SENTENZA N. 173
ANNO 2009
Commento alla decisione di
Andrea Guazzarotti
(per gentile
concessione del Forum di Quaderni
Costituzionali)
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
composta
dai signori:
- Francesco AMIRANTE Presidente
- Ugo DE
SIERVO Giudice
- Paolo MADDALENA ”
- Alfio FINOCCHIARO ”
- Alfonso QUARANTA ”
- Franco GALLO ”
- Luigi MAZZELLA ”
- Gaetano SILVESTRI ”
- Sabino CASSESE ”
- Maria Rita SAULLE ”
- Giuseppe TESAURO ”
- Paolo Maria NAPOLITANO ”
- Giuseppe FRIGO ”
- Alessandro CRISCUOLO ”
- Paolo GROSSI ”
ha
pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità
costituzionale dell’art. 240, commi 3, 4, 5 e 6, del codice di procedura
penale, come modificato dall’art. 1 del decreto-legge 22 settembre 2006, n. 259
(Disposizioni urgenti per il riordino della normativa in tema di
intercettazioni telefoniche), convertito, con modificazioni, dalla legge 20
novembre 2006, n. 281, promossi dal Giudice per le indagini preliminari del
Tribunale di Milano con ordinanza del 30 marzo 2007, dal Giudice per le
indagini preliminari del Tribunale di Vibo Valentia con ordinanza del 21 maggio
2007 e dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano con
ordinanza del 13 dicembre 2007, rispettivamente iscritte al n. 508 del registro
ordinanze 2007 ed ai nn. 50 e 84 del registro
ordinanze 2008, pubblicate nella Gazzetta
Ufficiale della Repubblica n. 27, prima serie speciale, dell’anno 2007 e nn. 11 e 15, prima serie speciale, dell’anno 2008.
Udito
nella camera di consiglio del 22 aprile 2009 il Giudice relatore Gaetano
Silvestri.
Ritenuto in fatto
1. – Il
Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano, con ordinanza del
30 marzo 2007 (r.o. n. 508 del 2007), ha sollevato –
in riferimento agli artt. 24, primo e secondo comma, 111, primo, secondo e
quarto comma, e 112 della Costituzione – questione di legittimità
costituzionale dell’art. 240, commi 3, 4, 5 e 6, del codice di procedura
penale, come modificato dall’art. 1 del decreto-legge 22 settembre 2006, n. 259
(Disposizioni urgenti per il riordino della normativa in tema di
intercettazioni telefoniche), convertito, con modificazioni, dalla legge 20
novembre 2006, n. 281.
Il
rimettente è investito del procedimento incidentale promosso dal pubblico
ministero, in applicazione delle norme censurate, per la distruzione di
supporti digitali recanti informazioni acquisite illegalmente, sequestrati e
trattenuti dallo stesso pubblico ministero, con produzione per l’udienza di
documenti cartacei che descrivono quanto in sequestro.
Il
giudizio principale concerne il rapporto associativo asseritamente
instaurato tra soggetti in diverse condizioni professionali: dirigenti e
dipendenti di società riferibili ad un gruppo operante nel settore della
telefonia, dirigenti e dipendenti di agenzie di investigazione privata,
appartenenti o già appartenenti all’Arma dei Carabinieri, alla Guardia di
Finanza, alla Polizia di Stato, al Sismi. Scopo dell’associazione criminosa
sarebbe stata la raccolta illegale di informazioni riguardanti i più vari
soggetti, con accesso a banche dati riservate per il tramite di pubblici
funzionari corrotti o di dipendenti delle società di telefonia sopra citate. I
dati sarebbero stati raccolti per conto dei responsabili delle agenzie di investigazione,
in vista della remunerazione loro versata dai committenti delle attività
investigative.
Le
contestazioni elevate dal pubblico ministero – secondo quanto riferisce il
rimettente – attengono al delitto previsto dall’art. 416 del codice penale, ed
inoltre prospettano fatti di corruzione per atto contrario ai doveri
dell’ufficio (art. 319 cod. pen.) e di rivelazione ed
utilizzazione del segreto d’ufficio (art. 326 cod. pen.).
L’udienza
camerale è stata promossa dal pubblico ministero con esclusivo riguardo ai
documenti concernenti quattro delle numerose persone assoggettate ad illecite
attività di indagine. Il giudice a quo riferisce
che, in apertura dell’udienza medesima, questioni di legittimità costituzionale
della disciplina concernente l’immediata distruzione dei supporti contenenti le
informazioni acquisite illegalmente sono state prospettate dal rappresentante
della pubblica accusa, dai difensori di tre delle quattro persone offese, ed
anche dalla difesa di una delle persone soggette alle indagini.
1.1. –
Allo scopo di motivare il proprio giudizio di rilevanza e non manifesta
infondatezza delle questioni sollevate, il rimettente ricostruisce i tratti
essenziali del procedimento regolato dal nuovo testo dell’art. 240 cod. proc. pen. In particolare, viene posto in luce come il pubblico
ministero debba formulare richiesta di distruzione del materiale informativo
entro quarantotto ore dall’acquisizione (comma 3), come il giudice debba
fissare l’udienza camerale entro le successive quarantotto ore e non oltre il
decimo giorno dalla richiesta (comma 4), come l’eventuale provvedimento di
accoglimento debba essere deliberato e pronunciato nell’udienza medesima, con
contestuale ed immediata esecuzione (comma 5).
Sebbene
sia chiaro che la sequenza deve muovere da un accertamento ragionevolmente
sicuro della peculiare qualità del materiale da distruggere, l’intera struttura
del procedimento esprime, a parere del rimettente, il carattere precoce e
preliminare dell’adempimento, in armonia del resto con la ratio della previsione, che mira ad elidere in radice il rischio
della pubblicazione di notizie riservate ed acquisite in modo illecito.
Sarebbe
evidente inoltre, sempre secondo il giudice a
quo, come la procedura di distruzione debba essere avviata anche quando le
informazioni riservate coincidano con l’oggetto dell’attività delittuosa cui si
riferisce il procedimento principale (nel caso di specie, la rivelazione del
segreto di ufficio concernente dette informazioni).
1.2. – Il
Tribunale ritiene che le norme censurate contrastino, anzitutto, con il secondo
comma dell’art. 24 Cost., data l’illegittima compressione che ne deriva circa
il diritto di difesa del soggetto indagato o imputato nell’ambito del
procedimento principale.
In
particolare, il rito camerale disciplinato dall’art. 240 cod. proc. pen. – anche attraverso il richiamo al modello generale
dell’art. 127 – non varrebbe ad assicurare garanzie adeguate rispetto alla
funzione cui la procedura è deputata, cioè la produzione di una prova, con valenza
dibattimentale, della provenienza illecita delle informazioni recate dal
documento destinato alla distruzione. La sola possibilità per il giudice di
approfondire aspetti del fatto, data anche la forzata celerità del
procedimento, consisterebbe nell’audizione delle parti presenti, e detta
presenza, d’altro canto, sarebbe del tutto facoltativa (anche per quanto
concerne i difensori tecnici e lo stesso pubblico ministero). In altre parole,
la precostituzione della prova d’accusa sarebbe
rimessa ad un contraddittorio solo eventuale e comunque sommario, il che
varrebbe ad integrare l’ulteriore violazione dell’art. 111, primo, secondo e
quarto comma, Cost.
Il
rimettente precisa che non intende mettere in discussione la scelta legislativa
per una formazione anticipata della prova rispetto alla sede dibattimentale.
Tuttavia tale anticipazione dovrebbe riguardare anche le forme
dell’accertamento dibattimentale, come avviene per l’incidente probatorio, in
guisa da garantire l’effettivo contraddittorio tra le parti e la pienezza del
loro diritto alla prova.
Peraltro,
secondo il Tribunale, il disposto costituzionale sarebbe comunque violato per
effetto della disciplina che concerne il verbale cui resta rimessa – a norma
del comma 1-bis dell’art. 512 cod.
proc. pen. – la prova delle attività illecite
connesse alla formazione od acquisizione del materiale da distruggere. È
infatti prescritto (comma 6 dell’art. 240 cod. proc. pen.)
che il giudice «dia atto» della condotta illecita riscontrata e delle relative
modalità, ed elenchi le persone interessate, ma è precluso ogni riferimento «al
contenuto» dei «documenti, supporti e atti», e dunque alle informazioni la cui
acquisizione sarebbe stata illegittima.
Ciò
comporta, secondo il rimettente, che il giudice del merito non possa prendere
diretta cognizione della prova, e limita la possibilità per l’accusato di
difendersi, ad esempio negando il carattere segreto della notizia raccolta o la
sua acquisizione con modalità illecite. Il riscontro delle tesi in questione
resterebbe precluso, infatti, dopo la distruzione del supporto. Inoltre,
quand’anche fosse raggiunta la prova di colpevolezza, il giudice sarebbe privo
di informazioni essenziali per una adeguata quantificazione della pena, che non
potrebbe prescindere dalla natura delle informazioni acquisite.
In
sostanza, a parere del giudice a quo,
«la procedura di distruzione non è solo una modalità di anticipazione nella
formazione della prova – pure realizzata con modalità che non garantiscono il
diritto di difesa – ma anche di anticipata eliminazione definitiva della prova,
con diretto pregiudizio del diritto di difesa».
1.3. – La
disciplina censurata implicherebbe conseguenze negative, con specifica
violazione del primo comma dell’art. 24 Cost., anche nei confronti della persona
offesa dal reato integrato con l’illecita acquisizione delle informazioni. Il
diritto al risarcimento del danno sarebbe pregiudicato, infatti, dalla
dispersione della prova necessaria per documentarne la sussistenza e la
rilevanza in termini quantitativi, che dipende anche dalla natura
dell’informazione carpita. In breve – e considerato che la prova circa il
fondamento della pretesa risarcitoria deve essere fornita da colui che l’avanza
– sarebbe pregiudicato proprio quel diritto alla riservatezza che la legge
censurata vorrebbe garantire con la massima efficacia.
1.4. – Il
giudice a quo prospetta, ancora, una
violazione dell’art. 112 Cost., perché la distruzione della prova
pregiudicherebbe l’esercizio del potere-dovere di perseguire, da parte del
pubblico ministero, i reati finalizzati all’acquisizione illegittima delle
relative informazioni. Il verbale «sostitutivo» prescritto dal legislatore, per
le ragioni già indicate, potrebbe infatti risultare insufficiente. La precocità
della distruzione, rispetto allo stesso sviluppo delle investigazioni
preliminari, varrebbe d’altra parte a pregiudicare l’identificazione e la
punizione di tutti i responsabili del fatto accertato.
1.5. –
L’ordinanza di rimessione prospetta, in conclusione, una «irragionevolezza di
fondo della normativa in oggetto, in comparazione con i valori che essa vuole
proteggere». In sostanza, il legislatore non avrebbe compiuto un corretto
bilanciamento tra le esigenze contrapposte, sacrificando completamente, in
favore del diritto alla riservatezza, i valori connessi all’accertamento del
fatto, tra i quali primeggia, per altro, proprio la tutela (in chiave
sanzionatoria) del diritto di riservatezza della persona offesa.
2. – Il
Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Vibo Valentia, con
ordinanza del 21 maggio 2007 (r.o. n. 50 del 2008),
ha sollevato – in riferimento agli artt. 24, 111, primo, secondo e quarto
comma, e 112 Cost. – questione di
legittimità costituzionale dell’art. 240, commi 3, 4, 5 e 6, cod. proc. pen., come modificato dall’art. 1 del decreto-legge n. 259
del 2006, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 281 del 2006.
Il
rimettente è investito del procedimento incidentale promosso dal pubblico
ministero, in applicazione delle norme censurate, per la distruzione di
materiali pertinenti ad informazioni acquisite illegalmente. Si tratta, nella
specie, del supporto digitale contenente documenti sonori, asseritamente
relativi a conversazioni intrattenute da una persona di sesso femminile
nell’abitacolo della propria vettura. I colloqui, stando alle contestazioni
elevate dal pubblico ministero, sarebbero stati captati mediante l’uso di una
microspia collocata nel veicolo dal marito dell’interessata. Quest’ultimo
avrebbe minacciato di diffondere pubblicamente il contenuto delle conversazioni
registrate se la donna non avesse rinunciato al giudizio di separazione da lei
promosso ed al versamento della somma mensile già assegnatale dalla competente
autorità giudiziaria.
Nel
giudizio principale si procede, quindi, per i delitti di cui all’art. 615-bis (Interferenze illecite nella vita
privata) ed agli artt. 56 e 629 (Estorsione tentata) del codice penale. Il
supporto digitale indicato è stato prodotto nel corso dell’udienza preliminare
dalla persona offesa, cui l’imputato l’aveva fatto pervenire per mezzo di un
intermediario. Dopo l’acquisizione, la polizia giudiziaria ne ha verificato il
contenuto, comunicando che si tratta di conversazioni scarsamente
intellegibili, anche tra più persone, con forti rumori di traffico sullo
sfondo. Il pubblico ministero, di conseguenza, ha promosso il procedimento
incidentale regolato dalle norme censurate.
Nel corso
dell’udienza camerale, peraltro, lo stesso pubblico ministero ha chiesto
sollevarsi una questione di legittimità costituzionale con riguardo alla
procedura avviata, ed alla richiesta si sono sostanzialmente associati i
difensori della persona offesa e dell’imputato.
2.1. – In
punto di rilevanza il rimettente osserva, anzitutto, come il materiale del
quale è richiesta la distruzione costituisca il corpo del reato di cui all’art.
615-bis cod. pen.,
oltre che il mezzo per l’esecuzione del tentato delitto di estorsione. Lo
stesso rimettente, tuttavia, pone un diverso problema circa l’effettiva
applicabilità dell’art. 240 cod. proc. pen. alla
fattispecie oggetto del giudizio.
La
questione nasce dal tenore della norma censurata, che prescrive la distruzione
«dei documenti, dei supporti e degli atti concernenti dati e contenuti di
conversazioni o comunicazioni, relativi a traffico telefonico e telematico,
illegalmente formati o acquisiti». La lettera della legge, secondo il
Tribunale, non comprende le comunicazioni tra presenti, e non potrebbe essere
forzata fino al punto di ritenere che la specificazione circa l’uso di
strumenti telefonici o telematici riguardi unicamente i «dati», con la
conseguenza che il riferimento alle «conversazioni o comunicazioni» si
estenderebbe anche ai casi di scambi comunicativi captati nell’ambiente in cui
si svolgono.
Tuttavia,
sempre a parere del Tribunale, la normativa sarebbe applicabile al caso di
specie per il mezzo dell’analogia, che l’art. 14 delle disposizioni preliminari
al codice civile preclude per le sole leggi penali od eccezionali. Le
previsioni censurate non sarebbero riconducibili ad alcuno dei due concetti.
Per legge eccezionale, in particolare, dovrebbe intendersi una disposizione
che, stante una disciplina generale per un dato fenomeno, introduce per alcune
fattispecie una «interruzione della conseguenza logica» di tale disciplina. Nel
caso in esame, secondo il rimettente, non esisterebbe una regola di portata
generale rispetto alla quale le disposizioni censurate possano porsi in
rapporto di deroga.
2.2. – Un
primo profilo di illegittimità costituzionale è individuato dal giudice a quo nella violazione del diritto di
difesa dell’indagato. Pur dovendo culminare la procedura camerale nella
formazione di una prova circa l’illecita acquisizione dei dati, è adottato un
modello procedimentale di forma semplificata, che non contempla accertamenti su
iniziativa delle parti o del giudice e non prescrive la partecipazione
necessaria del difensore dell’accusato. In sostanza, la procedura vorrebbe
emulare quella dell’incidente probatorio, senza però riprodurne il carattere
anticipatorio delle forme e delle garanzie dibattimentali, e dunque violando il
secondo comma dell’art. 24 e l’art. 111, primo, secondo e quarto comma, Cost.
D’altra
parte, il verbale la cui redazione è prescritta al giudice deve necessariamente
omettere la descrizione delle informazioni acquisite illegalmente, ed è dunque
inidoneo alla piena verifica dei fatti, che resta preclusa irrimediabilmente
dopo la distruzione del supporto cui si riferisce il procedimento.
Proprio
tale circostanza, secondo il rimettente, vale a documentare la violazione
concomitante dell’art. 112 Cost., atteso che la precoce ed irrimediabile
eliminazione della prova del reato contraddirebbe il principio del
perseguimento obbligatorio del reato medesimo. In effetti la procedura regolata
dalle norme censurate non è finalizzata ad accertare la responsabilità
dell’indagato e, d’altra parte, nella sede deputata a tale accertamento, la
prova necessaria non sarebbe più disponibile. La disciplina censurata, dunque,
non varrebbe ad assicurare un ragionevole bilanciamento tra l’esigenza di
protezione della riservatezza e l’interesse, di rango costituzionale, al
perseguimento dei reati.
Infine, a
parere del rimettente, sussiste una violazione del primo comma dell’art. 24
Cost. in relazione al diritto della persona offesa di ottenere un risarcimento
per il torto subito, dato che la distruzione della prova pregiudica la
possibilità di documentare in giudizio il fondamento della relativa pretesa.
Giudizio che, nella specie, è lo stesso finalizzato alla verifica della
responsabilità penale dell’imputato, posto che la vittima dell’illecita
captazione si è costituita parte civile e si è opposta, non casualmente,
all’applicazione di regole che pure dovrebbero tutelare il suo diritto alla
riservatezza.
3. – Il
Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano, con ordinanza del
13 dicembre 2007 (r.o. n. 84 del 2008), ha sollevato
– in riferimento agli artt. 24, primo e secondo comma, 111, primo, secondo e
quarto comma, e 112 Cost. – questione di legittimità costituzionale dell’art.
240, commi 3, 4, 5 e 6, cod. proc. pen., come
modificato dall’art. 1 del decreto-legge n. 259 del 2006, convertito, con
modificazioni, dalla legge n. 281 del 2006.
Il
rimettente è investito della richiesta di archiviazione formulata dal pubblico
ministero in un procedimento per falsa testimonianza (art. 372 cod. pen.), relativamente alle dichiarazioni rese, dal dirigente
di una grande azienda multinazionale, nel giudizio civile che un dipendente
della stessa azienda aveva promosso impugnando il proprio licenziamento. Tale
dipendente, nell’opporsi ex art. 410
cod. proc. pen. all’accoglimento della richiesta di
archiviazione, ha riferito tra l’altro di comportamenti vessatori dell’azienda,
che si sarebbero spinti fino allo svolgimento di illecite attività di indagine
sulla sua vita privata.
Secondo
quanto riferito dal giudice a quo, le
indagini in questione sarebbero state commissionate ad una delle agenzie
investigative coinvolte nel procedimento ove è stata deliberata l’ordinanza r.o. n. 508 del 2007 (supra, § 1). Nel contesto di tale
procedimento, sempre secondo il rimettente, sarebbe stato rinvenuto e
sequestrato, tra gli altri, un incartamento relativo al dipendente poi
licenziato.
Il
Tribunale riferisce d’avere respinto una prima volta la richiesta di
archiviazione, ordinando il compimento di ulteriori indagini, una delle quali
consistente nell’acquisizione del dossier
commissionato dalla società convenuta nella causa di lavoro cui già si è fatto
cenno. Il pubblico ministero avrebbe dato corso alle altre richieste, facendo
però constatare la giuridica impossibilità di procedere all’acquisizione dei
documenti recanti le informazioni illegalmente raccolte con riguardo
all’odierno opponente.
Tali
informazioni infatti – sempre stando alle indicazioni poi riprese dal
rimettente – sarebbero state acquisite mediante la corruzione di pubblici
ufficiali. Il relativo materiale di supporto sarebbe dunque oggetto, a norma
del comma 2 dell’art. 240 cod. proc. pen., di un
divieto assoluto di utilizzazione e di riproduzione, ivi comprese le attività
necessarie per «travasare» ed apprezzare gli elementi di prova nel procedimento
in corso avanti al giudice rimettente.
Il
Tribunale prosegue riferendo d’aver celebrato, a questo punto, una nuova
udienza camerale, «per prendere cognizione della situazione», e che nel corso
di tale udienza pubblico ministero ed indagato avrebbero insistito per
l’accoglimento della richiesta di archiviazione, mentre la persona offesa
avrebbe sollecitato un provvedimento di «imputazione coatta» con riguardo
all’ipotizzato delitto di falsa testimonianza. Nessuna di tali soluzioni, però,
risulterebbe «soddisfacente». Per un verso, infatti, la prova del dolo di falsa
testimonianza non sarebbe allo stato adeguata. Essa potrebbe essere integrata, però,
alla luce delle informazioni desumibili dal dossier
(lo stesso rimettente riferisce, per altro, che il dirigente chiamato a
testimoniare nella causa di lavoro, su circostanze pertinenti al rendimento del
dipendente licenziato, era stato assunto dall’azienda in epoca successiva
all’esaurimento delle «attività di spionaggio»).
A questo
punto il giudice a quo, dato atto che
nel procedimento concernente l’acquisizione illegale di informazioni (condotto
da altro magistrato del suo stesso Ufficio) è stata sollevata questione di
legittimità costituzionale dell’art. 240 cod. proc. pen.
(supra, §
1), assume che, nell’ambito del procedimento di archiviazione che lo riguarda,
sarebbe «necessario muoversi nella medesima direzione».
3.1. – Le
questioni di legittimità sono prospettate, in sostanza, attraverso una sintesi
del petitum e degli argomenti che caratterizzano
l’ordinanza r.o. n. 508 del 2007.
Venendo
al caso per cui procede, il Tribunale evidenzia in particolare la compressione
«dei diritti del denunziante e opponente alla richiesta di archiviazione».
Infatti, il procedimento per falsa testimonianza sarebbe «collegato» a quello
che concerne l’illecita raccolta delle informazioni, e la «testimonianza e
l’atteggiamento soggettivo» dell’indagato potrebbero essere «illuminati e
meglio compresi proprio disponendo di una conoscenza completa degli episodi
assai inquietanti che l’avrebbero preceduta e cioè lo "spionaggio” illegale in
danno del dipendente poi licenziato». La vittima delle illecite attività
investigative potrebbe poi subire un pregiudizio, in vista della tutela della
propria onorabilità, per la mancata conoscenza di dettaglio delle informazioni
acquisite in suo danno, poiché il relativo supporto potrebbe essere stato
riprodotto e distribuito a terzi prima dell’intervenuto sequestro.
Per tali
ragioni la questione di legittimità dell’art. 240 cod. proc. pen. sarebbe rilevante anche nel giudizio a quo. In particolare, «pur apparendo di
più diretta rilevanza, per le caratteristiche del caso in esame, con
riferimento alla prospettabile violazione dell’art. 24 comma primo della
Costituzione e quindi dei diritti delle persone offese», la questione dovrebbe
essere sollevata per tutti i profili già evocati con l’ordinanza r.o. n. 508 del
Considerato in diritto
1. – Con
le tre ordinanze indicate in epigrafe, i Giudici per le indagini preliminari
dei Tribunali di Milano e Vibo Valentia sollevano questioni di legittimità
costituzionale dell’art. 240, commi 3, 4, 5 e 6, del codice di procedura
penale, come modificato dall’art. 1 del decreto-legge 22 settembre 2006, n. 259
(Disposizioni urgenti per il riordino della normativa in tema di
intercettazioni telefoniche), convertito, con modificazioni, dalla legge 20
novembre 2006, n. 281.
Le
disposizioni vengono censurate in quanto stabiliscono che i supporti recanti
dati illegalmente acquisiti a proposito di comunicazioni telefoniche o
telematiche, o informazioni illegalmente raccolte, debbano essere distrutti in
esito ad una udienza camerale celebrata dal giudice per le indagini
preliminari, e che in proposito debba essere redatto un verbale, nel quale si
dia «atto dell’avvenuta intercettazione o detenzione o acquisizione illecita»,
nonché «delle modalità e dei mezzi usati oltre che dei soggetti interessati», e
tuttavia venga omesso qualsiasi «riferimento al contenuto» dei documenti,
supporti ed atti concernenti le informazioni raccolte.
Anzitutto
la disciplina contrasterebbe con gli articoli 24, secondo comma, e 111, primo,
secondo e quarto comma, della Costituzione. Infatti la procedura prescritta
dalle norme censurate, pur essendo finalizzata alla distruzione del corpo del
reato concernente l’illecita acquisizione dei dati, e pur dovendo culminare
nella formazione di un verbale destinato alla lettura in sede dibattimentale,
si svolge in forma camerale, alla presenza solo eventuale delle parti e dei
difensori, senza possibilità di approfondimenti istruttori, e dunque con esercizio
solo eventuale del diritto di difesa e del contraddittorio.
Gli
stessi parametri costituzionali risulterebbero violati anche in una diversa
prospettiva: la distruzione dei supporti recanti le informazioni acquisite
illegalmente, e la concomitante assenza di riferimenti all’oggetto ed alla
natura di tali informazioni nel verbale destinato alla lettura dibattimentale,
sarebbero pregiudizievoli per il diritto di difesa ed il diritto alla prova del
soggetto accusato dell’illecita raccolta, impedendo la verifica del carattere
riservato delle informazioni e, comunque, della loro acquisizione mediante
modalità illecite.
Viene
prospettata, ancora, una violazione del primo comma dell’art. 24 Cost., poiché
la distruzione dei supporti di cui si tratta, e la concomitante assenza di
riferimenti all’oggetto ed alla natura delle informazioni illegalmente
acquisite nel verbale destinato alla lettura dibattimentale, pregiudicherebbero
il diritto della persona offesa di agire in giudizio per ottenere il
risarcimento del danno subito.
Sarebbe
infine vulnerato il principio sancito nell’art. 112 Cost., in quanto la
soppressione della prova del reato connesso all’illecita acquisizione dei dati
comprometterebbe l’efficace esercizio dell’azione penale in relazione a tale
reato, anche con riferimento ai fattori che rilevano per la quantificazione
della pena in caso di condanna.
2. – In
via preliminare, data la sostanziale identità delle questioni proposte dai
Giudici rimettenti, è opportuno disporre la riunione dei relativi giudizi.
3. – La
questione sollevata dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di
Vibo Valentia (r.o. n. 50 del 2008) è inammissibile.
Il
rimettente ha posto in adeguato rilievo la circostanza che, nel caso sottoposto
alla sua valutazione, non si discute dell’intercettazione di comunicazioni
telefoniche o telematiche, ma dell’illecita captazione di colloqui tra persone
presenti (trascurando, per altro, il problema della qualificazione penalistica
di intercettazioni effettuate da soggetti privati nell’abitacolo di veicoli, la
cui considerazione come luoghi di privata dimora è da lungo tempo controversa).
Lo stesso giudice a quo, in
particolare, ha osservato come il secondo comma dell’art. 240 cod. proc. pen. – cioè la norma che delimita l’oggetto della procedura
regolata dalle disposizioni immediatamente successive – si riferisca a «dati e
contenuti» concernenti comunicazioni relative a «traffico telefonico e
telematico», e ne ha dedotto che la previsione non comprende la captazione di
conversazioni attuate senza l’ausilio di mezzi tecnici di teletrasmissione.
Tale opinione, che trova riscontro nella lettera della norma censurata, è stata
significativamente anticipata nel corso della discussione parlamentare
culminata con l’approvazione della legge n. 281 del 2006 ed è condivisa,
inoltre, da molti degli studiosi che hanno commentato la disciplina in esame.
Sennonché,
proprio in aderenza alla conclusione cui perviene il rimettente, deve
constatarsi l’irrilevanza della questione sollevata, posto che il materiale
preso in esame nel giudizio a quo non
è compreso nell’ambito dei documenti assoggettabili alla procedura di
distruzione. Non può condividersi, in particolare, l’assunto secondo cui
l’elencazione contenuta nel comma 2 dell’art. 240 cod. proc. pen. sarebbe suscettibile di estensione in via analogica,
secondo il disposto dell’art. 12 delle disposizioni preliminari al codice
civile. L’interpretazione analogica è preclusa tra l’altro, a norma dell’art.
14 delle disposizioni appena citate, per le cosiddette leggi eccezionali. Si
comprende facilmente, pur senza accedere ad una ricostruzione di dettaglio
delle norme sull’utilizzazione processuale e sulla destinazione delle cose in
sequestro, che la procedura di distruzione immediata dei materiali in
discussione costituisce, per una molteplicità di profili, una deroga a
disposizioni di carattere generale.
La durata
del sequestro cosiddetto probatorio, quando non ricorrono i presupposti per la
restituzione della cosa sequestrata all’avente diritto, coincide con la durata
del relativo procedimento penale (art. 262 cod. proc. pen.),
fatta eccezione per alcune ipotesi che, a loro volta, sono derogatorie d’una
regola generale. Gli stessi documenti anonimi, alla cui disciplina il
legislatore del
Si deve
ribadire, dunque, che la disciplina censurata presenta carattere eccezionale e
come tale va applicata secondo regole di stretta interpretazione. Da ciò deriva
che il rimettente non è chiamato a fare applicazione delle norme da lui stesso
sospettate di illegittimità costituzionale. La questione sollevata, di
conseguenza, è inammissibile per difetto di rilevanza.
4. – Ad
una conclusione analoga si deve pervenire con riguardo alla la questione
sollevata dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano con
l’ordinanza r.o. n. 84 del 2008.
Risulta
infatti, con chiarezza, che il rimettente non deve fare alcuna applicazione
delle norme oggetto di censura, non essendo giudice di una procedura
incidentale regolata dai commi 3 e seguenti dell’art. 240 cod. proc. pen.
Le
doglianze del rimettente si concentrano, in sostanza, sulla preclusione
dell’accesso ad una prova raccolta in un diverso procedimento. Sennonché tale
preclusione scaturisce, per il divieto di utilizzazione e comunque per
l’impossibilità di formare copie del materiale sequestrato, dal secondo comma
dell’art. 240 cod. proc. pen., norma che lo stesso
rimettente non ha censurato. Egli ha inteso riprendere, piuttosto, rilievi
concernenti la procedura finalizzata alla distruzione dei supporti recanti le
indagini asseritamente compiute a carico
dell’opponente, cioè disposizioni procedurali che, nella sua prospettiva, sono
del tutto irrilevanti. La questione dei diritti e delle garanzie spettanti alla
vittima della presunta acquisizione illegale di informazioni ha motivo di porsi
solo nella procedura incidentale finalizzata alla distruzione dei relativi
supporti, e questo vale per qualunque conseguenza possa derivare, in via di
fatto, dall’accoglimento della relativa richiesta.
5. – La
questione di legittimità costituzionale proposta dal Giudice per le indagini
preliminari del Tribunale di Milano con l’ordinanza r.o.
n. 508 del 2007 è fondata, nei limiti di seguito precisati.
5.1. – Le
ragioni delle censure del rimettente nei confronti delle disposizioni oggetto
del presente giudizio poggiano sulla ritenuta irragionevole sproporzione tra la
tutela apprestata per il diritto alla riservatezza e quella assicurata al
diritto di difesa, al diritto di azione ed ai principi del giusto processo e di
obbligatorietà dell’azione penale. Nel bilanciamento tra i suddetti diritti e
principi fondamentali, il legislatore avrebbe sacrificato pressoché interamente
i secondi in favore del primo. Da questa considerazione il giudice a quo fa discendere il petitum dell’atto
introduttivo, consistente nella richiesta di declaratoria di illegittimità
costituzionale delle disposizioni censurate.
5.2. –
L’assunto del rimettente può essere condiviso solo in parte, proprio per
l’esigenza, dallo stesso sottolineata, di mantenere nella disciplina in materia
un corretto equilibrio tra diritti e principi fondamentali.
Deve
preliminarmente porsi in rilievo che la normativa oggetto della presente
questione è stata approvata per porre rimedio ad un dilagante e preoccupante
fenomeno di violazione della riservatezza, che deriva dalla incontrollata
diffusione mediatica di dati e informazioni personali, sia provenienti da
attività di raccolta e intercettazione legalmente autorizzate, sia – fatto più
grave, che riguarda direttamente il presente giudizio – effettuate al di fuori
dell’esercizio di ogni legittimo potere da pubblici ufficiali o da privati
mossi da finalità diverse, che comunque non giustificano l’intrusione nella
vita privata delle persone.
La
preoccupazione del legislatore è stata quella di evitare che la doverosa
osservanza delle norme che impongono la pubblicità degli atti del processo
possa risolversi in un ulteriore danno per le vittime delle illecite
interferenze, le quali, oltre ad aver subito indebite intrusioni nella propria
sfera personale, rimarrebbero esposte, per un lungo periodo, al rischio che il
frutto dell’attività illegale di informazione e intercettazione possa diventare
strumento di campagne diffamatorie e delegittimanti nei loro riguardi. Il
pericolo è apparso aumentato per la constatazione, di comune esperienza, che
non è garantita, nelle condizioni normative ed organizzative attuali, una
adeguata tenuta della segretezza degli atti custoditi negli uffici giudiziari,
come purtroppo dimostrano le frequenti «fughe» di notizie e documenti.
L’intento
di prevenire tali possibili abusi ha indotto lo stesso legislatore ad introdurre
una disciplina derogatoria rispetto alla normativa ordinaria sulla
conservazione del corpo di reato: i documenti, i supporti e gli atti
concernenti dati e contenuti di conversazioni e comunicazioni, relativi a
traffico telefonico e telematico, illegalmente formati e acquisiti, devono
essere distrutti, per disposizione del giudice per le indagini preliminari, al
più presto possibile, nell’ambito di un procedimento incidentale molto rapido,
che deve precedere la chiusura delle indagini preliminari.
6. –
Ritiene questa Corte che la finalità di assicurare il diritto inviolabile alla
riservatezza della corrispondenza e di ogni altro mezzo di comunicazione,
tutelato dagli artt. 2 e 15 Cost. (ex plurimis, sentenze
n. 366 del 1991,
n. 81 del 1993,
n. 463 del 1994,
n. 372 del 2006),
cui deve aggiungersi uguale diritto fondamentale riguardante la vita privata
dei cittadini nei suoi molteplici aspetti, non giustifichi una eccessiva
compressione dei diritti di difesa e di azione e del principio del giusto
processo. La limitazione in eccesso deriva dall’aver delineato il procedimento
incidentale, volto alla distruzione del materiale sequestrato di cui sopra,
secondo il modello processuale di cui all’art. 127 cod. proc. pen., nella parte in cui configura un contraddittorio solo
eventuale.
Peraltro
lo stesso comma 5 dell’art. 240 cod. proc. pen. fa
riferimento all’obbligo per il giudice di sentire solo le parti «comparse» e
rende in tal modo incontrovertibile il carattere tendenzialmente sommario della
procedura.
A ciò si
deve aggiungere che il provvedimento con cui il giudice ordina la distruzione
del corpo di reato (a prescindere dalla sua discussa impugnabilità) determina,
in forza dell’immediata esecuzione materiale, la conseguenza che qualunque
violazione dei diritti delle parti, derivante dall’imperfezione del
contraddittorio, diviene irreparabile.
6.1. –
L’irreparabilità delle eventuali violazioni dei diritti delle parti non è
compensata dalla sostituzione dei documenti, atti e supporti fisicamente
eliminati con il verbale di cui al comma 6 dell’art. 240 cod. proc. pen., giacché il divieto di inserire nel verbale alcun
riferimento al contenuto dei predetti documenti, supporti e atti e l’espressa
limitazione della descrizione alle «modalità e ai mezzi» con cui il materiale è
stato acquisito, determinano, nel seguito del procedimento, una condizione di
estrema difficoltà nell’esercizio del diritto di difesa degli imputati, del
diritto al risarcimento dei danni delle parti offese e nell’effettivo esercizio
dell’azione penale, da parte del pubblico ministero.
Inoltre,
una restrizione del contraddittorio nell’ambito di un procedimento che, per il
fatto di culminare nella distruzione di corpi di reato, incide fortemente sullo
svolgimento successivo del processo, costituisce, di per sé, una violazione dei
principi del giusto processo, dettati dall’art. 111 Cost. La medesima
restrizione produce pure, come conseguenza inevitabile della prima illegittimità,
una eccessiva limitazione dei diritti di difesa e di azione e dell’efficiente
esercizio dell’azione penale. Sulla base di questa considerazione, lo scrutinio
di costituzionalità si deve appuntare sull’effetto combinato della norma che
limita il contraddittorio nel procedimento incidentale de quo e di quella che prescrive la formazione di un verbale – come
si vedrà meglio appresso – troppo povero di contenuti.
Nel corso
dei lavori parlamentari, che hanno preceduto l’approvazione delle norme censurate,
è stato sottolineato che, a causa del contenuto troppo limitato del verbale
sostitutivo, si introduceva una «prova diabolica», che le parti non sarebbero
state in grado di sostenere. A tal proposito, si deve ricordare che questa
Corte ha affermato e ribadito nella propria giurisprudenza che non è
sufficiente l’astratta previsione del diritto di difesa (e, più in generale,
dei diritti delle parti nel processo), ma è necessario che sia garantito il suo
effettivo esercizio (ex plurimis, sentenze n. 212 del 1997,
n. 62 del 2008,
n. 20 del 2009).
La determinazione, per effetto di previsioni normative, di situazioni di grave
difficoltà nel normale esercizio del diritto delle parti alla prova incide
sulla sua effettività ed è, alla luce dei principi affermati dalla
giurisprudenza citata, costituzionalmente inaccettabile.
6.2. –
D’altra parte, la pressante esigenza di dare al diritto fondamentale alla
riservatezza una tutela più intensa, rispetto a quella, rivelatasi
insufficiente, del recente passato, induce a ritenere non irragionevoli
particolari modalità di trattamento del materiale probatorio, che riescano a
contemperare tutti i diritti e principi fondamentali coinvolti in questa
delicata materia. Le modalità di bilanciamento tra i suddetti diritti e
principi sono molteplici e non spetta a questa Corte, ma al legislatore,
individuare possibili soluzioni nell’ambito della disciplina del processo
penale. Nel presente giudizio le valutazioni che il giudice delle leggi è
chiamato ad esprimere sono necessariamente limitate dall’oggetto della
questione ed in questa cornice deve essere ricercato il punto di equilibrio tra
le diverse e potenzialmente opposte esigenze, tutte costituzionalmente
protette, che vengono in rilievo. Diversi e migliori equilibri possono essere
individuati dal legislatore – dotato di poteri innovativi non istituzionalmente
attribuiti a questa Corte – nel rispetto dei diritti e dei principi evocati nel
presente giudizio.
Se si
parte da questo presupposto, si deve escludere che la caducazione totale delle
norme censurate dal rimettente possa essere idonea a restaurare l’equilibrio
alterato dalle stesse. Ad uno squilibrio infatti se ne sostituirebbe un altro,
giacché, come sopra detto, le regole del processo e l’insicurezza della tenuta
del segreto degli atti custoditi negli uffici giudiziari esporrebbero le
vittime ad un pericolo di divulgazione contrario alla misura minima di tutela
della riservatezza delle persone in un ordinamento liberale e democratico, dove
le ragioni di giustizia devono trovare adeguati strumenti processuali di realizzazione,
senza però sacrificare eccessivamente ed inutilmente i diritti delle vittime
incolpevoli di gravi interferenze nella loro vita privata, per di più con la
motivazione che si vogliono tutelare proprio i loro interessi.
Ove
fossero introdotte nell’ordinamento processuale precauzioni sufficienti ad
impedire che la pubblicità del dibattimento determini inevitabilmente la
pubblicazione di tutto il materiale probatorio, come, ad esempio, attualmente
si verifica nei casi in cui il codice di rito prescrive l’udienza a porte
chiuse; ove si avesse, inoltre, la ragionevole certezza che la custodia dei
materiali relativi ad illecite interferenze nelle comunicazioni e nella vita
privata fosse circondata da misure organizzative efficaci e presidiata da norme
rigorose sulla tracciabilità dei percorsi dei materiali stessi e
sull’individuazione dei soggetti istituzionalmente responsabili, anche a titolo
di culpa in vigilando, allora
drastiche misure di salvaguardia, come quelle introdotte dalle norme censurate,
potrebbero non essere considerate indispensabili. Nell’attuale situazione di
incertezza sull’effettività della tutela del diritto alla riservatezza, non è
possibile cancellare, puramente e semplicemente, le norme che impongono la
distruzione dei documenti, supporti e atti illecitamente acquisiti. Si devono
invece ricondurre tali norme, nei limiti del possibile, al rispetto sia
dell’equilibrio costituzionalmente necessario, sia della ratio emergente dalle medesime.
7. – Il
risultato prima delineato si può conseguire recidendo il legame, istituito dal
comma 4 dell’art. 240 cod. proc. pen., tra la
procedura speciale di cui ai commi 3 e seguenti dello stesso articolo e l’art.
127 cod. proc. pen., nella misura in cui il richiamo
a tale norma fa ricadere sulla procedura medesima le limitazioni del
contraddittorio che connotano il modello generale del rito camerale.
D’altronde, lo stesso legislatore ha manifestato in modo chiaro l’intenzione di
dettare una normativa mirata alla formazione di una fonte di prova anticipata
rispetto alle successive fasi del processo. Ne consegue che tale scopo deve
essere perseguito nel rispetto dei principi del giusto processo, del diritto di
difesa e di azione e dell’effettivo esercizio dell’azione penale, che si
concretizzano in una rigorosa prescrizione del contraddittorio tra le parti,
come quella contenuta nell’art. 401, commi 1 e 2, cod. proc. pen., che disciplina l’udienza relativa all’incidente
probatorio. Tale ultima normativa deve naturalmente estendersi ad una
fattispecie processuale, come quella oggetto del presente giudizio, per effetto
dei principi costituzionali di cui agli artt. 24, primo e secondo comma, 111,
primo, secondo e quarto comma, e 112 Cost.
Il
contraddittorio è garanzia insostituibile nell’ordinamento processuale di uno
Stato di diritto e i potenziali aggravi di lavoro – in presenza di procedimenti
con molte parti – si devono fronteggiare con idonee misure organizzative e di
gestione dei processi, non certo con la irragionevole compressione dei diritti
garantiti dalla Costituzione.
8. – Il
secondo fattore che contribuisce all’effetto combinato di illegittimità
costituzionale – di cui s’è detto al paragrafo 6 – si deve individuare nella
insufficiente attitudine del verbale sostitutivo, quale prefigurato dal censurato
comma 6 dell’art. 240 cod. proc. pen., a
rappresentare i fatti, dai quali il giudice del merito dovrà trarre le sue
valutazioni. Il rimettente pone a base di uno dei motivi addotti per sostenere
l’illegittimità costituzionale di tale norma la considerazione che la stessa
introdurrebbe una sorta di giudizio anticipato, destinato a condizionare
indebitamente la pronuncia del giudice del merito. Si deve osservare, in
proposito, che la lettura della suddetta disposizione porta a conclusioni
diverse.
La legge
prescrive che nel verbale in questione si dia «atto dell’avvenuta
intercettazione o detenzione o acquisizione illecita dei documenti, dei
supporti e degli atti», anzitutto in considerazione del fatto che l’atto deve
documentare le conclusioni delle parti. Il verbale non può esplicare alcuna
efficacia valutativa che non sia strettamente circoscritta alla decisione di
distruggere il materiale, e, nella propria funzione concomitante (e primaria)
di prova «sostitutiva» del corpo di reato, non può esercitare alcun
condizionamento sulla decisione da assumere nell’ambito del procedimento
principale.
Proprio
la necessaria natura descrittiva del verbale sostitutivo impone che lo stesso
non si limiti a contenere i dati relativi alle «modalità e ai mezzi» usati ed ai
soggetti interessati, ma debba altresì contenere tutte le indicazioni utili ad
informare il giudice e le parti del successivo giudizio in merito alle
circostanze da cui si possano trarre elementi di valutazione circa l’asserita
illiceità dell’attività contestata agli imputati. La semplice descrizione delle
modalità e dei mezzi utilizzati per raccogliere informazioni può non essere
sufficiente a consentire un adeguato successivo controllo giudiziale, nel
contraddittorio delle parti, sulla liceità o non della condotta degli imputati.
Né questi ultimi, né le parti offese, né il pubblico ministero disporrebbero,
nel giudizio di merito, di dati obiettivi sufficienti a suffragare le
rispettive posizioni, difensive o accusatorie. Ecco perché è costituzionalmente
necessario allargare le potenzialità rappresentative del verbale in questione,
includendovi anche tutte le circostanze che hanno caratterizzato l’attività
diretta all’intercettazione, alla detenzione ed all’acquisizione del materiale
per il quale il pubblico ministero ha chiesto l’avvio del procedimento
incidentale de quo. Il giudice del
merito deve poter disporre di tutti gli elementi necessari per valutare, senza
alcun condizionamento derivante dalla decisione presa nel procedimento
incidentale, e nel contraddittorio tra le parti, se l’assunto accusatorio del
pubblico ministero abbia o non fondamento.
L’inserimento
nel verbale della descrizione delle circostanze relative all’attività asseritamente illecita di cui sopra comprende, ove sia
necessario, soltanto i dati conoscitivi sulla natura e sulle caratteristiche
formali dei documenti, supporti ed atti (con esclusione, ai sensi del comma 6,
di ogni riferimento alle informazioni in essi contenute), da cui, in
correlazione alle circostanze di luogo, di tempo e di contesto della loro
acquisizione, si possono trarre elementi di giudizio sulla liceità dei
comportamenti degli imputati.
La
correttezza e l’obiettività del verbale sostitutivo sono garantite dalla
formazione dello stesso nel contraddittorio tra le parti. Il rischio che nel
corso di tale procedura possa verificarsi una illecita divulgazione delle
notizie riservate, in ipotesi illegalmente acquisite, è attenuato dal divieto
di effettuare copia in qualunque forma degli stessi, contenuto nel comma 2 dell’art.
240 cod. proc. pen.; sarà cura degli uffici
giudiziari e dei responsabili degli stessi prevenire ogni violazione di tale
divieto.
Per le
ragioni sopra esposte, questa Corte ritiene di dover accogliere solo
parzialmente la questione di legittimità costituzionale sollevata dal giudice
rimettente, per ripristinare un corretto equilibrio tra i parametri
costituzionali evocati. È appena il caso di ripetere che l’equilibrio così
raggiunto non è l’unico in assoluto possibile, ma è l’unico realizzabile tenendo
conto della legislazione data e dei limiti costituzionali di intervento del
giudice delle leggi.
per questi motivi
riuniti i
giudizi,
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 240,
commi 4 e 5, del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede,
per la disciplina del contraddittorio, l’applicazione dell’art. 401, commi 1 e
2, dello stesso codice;
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 240,
comma 6, cod. proc. pen., nella parte in cui non
esclude dal divieto di fare riferimento al contenuto dei documenti, supporti e
atti, nella redazione del verbale previsto dalla stessa norma, le circostanze
inerenti l’attività di formazione, acquisizione e raccolta degli stessi
documenti, supporti e atti;
dichiara inammissibile la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 240, commi 3, 4, 5 e 6, cod. proc. pen.,
sollevata dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Vibo
Valentia, in riferimento agli artt. 24, 111, primo, secondo e quarto comma, e
112 della Costituzione, con l’ordinanza indicata in epigrafe (r.o. n. 50 del 2008);
dichiara inammissibile la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 240, commi 3, 4, 5 e 6, cod. proc. pen.,
sollevata dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano, in
riferimento agli artt. 24, primo e secondo comma, 111, primo, secondo e quarto
comma, e 112 della Costituzione, con l’ordinanza indicata in epigrafe (r.o. n. 84 del 2008).
Così
deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 aprile 2009.
F.to:
Francesco AMIRANTE, Presidente
Gaetano SILVESTRI, Redattore
Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria l'11
giugno 2009.