d.lgs. n. 33 del 2013 dall’art. 13, comma
1, lettera c), del decreto legislativo 25 maggio 2016, n. 97 (Revisione e
semplificazione delle disposizioni in materia di prevenzione della corruzione,
pubblicità e trasparenza, correttivo della legge 6 novembre 2012, n. 190 e del
decreto legislativo 14 marzo 2013, n. 33, ai sensi dell’articolo 7 della legge
7 agosto 2015, n. 124, in materia di riorganizzazione delle amministrazioni
pubbliche).
In particolare, l’art. 14,
comma 1-bis, estende a tutti i titolari di incarichi dirigenziali nella
pubblica amministrazione, a qualsiasi titolo conferiti, gli obblighi di
pubblicazione di una serie di dati, obblighi già previsti dal citato art. 14,
comma 1, del d.lgs. n. 33 del 2013 a carico dei titolari di incarichi politici,
anche se non di carattere elettivo, di livello statale, regionale e locale.
Il rimettente censura la
disposizione nella parte in cui stabilisce che le pubbliche amministrazioni
pubblichino, per i dirigenti, i compensi di qualsiasi natura connessi
all’assunzione della carica, gli importi di viaggi di servizio e missioni
pagati con fondi pubblici (art. 14, comma 1, lettera c); le dichiarazioni e
attestazioni di cui agli artt. 2, 3 e 4 della legge 5 luglio 1982, n. 441
(Disposizioni per la pubblicità della situazione patrimoniale di titolari di
cariche elettive e di cariche direttive di alcuni enti), ovvero la
dichiarazione dei redditi soggetti all’imposta sui redditi delle persone
fisiche e quella concernente i diritti reali su beni immobili e su beni mobili
iscritti in pubblici registri, le azioni di società, le quote di partecipazione
a società, anche in relazione al coniuge non separato ed ai parenti entro il
secondo grado, ove essi vi acconsentano, dovendosi in ogni caso dare evidenza
al mancato consenso (art. 14, comma 1, lettera f).
L’art. 14, comma 1-ter, del
d.lgs. n. 33 del 2013 è censurato limitatamente all’ultimo periodo, nella parte
in cui prevede che l’amministrazione pubblichi sul proprio sito istituzionale
l’ammontare complessivo degli emolumenti percepiti da ciascun dirigente a
carico della finanza pubblica.
1.1.– Ritiene il giudice a
quo che le indicate disposizioni contrastino, innanzitutto, con l’art. 117,
primo comma, della Costituzione, in relazione agli artt. 7, 8 e 52 della Carta
dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7
dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, all’art. 8 della
Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa
esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848, all’art. 5 della Convenzione n.
108 sulla protezione delle persone rispetto al trattamento automatizzato di
dati di carattere personale, adottata a Strasburgo il 28 gennaio 1981,
ratificata e resa esecutiva con la legge 21 febbraio 1989, n. 98, nonché agli
artt. 6, paragrafo 1, lettera c), 7, lettere c) ed e), e 8, paragrafi 1 e 4,
della direttiva 95/46/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 24 ottobre
1995, relativa alla tutela delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei
dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati.
Evidenzia il tribunale
amministrativo rimettente come tali disposizioni stabiliscano principi di
proporzionalità, pertinenza e non eccedenza nel trattamento dei dati personali,
confermati anche dalla nuova normativa in materia di protezione dei dati
personali di cui al regolamento (UE) n. 2016/679 del Parlamento europeo e del
Consiglio, del 27 aprile 2016, relativo alla protezione delle persone fisiche
con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione
di tali dati e che abroga la direttiva 95/46/CE (regolamento generale sulla
protezione dei dati), definendo così il quadro sovranazionale di riferimento
per ogni disciplina del rapporto tra esigenza (privata) di protezione di tali
dati ed esigenza (pubblica) di trasparenza.
Sottolinea come la
necessaria tutela delle persone fisiche rispetto al trattamento e alla libera
circolazione dei dati personali non osterebbe a una normativa nazionale che
imponga la raccolta e la divulgazione di informazioni relative al patrimonio e
al reddito dei dirigenti pubblici, alla condizione, però, che la divulgazione
di tali dati, in quanto riferiti puntualmente e specificamente ai nominativi
dei dipendenti, risulti necessaria e appropriata al raggiungimento degli
obiettivi della corretta informazione dei cittadini e della buona gestione
delle risorse pubbliche.
Sostiene che i principi
desumibili dai parametri europei risulterebbero invece lesi dalla disciplina
censurata, anche a causa della quantità di dati da pubblicare e delle modalità
della loro divulgazione, dovendosi in particolare considerare che, ai sensi
degli artt. 7-bis e 9 del d.lgs. n. 33 del 2013, le amministrazioni cui compete
la pubblicazione on line dei dati non possono disporre filtri e altre soluzioni
tecniche atte a impedire ai motori di ricerca web di indicizzarli, o di
renderli non consultabili attraverso questi ultimi.
1.2.– Le disposizioni di
cui all’art. 14, commi 1-bis e 1-ter, del d.lgs. n. 33 del 2013, sarebbero altresì
in contrasto con l’art. 3 Cost., sotto due distinti profili.
In primo luogo, vi sarebbe
violazione del principio di uguaglianza per la circostanza che gli obblighi di
pubblicazione in esame graverebbero su tutti i dirigenti pubblici, senza alcuna
distinzione. Il giudice a quo osserva che la previsione normativa
assimilerebbe, in tal modo, cariche dirigenziali che, «all’evidenza, non sono
equiparabili fra loro», per «genesi, struttura, funzioni esercitate e poteri
statali di riferimento».
La mancata differenziazione
tra le categorie dirigenziali soggette alla misura, in base, ad esempio,
all’amministrazione di appartenenza, alla qualifica, alle funzioni in concreto
ricoperte, ai compensi percepiti, sarebbe «indice di una non adeguata
calibrazione della disposizione in parola», tenuto conto della molteplicità
delle categorie dirigenziali rinvenibili nell’ordinamento vigente, e della
connessa varietà ed estensione dei segmenti di potere amministrativo
esercitato: la misura riguarderebbe, secondo le elaborazioni dell’Agenzia per
la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni (ARAN), oltre
centoquarantamila dirigenti, senza alcuna considerazione dell’effettivo rischio
corruttivo insito nella funzione svolta, anche in relazione all’entità delle risorse
pubbliche assegnate all’ufficio della cui gestione il soggetto interessato deve
rispondere.
Violerebbe il principio di
uguaglianza anche l’equiparazione, prevista dalle disposizioni censurate, dei
dirigenti pubblici con i titolari di incarichi politici. Sottolinea il
rimettente che la comune soggezione dei titolari di incarichi politici e dei
dirigenti a identici obblighi di pubblicità, stante la diversa durata temporale
che, di norma, caratterizza lo svolgimento delle relative funzioni, si
risolverebbe in una misura particolarmente pervasiva per i secondi,
assoggettati alla disciplina in esame per un periodo corrispondente all’intera
durata del rapporto di lavoro, ponendosi nei loro confronti, diversamente che
per i titolari di incarichi politici, alla stregua di una «condizione della
vita».
La lesione dell’art. 3
Cost. emergerebbe anche sotto il profilo dell’intrinseca irragionevolezza della
disciplina censurata. La divulgazione on line di una quantità enorme di dati
comporterebbe rischi di alterazione, manipolazione e riproduzione di questi
ultimi per finalità diverse da quelle per le quali la loro raccolta e
trattamento sono previsti, con frustrazione delle esigenze di informazione
veritiera e, quindi, di controllo, alla base della normativa.
Le stesse modalità di
diffusione dei dati non supererebbero il test di ragionevolezza e
proporzionalità, riguardando dati reddituali e patrimoniali – relativi non solo
ai dirigenti, ma anche ai loro coniugi e parenti entro il secondo grado, ove
acconsentano, e salva la menzione dell’eventuale mancato consenso – desunti
dalla dichiarazione dei redditi e dunque particolarmente dettagliati, senza
che, come già ricordato, le amministrazioni cui compete la pubblicazione on
line dei dati possano disporre filtri e altre soluzioni tecniche atte a
impedire ai motori di ricerca web di indicizzarli, o di renderli non
consultabili attraverso questi.
Osserva a tale proposito il
rimettente che la «pubblicazione di massicce quantità di dati» non si
tradurrebbe automaticamente nell’agevolazione della ricerca di quelli più
significativi a determinati fini, soprattutto da parte dei singoli cittadini,
rispetto ai quali è anzi lecito supporre la mancanza di disponibilità di
efficaci strumenti di lettura e di elaborazione di dati sovrabbondanti ed
eccessivamente diffusi.
1.3.– Le disposizioni in
esame si porrebbero altresì in contrasto con gli artt. 2 e 13 Cost., poiché i
diritti inviolabili dell’uomo e la libertà personale risulterebbero lesi da
obblighi di pubblicazione funzionali bensì a esigenze di trasparenza
amministrativa, ma non idonei a scongiurare «la diffusione di dati sensibili»,
per un verso superflui ai fini perseguiti dalla disciplina, per altro verso
«suscettibili di interpretazioni distorte».
1.4.– Infine, il TAR Lazio
ritiene di «estendere, d’ufficio, ai sensi dell’art. 23 della l. 11 marzo 1953,
n. 87» le descritte questioni di legittimità costituzionale anche all’art. 14,
comma 1-ter, del d.lgs. n. 33 del 2013, limitatamente all’ultimo periodo e,
dunque, alla parte in cui prevede che l’amministrazione pubblichi sul proprio
sito istituzionale l’ammontare complessivo degli emolumenti percepiti da
ciascun dirigente a carico della finanza pubblica.
Sostiene, infatti, il
rimettente che oggetto della pubblicazione prevista da tale ultimo periodo
della disposizione sarebbe un dato aggregato, che contiene quello di cui al
comma 1, lettera c), dello stesso art. 14, e potrebbe anzi corrispondere del
tutto a quest’ultimo, se il dirigente non percepisca altro emolumento diverso
dalla retribuzione per l’incarico conferitogli.
2.– Va preliminarmente
considerato che il giudice rimettente è consapevole della circostanza per cui,
trattando le norme censurate della pubblicazione in rete di dati reddituali e
patrimoniali relativi a dirigenti delle pubbliche amministrazioni (e ai loro
coniugi e parenti entro il secondo grado), viene in rilievo un trattamento di
dati personali soggetto anche alla disciplina del diritto (comunitario, prima,
e ora) dell’Unione europea.
Del resto, la stessa
ordinanza di rimessione, lamentando che le disposizioni censurate violino
l’art. 117, primo comma, Cost., indica, quali parametri interposti, norme del
diritto europeo sia primario che derivato: argomenta, infatti, l’asserita
lesione del diritto alla vita privata, di quello alla protezione dei dati
personali, dei principi di proporzionalità e pertinenza, sanciti dagli articoli
7, 8 e 52 della CDFUE e dagli artt. 6, paragrafo 1, lettera c), e 7, lettere c)
ed e), della direttiva 95/46/CE.
Al tempo stesso ritiene che
la disciplina legislativa sia in contrasto anche con parametri costituzionali
interni, sostenendo che essa lede l’art. 3 Cost., sotto diversi profili, e gli
artt. 2 e 13 Cost.
Il giudice rimettente è
altresì consapevole della circostanza che, in fattispecie analoga a quella al
suo esame, la Corte di giustizia delle Comunità europee (sentenza
20 maggio 2003, nelle cause riunite C-465/00, C-138/01 e C-139/0120,
Österreichischer Rundfunk e altri) – pur avendo ritenuto, a seguito di
rinvio pregiudiziale, che gli artt. 6, paragrafo 1, lettera c), e 7, lettere c)
ed e), della ricordata direttiva 95/46/CE contengono norme direttamente
applicabili – ha stabilito che la valutazione sul corretto bilanciamento tra il
diritto alla tutela dei dati personali e quello all’accesso ai dati in possesso
delle pubbliche amministrazioni doveva essere rimessa al giudice del rinvio,
escludendo perciò che fosse stata definitivamente compiuta dalla normativa
europea.
Su questi presupposti,
ritiene (punto 17 dell’ordinanza) che le disposizioni interne censurate non
possano essere disapplicate «per contrasto con normative comunitarie», posto
che non sarebbe realmente individuabile una disciplina self-executing di
matrice europea applicabile alla fattispecie oggetto di giudizio.
Afferma, in particolare,
che i principi di proporzionalità, pertinenza e non eccedenza in tema di
trattamento dei dati personali – presidiati dalle norme europee, primarie e
derivate, indicate quali parametri interposti – si presenterebbero non già
quali disposizioni idonee a regolare la fattispecie al suo esame, bensì quali
«criteri» di riferimento per effettuare una «ponderazione della conformità»
della disciplina censurata, mostrando di intendere che tale operazione sia di
segno diverso dalla semplice applicazione o non applicazione di una norma al
fatto.
Escludendo dunque che la
normativa europea offra una soluzione del caso concreto, scartando inoltre la
via di un rinvio pregiudiziale, proprio perché in occasione analoga la Corte di
giustizia aveva devoluto al giudice nazionale la valutazione sul corretto
bilanciamento tra i due diritti potenzialmente confliggenti – quello alla
tutela dei dati personali e quello ad accedere ai dati in possesso delle
pubbliche amministrazioni – decide di sollevare questioni di legittimità
costituzionale sulle disposizioni al suo esame, ritenendo che la valutazione
sul bilanciamento in parola non possa che spettare a questa Corte.
2.1.– Alla luce della
descritta prospettazione, le questioni di legittimità costituzionale sollevate,
sotto lo specifico profilo appena esaminato, sono ammissibili.
Questa Corte (sentenza n. 269 del
2017) ha già rilevato che i principi e i diritti enunciati nella CDFUE
intersecano in larga misura i principi e i diritti garantiti dalla Costituzione
italiana (e dalle altre Costituzioni nazionali degli Stati membri), e che la
prima costituisce pertanto «parte del diritto dell’Unione dotata di caratteri
peculiari in ragione del suo contenuto di impronta tipicamente costituzionale».
Ha aggiunto che, fermi restando i principi del primato e dell’effetto diretto
del diritto dell’Unione europea, occorre considerare la peculiarità delle
situazioni nelle quali, in un ambito di rilevanza comunitaria, una legge che
incide su diritti fondamentali della persona sia oggetto di dubbi, sia sotto il
profilo della sua conformità alla Costituzione, sia sotto il profilo della sua
compatibilità con la CDFUE.
Ha concluso che in tali
casi – fatto salvo il ricorso al rinvio pregiudiziale per le questioni di
interpretazione o di invalidità del diritto dell’Unione europea, ai sensi
dell’art. 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE), come
modificato dall’art. 2 del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007 e
ratificato dalla legge 2 agosto 2008, n. 130 – va preservata l’opportunità di
un intervento con effetti erga omnes di questa Corte, in virtù del principio
che situa il sindacato accentrato di legittimità costituzionale a fondamento
dell’architettura costituzionale (art. 134 Cost.), precisando che, in tali fattispecie,
la Corte costituzionale giudicherà alla luce dei parametri costituzionali
interni, ed eventualmente anche di quelli europei (ex artt. 11 e 117, primo
comma, Cost.), comunque secondo l’ordine che di volta in volta risulti
maggiormente appropriato.
Questo orientamento va
confermato anche nel caso di specie, nel quale principi e diritti fondamentali
enunciati dalla CDFUE intersecano, come meglio si chiarirà, principi e diritti
fondamentali garantiti dalla Costituzione.
Peraltro, tra i parametri
interposti rispetto alla denunciata violazione dell’art. 117, primo comma,
Cost., il giudice rimettente evoca, oltre a disposizioni della CDFUE, anche i
principi di proporzionalità, pertinenza e non eccedenza nel trattamento dei
dati personali, previsti in particolare dagli artt. 6, paragrafo 1, lettera c),
e 7, lettere c) ed e), della direttiva 95/46/CE.
Ciò non induce a modificare
l’orientamento ricordato.
I principi previsti dalla
direttiva si presentano, infatti, in singolare connessione con le pertinenti disposizioni
della CDFUE: non solo nel senso che essi ne forniscono specificazione o
attuazione, ma anche nel senso, addirittura inverso, che essi hanno costituito
"modello” per quelle norme, e perciò partecipano all’evidenza della loro stessa
natura, come espresso nelle Spiegazioni relative alla Carta dei diritti
fondamentali, in cui si legge, in particolare nella «Spiegazione relativa
all’art.8 – Protezione dei dati di carattere personale», che «[q]uesto articolo
è stato fondato sull’articolo 286 del trattato che istituisce la Comunità
europea, sulla direttiva 95/46/CE del Parlamento europeo e del Consiglio
relativa alla tutela delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati
personali nonché alla libera circolazione di tali dati […], nonché sull’articolo
8 della CEDU e sulla convenzione del Consiglio d’Europa sulla protezione delle
persone rispetto al trattamento automatizzato di dati di carattere personale
del 28 gennaio 1981, ratificata da tutti gli Stati membri. […]. La direttiva e
il regolamento [(CE) n. 45/2001 del Parlamento europeo e del Consiglio]
succitati definiscono le condizioni e i limiti applicabili all’esercizio del
diritto alla protezione dei dati personali».
2.2.– L’ammissibilità,
sempre sotto lo specifico profilo ora in esame, delle questioni sollevate,
emerge anche alla luce della circostanza che la disciplina legislativa
censurata, che estende a tutti i dirigenti delle pubbliche amministrazioni
obblighi di pubblicazione di dati già in vigore per altri soggetti, opera, come
si diceva, su un terreno nel quale risultano in connessione – e talvolta anche
in visibile tensione – diritti e principi fondamentali, contemporaneamente
tutelati sia dalla Costituzione che dal diritto europeo, primario e derivato.
Da una parte, il diritto
alla riservatezza dei dati personali, quale manifestazione del diritto
fondamentale all’intangibilità della sfera privata (sentenza n. 366 del
1991), che attiene alla tutela della vita degli individui nei suoi
molteplici aspetti. Un diritto che trova riferimenti nella Costituzione
italiana (artt. 2, 14, 15 Cost.), già riconosciuto, in relazione a molteplici
ambiti di disciplina, nella giurisprudenza di questa Corte (sentenze n. 173 del
2009, n. 372
del 2006, n.
135 del 2002, n.
81 del 1993 e n.
366 del 1991), e che incontra specifica protezione nelle varie norme
europee e convenzionali evocate dal giudice rimettente. Nell’epoca attuale,
esso si caratterizza particolarmente quale diritto a controllare la
circolazione delle informazioni riferite alla propria persona, e si giova, a
sua protezione, dei canoni elaborati in sede europea per valutare la
legittimità della raccolta, del trattamento e della diffusione dei dati
personali. Si tratta dei già ricordati principi di proporzionalità, pertinenza
e non eccedenza, in virtù dei quali deroghe e limitazioni alla tutela della
riservatezza di quei dati devono operare nei limiti dello stretto necessario,
essendo indispensabile identificare le misure che incidano nella minor misura
possibile sul diritto fondamentale, pur contribuendo al raggiungimento dei
legittimi obiettivi sottesi alla raccolta e al trattamento dei dati.
Dall’altra parte, con
eguale rilievo, i principi di pubblicità e trasparenza, riferiti non solo,
quale corollario del principio democratico (art. 1 Cost.), a tutti gli aspetti
rilevanti della vita pubblica e istituzionale, ma anche, ai sensi dell’art. 97
Cost., al buon funzionamento dell’amministrazione (sentenze n. 177
e n. 69 del 2018,
n. 212 del 2017)
e, per la parte che qui specificamente interessa, ai dati che essa possiede e
controlla. Principi che, nella legislazione interna, tendono ormai a
manifestarsi, nella loro declinazione soggettiva, nella forma di un diritto dei
cittadini ad accedere ai dati in possesso della pubblica amministrazione, come
del resto stabilisce l’art. 1, comma 1, del d.lgs. n. 33 del 2013. Nel diritto
europeo, la medesima ispirazione ha condotto il Trattato di Lisbona a inserire
il diritto di accedere ai documenti in possesso delle autorità europee tra le
«Disposizioni di applicazione generale» del Trattato sul funzionamento
dell’Unione, imponendo di considerare il diritto di accesso ad essi quale
principio generale del diritto europeo (art. 15, paragrafo 3, primo comma, TFUE
e art. 42 CDFUE).
I diritti alla riservatezza
e alla trasparenza si fronteggiano soprattutto nel nuovo scenario digitale: un
ambito nel quale, da un lato, i diritti personali possono essere posti in
pericolo dalla indiscriminata circolazione delle informazioni, e, dall’altro,
proprio la più ampia circolazione dei dati può meglio consentire a ciascuno di
informarsi e comunicare.
Non erra, pertanto, il
giudice a quo quando segnala la peculiarità dell’esame cui deve essere soggetta
la disciplina legislativa che egli si trova ad applicare, e quando sottolinea
che tale esame va condotto dalla Corte costituzionale.
2.3.– La "prima parola” che
questa Corte, per volontà esplicita del giudice a quo, si accinge a pronunciare
sulla disciplina legislativa censurata è pertanto più che giustificata dal
rango costituzionale della questione e dei diritti in gioco.
Resta fermo che i giudici
comuni possono sottoporre alla Corte di giustizia dell’Unione europea, sulla
medesima disciplina, qualsiasi questione pregiudiziale a loro avviso
necessaria.
In generale, la
sopravvenienza delle garanzie approntate dalla CDFUE rispetto a quelle della
Costituzione italiana genera, del resto, un concorso di rimedi giurisdizionali,
arricchisce gli strumenti di tutela dei diritti fondamentali e, per
definizione, esclude ogni preclusione.
Questa Corte deve pertanto
esprimere la propria valutazione, alla luce innanzitutto dei parametri
costituzionali interni, su disposizioni che, come quelle ora in esame, pur
soggette alla disciplina del diritto europeo, incidono su principi e diritti
fondamentali tutelati dalla Costituzione italiana e riconosciuti dalla stessa
giurisprudenza costituzionale. Ciò anche allo scopo di contribuire, per la
propria parte, a rendere effettiva la possibilità, di cui ragiona l’art. 6 del
Trattato sull’Unione europea (TUE), firmato a Maastricht il 7 febbraio 1992,
entrato in vigore il 1° novembre 1993, che i corrispondenti diritti fondamentali
garantiti dal diritto europeo, e in particolare dalla CDFUE, siano interpretati
in armonia con le tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri,
richiamate anche dall’art. 52, paragrafo 4, della stessa CDFUE come fonti
rilevanti.
3.– Passando, dunque, al
merito delle questioni sollevate con riferimento all’art. 14, comma 1-bis, del
d.lgs. n. 33 del 2013, il giudice rimettente prospetta il contrasto della
disposizione anche con più parametri costituzionali interni.
Questa Corte, avendo la
facoltà di decidere l’ordine delle censure da affrontare (sentenze n. 148
e n. 66 del 2018),
ritiene di esaminare prioritariamente le questioni di legittimità
costituzionale sollevate in relazione all’art. 3 Cost., evocato sia sotto il
profilo della violazione del principio di ragionevolezza, sia sotto il profilo
della lesione del principio di uguaglianza.
Come si è ricordato, si è
in presenza di una questione concernente il bilanciamento tra due diritti:
quello alla riservatezza dei dati personali, inteso come diritto a controllare
la circolazione delle informazioni riferite alla propria persona, e quello dei
cittadini al libero accesso ai dati ed alle informazioni detenuti dalle
pubbliche amministrazioni.
In valutazioni di tale
natura, il giudizio di ragionevolezza sulle scelte legislative si avvale del
cosiddetto test di proporzionalità, che «richiede di valutare se la norma
oggetto di scrutinio, con la misura e le modalità di applicazione stabilite,
sia necessaria e idonea al conseguimento di obiettivi legittimamente
perseguiti, in quanto, tra più misure appropriate, prescriva quella meno
restrittiva dei diritti a confronto e stabilisca oneri non sproporzionati
rispetto al perseguimento di detti obiettivi» (sentenza n. 1 del
2014, richiamata, da ultimo, dalle sentenze n. 137 del
2018, n. 10
del 2016, n.
272 e n. 23
del 2015 e n.
162 del 2014).
Nella specifica materia in
oggetto, del resto, anche la giurisprudenza europea segue le medesime
coordinate interpretative.
3.1.– La Corte di giustizia
dell’Unione europea ha ripetutamente affermato che le esigenze di controllo
democratico non possono travolgere il diritto fondamentale alla riservatezza
delle persone fisiche, dovendo sempre essere rispettato il principio di
proporzionalità, definito cardine della tutela dei dati personali: deroghe e
limitazioni alla protezione dei dati personali devono perciò operare nei limiti
dello stretto necessario, e prima di ricorrervi occorre ipotizzare misure che
determinino la minor lesione, per le persone fisiche, del suddetto diritto
fondamentale e che, nel contempo, contribuiscano in maniera efficace al
raggiungimento dei confliggenti obiettivi di trasparenza, in quanto
legittimamente perseguiti (sentenze
20 maggio 2003, nelle cause riunite C-465/00, C-138/01 e C-139/01,
Österreichischer Rundfunk e altri, e 9
novembre 2010, nelle cause riunite C-92/09 e 93/09, Volker und Markus Schecke e
Eifert).
Nella pronuncia da ultimo
richiamata, in particolare, si afferma che non può riconoscersi alcuna
automatica prevalenza dell’obiettivo di trasparenza sul diritto alla protezione
dei dati personali (punto 85).
La giurisprudenza della
Corte di giustizia dell’Unione europea ha influenzato lo stesso legislatore
europeo, che ha avviato un ampio processo di revisione del quadro di regole in
materia di protezione dei dati personali, concluso con l’emanazione di un unico
corpus normativo di carattere generale, costituito dal regolamento n.
2016/679/UE, divenuto efficace successivamente ai fatti dai quali originano le
questioni di legittimità costituzionale in esame, ma tenuto in debita
considerazione dal giudice a quo. Esso detta le regole fondamentali per il
trattamento dei dati personali, nozione che include anche la trasmissione, la
diffusione o qualsiasi altra forma di messa a disposizione dei dati (art. 4,
comma 1, numero 2).
I principi che devono
governare il trattamento sono sanciti nell’art. 5, comma 1, del citato
regolamento (che contiene una disciplina sostanzialmente sovrapponibile a
quella delineata dall’art. 6 della ricordata direttiva 95/46/CE) e, tra di
essi, assumono particolare rilievo quelli che consistono: nella limitazione
della finalità del trattamento (lettera b) e nella «minimizzazione dei dati»,
che si traduce nella necessità di acquisizione di dati adeguati, pertinenti e
limitati a quanto strettamente necessario alla finalità del trattamento
(lettera c).
Ancora, un riferimento al
necessario bilanciamento tra diritti si trova nelle premesse al regolamento n.
2016/679/UE (considerando n. 4), ove si legge che «[i]l diritto alla protezione
dei dati di carattere personale non è una prerogativa assoluta ma va
considerato alla luce della sua funzione sociale e va contemperato con altri
diritti fondamentali, in ossequio al principio di proporzionalità».
In definitiva, la
disciplina europea, pur riconoscendo un ampio margine di regolazione autonoma e
di dettaglio agli Stati membri con riguardo a certe tipologie di trattamento
(tra i quali quello connesso, appunto, all’esercizio del diritto di accesso:
art. 86 del regolamento), impone loro il principio di proporzionalità del
trattamento che, come accennato, rappresenta il fulcro della giurisprudenza
della Corte di giustizia dell’Unione europea in materia.
In virtù di tutto quanto
precede, lo scrutinio intorno al punto di equilibrio individuato dal
legislatore sulla questione della pubblicità dei dati reddituali e patrimoniali
dei dirigenti amministrativi va condotto alla stregua del parametro
costituzionale interno evocato dal giudice a quo (art. 3 Cost.), come integrato
dai principi di derivazione europea. Essi sanciscono l’obbligo, per la
legislazione nazionale, di rispettare i criteri di necessità, proporzionalità,
finalità, pertinenza e non eccedenza nel trattamento dei dati personali, pur al
cospetto dell’esigenza di garantire, fino al punto tollerabile, la pubblicità
dei dati in possesso della pubblica amministrazione.
4.– Ai fini di uno
scrutinio così precisato, giova ricordare l’evoluzione normativa che ha
condotto alla disposizione censurata.
4.1.– Allo stato, il d.lgs.
n. 97 del 2016 costituisce, infatti, il punto d’arrivo del processo evolutivo
che ha condotto all’affermazione del principio di trasparenza amministrativa,
che consente la conoscenza diffusa delle informazioni e dei dati detenuti dalle
pubbliche amministrazioni.
La legge 7 agosto 1990, n.
241 (Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di
accesso ai documenti amministrativi), come progressivamente modificata, allo
scopo di abbattere il tradizionale schermo del segreto amministrativo, ha
disciplinato il diritto di accesso ai documenti amministrativi, costruendolo
quale strumento finalizzato alla tutela di colui che ne abbia interesse avverso
atti e provvedimenti della pubblica amministrazione incidenti sulla sua sfera
soggettiva.
Viene dunque inaugurato,
per non essere più abbandonato, un modello di trasparenza fondato sulla
"accessibilità” in cui i dati in possesso della pubblica amministrazione non
sono pubblicati, ma sono conoscibili da parte dei soggetti aventi a ciò
interesse, attraverso particolari procedure, fondate sulla richiesta di accesso
e sull’accoglimento o diniego dell’istanza da parte dell’amministrazione.
A tale sistema viene però
affiancato, attraverso progressive modifiche normative, un regime di
"disponibilità”, in base al quale tutti i dati in possesso della pubblica
amministrazione, salvo quelli espressamente esclusi dalla legge, devono essere
obbligatoriamente resi pubblici e, dunque, messi a disposizione della
generalità dei cittadini.
In questa prospettiva, il
decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150 (Attuazione della legge 4 marzo
2009, n. 15, in materia di ottimizzazione della produttività del lavoro
pubblico e di efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni) offre
una prima definizione di trasparenza, «intesa come accessibilità totale, anche
attraverso lo strumento della pubblicazione sui siti istituzionali delle
amministrazioni pubbliche […]» (art. 11, comma 1).
Oggetto di tale forma di
trasparenza non sono più il procedimento, il provvedimento e i documenti amministrativi,
ma le «informazioni» relative all’organizzazione amministrativa e all’impiego
delle risorse pubbliche, con particolare riferimento alle retribuzioni dei
dirigenti e di coloro che rivestono incarichi di indirizzo
politico-amministrativo.
Tale modello è confermato
dalla legge 6 novembre 2012, n. 190 (Disposizioni per la prevenzione e la
repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione),
con la quale la trasparenza amministrativa viene elevata anche al rango di principio-argine
alla diffusione di fenomeni di corruzione.
La cosiddetta "legge
anticorruzione”, tuttavia – affacciandosi possibili tensioni tra le esigenze di
trasparenza, declinata nelle forme della «accessibilità totale», e quelle di
tutela della riservatezza delle persone – stabilisce limiti generali alla
pubblicazione delle informazioni, che deve infatti avvenire «nel rispetto delle
disposizioni in materia […] di protezione dei dati personali» (art. 1, comma
15), e delega il Governo ad adottare un decreto legislativo per il riordino
della disciplina riguardante gli obblighi di pubblicità (art. 1, comma 35).
La delega è stata
esercitata con l’approvazione del d.lgs. n. 33 del 2013, il cui art. 1 enumera
finalità che riecheggiano quelle già enunciate dall’art. 11, comma 1, del
d.lgs. n. 150 del 2009 (contestualmente abrogato): in particolare,
l’accessibilità totale alle informazioni concernenti l’organizzazione e
l’attività delle pubbliche amministrazioni, sempre con la garanzia della
protezione dei dati personali, mira adesso anche allo scopo di «favorire forme
diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e
sull’utilizzo delle risorse pubbliche».
Si giunge, infine,
all’approvazione del d.lgs. n. 97 del 2016, ove, pur ribadendosi che la trasparenza
è intesa come «accessibilità totale», il legislatore muta il riferimento alle
«informazioni concernenti l’organizzazione e l’attività delle pubbliche
amministrazioni», sostituendolo con quello ai «dati e documenti detenuti dalle
pubbliche amministrazioni (art. 2 del d.lgs. n. 97 del 2016, modificativo
dell’art. 1, comma 1, del d.lgs. n. 33 del 2013)».
Inoltre, la stessa novella
estende ulteriormente gli scopi perseguiti attraverso il principio di
trasparenza, aggiungendovi la finalità di «tutelare i diritti dei cittadini» e
«promuovere la partecipazione degli interessati all’attività amministrativa».
4.2.– Rilievo cruciale,
anche ai fini del presente giudizio, hanno le modalità attraverso le quali le
ricordate finalità della normativa sulla trasparenza vengono perseguite.
In base alle disposizioni
generali del d.lgs. n. 33 del 2013, le pubbliche amministrazioni procedono
all’inserimento, nei propri siti istituzionali (in un’apposita sezione
denominata «Amministrazione trasparente»), dei documenti, delle informazioni e
dei dati oggetto degli obblighi di pubblicazione, cui corrisponde il diritto di
chiunque di accedere ai siti direttamente e immediatamente, senza
autenticazione né identificazione (art. 2, comma 2).
Tutti i documenti, le
informazioni e i dati oggetto di pubblicazione obbligatoria sono pubblici e
chiunque ha diritto di conoscerli, di fruirne gratuitamente, di utilizzarli e
riutilizzarli (art. 3, comma 1).
Le amministrazioni non
possono disporre filtri e altre soluzioni tecniche atte ad impedire ai motori
di ricerca web di indicizzare ed effettuare ricerche all’interno della sezione
«Amministrazione trasparente» (art. 9).
Gli obblighi di
pubblicazione dei dati personali "comuni”, diversi dai dati sensibili e dai
dati giudiziari (questi ultimi, come tali, sottratti agli obblighi di
pubblicazione), comportano perciò la loro diffusione attraverso siti
istituzionali, nonché il loro trattamento secondo modalità che ne consentono la
indicizzazione e la rintracciabilità tramite i motori di ricerca web, e anche
il loro riutilizzo, nel rispetto dei principi sul trattamento dei dati
personali. In particolare, le pubbliche amministrazioni provvedono a rendere
non intelligibili i dati personali non pertinenti (art. 7-bis, comma 1).
Si tratta perciò di
modalità di pubblicazione che privilegiano la più ampia disponibilità dei dati
detenuti dalle pubbliche amministrazioni, ivi inclusi quelli personali. Di
questi ultimi, solo quelli sensibili e giudiziari vengono sottratti alla
pubblicazione, in virtù di tale loro delicata qualità, mentre per gli altri
dati resta il presidio costituito dall’obbligo, gravante sull’amministrazione
di volta in volta interessata, di rendere inintelligibili quelli «non
pertinenti», in relazione alle finalità perseguite dalla normativa sulla
trasparenza.
Va precisato che, nel
presente giudizio di legittimità costituzionale, è all’esame una disposizione
in cui è invece il legislatore ad aver effettuato, ex ante e una volta per
tutte, la valutazione circa la pertinenza, rispetto a quelle finalità, della
pubblicazione di alcuni dati personali di natura reddituale e patrimoniale
concernenti i dirigenti amministrativi e i loro stretti congiunti. Lo stesso legislatore
ne ha dunque imposto la diffusione, assoggettando, con il censurato comma 1-bis
dell’art. 14 del d.lgs. n. 33 del 2013, anche i dirigenti all’obbligo di
pubblicazione, con le modalità appena descritte, dei dati di cui alle lettere
c) ed f) del precedente comma 1.
Questa Corte è perciò
investita del compito di decidere se, ed eventualmente in quale misura, questa
scelta legislativa superi il test di proporzionalità, come più sopra descritto.
5.– Così prospettata, la
questione è parzialmente fondata, nei termini che saranno di seguito precisati,
per violazione, sia del principio di ragionevolezza, sia del principio di
eguaglianza, limitatamente all’obbligo imposto a tutti i titolari di incarichi
dirigenziali, senza alcuna distinzione fra di essi, di pubblicare le
dichiarazioni e le attestazioni di cui alla lettera f) del comma 1 dell’art. 14
del d.lgs. n. 33 del 2013.
5.1.– Nella versione
originaria, il citato art. 14 del d.lgs. n. 33 del 2013, al comma 1, già
imponeva alle amministrazioni interessate la pubblicazione di una serie di
documenti e informazioni, ma tale obbligo si riferiva solo ai titolari di
incarichi politici di livello statale, regionale e locale. I documenti e le
informazioni da pubblicare, in relazione a questi ultimi, erano (e restano): a)
l’atto di nomina o di proclamazione, con l’indicazione della durata
dell’incarico o del mandato elettivo; b) il curriculum; c) i compensi di
qualsiasi natura connessi all’assunzione della carica e gli importi di viaggi
di servizio e missioni pagati con fondi pubblici; d) i dati relativi
all’assunzione di altre cariche, presso enti pubblici o privati, e i relativi
compensi a qualsiasi titolo percepiti; e) gli altri eventuali incarichi con
oneri a carico della finanza pubblica e l’indicazione dei compensi spettanti;
f) i documenti previsti dall’art. 2 della legge n. 441 del 1982, ossia, per
quanto qui d’interesse, una dichiarazione concernente i diritti reali su beni
immobili e su beni mobili iscritti in pubblici registri, le azioni di società,
le quote di partecipazione a società e l’esercizio di funzioni di
amministratore o di sindaco di società, nonché la copia dell’ultima
dichiarazione dei redditi soggetti all’imposta sui redditi delle persone
fisiche (IRPEF), con obblighi estesi al coniuge non separato e ai parenti entro
il secondo grado, ove gli stessi vi abbiano consentito e salva la necessità di
dare evidenza al mancato consenso.
I destinatari originari di
questi obblighi di trasparenza sono titolari di incarichi che trovano la loro
giustificazione ultima nel consenso popolare, ciò che spiega la ratio di tali
obblighi: consentire ai cittadini di verificare se i componenti degli organi di
rappresentanza politica e di governo di livello statale, regionale e locale, a
partire dal momento dell’assunzione della carica, beneficino di incrementi
reddituali e patrimoniali, anche per il tramite del coniuge o dei parenti
stretti, e se tali incrementi siano coerenti rispetto alle remunerazioni
percepite per i vari incarichi.
La novella di cui al d.lgs.
n. 97 del 2016 aggiunge all’art. 14 del d.lgs. n. 33 del 2013 cinque nuovi
commi, tra i quali, appunto, quello censurato, che estende gli obblighi di
pubblicazione ricordati, per quanto qui interessa, ai titolari di incarichi
dirigenziali a qualsiasi titolo conferiti, ivi inclusi quelli attribuiti
discrezionalmente dall’organo di indirizzo politico senza procedure pubbliche
di selezione.
In tal modo, la totalità
della dirigenza amministrativa è stata sottratta al regime di pubblicità
congegnato dall’art. 15 del d.lgs. n. 33 del 2013 – che per essi prevedeva la
pubblicazione dei soli compensi percepiti, comunque denominati – ed è stata
attratta nell’orbita dei ben più pregnanti doveri di trasparenza
originariamente riferiti ai soli titolari di incarichi di natura politica.
5.2.– In nome di rilevanti
obiettivi di trasparenza dell’esercizio delle funzioni pubbliche, e in vista
della trasformazione della pubblica amministrazione in una "casa di vetro”, il
legislatore ben può apprestare strumenti di libero accesso di chiunque alle
pertinenti informazioni, «allo scopo di tutelare i diritti dei cittadini,
promuovere la partecipazione degli interessati all’attività amministrativa e
favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni
istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche» (art. 1, comma 1, del
d.lgs. n. 33 del 2013).
Resta tuttavia fermo che il
perseguimento di tali finalità deve avvenire attraverso la previsione di
obblighi di pubblicità di dati e informazioni, la cui conoscenza sia ragionevolmente
ed effettivamente connessa all’esercizio di un controllo, sia sul corretto
perseguimento delle funzioni istituzionali, sia sul corretto impiego delle
risorse pubbliche.
Proprio da questo punto di
vista, risultano non fondate le questioni di legittimità costituzionale
sollevate in relazione all’obbligo imposto a ciascun titolare di incarico
dirigenziale di pubblicare i dati di cui alla lettera c) dell’art. 14, comma 1,
del d.lgs. n. 33 del 2013, e dunque i compensi di qualsiasi natura connessi
all’assunzione della carica, nonché gli importi di viaggi di servizio e
missioni pagati con fondi pubblici.
La disciplina anteriore
alla novella operata dal d.lgs. n. 97 del 2016 già contemplava la pubblicità
dei compensi, comunque denominati, relativi al rapporto di lavoro dirigenziale,
proprio per agevolare la possibilità di un controllo diffuso, da parte degli
stessi destinatari delle prestazioni e dei servizi erogati
dall’amministrazione, posti così nelle condizioni di valutare, anche sotto il
profilo in questione, le modalità d’impiego delle risorse pubbliche.
Il regime di piena
conoscibilità di tali dati risulta proporzionato rispetto alle finalità
perseguite dalla normativa sulla trasparenza amministrativa, con conseguente
esclusione della prospettata violazione degli artt. 3 e 117, primo comma,
Cost., quest’ultimo in relazione a tutti i parametri interposti evocati.
Si tratta, infatti, di
consentire, in forma diffusa, il controllo sull’impiego delle risorse pubbliche
e permettere la valutazione circa la congruità – rispetto ai risultati
raggiunti e ai servizi offerti – di quelle utilizzate per la remunerazione dei
soggetti responsabili, a ogni livello, del buon andamento della pubblica
amministrazione.
Quanto ai restanti
parametri costituzionali (artt. 2 e 13 Cost.) evocati dal rimettente, in
disparte la stringatezza delle argomentazioni utilizzate a sostegno delle
censure, non si vede come la pubblicazione di tali dati possa mettere a rischio
la sicurezza o la libertà degli interessati, danneggiandone la dignità
personale: si tratta, infatti, dell’ostensione di compensi o rimborsi spese
direttamente connessi all’espletamento dell’incarico dirigenziale.
Di qui, la non fondatezza
delle questioni sollevate anche in riferimento agli artt. 2 e 13 Cost.
5.3.– A diverse conclusioni
deve pervenirsi con riferimento agli obblighi di pubblicazione indicati nella
lettera f) del comma 1 dell’art. 14 del d.lgs. n. 33 del 2013, in quanto
imposti dal censurato comma 1-bis dello stesso articolo, senza alcuna
distinzione, a carico di tutti i titolari di incarichi dirigenziali.
Anche per essi, oltre che
per i titolari di incarichi politici, è ora prescritta la generalizzata
pubblicazione di dichiarazioni e attestazioni contenenti dati reddituali e
patrimoniali (propri e dei più stretti congiunti), ulteriori rispetto alle
retribuzioni e ai compensi connessi alla prestazione dirigenziale.
Si tratta, in primo luogo,
di dati che non necessariamente risultano in diretta connessione con
l’espletamento dell’incarico affidato. Essi offrono, piuttosto, un’analitica
rappresentazione della situazione economica personale dei soggetti interessati
e dei loro più stretti familiari, senza che, a giustificazione di questi
obblighi di trasparenza, possa essere sempre invocata, come invece per i titolari
di incarichi politici, la necessità o l’opportunità di rendere conto ai
cittadini di ogni aspetto della propria condizione economica e sociale, allo
scopo di mantenere saldo, durante l’espletamento del mandato, il rapporto di
fiducia che alimenta il consenso popolare.
L’Avvocatura generale dello
Stato, nelle proprie memorie, giustifica le disposizioni censurate,
evidenziando che, in riferimento ai titolari d’incarichi dirigenziali, il
legislatore avrebbe correttamente adottato misure «ampie e rigorose» al fine,
soprattutto, di contrastare il fenomeno della corruzione nella pubblica
amministrazione, anche in considerazione dei numerosi moniti in tal senso
provenienti da rilevanti organizzazioni internazionali e dalla stessa Unione
europea, e delle rilevazioni internazionali che hanno classificato l’Italia tra
i Paesi in cui è più elevata la percezione della corruzione (da intendersi
anche come carenza di trasparenza).
Tale giustificazione appare
plausibile, ma non conclusiva.
L’Avvocatura generale ha
anche opportunamente ricordato che, in virtù delle numerose clausole di
garanzia della tutela dei dati personali previste dallo stesso d.lgs. n. 33 del
2013, le pubbliche amministrazioni, nel richiedere ai propri dirigenti la
trasmissione dei dati di cui ora si tratta per fini di pubblicità
istituzionale, consentono l’oscuramento dei dati sensibili e giudiziari, nonché
di quelli valutati non pertinenti rispetto alle finalità di trasparenza
perseguite.
A tale cautela risulta
essersi uniformata l’autorità datrice di lavoro nei confronti dei ricorrenti
nel giudizio a quo, ai quali è stato richiesto di oscurare, nella dichiarazione
dei redditi destinata alla pubblicazione, alcuni dati considerati "eccedenti”:
codice fiscale; scelta del destinatario relativa all’otto e al cinque per mille
dell’IRPEF; ammontare delle spese sanitarie; riepilogo delle spese;
sottoscrizioni autografe del dichiarante.
Occorre tuttavia valutare
se e in che misura – al netto di queste operazioni di preventiva scrematura,
pure imposte dalla legge – la conoscenza indiscriminata del residuo, pur sempre
ampio, ventaglio di informazioni e dati personali di natura reddituale e
patrimoniale contenuti nella documentazione oggetto di pubblicazione appaia
necessaria e proporzionata rispetto alle finalità perseguite dalla legislazione
sulla trasparenza.
Ebbene, la disposizione
censurata non risponde alle due condizioni richieste dal test di
proporzionalità: l’imposizione di oneri non sproporzionati rispetto ai fini
perseguiti, e la scelta della misura meno restrittiva dei diritti che si
fronteggiano.
Viola perciò l’art. 3
Cost., innanzitutto sotto il profilo della ragionevolezza intrinseca, imporre a
tutti indiscriminatamente i titolari d’incarichi dirigenziali di pubblicare una
dichiarazione contenente l’indicazione dei redditi soggetti all’IRPEF nonché
dei diritti reali su beni immobili e su beni mobili iscritti in pubblici
registri, delle azioni di società, delle quote di partecipazione a società e
dell’esercizio di funzioni di amministratore o di sindaco di società (con
obblighi estesi al coniuge non separato e ai parenti entro il secondo grado,
ove gli stessi vi consentano e fatta salva la necessità di dare evidenza, in
ogni caso, al mancato consenso).
5.3.1.– L’onere di
pubblicazione in questione risulta, in primo luogo, sproporzionato rispetto
alla finalità principale perseguita, quella di contrasto alla corruzione
nell’ambito della pubblica amministrazione.
La norma impone la
pubblicazione di una massa notevolissima di dati personali, considerata la
platea dei destinatari: circa centoquarantamila interessati (senza considerare
coniugi e parenti entro il secondo grado), secondo le rilevazioni operate
dall’ARAN e citate dal Garante per la protezione dei dati personali (nel parere
reso il 3 marzo 2016 sullo schema di decreto legislativo che, successivamente
approvato dal Governo, come d.lgs. n. 97 del 2016, ha introdotto la
disposizione censurata).
Non erra il giudice
rimettente laddove, considerata tale massa di dati, intravede un rischio di
frustrazione delle stesse esigenze di informazione veritiera e, quindi, di
controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle
risorse pubbliche, poste a base della normativa sulla trasparenza.
La pubblicazione di
quantità così massicce di dati, infatti, non agevola affatto la ricerca di
quelli più significativi a determinati fini (nel nostro caso particolare, ai
fini di informazione veritiera, anche a scopi anticorruttivi) se non siano
utilizzati efficaci strumenti di elaborazione, che non è ragionevole supporre
siano a disposizione dei singoli cittadini.
Sotto questo profilo, la
disposizione in esame finisce per risultare in contrasto con il principio per
cui, «nelle operazioni di bilanciamento, non può esservi un decremento di
tutela di un diritto fondamentale se ad esso non fa riscontro un corrispondente
incremento di tutela di altro interesse di pari rango» (sentenza n. 143 del
2013). Nel caso in esame, alla compressione – indiscutibile – del diritto
alla protezione dei dati personali non corrisponde, prima facie, un
paragonabile incremento né della tutela del contrapposto diritto dei cittadini
ad essere correttamente informati, né dell’interesse pubblico alla prevenzione
e alla repressione dei fenomeni di corruzione.
Tutt’al contrario, la
stessa autorità preposta alla lotta al fenomeno della corruzione, segnala, non
diversamente da quella preposta alla tutela dei dati personali, che il rischio
è quello di generare "opacità per confusione”, proprio per l’irragionevole
mancata selezione, a monte, delle informazioni più idonee al perseguimento dei
legittimi obiettivi perseguiti.
Sono le stesse peculiari
modalità di pubblicazione imposte dal d.lgs. n. 33 del 2013 ad aggravare il
carattere, già in sé sproporzionato, dell’obbligo di pubblicare i dati di cui
si discute, in quanto posto a carico della totalità dei dirigenti pubblici.
L’indicizzazione e la libera
rintracciabilità sul web, con l’ausilio di comuni motori di ricerca, dei dati
personali pubblicati, non è coerente al fine di favorire la corretta conoscenza
della condotta della pubblica dirigenza e delle modalità di utilizzo delle
risorse pubbliche. Tali forme di pubblicità rischiano piuttosto di consentire
il reperimento "casuale” di dati personali, stimolando altresì forme di ricerca
ispirate unicamente dall’esigenza di soddisfare mere curiosità.
Si tratta di un rischio
evidenziato anche dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti
dell’uomo. Alla luce dello sviluppo della tecnologia informatica e
dell’ampliamento delle possibilità di trattamento dei dati personali dovuto
all’automatizzazione, la Corte EDU si è soffermata sulla stretta relazione
esistente tra tutela della vita privata (art. 8 CEDU) e protezione dei dati
personali, interpretando anche quest’ultima come tutela dell’autonomia
personale da ingerenze eccessive da parte di soggetti privati e pubblici (Corte EDU, Grande camera,
sentenze 16 febbraio 2000, Amann contro Svizzera, e 6 aprile 2010, Flinkkilä e
altri contro Finlandia).
In una significativa
pronuncia (sentenza 8
novembre 2016, Magyar contro Ungheria), la Grande camera della Corte EDU ha
osservato come l’interesse sotteso all’accesso a dati personali per fini di
interesse pubblico non può essere ridotto alla "sete di informazioni” sulla
vita privata degli altri («The public interest cannot be reduced to the
public’s thirst for information about the private life of others, or to an
audience’s wish for sensationalism or even voyeurism»: § 162).
5.3.2.– Anche sotto il
secondo profilo, quello della necessaria scelta della misura meno restrittiva
dei diritti fondamentali in potenziale tensione, la disposizione censurata non
supera il test di proporzionalità.
Esistono senz’altro
soluzioni alternative a quella ora in esame, tante quanti sono i modelli e le
tecniche immaginabili per bilanciare adeguatamente le contrapposte esigenze di
riservatezza e trasparenza, entrambe degne di adeguata valorizzazione, ma
nessuna delle due passibile di eccessiva compressione.
Alcune di tali soluzioni –
privilegiate, peraltro, in altri ordinamenti europei – sono state ricordate
anche dal giudice rimettente: ad esempio, la predefinizione di soglie
reddituali il cui superamento sia condizione necessaria per far scattare
l’obbligo di pubblicazione; la diffusione di dati coperti dall’anonimato; la
pubblicazione in forma nominativa di informazioni secondo scaglioni; il
semplice deposito delle dichiarazioni personali presso l’autorità di controllo
competente.
Quest’ultima soluzione, del
resto, era quella adottata prima del d.lgs. n. 97 del 2016, nell’ambito di una
disciplina (art. 13, commi 1 e 3, del d.P.R. 16 aprile 2013, n. 62, contenente
«Regolamento recante codice di comportamento dei dipendenti pubblici, a norma
dell’articolo 54 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165», e tuttora
vigente) che impone ai titolari d’incarichi dirigenziali l’obbligo di fornire
alle amministrazioni di appartenenza, con onere di aggiornamento annuale, le
informazioni sulla propria situazione reddituale e patrimoniale, che però non
erano rese pubbliche (se non su apposita istanza), e, comunque, non con le
modalità previste dal d.lgs. n. 33 del 2013 e in precedenza illustrate.
Non spetta a questa Corte
indicare la soluzione più idonea a bilanciare i diritti antagonisti, rientrando
la scelta dello strumento ritenuto più adeguato nella ampia discrezionalità del
legislatore.
Tuttavia, non si può non
rilevare sin d’ora – e in attesa di una revisione complessiva della disciplina
– che vi è una manifesta sproporzione del congegno normativo approntato
rispetto al perseguimento dei fini legittimamente perseguiti, almeno ove
applicato, senza alcuna differenziazione, alla totalità dei titolari
d’incarichi dirigenziali.
5.4.– La disposizione
censurata, come si è più volte sottolineato, non opera alcuna distinzione
all’interno della categoria dei dirigenti amministrativi, vincolandoli tutti
all’obbligo di pubblicazione dei dati indicati. Il legislatore non prevede
alcuna differenziazione in ordine al livello di potere decisionale o
gestionale. Eppure, è manifesto che tale livello non può che influenzare, sia
la gravità del rischio corruttivo – che la disposizione stessa, come si
presuppone, intende scongiurare – sia le conseguenti necessità di trasparenza e
informazione.
La stessa legislazione
anticorruzione presuppone distinzioni tra i titolari d’incarichi dirigenziali:
l’art. 1, comma 5, lettera a), della legge n. 190 del 2012, infatti, obbliga le
pubbliche amministrazioni centrali a definire e trasmettere al Dipartimento
della funzione pubblica un piano di prevenzione della corruzione che fornisca
«una valutazione del diverso livello di esposizione degli uffici al rischio di
corruzione» e indichi «gli interventi organizzativi volti a prevenire il
medesimo rischio».
A questa stregua, è
corretto l’insistito rilievo del giudice rimettente, che sottolinea come la
mancanza di qualsivoglia differenziazione tra dirigenti risulti in contrasto,
ad un tempo, con il principio di eguaglianza e, di nuovo, con il principio di
proporzionalità, che dovrebbe guidare ogni operazione di bilanciamento tra
diritti fondamentali antagonisti.
Il legislatore avrebbe
perciò dovuto operare distinzioni in rapporto al grado di esposizione
dell’incarico pubblico al rischio di corruzione e all’ambito di esercizio delle
relative funzioni, prevedendo coerentemente livelli differenziati di
pervasività e completezza delle informazioni reddituali e patrimoniali da
pubblicare.
Con riguardo ai titolari di
incarichi dirigenziali, la stessa Autorità nazionale anticorruzione (ANAC),
nell’atto di segnalazione n. 6 del 20 dicembre 2017, ha ritenuto di suggerire
al Parlamento e al Governo una modifica normativa che operi una graduazione
degli obblighi di pubblicazione proprio in relazione al ruolo, alle responsabilità
e alla carica ricoperta dai dirigenti.
Non prevedendo invece una
consimile graduazione, la disposizione censurata si pone in contrasto con
l’art. 3 Cost.
6.– Questa Corte non può
esimersi, tuttavia, dal considerare che una declaratoria d’illegittimità
costituzionale che si limiti all’ablazione, nella disposizione censurata, del
riferimento ai dati indicati nell’art. 14, comma 1, lettera f), lascerebbe del
tutto privi di considerazione principi costituzionali meritevoli di tutela.
Sussistono esigenze di
trasparenza e pubblicità che possono non irragionevolmente rivolgersi nei
confronti di soggetti cui siano attribuiti ruoli dirigenziali di particolare
importanza.
Ha osservato l’Avvocatura
generale dello Stato che «è proprio il fatto di essere permanentemente e
stabilmente al servizio delle pubbliche amministrazioni, con funzioni
gestionali apicali», a costituire la giustificazione del regime aperto, di
massima trasparenza, per i gestori della cosa pubblica.
Sorge, dunque, l’esigenza
di identificare quei titolari d’incarichi dirigenziali ai quali la disposizione
possa essere applicata, senza che la compressione della tutela dei dati
personali risulti priva di adeguata giustificazione, in contrasto con il principio
di proporzionalità.
È evidente, a questo
proposito, che le molteplici possibilità di classificare i livelli e le
funzioni, all’interno della categoria dei dirigenti pubblici, anche in
relazione alla diversa natura delle amministrazioni di appartenenza,
impediscono di operare una selezione secondo criteri costituzionalmente
obbligati.
Non potrebbe essere questa
Corte, infatti, a ridisegnare, tramite pronunce manipolative, il complessivo
panorama, necessariamente diversificato, dei destinatari degli obblighi di
trasparenza e delle modalità con le quali tali obblighi debbano essere attuati.
Ciò spetta alla
discrezionalità del legislatore, al quale il giudice costituzionale, nel
rigoroso rispetto dei propri limiti d’intervento, non può sostituirsi.
Nondimeno, occorre
assicurare, allo stato, la salvaguardia di un nucleo minimo di tutela del
diritto alla trasparenza amministrativa in relazione ai dati personali indicati
dalla disposizione censurata, in attesa di un indispensabile e complessivo
nuovo intervento del legislatore.
Da questo punto di vista,
l’art. 19 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali
sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche),
nell’elencare gli incarichi di funzioni dirigenziali, ai commi 3 e 4 contiene
indicazioni normative che risultano provvisoriamente congruenti ai fini appena
indicati.
Tali commi individuano due
particolari categorie di incarichi dirigenziali, quelli di Segretario generale
di ministeri e di direzione di strutture articolate al loro interno in uffici
dirigenziali generali (comma 3) e quelli di funzione dirigenziale di livello
generale (comma 4).
Le competenze spettanti ai
soggetti che ne sono titolari, come elencate al precedente art. 16 del d.lgs.
n. 165 del 2001, rendono manifesto lo svolgimento, da parte loro, di attività
di collegamento con gli organi di decisione politica, con i quali il
legislatore presuppone l’esistenza di un rapporto fiduciario, tanto da disporre
che i suddetti incarichi siano conferiti su proposta del ministro competente.
L’attribuzione a tali
dirigenti di compiti – propositivi, organizzativi, di gestione (di risorse
umane e strumentali) e di spesa – di elevatissimo rilievo rende non
irragionevole, allo stato, il mantenimento in capo ad essi proprio degli
obblighi di trasparenza di cui si discute.
Come si è detto,
l’intervento di questa Corte non può che limitarsi all’eliminazione, dalla
disposizione censurata, dei profili di più evidente irragionevolezza,
salvaguardando provvisoriamente le esigenze di trasparenza e pubblicità che
appaiano, prima facie, indispensabili.
Appartiene alla
responsabilità del legislatore, nell’ambito dell’urgente revisione complessiva
della materia, sia prevedere eventualmente, per gli stessi titolari degli
incarichi dirigenziali indicati dall’art. 19, commi 3 e 4, modalità meno
pervasive di pubblicazione, rispetto a quelle attualmente contemplate dal
d.lgs. n. 33 del 2013, sia soddisfare analoghe esigenze di trasparenza in
relazione ad altre tipologie di incarico dirigenziale, in relazione a tutte le
pubbliche amministrazioni, anche non statali.
In definitiva, l’art. 14,
comma 1-bis, del d.lgs. n. 33 del 2013, deve essere dichiarato
costituzionalmente illegittimo, per violazione dell’art. 3 Cost., nella parte
in cui prevede che le pubbliche amministrazioni pubblicano i dati di cui
all’art. 14, comma 1, lettera f), dello stesso decreto legislativo, anche per
tutti i titolari di incarichi dirigenziali, a qualsiasi titolo conferiti, ivi
inclusi quelli conferiti discrezionalmente dall’organo di indirizzo politico
senza procedure pubbliche di selezione, anziché solo per i titolari degli
incarichi dirigenziali previsti dall’art. 19, commi 3 e 4, del d.lgs. n. 165
del 2001.
Restano assorbiti tutti gli
altri profili di censura.
7.– Vanno, infine,
dichiarate inammissibili le questioni di legittimità costituzionale aventi ad
oggetto il comma 1-ter dell’art. 14 del d.lgs. n. 33 del 2013.
La disposizione prevede
l’obbligo di pubblicazione degli «emolumenti complessivi» percepiti da ogni
dirigente della pubblica amministrazione a carico della finanza pubblica: a
parere del rimettente, tale pubblicazione costituirebbe un dato aggregato che
contiene quello di cui al comma 1, lettera c), dello stesso articolo e che
potrebbe, anzi, corrispondere del tutto a quest’ultimo, laddove il dirigente
non percepisca altro emolumento se non quello corrispondente alla retribuzione
per l’incarico assegnato.
Le questioni sono
inammissibili, in quanto i provvedimenti impugnati nel giudizio principale non
sono stati adottati in applicazione del comma 1-ter, ma del solo precedente
comma 1-bis dell’art. 14 citato.
Per costante giurisprudenza
costituzionale, sono inammissibili, per difetto di rilevanza, le questioni
sollevate su disposizioni di cui il giudice rimettente non deve fare
applicazione (ex multis, sentenze n. 36 del
2016 e n.
192 del 2015; ordinanze
n. 57 del 2018 e n. 38 del 2017).
Per
Questi Motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 14, comma 1-bis,
del decreto legislativo 14 marzo 2013, n. 33 (Riordino della disciplina
riguardante il diritto di accesso civico e gli obblighi di pubblicità,
trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche
amministrazioni), nella parte in cui prevede che le pubbliche amministrazioni
pubblicano i dati di cui all’art. 14, comma 1, lettera f), dello stesso decreto
legislativo anche per tutti i titolari di incarichi dirigenziali, a qualsiasi
titolo conferiti, ivi inclusi quelli conferiti discrezionalmente dall’organo di
indirizzo politico senza procedure pubbliche di selezione, anziché solo per i
titolari degli incarichi dirigenziali previsti dall’art. 19, commi 3 e 4, del
decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del
lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche);
2) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale
dell’art. 14, comma 1-ter, del d.lgs. n. 33 del 2013, riferite agli artt. 2, 3,
13 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt.
7, 8 e 52 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE),
proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre
2007, all’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e
delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950,
ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848, all’art. 5
della Convenzione n. 108 sulla protezione delle persone rispetto al trattamento
automatizzato di dati di carattere personale, adottata a Strasburgo il 28
gennaio 1981, ratificata e resa esecutiva con la legge 21 febbraio 1989, n. 98,
nonché agli artt. 6, paragrafo 1, lettera c), 7, lettere c) ed e), e 8, paragrafi
1 e 4, della direttiva 95/46/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 24
ottobre 1995, relativa alla tutela delle persone fisiche con riguardo al
trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati,
sollevate dal Tribunale amministrativo regionale del Lazio, sezione prima
quater, con l’ordinanza indicata in epigrafe;
3) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale
dell’art. 14, comma 1-bis, del d.lgs. n. 33 del 2013, nella parte in cui
prevede che le pubbliche amministrazioni pubblichino i dati di cui all’art. 14,
comma 1, lettera c), dello stesso decreto legislativo anche per i titolari di
incarichi dirigenziali, a qualsiasi titolo conferiti, ivi inclusi quelli
conferiti discrezionalmente dall’organo di indirizzo politico senza procedure
pubbliche di selezione, riferite agli artt. 2, 3, 13 e 117, primo comma, Cost.,
quest’ultimo in relazione agli artt. 7, 8 e 52 CDFUE, all’art. 8 CEDU, all’art.
5 della Convenzione di Strasburgo n. 108 del 1981, nonché agli artt. 6,
paragrafo 1, lettera c), 7, lettere c) ed e), e 8, paragrafi 1 e 4, della
direttiva 95/46/CE, sollevate dal TAR Lazio, sezione prima quater, con
l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella
sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23 gennaio 2019.
F.to:
Giorgio LATTANZI,
Presidente
Nicolò ZANON, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria
il 21 febbraio 2019.