SENTENZA N. 141
ANNO 2019
Commenti alla decisione di
I. Andrea De Lia, Le
figure di reclutamento e favoreggiamento della prostituzione al banco di prova
della Consulta. Un primo commento alla sentenza della Corte costituzionale n.
141/2019, per g.c. del Forum di Quaderni Costituzionali
II. Silvia Bernardi, Sulla
legittimità costituzionale dei delitti di reclutamento e favoreggiamento della
prostituzione: irrilevante il fatto che l’esercizio del meretricio sia il
frutto di una libera scelta?, per g.c. di Diritto Penale Contemporaneo
III. Marta Picchi, La
legge Merlin dinanzi alla Corte costituzionale. Alcune riflessioni sulla
sentenza n. 141/2019 della Corte costituzionale, per g.c.
del Forum di Quaderni
Costituzionali
IV. Roberto Bin, La
libertà sessuale e prostituzione, per g.c. del Forum di Quaderni Costituzionali
V. Paolo Scarlatti, La
sentenza n. 141 del 2019 della Corte costituzionale tra discrezionalità del
legislatore e tutela dei diritti fondamentali delle persone vulnerabili,
per g.c. di Dirittifondamentali.it
VI. Cosimo Pietro
Guarini, La
prostituzione «volontaria e consapevole»: né libertà sessuale né attività
economica privata "protetta” dall’art. 41 Cost. A prima lettura di Corte
costituzionale n. 141/2019, per g.c. dell’Osservatorio AIC
VII. Fabrizio Politi,
La
prostituzione non è un diritto fondamentale ed è un'attività economica in contrasto
con la dignità umana. La sent. n. 141 del 2019 e la
"sostanza delle cose”, per g.c.della Rivista AIC
VIII. Federico Bacco, La
disciplina penale della prostituzione al doppio vaglio della Consulta, tra
giudizi di fatto, moralismo penale e ragionevolezza giudiziale, per g.c. di Sistema
Penale
IX. Lorenza Violini, La
dignità umana al centro: oggettività e soggettività di un principio in una
sentenza della Corte Costituzionale (sent. 141 del
2019), per g.c. di Dirittifondamentali.it
REPUBBLICA
ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO
ITALIANO
composta dai
signori:
Presidente:
Giorgio LATTANZI;
Giudici: Aldo CAROSI,
Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO,
Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio
BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI,
ha pronunciato la
seguente
SENTENZA
nel giudizio di
legittimità costituzionale dell’art. 3, primo comma, numeri 4), prima parte, e
8), della legge
20 febbraio 1958, n. 75 (Abolizione della regolamentazione della prostituzione
e lotta contro lo sfruttamento della prostituzione altrui), promosso dalla Corte
d’appello di Bari, nel procedimento penale a carico di G. T. e altri, con ordinanza
del 6 febbraio 2018, iscritta al n. 71 del registro ordinanze 2018 e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 19, prima serie
speciale, dell’anno 2018.
Visti gli atti di
costituzione di G. T. e di M. V., nonché l’atto di intervento del Presidente
del Consiglio dei ministri e gli atti di intervento dell’Associazione Rete per
la Parità e altre e dell’Associazione Differenza Donna Onlus;
udito nell’udienza
pubblica del 5 marzo 2019 il Giudice relatore Franco Modugno;
uditi gli avvocati
Antonella Anselmo per l’Associazione Rete per la Parità e altre, Maria Teresa
Manente per l’Associazione Differenza Donna Onlus, Nicola Quaranta per G. T.,
Ascanio Amenduni e Gioacchino Ghiro per M. V. e l’avvocato dello Stato
Gabriella Palmieri per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto
in fatto
1.– Con ordinanza
del 6 febbraio 2018, la Corte d’appello di Bari ha sollevato, in riferimento
agli artt. 2, 3, 13, 25, secondo comma, 27 e 41 della
Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3, primo comma,
numeri 4), prima parte, e 8), della legge 20 febbraio 1958, n. 75 (Abolizione
della regolamentazione della prostituzione e lotta contro lo sfruttamento della
prostituzione altrui), «nella parte in cui configura come illecito penale il
reclutamento ed il favoreggiamento della prostituzione volontariamente e
consapevolmente esercitata».
1.1.– La Corte
rimettente premette di essere investita dell’appello avverso la sentenza del
Tribunale di Bari del 13 novembre 2015, che ha dichiarato i quattro imputati
appellanti colpevoli, in rapporto a distinti capi di imputazione, del delitto
di reclutamento di persone a fini di prostituzione, di cui all’art. 3, primo
comma, numero 4), della legge n. 75 del 1958, e – limitatamente a uno degli
appellanti – anche del delitto di favoreggiamento della prostituzione, di cui
al numero 8) del medesimo art. 3.
Con riguardo ad
alcuni dei capi di imputazione, il Tribunale ha ritenuto, altresì, assorbito il
delitto di favoreggiamento, originariamente contestato agli imputati, in quello
di reclutamento, per il quale è stata pronunciata condanna. Di conseguenza, ove
in esito al giudizio di appello dovesse essere riformata la condanna per il
reato di reclutamento, riemergerebbe l’esigenza di valutare la responsabilità
degli imputati per il reato già dichiarato assorbito.
La Corte barese
riferisce, per altro verso, che i fatti oggetto di giudizio sono costituiti,
nella sostanza, «dall’aver gli imputati organizzato, in favore dell’allora
premier S[…] B[…], incontri con escort occasionalmente o professionalmente
dedite alla prostituzione»: dovendosi intendere per «escort», secondo «la più
comune e consolidata accezione del termine», «l’accompagnatrice ovvero la
persona retribuita per accompagnare qualcuno e che è disponibile anche a
prestazioni sessuali», con esclusione, quindi, delle forme di esercizio della
prostituzione a carattere coattivo o «necessitato da ragioni di bisogno». Le
condotte per le quali si procede si collocherebbero, dunque, in un contesto che
non implica costrizioni incidenti sulla determinazione della prostituta di
effettuare prestazioni sessuali a pagamento.
Le questioni
sollevate – intese a censurare la configurazione come illecito penale del
reclutamento e del favoreggiamento della prostituzione, anche quando si tratti
di prostituzione liberamente e volontariamente esercitata – sarebbero, di
conseguenza, rilevanti ai fini della decisione sul gravame. Il loro
accoglimento imporrebbe, infatti, la riforma della sentenza appellata e
l’assoluzione degli imputati, per non essere i fatti loro contestati più
previsti come reato.
1.2.– Quanto, poi,
alla non manifesta infondatezza, la Corte pugliese assume che il «fenomeno
sociale della prostituzione professionale delle escort» rappresenterebbe un
elemento di «novità» atto a far dubitare della legittimità costituzionale della
legge n. 75 del 1958, ideata in un’epoca storica nella quale il fenomeno stesso
non era conosciuto e «neppure concepibile».
Verrebbe, al
riguardo, segnatamente in rilievo il «principio della libertà di
autodeterminazione sessuale della persona umana»: libertà che, nel caso delle
escort, si esprimerebbe nella scelta di disporre della propria sessualità «nei
termini contrattualistici dell’erogazione della prestazione sessuale contro
pagamento di denaro o di altra […] utilità». Si sarebbe al cospetto di un
diritto costituzionalmente protetto: con la sentenza n. 561 del
1987, la Corte costituzionale ha, infatti, affermato che la sessualità
rappresenta «uno degli essenziali modi di espressione della persona umana»,
sicché «il diritto di disporne liberamente è senza dubbio un diritto soggettivo
assoluto, che va ricompreso tra le posizioni soggettive direttamente tutelate
dalla Costituzione ed inquadrato tra i diritti inviolabili della persona umana
che l’art. 2 Cost. impone di garantire».
La libertà di
esercitare la prostituzione non sarebbe stata, in verità, misconosciuta dalla
legge n. 75 del 1958. Essa era concepita, tuttavia, dal legislatore dell’epoca
essenzialmente come esigenza di sottrarre le prostitute allo sfruttamento e al
«potere organizzativo» altrui: finalità alle quali era preordinata la disposta
abolizione delle case di prostituzione. Nell’odierno contesto storico, di
contro, il concetto di libertà assumerebbe «una connotazione ben più positiva e
piena»: la scelta di prostituirsi verrebbe in evidenza, cioè, «come modalità autoaffermativa della persona umana, che percepisce il
proprio sé in termini di erogazione della propria corporeità e genitalità (e
del piacere ad essa connesso) verso o contro la dazione di diversa utilità».
La collocazione
della libertà di autodeterminazione sessuale – e, con essa, della scelta di
offrire sesso a pagamento – nell’ambito della tutela accordata dall’art. 2
Cost. imporrebbe, peraltro, di rimuovere ogni interferenza normativa che
ostacoli la sua piena esplicazione.
L’inviolabilità di
tale diritto sarebbe intaccata, in specie, dalla sottoposizione a pena di
attività di terzi che, senza interferire sulla libera autodeterminazione delle
escort, si connettono al carattere "relazionale” della libertà considerata, in
quanto volte a mettere le escort stesse in contatto con i clienti (come nel
caso del reclutamento), ovvero a permettere un più comodo esercizio della loro
attività (come nell’ipotesi del favoreggiamento).
Nello spaziare –
come nella vicenda oggetto del giudizio a quo – «dal persuasivo convincimento
sulla bontà del cliente all’indicazione delle modalità di presentazione della
escort allo stesso», il reclutamento delle libere prostitute professionali si
collocherebbe all’interno del «libero incontro sul mercato del sesso tra
domanda ed offerta», andando a supportare «il preminente interesse delle escort
a segnalarsi».
Un discorso
similare varrebbe anche per l’ipotesi del favoreggiamento: fattispecie che
colpisce non la fase di intermediazione tra domanda e offerta della prestazione
sessuale, ma quella di concreta attuazione della scelta di prostituirsi, e che
rappresenterebbe un «formidabile deterrente» al compimento, da parte di terzi,
di condotte che agevolino, anche in modo minimale, l’esercizio della
prostituzione (quale – come anche nel caso di specie – la messa a disposizione
di una autovettura per accompagnare la escort presso il luogo di incontro con
il cliente, o per prelevarla da tale luogo).
Né a diversa
conclusione potrebbe pervenirsi ipotizzando che le condotte considerate siano
idonee a offendere la moralità pubblica o il buon costume. La tutela di tali
valori resterebbe, infatti, comunque sia, recessiva di fronte all’inviolabilità
del diritto di cui si discute.
1.3.– Le
previsioni punitive censurate violerebbero, al tempo stesso, la libertà di
iniziativa economica privata, garantita dall’art. 41 Cost., di cui pure la
prostituzione delle escort costituirebbe espressione, stante il carattere
normalmente professionale dell’attività di erogazione di prestazioni sessuali
verso corrispettivo: attività che, d’altra parte, viene considerata fonte di
redditi tassabili.
In base al dettato
costituzionale, l’iniziativa economica in questione dovrebbe essere libera,
nella stessa misura in cui è libera la scelta che sta a monte di essa (ossia
quella di utilizzare la propria «corporeità» in funzione lucrativa). Ciò
escluderebbe che forme di supporto all’iniziativa, quali quelle
dell’intermediazione e del favoreggiamento, possano essere disincentivate
tramite la loro configurazione come illeciti penali, impedendo così all’attività
economica in parola di evolversi al pari di tutte le altre forme
imprenditoriali.
Il vulnus che ne
deriva sarebbe «davvero rimarchevole», ove si consideri che alla escort dedita
abitualmente alla suddetta attività viene preclusa la possibilità di assumere
personale per curarne la collocazione sul mercato o per pubblicizzarla, mentre
alla escort che esercita occasionalmente il meretricio verrebbe interdetta la
stessa possibilità di inserirsi nel mercato, non potendo ella valersi di
collaboratori per avviare un esercizio dell’attività a carattere professionale.
Si tratterebbe, in
pratica, di una ingiustificata «ghettizzazione» del libero esercizio di una
peculiare attività di lavoro autonomo, rispetto ad altre «forme di
professionalità» riconosciute dall’ordinamento.
1.4.– Le
disposizioni censurate si porrebbero in contrasto, ancora, con il principio di
offensività, desumibile dagli artt. 13, 25, primo [recte:
secondo] comma, e 27 Cost., in forza del quale non vi può essere reato senza
l’offesa di un bene giuridico tutelato dall’ordinamento.
La Corte
rimettente rileva, in proposito, come appaia definitivamente superata la tesi
che individua il bene giuridico protetto dalle disposizioni penali della legge
n. 75 del 1958 nel valore "paternalistico” della pubblica moralità, a favore di
quella che lo identifica nella persona umana e nella sua libertà di scelta in
campo sessuale: in sostanza, dunque, nella stessa libertà di autodeterminazione
sessuale qualificabile come diritto inviolabile dell’uomo in base all’art. 2
Cost.
Del resto,
all’iniziale collocazione dei reati in materia di prostituzione nel Titolo IX
del Libro II del codice penale (dedicato ai delitti contro la moralità pubblica
e il buon costume), ha fatto seguito, proprio con la legge n. 75 del 1958,
l’esodo da tale partizione normativa, al quale si è poi aggiunto il
«depauperamento» dello stesso Titolo IX operato dalla legge 15 febbraio 1996,
n. 66 (Norme contro la violenza sessuale), che avrebbe sancito il «definitivo
oscuramento» della tutela della morale pubblica e del buon costume nei reati
sessuali, ora annoverati tra i delitti contro la libertà personale (Capo III
del Titolo XII). Passaggio, questo, in qualche modo preannuciato
dalla citata sentenza
n. 561 del 1987 della Corte costituzionale.
La giurisprudenza
di legittimità si sarebbe, d’altro canto, univocamente espressa in tale
direzione. Essa avrebbe riconosciuto, infatti, che la legge n. 75 del 1958
tutela la libertà di determinazione della donna nel compimento di atti
sessuali, evitando, con la minaccia della pena, che l’esercizio del meretricio
possa essere frutto di scelta condizionata da forme di coazione o di
sfruttamento (sono citate, in sequenza, Corte di cassazione, sezione terza
penale, sentenza 8 giugno 2004-2 settembre 2004, n. 35776; sezioni unite
penali, sentenza 19 dicembre 2013-14 aprile 2014, n. 16207; sezione terza
penale, sentenza 22 settembre 2015-17 dicembre 2015, n. 49643).
Anche la Corte
europea dei diritti dell’uomo, nella sentenza 11 settembre 2007,
Tremblay contro Francia, ha d’altro canto ritenuto che la prostituzione
deve essere considerata incompatibile con i diritti e la dignità della persona
solo quando costituisca oggetto di costrizione.
In quest’ottica,
tuttavia, le disposizioni incriminatrici censurate violerebbero il principio di
offensività, posto che le condotte tanto di reclutamento quanto di
favoreggiamento non solo non recano alcuna offesa alla libertà di
autodeterminazione della persona che si prostituisce, ma addittura
ne facilitano la piena attuazione. Se la escort sceglie liberamente di offrire
sesso a pagamento, chi «le dà una mano» nella realizzazione di tale scelta «produce
un vantaggio e non un danno allo stesso bene giuridico tutelato».
Né gioverebbe
obiettare che la condotta ausiliatrice può rappresentare il primo passo verso
lo sfruttamento economico del corpo della donna da parte di terzi. Lo
sfruttamento della prostituzione costituisce, infatti, nell’articolazione della
legge n. 75 del 1958, una fattispecie di reato autonoma rispetto a quelle di
reclutamento e di favoreggiamento: e, anzi, proprio la pretesa di collegare
l’offensività delle condotte incriminate alla loro supposta capacità di
interferire con altre fattispecie penalmente rilevanti dimostrerebbe come esse
non siano dotate, da sole, di «intrinseca offensività».
Egualmente inaccoglibile risulterebbe l’ulteriore tesi addotta a
sostegno dell’offensività della condotta agevolatrice, basata sull’assunto che
le sole condotte penalmente rilevanti sarebbero quelle dotate di rilevanza
causale rispetto al concreto esercizio della prostituzione. Infatti, se per
condotta agevolatrice causale si intende la prestazione di un ausilio che
consenta l’attuazione della libertà di autodeterminazione sessuale della
escort, che altrimenti non si sarebbe potuta esplicare, non vi sarebbe ragione
per considerare penalmente rilevante la condotta stessa, rappresentando essa lo
strumento più idoneo per la realizzazione dello stesso interesse protetto. Se,
invece, per condotta ausiliatrice causale si intende quella che incide sul
processo di formazione della volontà della escort, si ricade nella distinta
ipotesi dell’induzione alla prostituzione, autonomamente punita dalla legge n.
75 del 1958.
Al fine di
circoscrivere le condotte di agevolazione capaci di offendere il bene protetto
non potrebbe farsi neppure ricorso all’«abusata» distinzione tra
«favoreggiamento della prostituzione» e «favoreggiamento della prostituta»,
configurando come condotta agevolativa causale solo il primo. Tale distinzione
si risolverebbe, infatti, in una forzatura concettuale, posto che ogni condotta
di favoreggiamento può essere riguardata sia dal punto soggettivo, come aiuto
alla prostituta, sia da quello oggettivo, come aiuto alla prostituzione. Per
giunta, la distinzione in parola non corrisponderebbe neppure a quella tra
agevolazione causale e non: favorire una prostituta ben potrebbe tradursi, infatti,
in un ausilio causale (come nel caso della prostituta che abbia accettato un
incontro sessuale in zona non servita da mezzi pubblici, solo perché il cliente
si è offerto di riaccompagnarla presso «la postazione di lavoro»), così come un
aiuto non causale potrebbe essere idoneo a favorire la prostituzione (come nel
caso del terzo che riabiliti l’utenza telefonica cellulare della prostituta,
rendendola rintracciabile dai clienti).
1.5.– Tali ultime
considerazioni inducono la Corte rimettente a prospettare – limitatamente alla
fattispecie del favoreggiamento della prostituzione – anche la violazione del
principio di legalità enunciato dall’art. 25, secondo comma, Cost., nelle
declinazioni della tassatività e della determinatezza.
Il problema non si
porrebbe in rapporto alla fattispecie del reclutamento, in quanto la
formulazione della relativa norma incriminatrice esigerebbe soltanto di
"attualizzare” la nozione di «reclutamento», connessa storicamente alla volontà
legislativa di eliminare lo sfruttamento della prostituzione esercitata nelle
«case chiuse».
Per converso, la
configurazione del favoreggiamento della prostituzione come reato a forma
libera («chiunque in qualsiasi modo favorisca […] la prostituzione altrui»),
senza che sia in alcun modo definita la nozione di favoreggiamento,
diversamente da quanto è avvenuto per i reati di favoreggiamento personale e
reale (artt. 378 e 379 cod. pen.) – scelta motivata
dall’intento di garantire il più ampio spazio di tutela al bene protetto –
produrrebbe la paradossale conseguenza di rendere necessaria una selezione
delle condotte penalmente rilevanti non in ragione della loro conformità alla
fattispecie astratta, ma in rapporto alla loro concreta capacità di offendere
l’interesse protetto. Il che equivarrebbe al riconoscimento dell’inadeguatezza
costituzionale della costruzione della fattispecie.
Tale inadeguatezza
si apprezzerebbe con riguardo non tanto alla formula normativa «favorisca […]
la prostituzione altrui», quanto piuttosto al «raddoppio d’indeterminatezza» di
tale generica previsione conseguente all’utilizzazione dell’espressione «in
qualsiasi modo», a fronte della quale «la sanzione penale pare davvero non
conoscere limiti al suo spazio operativo».
Infruttuoso, per
quanto detto, sarebbe il tentativo di superare il difetto di determinatezza
della fattispecie a mezzo della distinzione, concettualmente scorretta, tra
ausilio alla prostituzione e ausilio alla prostituta. Ove tale opzione
interpretativa fosse recepita, si produrrebbe, peraltro, una «ancor più
inaccettabile» violazione del principio di uguaglianza, di cui all’art. 3
Cost., poiché condotte «di pacifica idoneità ausiliativa»
verrebbero arbitrariamente sottratte alla sanzione penale, diversamente da
altre di pari efficacia.
2.– È intervenuto
il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso
dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano
dichiarate inammissibili o infondate.
Ad avviso
dell’interveniente, il giudice a quo avrebbe sollevato le questioni al solo
scopo di ottenere un avallo interpretativo. La Corte rimettente non avrebbe, in
particolare, esperito il doveroso tentativo di fornire un’interpretazione
costituzionalmente orientata della norma censurata, verificando se gli stessi
argomenti utilizzati per sollevare la questione possano essere "specularmente”
utilizzati per escludere dall’area di incidenza del precetto talune fattispecie
concrete.
Nel merito, le
questioni sarebbero, in ogni caso, infondate.
L’ordinanza di
rimessione risulterebbe, infatti, inficiata da un errore di prospettiva, quanto
all’individuazione del bene giuridico protetto, che il giudice rimettente
riferisce all’intera legge n. 75 del 1958. Dall’esame della giurisprudenza di
legittimità emergerebbe come, in realtà, la ratio di tutela delle previsioni in
questione resti complessa, non esaurendosi nella sola protezione della libertà
di determinazione della persona nella sfera sessuale, e come alle diverse
fattispecie contemplate dalla citata legge, e dal suo art. 3 in particolare,
siano sottesi beni giuridici non esattamente sovrapponibili. Il giudice a quo
non avrebbe considerato, in specie, che il citato art. 3, nell’incriminare le
cosiddette condotte parallele alla prostituzione, ha inteso proteggere la
"dignità obiettiva” della persona che si prostituisce, rinvenendo in ciò la sua
«ratio primaria».
La stessa sentenza
della Corte di cassazione n. 49643 del 2015, richiamata dal rimettente, ha
ritenuto, d’altro canto, manifestamente infondate le questioni di legittimità
costituzionale dell’art. 3, primo comma, numero 8), della legge n. 75 del 1958,
in riferimento agli artt. 2, 13, 19, 21, 25 e 27 Cost., escludendo che il
concetto di «agevolazione», nel quale si risolve la condotta di favoreggiamento
della prostituzione, violi i principi di legalità, determinatezza e
offensività, come pure che la disposizione incriminatrice contrasti con il
principio di laicità dello Stato.
3.– Si è
costituito G. T., imputato nel giudizio a quo, instando per l’accoglimento
delle questioni.
3.1.– La parte
osserva come, alla luce della più recente giurisprudenza di legittimità, sia
indubbio che il bene giuridico tutelato dalle disposizioni della legge n. 75
del 1958 vada identificato – conformemente a quanto assume la Corte rimettente
– nella libertà di autodeterminazione sessuale, libertà ascrivibile al novero
dei diritti fondamentali della persona umana, in forza dell’art. 2 Cost.
Dovrebbe considerarsi, quindi, penalmente rilevante qualsiasi condotta che leda
tale diritto, inducendo la donna a disporre in maniera non volontaria della
propria sessualità.
Come ripetutamente
affermato dalla Corte di cassazione, la donna che decida liberamente e
spontaneamente di offrire prestazioni sessuali a pagamento opera una scelta
legittima, stante la piena liceità giuridica della prostituzione. Nell’odierno
contesto sociale, ben lontano da quello in cui è maturata la legge n. 75 del
1958, si assisterebbe non di rado all’effettuazione di libere scelte in tale
direzione, dando luogo al fenomeno delle escort.
In simile
situazione, la frizione tra le norme censurate e l’art. 2 Cost. risulterebbe
evidente, posto che le prime incriminano condotte di terzi inidonee a incidere
sulle scelte dalla donna, già operate in modo autonomo, e che si risolvono,
quindi, in comportamenti meramente strumentali – e, anzi, di ausilio – rispetto
all’estrinsecazione della libertà sessuale dell’interessata.
3.2.– Come
rilevato nell’ordinanza di rimessione, il diritto in questione potrebbe essere
inquadrato anche nell’ambito della libertà di iniziativa economica privata,
tutelata dall’art. 41 Cost., in quanto la donna assumerebbe il ruolo di
«imprenditore in forma individuale del sesso».
A tale conclusione
sarebbero giunte, del resto, tanto la Corte di cassazione, che ha ravvisato
nell’esercizio del meretricio, frutto di una scelta non condizionata da forme
di coazione o di sfruttamento, un’attività del tutto libera e fonte di
redditività tassabile; quanto la Corte di giustizia dell’Unione europea, secondo
la quale la libera scelta di disporre in forma imprenditoriale del proprio
corpo, non solo è lecita, ma è altresì qualificabile come «attività economic[a] svolt[a] in qualità
di lavoro autonomo» (è citata la sentenza
20 novembre 2001, causa C-268/99, Jany e altri).
Risulterebbe,
quindi, anche per questo verso palese l’incostituzionalità delle norme
denunciate, mediante le quali il legislatore avrebbe inibito a livello penale
forme di sostegno all’iniziativa economica in discorso.
3.3.– Parimente
leso sarebbe il principio di offensività, alla luce del quale potrebbero
assumere rilevanza penale solo le condotte idonee a ledere o a porre in
pericolo il bene protetto, rappresentato, nel caso della legge n. 75 del 1958,
dalla libertà di autodeterminazione sessuale della persona: attitudine che non
avrebbero le condotte di reclutamento e di favoreggiamento che si collochino in
un contesto nel quale la volontà della donna è già maturata.
Le condotte in
questione non potrebbero essere, inoltre, tradotte esegeticamente in un «primo
passo verso lo sfruttamento economico della prostituzione», così come si
afferma nella sentenza di primo grado. In questo modo, infatti, da un lato
verrebbe presupposta la futura interazione causale tra la volontà della donna,
inizialmente libera, e la condotta dell’agente; dall’altro, si opererebbe una
eccessiva anticipazione della reazione penale rispetto all’effettiva lesione o
messa in pericolo del bene giuridico. Ciò, ferma restando la configurabilità
delle autonome fattispecie dell’induzione e dello sfruttamento della
prostituzione allorché ne sussistano concretamente i presupposti.
3.4.– La Corte
rimettente avrebbe, per altro verso, tentato di fornire una lettura
costituzionalmente orientata delle norme censurate, giungendo – condivisilmente – a constatarne l’impossibilità.
Del tutto
condivisibili risulterebbero, in specie, le conclusioni del giudice a quo
riguardo all’impossibilità di avallare la distinzione, operata dalla
giurisprudenza, tra condotte penalmente rilevanti, e non, a seconda del
carattere causale dell’intervento del terzo rispetto all’atto di prostituzione,
posto che, nel caso delle escort, la causalità dell’intervento si traduce nel
rispetto della volontà della «sex worker». Così come inaccettabile risulterebbe
l’ulteriore distinzione tra favoreggiamento della prostituzione e
favoreggiamento della prostituta: distinzione assolutamente oscura – non
potendosi favorire l’una senza favorire l’altra – e priva di agganci nella
generica previsione normativa.
3.5.– In questa
prospettiva, quella del favoreggiamento resterebbe una figura criminosa
indefinita, la cui descrizione contrasterebbe con i principi di tassatività e
determinatezza.
Il legislatore
avrebbe consegnato all’interprete una «fattispecie onnivora», dai contorni
vaghi e privi di capacità discretiva tra condotte agevolatrici in grado, o non
in grado, di ledere o porre in pericolo il bene tutelato, rimettendo, così,
all’arbitrio del giudice l’individuazione delle condotte incriminate.
L’irragionevole
parificazione quoad poenam
di situazioni oggettivamente e soggettivamente diverse si tradurrebbe, al tempo
stesso, in una palese violazione dell’art. 3 Cost.
3.6.– La parte costituita
sottolinea, da ultimo, come i più recenti sviluppi giurisprudenziali e
legislativi siano orientati nel senso di una sempre crescente tutela dei
diritti di libertà, al punto da riconoscere spazi di esplicazione del principio
di autodeterminazione della persona persino con riferimento al bene supremo
della vita (sono citate, al riguardo, la sentenza della Corte di cassazione,
sezione prima civile, 16 ottobre 2007, n. 21748, e la legge 22 dicembre 2017,
n. 219, recante «Norme in materia di consenso informato e di disposizioni
anticipate di trattamento»).
Ancor più
pertinenti all’odierno thema decidendum
risulterebbero, peraltro, altre espansioni dei diritti di libertà individuali,
sempre ricollegabili all’art. 2 Cost., quali quelle connesse al progressivo
riconoscimento della libertà di scelta in relazione all’identità sessuale e
all’omosessualità, recentemente sfociato nella legge sulle «unioni civili». Non
si comprenderebbe, quindi, perché ad analoghi approdi non debba pervenirsi
anche con riguardo alla prostituzione volontaria.
4.– Si è
costituito anche M. V., altro imputato nel giudizio a quo, chiedendo del pari
l’accoglimento delle questioni.
4.1.– La parte
osserva che l’obiettivo della legge n. 75 del 1958 era di tutelare delle donne
che esercitavano la prostituzione nelle cosiddette case chiuse. Nel contesto
sociale dell’epoca, la donna non poteva essere considerata totalmente libera di
autodeterminarsi e poteva, quindi, ritenersi o presumersi sfruttata.
Nei sessant’anni
trascorsi dall’entrata in vigore della legge molte cose sarebbero cambiate sul
piano della parità dei diritti fra uomo e donna. Ma sarebbe profondamente
cambiato anche il fenomeno della prostituzione. Quest’ultima non è più
esercitata soltanto dalla donna, ma si è andata espandendo anche al genere
maschile e a nuove figure, "ibride” dal punto di vista sessuale, quali i
cosiddetti transgender. Inoltre, dagli anni ’70 dello scorso secolo si è
iniziato a parlare non più di prostitute, ma di «sex workers» (ossia di
lavoratori del sesso): fenomeno che è sfociato in documenti strutturati, quale
la «Dichiarazione dei diritti dei/delle sex workers in Europa», firmata a
Bruxelles nel 2005 da rappresentanti di organizzazioni aderenti a trenta Paesi.
Attualmente, la
prostituzione non rappresenterebbe, dunque, un fenomeno unitario, dovendosi
individuare, al suo interno, almeno tre «raggruppamenti generali»: la
prostituzione «per costrizione», la prostituzione «per necessità» e la
prostituzione «consapevole, volontaria e professionale», frutto di libera
scelta del soggetto che decide di vendere il proprio corpo e le proprie abilità
sessuali per denaro. Per lo più, si tratta di una prostituzione "di lusso” o
agiata, esercitata nel chiuso «di private e talora sontuose dimore», proprie o
del cliente, il quale versa un corrispettivo molto elevato.
È in quest’ultimo
raggruppamento che si colloca il fenomeno delle escort: termine che identifica
l’accompagnatore a pagamento, disponibile ad avere rapporti sessuali con il
cliente. Figura totalmente inesistente all’epoca dell’emanazione della legge n.
75 del 1958.
Sotto diverso
profilo, va considerato che, nel nostro ordinamento – come univocamente
affermato dalla Corte di cassazione, sia civile, sia penale – la prostituzione
– di là dagli apprezzamenti di ordine morale, dei quali il giudice, quale
"osservatore laico”, dovrebbe peraltro disinteressarsi – costituisce una
attività assolutamente lecita e non sanzionabile da parte dell’ordinamento. Lo
stesso Stato italiano, tramite la sua giurisdizione tributaria, ha d’altra
parte richiesto alle prostitute di "pagare le tasse”, sul presupposto che la
prostituzione costituisca «una prestazione di servizi retribuita, che rientra
nella nozione di attività economiche» (Corte di cassazione, sezione quinta
civile, sentenza 13 maggio 2011, n. 10578).
Si assisterebbe,
dunque, a una «"schizofrenia” giurisdizionale»: il giudice tributario pretende
di tassare il reddito da meretricio al pari di quello delle altre attività
lavorative autonome, in vista di un gettito fiscale; il giudice penale, invece,
punisce chi, mediante condotte meramente agevolatrici, come il semplice
reclutamento, facilita la produzione di detto reddito e del relativo gettito.
4.2.– Ciò posto,
l’art. 3, primo comma, numero 4), della legge n. 75 del 1958, nella parte in
cui punisce il reclutamento della prostituzione, verrebbe a porsi in palese
contrasto con il diritto soggettivo alla libertà sessuale, garantito dall’art.
2 Cost.
Che la libertà
sessuale costituisca un diritto fondamentale della persona sarebbe pacifico,
essendo stato affermato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 561 del
1987. Essa è garantita, altresì, da norme sovranazionali, quali gli artt. 8
e 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle
libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e
resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848.
La libertà
sessuale può essere intesa, d’altro canto, in due accezioni: in senso negativo,
come diritto della persona a non essere sottoposta ad atti sessuali senza il
suo libero consenso (diritto tutelato dal codice penale negli artt. 609-bis e
seguenti); in senso positivo, come diritto del soggetto a porre in essere, anche
a scopo di lucro, una qualsiasi pratica sessuale in modo autodeterminato e non
lesivo di interessi altrui, valendosi, se del caso, dell’aiuto o
dell’intermediazione di terzi, pure remunerandoli. E proprio in questa seconda
accezione, di libertà positiva, si inquadrerebbe oggi la prostituzione libera e
volontaria delle escort e quel che ruota attorno a tale fenomeno.
Alla luce di tali
considerazioni, tutte le condotte agevolative della prostituzione dovrebbero
essere considerate come non lesive della libera scelta della prostituta di
offrire la propria sessualità in cambio di denaro. Il reclutatore – che, in
base alla più recente interpretazione, è colui che si attiva al fine di
collocare la prostituta nella disponibilità di chi intende avvalersi
dell’attività di meretricio – si limita, infatti, a creare maggiori possibilità
lavorative al libero professionista della prostituzione, senza incidere sul processo
decisionale di quest’ultimo.
L’attuale quadro
normativo sarebbe inficiato, per converso, dalla seguente antinomia: una
libertà dichiarata a parole, ma scoraggiata e ostacolata «nei fatti e nel
diritto», e trattata quindi in modo deteriore rispetto a quella di qualsiasi
altro libero professionista, che, a differenza della escort, può lecitamente
valersi di un procuratore d’affari.
4.3.– In
quest’ottica, l’art. 3, primo comma, numero 4), della legge n. 75 del 1958 si
rivelerebbe lesivo anche della libertà di iniziativa economica privata,
garantita dall’art. 41 Cost.
La punibilità del
reclutatore discriminerebbe, infatti, la prostituzione volontaria rispetto ad
altre forme di lavoro autonomo, le quali possono avvalersi di strumenti
organizzativi e pubblicitari, idonei ad agevolare i contatti professionali,
senza ostacoli o deterrenti. La prostituta, al contrario, pur potendo
esercitare liberamente la propria attività retribuita e produttiva di redditi
tassabili, non può valersi di chi la "ingaggi”, la segnali o la pubblicizzi,
perché, così facendo, lo renderebbe perseguibile penalmente.
Togliendo alle
escort professioniste la possibilità di essere "ingaggiate”, come loro
ambiscono per l’esercizio del loro lavoro, non si farebbe altro che spingerle a
cadere vittime delle reti criminali della prostituzione "da strada”,
realizzando così una paradossale eterogenesi dei fini del legislatore.
4.4.– L’attuale
previsione sanzionatoria del reclutamento ai fini di prostituzione si porrebbe
in contrasto anche con il principio di offensività.
Superando
l’originaria impostazione, in base alla quale la legge n. 75 del 1958 doveva
ritenersi posta a tutela della moralità pubblica e
del buon costume, la Corte di cassazione avrebbe individuato – in particolare,
con la sentenza n. 16207 del 2014 – il bene protetto nella sola libertà di
autodeterminazione del soggetto protetto.
In questa
prospettiva, la fattispecie sanzionatoria del reclutamento non tutelerebbe
alcun bene giuridico, giacché la condotta del reclutatore non inciderebbe
causalmente sulla scelta del soggetto di fare mercimonio della propria
sessualità, limitandosi a facilitare l’attuazione di tale libera scelta.
Al riguardo,
sarebbe significativa la circostanza che, nel giudizio a quo, il giudice di
primo grado, pur respingendo l’eccezione di illegittimità costituzionale
formulata dai difensori, abbia negato alle escort il risarcimento del danno
chiesto con la costituzione di parte civile, rilevando come nessuna conseguenza
negativa sulla loro sfera psichica, emotiva o privata fosse derivata dai fatti
oggetto di giudizio. Anzi, dall’istruttoria dibattimentale era emerso
chiaramente come fossero le stesse escort a chiedere agli imputati di essere
ingaggiate, manifestandosi entusiaste per l’«irripetibile opportunità
lavorativa» loro offerta, foriera anche di vantaggi indiretti.
4.5.– La
formulazione testuale dell’art. 3, primo comma, numero 4), della legge n. 75
del 1958 apparirebbe, infine, lesiva dei principi di tassatività e
determinatezza.
La disposizione
non consentirebbe, infatti, di individuare con sufficiente precisione le
condotte penalmente sanzionate, avvalendosi di una «fraseologia tanto enfatica
quanto generica» («chiunque recluti una persona al fine di farle esercitare la
prostituzione»).
In questo modo, il
legislatore sarebbe venuto meno all’obbligo di delineare con precisione la
fattispecie di reato, così da delimitare l’ambito di discrezionalità
dell’autorità giudiziaria e da offrire alla conoscenza preventiva dei
consociati un quadro normativo certo e ben definito, idoneo ad orientare
consapevolmente le loro azioni. In presenza di una norma incriminatrice così
vaga, come quella sul reclutamento, l’ermeneutica del giudice degenererebbe in
una vietata attività creativa di diritto, in spregio delle garanzie di legalità
dei cittadini.
Anche il
legislatore avrebbe avvertito, d’altra parte, l’esigenza di modificare la legge
n. 75 del 1958, senza tuttavia intervenire con una riforma organica. Di
recente, infatti, il decreto-legge 20 febbraio 2017, n. 14 (Disposizioni
urgenti in materia di sicurezza delle città), convertito, con modificazioni, in
legge 18 aprile 2017, n. 48, avrebbe indirettamente operato una netta
distinzione tra la "prostituzione da strada”, che nella quasi totalità dei casi
avviene mediante costrizione, e quella volontaria esercitata in appartamenti,
sulla quale il decreto nulla ha disposto. L’assimilazione dei due fenomeni,
divenuta ormai intollerabile, permarrebbe, tuttavia, nel trattamento delle
fattispecie agevolative della prostituzione.
5.– Sono
intervenute nel giudizio di legittimità costituzionale l’Associazione Rete per
la Parità, l’Associazione Donne in quota, l’Associazione Coordinamento italiano
della Lobby Europea delle Donne/Lef-Italia,
l’Associazione Salute Donna, l’Associazione UDI (Unione Donne in Italia),
l’Associazione Resistenza Femminista e l’Associazione IROKO ONLUS, nonché – con
distinto atto – l’Associazione Differenza Donna Onlus, le quali tutte hanno
chiesto che le questioni siano dichiarate infondate.
6.– Il Presidente
del Consiglio dei ministri ha depositato una memoria, insistendo affinché le
questioni siano dichiarate inammissibili, ovvero infondate nel merito.
Al profilo di
inammissibilità già dedotto nell’atto di intervento, connesso al fatto che il
giudice a quo avrebbe richiesto un avallo interpretativo e omesso di tentare
una interpretazione costituzionalmente orientata, l’Avvocatura generale dello
Stato aggiunge quello collegato alla discrezionalità del legislatore in materia
di individuazione dei fatti da sottoporre a pena e delle sanzioni loro
applicabili: discrezionalità il cui esercizio è suscettibile di sindacato in
sede di legittimità costituzionale solo ove trasmodi nella manifesta
irragionevolezza o nell’arbitrio.
Nel merito, quanto
alla denunciata violazione dell’art. 2 Cost., la difesa dello Stato rileva come
la giurisprudenza più recente, tanto di legittimità (Corte di cassazione,
sezione terza penale, sentenza 17 novembre 2017-30 marzo 2018, n. 14593),
quanto di merito (Corte di appello di Milano, sentenza 7 maggio 2018-16 luglio
2018, n. 3176) – al pari, peraltro, della stessa Corte costituzionale, già
nella sentenza
n. 44 del 1964 – rinvengano il bene giuridico protetto dalla legge n. 75
del 1958 anche nella dignità delle persone che si prostituiscono, per
difenderle contro lo sfruttamento e la strumentalizzazione da parte di terzi.
In un ordinamento democratico e pluralista la libertà di disporre della propria
sessualità non potrebbe spingersi, in effetti, sino al punto di incidere sulla
stessa dignità della persona umana. Né sarebbe condivisibile la distinzione tra
la dignità in senso oggettivo – intesa come un qualcosa di esterno alla volontà
del soggetto e derivante da parametri di tipo sociale e morale desumibili
dall’opinione collettiva o dalle norme di cultura di una certa società – e la
dignità in senso soggettivo, in base alla quale ciascuna persona capace di
autodeterminarsi avrebbe un "suo” concetto di dignità, diverso da soggetto a
soggetto. Alla luce della posizione di preminenza che la dignità assume fra i
beni protetti dalla Costituzione, sarebbe più corretto ritenere che si tratti
di un «valore oggettivo e inderogabile da preservare».
Insussistente
sarebbe anche la denunciata violazione dell’art. 41 Cost., poiché la libertà
del singolo di perseguire il profitto è tutelata solo a condizione che non
comprometta altri valori che la Costituzione considera preminenti, tra i quali
anzitutto – per l’appunto – quello della dignità umana.
Come rilevato,
d’altro canto, dalla citata sentenza della Corte d’appello di Milano in
rapporto a una fattispecie concreta analoga a quella oggetto del giudizio
principale, una volta individuato il bene giuridico protetto nella dignità della
persona umana, non sarebbe ravvisabile alcuna violazione del principio di
offensività "in astratto”, inteso, cioè, come precetto rivolto al legislatore,
impegnandolo a costruire fattispecie che implichino la lesione o la messa in
pericolo dell’interesse protetto. Le norme incriminatrici in questione
perseguono, infatti, lo scopo di impedire che le persone dedite alla
prostituzione vengano strumentalizzate, reclutate e indotte, comunque sia, alla
loro attività.
7.– Anche G. T. ha
depositato memoria, insistendo nelle conclusioni formulate in sede di
costituzione.
7.1.– La parte
costituita contesta la fondatezza dell’eccezione di inammissibilità per omessa
sperimentazione dell’interpretazione conforme, formulata dall’Avvocatura dello
Stato, rilevando come, a partire dalla sentenza n. 221 del
2015, la Corte costituzionale abbia "depotenziato” il relativo onere,
reputando sufficiente, ai fini dell’ammissibilità della questione, che il giudice
a quo abbia consapevolmente escluso la possibilità di pervenire a una lettura
della norma costituzionalmente adeguata.
Peraltro, anche ad
ammettere che la Corte rimettente non abbia preso in considerazione in modo
espresso una simile eventualità, si tratterebbe di una mancanza «del tutto
formale». Il "diritto vivente” in materia di reclutamento e favoreggiamento
della prostituzione sarebbe, infatti, «graniticamente fermo» nell’escludere
ogni rilevanza al consenso della persona offesa, ossia alla libera scelta della
persona che si prostituisce. A fronte di una posizione così consolidata,
espressa dalla totalità delle pronunce giurisprudenziali sia di legittimità,
sia di merito, l’eventuale interpretazione evolutiva e costituzionalmente
conforme del giudice a quo avrebbe avuto «un impatto episodico ed effimero»,
portando poi, verosimilmente, «ad una condanna finale dell’imputato».
7.2.– Nel merito,
la medesima parte costituita rileva come – contrariamente a quanto sostiene la
difesa dello Stato – la sentenza n. 35776 del 2004 della Corte di cassazione
abbia segnato una svolta nella giurisprudenza in tema di individuazione
dell’interesse protetto dalle disposizioni penali della legge n. 75 del 1958,
con lo spostamento dell’asse della tutela da beni giuridici statali, o comunque
sia pubblicistici e collettivi, quale la moralità pubblica, a beni individuali
della persona, quale la dignità e la libertà di autodeterminazione in materia
sessuale. Nella cornice di questo indirizzo, seguito anche da pronunce successive
– come la sentenza n. 49643 del 2015 – il riferimento alla «dignità» non
potrebbe essere inteso che in senso soggettivo, proprio perché tale concetto
viene accostato a quello di «libertà» della persona che si prostituisce.
È ben vero, per
altro verso, che la citata sentenza n. 49643 del 2015 ha ritenuto
manifestamente infondate le eccezioni di incostituzionalità della fattispecie
del favoreggiamento della prostituzione. Le argomentazioni al riguardo addotte
dalla Cassazione non sarebbero, tuttavia, affatto persuasive.
Insuscettibile di
avallo sarebbe, in specie, l’affermazione per cui il principio di
determinatezza non potrebbe dirsi violato solo perché «la norma penale manchi
di definizioni precise che delineino preventivamente i confini dell’illecito»,
potendosi a ciò facilmente rimediare tramite una interpretazione
costituzionalmente orientata, così come sarebbe avvenuto in rapporto alla
fattispecie che qui interessa. Il ragionamento sarebbe chiaramente scorretto,
non potendosi legittimare la mancanza di definizioni precise in una
disposizione penale rinviando alla giurisprudenza per delinearne le fattezze a
mezzo di interpretazioni costituzionalmente orientate. D’altronde, le
interpretazioni «offensivizzanti» prospettate dalla
giurisprudenza negli ultimi anni (quale quella basata sulla distinzione tra
aiuto alla prostituzione e aiuto alla prostituta) non avrebbero affatto risolto
i problemi indotti dalla «immane incertezza» della norma incriminatrice, ma
avrebbero anzi accresciuto la confusione, tanto che su molti casi specifici si
riscontrerebbero contrasti interpretativi, con diverso trattamento di fatti
analoghi o addirittura identici.
Sotto altro
profilo, la citata pronuncia della Corte di cassazione – pur individuando
correttamente il bene protetto nella libertà di autodeterminazione della
prostituta – avrebbe escluso la violazione del principio di offensività sulla
base di un artificio argomentativo: quello per cui l’agevolazione della
prostituzione, anche nel caso di prostitute "per libera scelta”, costituirebbe
«il primo passo verso lo sfruttamento economico del corpo della prostituta».
Soluzione che implicherebbe una «esagerata anticipazione della tutela» penale a
uno stadio ancora precedente a quello del semplice pericolo per il bene tutelato.
Lo sfruttamento della prostituta "per libera scelta” – se mai dovesse
verificarsi in futuro – non sarebbe certamente legato da un rapporto
giuridicamente rilevante con una condotta di «semplice e innocua agevolazione».
7.3.– Una
particolare attenzione meriterebbe l’affermazione, contenuta nell’atto di
intervento del Presidente del Consiglio dei ministri, stando alla quale la
legge n. 75 del 1958 proteggerebbe la «dignità oggettiva» della persona che si
prostituisce.
L’individuazione
in tale valore del bene protetto dalle incriminazioni di settore –
repentinamente operata, in effetti, dalle «ultimissime» decisioni
giurisprudenziali – rappresenterebbe un tentativo per eludere le conseguenze
del rilevato spostamento dell’asse della tutela dalla moralità pubblica al bene
privatistico della libertà di autodeterminazione: impostazione che non potrebbe
non imporre la dichiarazione di incostituzionalità delle fattispecie del
reclutamento e del favoreggiamento, ovvero la loro reinterpretazione nel senso
di dare rilievo, come fattore di esclusione la punibilità, al consenso
dell’avente diritto (nella specie, la prostituta per libera scelta).
Surrogando, come obiettivo di tutela, la libertà di autodeterminazione della
prostituta con la dignità oggettiva della stessa, si ottiene, infatti, il
risultato di escludere la disponibilità del bene protetto in capo alla
prostituta, così da legittimare la repressione penale del reclutamento e del
favoreggiamento anche nei confronti di prostitute per libera scelta.
La concezione
della dignità maggiormente rispondente alle esigenze costituzionali sarebbe,
tuttavia, quella soggettiva. Il diritto penale, se usato per tutelare una
dignità "oggettiva” imposta al singolo dall’alto, contro la sua libertà di
autodeterminazione, si trasformerebbe, infatti, in uno strumento oppressivo e
autoritario. In realtà, dietro a pretese concezioni oggettive e invalicabili
della dignità umana si nasconderebbero intenti moralistici, che sfociano in un
"paternalismo morale” inaccettabile come giustificazione di una norma
incriminatrice.
8.– Pure M. V. ha
depositato memoria, insistendo affinché le questioni siano accolte.
8.1.– La parte
osserva che la legge n. 75 del 1958, nella temperie storica dell’epoca, ha
riconosciuto bensì la libertà della donna di fare commercio del proprio corpo,
ma «con molte riserve etico-religiose»: dunque, ha inteso scoraggiare
l’esercizio della prostituzione punendo non solo – com’era giusto – lo
sfruttamento, ma anche le condotte di semplice aiuto.
Oggi, sessant’anni
dopo, molte donne eserciterebbero l’attività di escort volontariamente e senza
costrizione alcuna, come vere e proprie libere professioniste: sarebbe giusto,
pertanto, che il suddetto scoraggiamento – dovuto a pregiudizi morali – cessi e
che sia consentito anche a loro avere «un proprio staff organizzativo». Del
resto, anche le modelle, le spogliarelliste e alcune attrici, come le "porno
dive”, in qualche modo fanno commercio del proprio corpo, senza che chi ne
agevola le attività venga punito.
La parte reputa,
altresì, particolarmente significativa la decisione recentemente assunta dalla
Corte costituzionale in ordine alla fattispecie dell’aiuto al suicidio (ordinanza n. 207
del 2018), nella quale si riconosce che il malato che versi in determinate
condizioni ha il diritto di decidere come morire e anche di farsi aiutare in
ciò: dovendosi, al riguardo, tener conto di specifiche situazioni,
inimmaginabili all’epoca in cui la norma incriminatrice dell’istigazione o
aiuto al suicidio fu introdotta. Ma, se deve ritenersi legittimo lasciare alla
libertà individuale la scelta di disporre della propria vita in modo estremo e
irreversibile, a maggior ragione dovrebbe riconoscersi la possibilità di
disporre in modo transitorio del proprio corpo, destinandolo al piacere
sessuale altrui per un corrispettivo.
8.2.– Anche M. V.
contesta, poi, la fondatezza dell’eccezione di inammissibilità delle questioni
per omessa sperimentazione dell’interpretazione conforme, formulata
dall’Avvocatura dello Stato.
L’interpretazione
conforme non sarebbe, infatti, possibile, in quanto si risolverebbe nella
disapplicazione del testo normativo. Il giudice a quo è inoltre esonerato dal
tentativo di interpretazione conforme in presenza di un diritto vivente di
segno contrario: e, nella specie, il diritto vivente formatosi sul
favoreggiamento avrebbe tentato di adeguare tale figura di reato alle mutate
esigenze di tutela, ma elaborando distinzioni inutilizzabili perché troppo
incerte e inadatte a dare attuazione al principio di offensività, oltre che a
risolvere i problemi di indeterminatezza della fattispecie.
Quanto al merito
delle difese del Presidente del Consiglio dei ministri, la parte privata
ribadisce, in particolare, che la Corte di giustizia, nella sentenza
20 novembre 2001, causa C-268/99, Jany e altri,
ha dato mostra di considerare la prostituzione «un lavoro come un altro»,
inquadrabile nella categoria delle libere professioni, tanto da garantire a chi
lo esercita il diritto di poterlo svolgere in ogni Paese europeo in base al
principio della libera circolazione dei lavoratori.
Conseguentemente,
sarebbe mutato anche il concetto di «dignità». Il diritto penale potrebbe
tutelare la dignità solo in senso soggettivo, e non oggettivo, non potendosi
sottoporre a pena un comportamento solo perché considerato poco dignitoso dalla
maggioranza della popolazione, ovvero in base alla "morale di Stato”, a meno di
voler far «rivivere il tramontato Stato etico d’infausta memoria».
9.– Hanno
depositato memoria anche l’Associazione Rete per la Parità, l’Associazione
Donne in quota, l’Associazione Coordinamento italiano della Lobby Europea delle
Donne/Lef-Italia, l’Associazione Salute Donna,
l’Associazione UDI (Unione Donne in Italia), l’Associazione Resistenza
Femminista e l’Associazione IROKO ONLUS, eccependo l’inammissibilità delle
questioni, in quanto intese a chiedere un intervento che rientra nella
discrezionalità del legislatore, e sviluppando ulteriormente, nel merito, le
critiche all’impianto argomentativo dell’ordinanza di rimessione formulate con
l’atto di intervento.
10.– Con ordinanza
pronunciata all’udienza pubblica del 5 marzo 2019 questa Corte ha dichiarato,
peraltro, inammissibili gli interventi ad opponendum
delle Associazioni ora indicate e quello dell’Associazione Differenza Donna
Onlus.
Considerato
in diritto
1.– La Corte d’appello
di Bari dubita della legittimità costituzionale dell’art. 3, primo comma,
numeri 4), prima parte, e 8), della legge 20 febbraio 1958, n. 75 (Abolizione
della regolamentazione della prostituzione e lotta contro lo sfruttamento della
prostituzione altrui), «nella parte in cui configura come illecito penale il
reclutamento ed il favoreggiamento della prostituzione volontariamente e
consapevolmente esercitata».
La Corte
rimettente muove dal rilievo che, nell’attuale contesto storico, la
prostituzione non è un fenomeno unitario. Accanto alla prostituzione "coattiva”
e a quella "per bisogno”, vi sarebbe, infatti, una prostituzione per scelta
totalmente libera e volontaria, la quale troverebbe espressione paradigmatica
nella figura della escort (intendendosi per tale l’accompagnatrice retribuita,
disponibile anche a prestazioni sessuali): figura ignota all’epoca
dell’approvazione della legge n. 75 del 1958.
Su tale premessa,
la Corte pugliese assume che la scelta di offrire prestazioni sessuali verso
corrispettivo costituirebbe una forma di estrinsecazione della libertà di
autodeterminazione sessuale, garantita dall’art. 2 della Costituzione quale
diritto inviolabile della persona umana. Tale libertà, di natura
intrinsecamente "relazionale”, risulterebbe compromessa da disposizioni che
sanzionino penalmente attività di terzi che – senza incidere
sull’autodeterminazione della persona che si prostituisce – si limitino a
mettere in contatto quest’ultima con i clienti (come nel caso del reclutamento)
o a rendere più comodo l’esercizio della sua attività (come nell’ipotesi del
favoreggiamento).
Risulterebbe con
ciò violata anche la libertà di iniziativa economica privata, tutelata
dall’art. 41 Cost., della quale il volontario esercizio della prostituzione
costituirebbe pure espressione, in quanto attività normalmente professionale
svolta a fine di profitto. Precludendo, con la minaccia della pena, forme di
supporto all’iniziativa, quali quelle dell’intermediazione e dell’agevolazione,
le norme denunciate priverebbero l’attività economica in questione della
possibilità di svilupparsi al pari di ogni altra iniziativa imprenditoriale.
Le norme censurate
si porrebbero in contrasto, ancora, con il principio di necessaria offensività
del reato, desumibile dagli artt. 13, 25, secondo comma, e 27 Cost. Secondo la
giurisprudenza di legittimità più recente, infatti, il bene protetto dalle
disposizioni penali della legge n. 75 del 1958 andrebbe identificato, non già
nel valore "paternalistico” e anacronistico della morale pubblica e del buon
costume, ma proprio nella libera autodeterminazione della persona che si
prostituisce. In questa prospettiva, tuttavia, le condotte di reclutamento e di
favoreggiamento della prostituzione liberamente esercitata risulterebbero del
tutto inoffensive: il "reclutatore” e il "favoreggiatore” si limiterebbero,
infatti, ad agevolare la realizzazione della scelta dell’interessata,
producendo, così, un vantaggio e non un danno per lo stesso interesse tutelato.
Una conclusiva
questione investe la sola fattispecie del favoreggiamento, che la Corte
rimettente denuncia come lesiva dei principi di tassatività e determinatezza
dell’illecito penale, ricavabili dall’art. 25, secondo comma, Cost. La formula
descrittiva della condotta incriminata – «chiunque, in qualsiasi modo,
favorisca […] la prostituzione altrui» – risulterebbe, infatti, totalmente
generica, rimettendo al giudice il compito di individuare, nella infinita gamma
dei comportamenti riconducibili alla fattispecie astratta, quelli lesivi dell’interesse
protetto.
I criteri
elaborati dalla giurisprudenza allo scopo non sarebbero, d’altra parte, affatto
valsi a colmare la carenza di precisione del precetto, ma avrebbero anzi
generato ulteriori incertezze. Il discorso varrebbe, in modo particolare, per
la distinzione giurisprudenziale tra favoreggiamento della prostituzione
(punibile) e favoreggiamento della persona dedita alla prostituzione (non
punibile): distinzione da ritenere concettualmente scorretta e che finirebbe
per generare disparità di trattamento lesive del principio di eguaglianza (art.
3 Cost.).
2.– In via
preliminare, va rilevato che non possono essere prese in esame le deduzioni
svolte dalla parte costituita M. V., intese a dimostrare che anche la norma
incriminatrice del reclutamento ai fini dell’esercizio della prostituzione, di
cui all’art. 3, primo comma, numero 4), prima parte, della legge n. 75 del
1958, è carente sul piano della tassatività e della determinatezza.
L’ordinanza di
rimessione è, infatti, univoca nel limitare la censura di violazione dei
principi di tassatività e determinatezza alla sola ipotesi del favoreggiamento,
escludendo espressamente che analogo problema di costituzionalità si ponga in
rapporto alla fattispecie del reclutamento (la cui descrizione normativa
esigerebbe soltanto di "attualizzare” la nozione di «reclutamento», connessa
storicamente alla volontà legislativa di eliminare lo sfruttamento della
prostituzione esercitata nelle «case chiuse»).
Vale, dunque, il
principio, costantemente affermato da questa Corte, per cui l’oggetto del
giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale è limitato alle
disposizioni e ai parametri indicati nelle ordinanze di rimessione: con la
conseguenza che non possono essere presi in considerazione ulteriori questioni
o profili di costituzionalità dedotti dalle parti, sia eccepiti, ma non fatti
propri dal giudice a quo, sia volti ad ampliare o modificare successivamente il
contenuto delle stesse ordinanze (ex plurimis, sentenze n. 194,
n. 161, n. 12 e n. 4 del 2018 e
n. 29 del 2017).
3.– L’Avvocatura
generale dello Stato ha eccepito l’inammissibilità delle questioni sotto due
distinti profili.
3.1.– Secondo la
difesa dello Stato, il giudice a quo avrebbe omesso, anzitutto, di esperire il
doveroso tentativo di interpretazione conforme a Costituzione delle
disposizioni censurate, sollevando le questioni al solo scopo di ottenere un
avallo interpretativo.
L’eccezione è
infondata.
L’ipotetica
interpretazione adeguatrice cui allude l’Avvocatura
dello Stato, senza peraltro specificarne i contenuti, dovrebbe evidentemente
consistere nel ritenere che il reclutamento e il favoreggiamento della
prostituzione restino, già ora, esenti da pena allorché la persona reclutata o
favorita abbia liberamente scelto di prostituirsi. Ciò, o perché si tratterebbe
di condotte non conformi alla fattispecie legale, ovvero, eventualmente, in
ragione dell’operatività della scriminante del consenso dell’avente diritto
(art. 50 del codice penale).
Entrambe le
soluzioni ermeneutiche si pongono, tuttavia, in frontale contrasto con il
diritto vivente. La giurisprudenza di legittimità non ha mai dubitato, infatti,
che le incriminazioni in esame trovino applicazione a prescindere
dall’atteggiamento psicologico della persona che si prostituisce e dal suo
eventuale pieno consenso al compimento degli atti di meretricio (in questo
senso, espressamente, da ultimo, Corte di cassazione, sezione terza penale,
sentenze 17 novembre 2017-30 marzo 2018, n. 14593 e 19 luglio 2017-7 febbraio
2018, n. 5768). Conclusione che appare, peraltro, in linea non soltanto con
l’indifferenziato tenore letterale delle previsioni punitive, ma anche – come
si avrà presto modo di verificare – con la logica stessa del modello di
intervento adottato dalla legge n. 75 del 1958.
Non si può,
pertanto, rimproverare alla Corte rimettente di non essersi espressamente
interrogata sulla praticabilità di alternative ermeneutiche, che risulterebbero
chiaramente eccentriche rispetto al modo in cui le disposizioni censurate
"vivono” da sessant’anni. Per costante giurisprudenza di questa Corte, infatti,
in presenza di un orientamento giurisprudenziale consolidato, il giudice a quo,
se pure è libero di non uniformarvisi e di proporre una sua diversa esegesi,
ha, alternativamente, la facoltà di assumere l’interpretazione censurata in
termini di «diritto vivente» e di richiederne su tale presupposto il controllo
di compatibilità con i parametri costituzionali (ex plurimis,
sentenze n. 39
del 2018, n.
259 del 2017 e n. 200 del 2016;
ordinanza n. 201
del 2015). Ciò, senza che gli si possa addebitare di non aver seguito altra
interpretazione, più aderente ai parametri stessi, sussistendo tale onere solo
in assenza di un contrario diritto vivente (tra le altre, sentenze n. 122 del
2017 e n. 11
del 2015): nell’ipotesi considerata, infatti, «la norma vive ormai
nell’ordinamento in modo così radicato che è difficilmente ipotizzabile una
modifica del sistema senza l’intervento del legislatore o [della] Corte» (tra
le altre, sentenza
n. 191 del 2016; in senso analogo, ordinanza n. 207
del 2018).
3.2.– L’altra
eccezione di inammissibilità, formulata dell’Avvocatura dello Stato nella
memoria, fa leva sull’ampia discrezionalità che, secondo la costante
giurisprudenza di questa Corte, compete al legislatore in tema di individuazione
dei fatti punibili.
Essa attiene,
peraltro, più propriamente al merito delle questioni.
4.– Quanto al
merito, l’approccio al thema decidendum
non può prescindere da una preliminare ricognizione del quadro normativo e
giurisprudenziale di riferimento.
4.1.– Il fenomeno
della prostituzione – vocabolo che designa, in via di prima approssimazione,
l’effettuazione di prestazioni sessuali verso corrispettivo, di norma in modo
abituale e indiscriminato (senza, cioè, una previa limitazione a specifici
partner) – rappresenta un tema fra i più problematici per il legislatore
penale. Il problema non riguarda, ovviamente, la prostituzione "forzata” o la
tratta a fini di sfruttamento sessuale: ipotesi nelle quali è l’esigenza di
tutela della persona a reclamare in modo evidente e indiscutibile l’intervento
punitivo. Ma quando si tratti della prostituzione volontaria, l’analisi
storico-comparatistica è quanto mai restia a esprimere delle costanti,
offrendo, nei tempi e nei luoghi, una amplissima gamma di risposte
differenziate circa l’an e il quomodo
dell’impiego della sanzione penale.
Al fondo della
varietà di soluzioni normative, si colloca, peraltro, la preliminare opzione
tra due visioni alternative.
In base alla
prima, la prostituzione andrebbe riguardata come una scelta attinente
all’autodeterminazione in materia sessuale dell’individuo, che dà luogo a
un’attività economica legale. L’ordinamento dovrebbe, quindi, lasciare gli
individui tendenzialmente liberi di praticare la prostituzione, di fruire del
servizio sessuale e di agevolarlo. Si tratterebbe, semmai, solo di regolare
opportunamente l’esercizio dell’attività, onde far fronte ai "pericoli” in essa
insiti, analogamente a quanto avviene per tutte le attività economiche che
comportino "rischi consentiti” dall’ordinamento (cosiddetto modello regolamentarista).
Nella seconda
prospettiva, per converso, la prostituzione costituirebbe un fenomeno da
contrastare, anche penalmente, in ragione delle sue ricadute negative sul piano
individuale e sociale. Tali ricadute si apprezzerebbero su una pluralità di
versanti: quello dei diritti fondamentali dei soggetti vulnerabili; quello
della dignità umana (intesa in una accezione oggettiva, ossia come principio
che si impone a prescindere dalla volontà e dalle convinzioni del singolo
individuo); quello della salute, individuale e collettiva (non soltanto in
rapporto al pericolo di diffusione di malattie trasmissibili sessualmente, ma
anche in relazione ai maggiori rischi di dipendenza da droga e alcol, nonché di
traumi fisici e psicologici, depressione e disturbi mentali, cui è esposta la
persona che si prostituisce); quello, infine, dell’ordine pubblico (tenuto
conto delle attività illecite che frequentemente si associano alla
prostituzione, quali, ad esempio, oltre alla tratta di persone, il traffico di
stupefacenti e il crimine organizzato).
In quest’ottica,
la prostituzione viene quindi collocata nell’ambito di una disciplina "di
sfavore” variamente calibrata, secondo chi si decida di punire: entrambe le
parti del mercimonio sessuale (persona dedita alla prostituzione e cliente:
cosiddetto modello proibizionista, adottato, ad esempio, negli Stati Uniti, con
alcune eccezioni); ovvero una sola di esse (la quale nelle soluzioni più
recenti si identifica nel cliente: cosiddetto modello neo-proibizionista);
ovvero, ancora, soltanto le cosiddette condotte parallele alla prostituzione,
ossia i comportamenti dei terzi che entrano in relazione con questa, inducendo
la persona a esercitare tale attività, ovvero favorendola o traendone utili
(cosiddetto modello abolizionista).
4.2.– La
disciplina italiana della materia anteriore alla legge n. 75 del 1958 si
ispirava al modello, di origine francese, del cosiddetto regolamentarismo
classico (per distinguerlo dal regolamentarismo
contemporaneo, di cui si dirà più avanti), basato sul sistema delle «case di
tolleranza» (maisons de tolérance).
L’idea di fondo ad
esso sottesa è che la prostituzione rappresenti un "male necessario”, non
eliminabile, ma suscettibile e meritevole di essere regolato a fini di tutela
dell’ordine pubblico e della salute (idea riflessa anche nel riferimento alla
«tolleranza», che compare nel nomen delle case di
prostituzione). In questo modello, la prostituzione viene quindi concepita come
un’attività sottoposta a controllo di polizia, subordinata al rilascio di un
permesso alla singola prostituta e di una licenza per l’esercizio di gruppo,
che deve avvenire in appositi edifici rispondenti a una serie di requisiti.
Nel nostro
ordinamento, la relativa regolamentazione – particolarmente rigida e capillare
– era racchiusa nel testo unico delle leggi di pubblica sicurezza (artt. 190 e
seguenti del regio decreto 18 giugno 1931, n. 773, recante «Approvazione del
testo unico delle leggi di pubblica sicurezza») e nel relativo regolamento
(artt. 345 e seguenti del regio decreto 6 maggio 1940, n. 635, recante
«Approvazione del regolamento per l’esecuzione del testo unico 18 giugno 1931,
n. 773, delle leggi di pubblica sicurezza»). L’esercizio abituale della
prostituzione era consentito solo nei locali dichiarati di meretricio
dall’autorità di pubblica sicurezza, controllati dal punto di vista sanitario,
aventi particolari caratteristiche (una sola uscita, persiane sempre chiuse),
soggetti a specifici orari di apertura e sui quali lo Stato riscuoteva regolari
imposte; fuori dalle case di prostituzione, l’attività poteva essere esercitata
solo in sede non fissa, costituendo reato il meretricio in luogo chiuso non
preventivamente autorizzato; le prostitute erano schedate in un apposito
registro, munite di un libretto personale e sottoposte a visite mediche
obbligatorie.
In tale cornice,
la tutela penale aveva un ambito sensibilmente più ristretto rispetto
all’attuale. La materia era disciplinata nel Titolo XI del Libro II del codice
penale, dedicato ai «delitti contro la moralità pubblica e il buon costume».
Esclusa la punibilità della prostituzione in sé, nel codice Rocco esistevano
ovviamente fattispecie incriminatrici contro la prostituzione forzata: ma le
"condotte parallele” alla prostituzione volontaria – quali l’istigazione, il
favoreggiamento e lo sfruttamento – costituivano reato solo in presenza di
particolari condizioni, legate segnatamente, quanto alle prime due ipotesi
(istigazione e favoreggiamento), alla qualità dei soggetti passivi (minorenni,
persone in stato di infermità o deficienza psichica, stretti congiunti
dell’autore del fatto: artt. 531 e 532 cod. pen.) e,
quanto alla terza (sfruttamento), alla circostanza che fosse posto in essere un
vero e proprio "sistema di vita” di tipo parassitario in danno della persona
dedita alla prostituzione (così venendo ordinariamente inteso dalla
giurisprudenza il concetto di farsi «mantenere» da una prostituta, evocato
dall’art. 534 cod. pen.).
Un simile regime
si era rivelato, peraltro, largamente insoddisfacente. Pur riconoscendo una
parvenza di legittimità all’operato delle donne che si prostituivano, esso non
si proponeva, in ultima analisi, di tutelarle. Dietro la patina di tolleranza,
si celava, in effetti, una legislazione orientata alla "ghettizzazione”:
confinate all’interno delle «case chiuse», schedate e sottoposte a trattamenti
sanitari obbligatori, le prostitute si trovavano costrette, di fatto, ad
esercitare la loro attività in condizioni di avvilimento e degrado, nonché in
situazione di sfruttamento e di sottomissione al tenutario della "casa”.
4.3.– Nel
frattempo, si era peraltro fatto strada in ambito europeo un nuovo modello di
disciplina della prostituzione, originato da un movimento sorto in Gran Bretagna:
il cosiddetto abolizionismo.
Il suo postulato
di partenza è che la prostituzione costituisca una attività lesiva della
dignità delle persone che la esercitano, le quali non avrebbero verosimilmente
operato una simile scelta in diverse e più favorevoli condizioni economiche e
sociali. Lo Stato non dovrebbe, pertanto, regolare tale attività: meno che mai,
poi, prevedendo misure, quali le case di prostituzione e gli obblighi di visita
medica, che si risolvano, di fatto, in limitazioni della libertà personale del
soggetto che si prostituisce.
Nel lungo termine,
la prostituzione andrebbe piuttosto eliminata. A questo risultato non si
dovrebbe giungere, però, punendo la persona dedita alla prostituzione, perché
in tal modo si finirebbe per colpire due volte quelle che sono in realtà
vittime del sistema sociale; e neppure punendo il cliente, perché così si
scaricherebbe sul semplice fruitore della prestazione una responsabilità della
quale dovrebbe farsi carico lo Stato. L’obiettivo dovrebbe essere conseguito
invece, da un lato, rimovendo le cause sociali della prostituzione; dall’altro,
reprimendo severamente le attività ad essa collegate – quali l’induzione, il
lenocinio, lo sfruttamento o anche il semplice favoreggiamento (le "condotte
parallele”) – così da non consentire alla prostituzione di svilupparsi e di
proliferare. Idee, queste, che hanno trovato una significativa eco nella
Convenzione per la repressione della tratta degli esseri umani e dello
sfruttamento della prostituzione, adottata dall’Assemblea generale delle
Nazioni Unite il 2 dicembre 1949 e aperta alla firma a Lake Success-New York il
21 marzo 1950, alla quale l’Italia ha aderito il 18 gennaio 1980, depositando
il relativo strumento sulla base dell’autorizzazione rilasciata con legge 23
novembre 1966, n. 1173.
Nel nostro Paese,
l’adeguamento ai principi abolizionisti ha avuto luogo con la legge n. 75 del
1958 (cosiddetta legge Merlin, dal nome della proponente): legge il cui titolo
recita significativamente «Abolizione della regolamentazione della
prostituzione e lotta contro lo sfruttamento della prostituzione altrui».
La riforma muta
radicalmente la prospettiva del modello preesistente. Di là dalle motivazioni
di ordine più propriamente etico e morale (delle quali pure i lavori
parlamentari recano ampia traccia), si ritiene fondamentalmente, in linea con i
ricordati principi abolizionisti, che la scelta di esercitare la prostituzione
trovi normalmente la sua matrice in una condizione di vulnerabilità, legata a
cause individuali e sociali (quali «la distruzione della vita di famiglia,
l’insufficienza dell’educazione, il bisogno», «i rischi speciali inerenti a
certe professioni» o il «quadro ambientale» di moralità degradata). La persona
che vende prestazioni sessuali è, dunque, potenzialmente una vittima e
l’aggressore è la società nel suo complesso. Di qui la necessità che lo Stato
si astenga dal rendersi compartecipe dell’"industria del sesso”: «allo Stato,
che ha gli stessi doveri verso tutti i cittadini, non è lecito di sacrificare
una parte della popolazione, la più debole e la più miserabile, agli uomini che
vogliono abusarne» (in questi termini la relazione del senatore Boggiano Pico del 21 gennaio 1955 alla prima commissione
permanente del Senato della Repubblica).
Viene evocata –
correlativamente – anche l’esigenza di salvaguardia della dignità umana (alla
quale fa riferimento pure il preambolo della citata Convenzione delle Nazioni
Unite). La pregressa disciplina della materia viene considerata contrastante,
in specie, con i principi di «pari dignità sociale» e di promozione
dell’eguaglianza sostanziale dei cittadini in vista del «pieno sviluppo della
persona umana» (art. 3 Cost.), con il limite del «rispetto della persona umana»
nella previsione di trattamenti sanitari obbligatori (art. 32 Cost.), nonché
con i limiti della libertà e della dignità umana cui è soggetta l’iniziativa
economica privata (art. 41 Cost.) (in questo senso la relazione alla proposta
di legge presentata dall’onorevole Tozzi Condivi alla Presidenza della Camera dei
deputati il 6 aprile 1956, ove pure si ribadisce come le persone «cadute nella
prostituzione» non lo siano «quasi mai per loro decisa e libera volontà»,
essendo «invece trascinate a quella vita per condizioni di vita famigliare,
sociale, affettiva»). Nella medesima relazione, la nuova normativa viene
presentata come un provvedimento che mira «non a sopprimere la prostituzione ma
soltanto a sopprimere la regolamentazione della prostituzione», impedendo «che
nello Stato possa esistere una prostituzione autorizzata e regolamentata» e che
«ci siano degli esseri umani che vivano sfruttando legalmente il vizio e la
miseria».
A questi fini, la
legge vieta, quindi, l’esercizio di case di prostituzione e dispone la chiusura
di quelle esistenti (artt. 1 e 2 della legge n. 75 del 1958). Fa espresso
divieto, altresì, di qualsiasi forma di registrazione delle donne che
esercitano la prostituzione, escludendo che le stesse possano essere obbligate
a presentarsi periodicamente alle autorità di pubblica sicurezza o alle autorità
sanitarie (art. 7). Prevede, al tempo stesso, misure di rieducazione e
reinserimento sociale delle donne che escono dalle case di prostituzione (artt.
8 e 9).
Sul piano
penalistico, rimane ferma la non punibilità tanto del soggetto che si prostituisce
– a meno che i suoi comportamenti integrino gli estremi della nuova
contravvenzione di adescamento o invito al libertinaggio, di cui all’art. 5
della legge n. 75 del 1958 (contravvenzione poi depenalizzata dal decreto
legislativo 30 dicembre 1999, n. 507, recante «Depenalizzazione dei reati
minori e riforma del sistema sanzionatorio, ai sensi dell’articolo 1 della
legge 25 giugno 1999, n. 205») – quanto del cliente che si limiti a fruire
della prestazione sessuale (la cui punibilità sarà poi prevista nella sola
ipotesi della prostituzione minorile dall’art. 600-bis cod. pen.,
aggiunto dalla legge 3 agosto 1998, n. 269, recante «Norme contro lo
sfruttamento della prostituzione, della pornografia, del turismo sessuale in
danno di minori, quali nuove forme di riduzione in schiavitù»).
Le politiche
abolizioniste rivelano, peraltro, chiaramente il loro obiettivo ultimo con la
criminalizzazione "a tappeto” delle "condotte parallele” alla prostituzione.
Quest’ultima è configurata, bensì, come un’attività in sé lecita: e però le si
fa "terra bruciata” attorno, vietando, sotto minaccia di sanzione penale,
qualsiasi interazione di terzi con essa, sia sul piano materiale (in termini di
promozione, agevolazione o sfruttamento), sia sul piano morale (in termini di induzione).
Le disposizioni di
cui agli artt. da 531 a 536 cod. pen. vengono
sostituite, in questa chiave, da quelle dell’art. 3 della legge n. 75 del 1958,
il quale, nei suoi otto numeri, reca un fitto e policromo elenco di condotte
incriminate, tutte punite con l’energica pena della reclusione da due a sei
anni, oltre la multa (attualmente da euro 258 a euro 10.329).
Nella lista dei
comportamenti incriminati figurano anche le due fattispecie che formano oggetto
degli odierni quesiti di costituzionalità: il reclutamento di «una persona al
fine di farle esercitare la prostituzione» (art. 3, primo comma, numero 4,
prima parte) e il favoreggiamento, «in qualsiasi modo», della prostituzione
altrui (art. 3, primo comma, numero 8, prima parte).
Per «reclutamento»
si intende, in sostanza, l’ingaggio per l’esercizio della prostituzione: e ciò
indipendentemente dal fatto che la persona ingaggiata sia già dedita a tale
attività o fino a quel momento estranea ad essa. Al lume della corrente esegesi
giurisprudenziale, il reclutamento si realizza, in specie, allorché l’agente si
attivi al fine di collocare la persona nella disponibilità del soggetto che
intende trarre vantaggio dall’attività di meretricio. Per l’integrazione del
reato è, quindi, sufficiente un’attività di ricerca della persona da ingaggiare
e di persuasione della medesima, mediante la rappresentazione dei vantaggi
realizzabili, a recarsi in un determinato luogo e a rimanervi per un certo
tempo al fine di esaudire le richieste di prestazioni sessuali dei clienti (ex plurimis, tra le più recenti, Corte di cassazione, sezione
terza penale, sentenze 20 ottobre 2016-28 marzo 2017, n. 15217 e 12 novembre
2014-27 marzo 2015, n. 12999).
Il favoreggiamento
(previsto dal numero 8 in alternativa allo sfruttamento) rappresenta, a sua
volta, una fattispecie residuale e "di chiusura”, finalizzata a reprimere tutti
quei comportamenti atti a creare condizioni favorevoli per l’esercizio della
prostituzione che sarebbero potuti sfuggire altrimenti all’incriminazione,
stante la tecnica casistica utilizzata per descrivere le fattispecie di cui ai
numeri precedenti. La lata formulazione della disposizione fa sì che essa si
presti a reprimere le più svariate condotte che valgono a rendere più facile,
comodo, sicuro o lucroso l’esercizio della prostituzione altrui.
4.4.– L’esperienza
più recente ha visto, peraltro, emergere, in ambito europeo, ulteriori modelli di
disciplina della prostituzione, ai quali non è inopportuno far cenno in questa
sede, ai fini di una visione comparata del fenomeno.
Essi muovono dal
riscontro delle criticità manifestate dal modello abolizionista nel
conseguimento degli obiettivi prefissi: essendosi rilevato che, se, per un
verso, nei Paesi che lo hanno adottato la prostituzione non ha affatto
registrato una significativa flessione; per un altro verso, esso avrebbe finito
per perpetuare la condizione di debolezza sociale della persona che si
prostituisce e per esporla a maggiori rischi, sul piano dell’incolumità
personale e della salute.
Le soluzioni per
far fronte a tali criticità sono state, peraltro, ricercate in due direzioni
contrapposte.
Da un lato, si è
infatti ritenuto che occorra superare le ambiguità dell’abolizionismo in
direzione "liberale”, considerando, cioè, la prostituzione volontaria come
un’attività economica lecita a tutti gli effetti, assimilabile alle altre fonti
di guadagno e generatrice di ordinari diritti economici e sociali (nonché di
doveri fiscali) in capo a coloro che la esercitano. L’attenzione del
legislatore si dovrebbe focalizzare, in quest’ottica, essenzialmente sulle
cosiddette procedure di riduzione del danno, intese a limitare le conseguenze
negative che la vendita di prestazioni sessuali può comportare. Questo
approccio è fondamentalmente alla base delle legislazioni "neo-regolamentariste”, di vario taglio, messe in campo a
partire dagli anni ’90 dello scorso secolo in Paesi quali l’Olanda, la Germania,
l’Austria e la Svizzera.
In senso
diametralmente opposto, si addebita invece all’abolizionismo di "non fare
abbastanza” per tutelare la persona che si prostituisce dalla condotta
vessatoria degli altri soggetti, fra i quali rientrerebbe lo stesso cliente.
Andrebbe perciò eretto un argine più robusto contro l’approfittamento
di una condizione di vulnerabilità, che caratterizzerebbe le persone che si
prostituiscono.
È sulla scia di
questo filone critico dell’"abolizionismo” che si sviluppano le recenti politiche
"neo-proibizioniste” adottate da alcuni Paesi europei: politiche che hanno
trovato, in certa misura, appoggio anche da parte delle istituzioni dell’Unione
europea. In base ad esse, il legislatore penale dovrebbe intervenire per
proteggere il soggetto debole (anche) da colui che, attraverso la "domanda” del
servizio sessuale, ne alimenta lo sfruttamento: ossia il cliente.
Nella versione più
"temperata” di tale modello, il "consumatore” viene punito solo quando acquisti
servizi sessuali da una persona che sia vittima di prostituzione forzata (è la
soluzione adottata nel Regno Unito con il Policing
and Crime Act del 2009). Una simile tecnica d’intervento trova eco nella
direttiva 2011/36/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 5 aprile 2011,
concernente «la prevenzione e la repressione della tratta di esseri umani e la
protezione delle vittime», la quale invita specificamente gli Stati membri a
impegnarsi per ridurre la "domanda” che è alla base del traffico di esseri
umani, anche valutando la possibilità di prevedere come reato l’utilizzo di
servizi che sono oggetto di sfruttamento, qualora l’agente sia a conoscenza che
la persona è vittima di tratta (art. 18, paragrafo 4).
Nella versione più
ricorrente e radicale, per converso, si sceglie di punire il cliente sic et
simpliciter, ossia a prescindere dalle caratteristiche della persona che offre
i servizi sessuali e dalla condizione di soggiogamento o di necessità in cui
essa eventualmente si trovi. Si tratta del cosiddetto "modello nordico”, essendo
stata una simile strategia adottata anzitutto dalla Svezia, sul finire degli
anni ’90, e poi seguita da altri Paesi del Nord Europa, ai quali si è peraltro
recentemente aggiunta anche la Francia.
Il ricorso a un
simile modello è visto, altresì, con favore nella Risoluzione del Parlamento
europeo del 26 febbraio 2014, su «sfruttamento sessuale e prostituzione, e loro
conseguenze per la parità di genere» (2013/2103 – INI, punto 29).
4.5.– È di sicuro
interesse, agli odierni fini, rilevare come tanto le soluzioni legislative
ispirate al modello "abolizionista”, quanto quelle ispirate al modello
"neo-proibizionista” nella versione più radicale – che espande ulteriormente,
tramite la punizione del cliente, il perimetro della "terra bruciata” attorno
all’attività della persona dedita alla prostituzione – siano state ritenute
costituzionalmente compatibili dai Tribunali costituzionali di altri Paesi
europei, in relazione a censure in buona misura sovrapponibili a quelle oggi
rimesse all’esame di questa Corte.
Riguardo alle
soluzioni del primo tipo, si è pronunciato segnatamente in tal senso il
Tribunale costituzionale del Portogallo (Paese la cui legislazione rispecchia
anch’essa il modello "abolizionista”), il quale, con la sentenza n. 641/2016
del 21 novembre 2016, ha negato che possa ritenersi costituzionalmente
illegittima la norma incriminatrice del cosiddetto lenocinio semplice (art.
169, comma 1, del codice penale portoghese, come novellato), costituito dal
fatto di chi, «professionalmente o comunque a fine di lucro, fomenta, favorisce
o facilita l’esercizio della prostituzione da parte di altra persona».
Quanto al secondo
modello, il Consiglio costituzionale francese ha parimente escluso, con la
recente decisione n. 2018-761 QPC del 1° febbraio 2019, la denunciata
incostituzionalità dell’art. 611-1 del codice penale francese, aggiunto dalla
legge 13 aprile 2016, n. 2016-444, che sottopone a pena (pecuniaria) il cliente
della persona che si prostituisce, a prescindere dal carattere forzato, o no,
dell’attività di quest’ultima.
5.– Scendendo,
quindi, sulla scorta di tale excursus, all’esame delle censure di illegittimità
costituzionale formulate dalla Corte rimettente, l’attenzione va portata
anzitutto su quella riferita all’art. 2 Cost.
Nel denunciare la violazione
di tale parametro, la Corte pugliese muove dal rilievo che l’attuale contesto
storico – ben diverso da quello, postbellico, nel quale la legge n. 75 del 1958
fu concepita – si caratterizzerebbe per la presenza di una prostituzione
totalmente libera e volontaria, non dovuta, cioè, né a coazione altrui, né a
uno stato di bisogno della persona che la esercita: una prostituzione
tendenzialmente "di élite” e rivolta a clienti facoltosi, incarnata
emblematicamente dalla figura della cosiddetta escort (accompagnatrice
retribuita, disponibile anche a prestazioni sessuali). Ed è alla luce di tale
nuova realtà sociale che andrebbe, dunque, verificata la legittimità
costituzionale delle soluzioni adottate dal legislatore del 1958.
Secondo il giudice
a quo, la scelta di prostituirsi, ove libera e volontaria, rappresenterebbe, in
effetti, una modalità di espressione della «libertà di autodeterminazione
sessuale», qualificabile come diritto inviolabile della persona umana garantito
dall’art. 2 Cost. Da ciò l’asserita necessità costituzionale di rimuovere ogni
ostacolo alla piena realizzazione della scelta stessa: ostacolo che verrebbe,
per converso, frapposto da disposizioni quali quelle censurate, che reprimono
condotte di terzi intese a promuovere e ad agevolare l’attività della
prostituta, in accordo con i suoi stessi desiderata.
Si tratta di
conclusione che, se fondata, avrebbe una forza espansiva che va chiaramente
oltre le fattispecie del reclutamento e del favoreggiamento. Nella medesima
logica, sarebbero destinate, infatti, a cadere anche tutte le altre previsioni
punitive dell’art. 3 della legge n. 75 del 1958 che colpiscono forme specifiche
di "cooperazione” alla prostituzione altrui, non importa se remunerate.
Risulterebbe posta, anzi, in dubbio – contrariamente a quanto mostrano di
ritenere la Corte rimettente e le parti costituite – persino la legittimità
costituzionale dell’incriminazione dell’induzione alla prostituzione (numeri 5
e 6 dell’art. 3 della legge n. 75 del 1958), ove scevra da violenza, minaccia o
inganno (modalità di condotta che, nell’architettura della legge n. 75 del
1958, integrano una circostanza aggravante speciale: art. 4, numero 1). Non si
comprenderebbe infatti – in quella logica – perché debba essere sottoposta a
pena la persuasione ad effettuare una certa opzione, anziché un’altra,
nell’ambito del ventaglio delle possibili modalità alternative di esercizio di
un diritto inviolabile della persona.
5.1.– La tesi del
giudice a quo non può essere condivisa.
L’art. 2 Cost.
impegna la Repubblica italiana a riconoscere e garantire i «diritti inviolabili
dell’uomo», sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua
personalità e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà
politica, economica e sociale. La previsione si presenta strettamente connessa
a quella del successivo art. 3, secondo comma, che, al fine di rendere
effettivi tali diritti, impegna altresì la Repubblica a rimuovere gli ostacoli
di ordine economico e sociale che impediscono «il pieno sviluppo della persona
umana».
L’art. 2 Cost.
collega, dunque, i diritti inviolabili al valore della persona e al principio
di solidarietà. I diritti di libertà sono riconosciuti, cioè, dalla
Costituzione in relazione alla tutela e allo sviluppo del valore della persona
e tale valore fa riferimento non all’individuo isolato, ma a una persona
titolare di diritti e doveri e, come tale, inserita in relazioni sociali. Il
costituzionalismo contemporaneo è, del resto, ispirato all’idea che
l’ordinamento non deve limitarsi a garantire i diritti costituzionali ma deve
adoprarsi per il loro sviluppo. Di qui una concezione dell’individuo come
persona cui spetta una "libertà di” e non soltanto una "libertà da”.
È vero che con la sentenza n. 561 del
1987 – richiamata dal giudice a quo a sostegno della sua tesi – questa
Corte ha ritenuto che il catalogo dei diritti inviolabili evocati dall’art. 2
Cost. includa la «libertà sessuale». Si è rilevato, infatti, che la sessualità
rappresenta «uno degli essenziali modi di espressione della persona umana», con
la conseguenza che «il diritto di disporne liberamente è senza dubbio un
diritto soggettivo assoluto, che va ricompreso tra le posizioni soggettive direttamente
tutelate dalla Costituzione ed inquadrato tra i diritti inviolabili della
persona umana che l’art. 2 Cost. impone di garantire». Ma l’affermazione è
stata resa in rapporto a una fattispecie nella quale veniva in rilievo il
profilo negativo di tale libertà, ossia il diritto ad opporsi a "intrusioni”
altrui non volute nella propria sfera sessuale, e con riguardo alle pretese
risarcitorie scaturenti dalla violazione di tale diritto. Si lamentava,
infatti, nell’occasione, che la disciplina sul trattamento pensionistico di
guerra escludesse la risarcibilità dei danni non patrimoniali patiti dalle
vittime di violenze carnali consumate in occasione di fatti bellici.
È indubbio,
peraltro, che l’asserto dianzi riprodotto ben può ritenersi riferibile anche al
profilo positivo della libertà in questione, il quale implica che ciascun
individuo possa fare libero uso della sessualità come mezzo di esplicazione
della propria personalità, s’intende, nel limite del rispetto dei diritti e
delle libertà altrui.
5.2.– Se è il
collegamento con lo sviluppo della persona a qualificare la garanzia apprestata
dall’art. 2 Cost., non è possibile ritenere che la prostituzione volontaria
partecipi della natura di diritto inviolabile – il cui esercizio dovrebbe
essere, a questa stregua, non solo non ostacolato, ma addirittura,
all’occorrenza, agevolato dalla Repubblica – sulla base del mero rilievo che
essa coinvolge la sfera sessuale di chi la esercita.
Non può essere
certamente condiviso l’assunto del giudice rimettente, stando al quale la
prostituzione volontaria rappresenterebbe una «modalità autoaffermativa
della persona umana, che percepisce il proprio sé in termini di erogazione
della propria corporeità e genitalità (e del piacere ad essa connesso) verso o
contro la dazione di diversa utilità».
L’offerta di
prestazioni sessuali verso corrispettivo non rappresenta affatto uno strumento
di tutela e di sviluppo della persona umana, ma costituisce – molto più
semplicemente – una particolare forma di attività economica. La sessualità
dell’individuo non è altro, in questo caso, che un mezzo per conseguire un
profitto: una "prestazione di servizio” inserita nel quadro di uno scambio
sinallagmatico. E come «prestazione di servizi retribuita», rientrante nel
novero delle «attività economiche» svolte in qualità di lavoro autonomo, la
prostituzione è stata in effetti qualificata tanto dalla Corte di giustizia
delle Comunità europee nella sentenza
20 novembre 2001, causa C-268/99, Jany e altri,
citata dalle parti costituite; quanto dalla Corte di cassazione, nelle pronunce
– richiamate sia dal giudice a quo, sia dalle stesse parti costituite – che
hanno ritenuto assoggettabili ad imposta i proventi di tale attività (Corte di
cassazione, sezione quinta civile, sentenze 4 novembre 2016, n. 22413; 27
luglio 2016, n. 15596; 13 maggio 2011, n. 10578; 1° ottobre 2010, n. 20528).
Ammesso pure che vi siano persone che considerano personalmente gratificante esercitare
la prostituzione, questo non cambia la sostanza delle cose.
Al riguardo, non
gioverebbe obiettare che un diritto fondamentale resta tale anche se esercitato
dietro corrispettivo. L’argomento prova troppo: ragionando in questi termini,
qualsiasi attività imprenditoriale o di lavoro autonomo verrebbe a costituire
un diritto inviolabile della persona, nella misura in cui richiede l’esercizio
di una qualche libertà costituzionalmente garantita.
Lo stesso giudice
a quo mostra, del resto, di essere consapevole di tutto ciò nel momento in cui
evoca come parametro congiunto dello scrutinio di costituzionalità l’art. 41
Cost., in materia di libertà di iniziativa economica privata.
I rilievi che
precedono appaiono tanto più validi, d’altro canto, in rapporto a questioni di
costituzionalità quali quelle odierne, nella cui cornice la tutela della
persona che si prostituisce è solo indiretta, mirando l’incidente di
costituzionalità a salvaguardare, in prima battuta – e soprattutto – i terzi
che si intromettono nell’attività di tale persona o che cooperano con essa.
Paradigmatico, in proposito, il modo in cui la Corte rimettente – pur
nell’ambito della denuncia di violazione dell’art. 2 Cost. – configura la
condotta di reclutamento ai fini dell’esercizio della prostituzione, osservando
come la stessa si collochi all’interno del «libero incontro sul mercato del
sesso tra domanda e offerta»: dunque, una attività di intermediazione
pertinente a un contesto tipicamente "commerciale”.
La questione è, in
conclusione, infondata, essendo l’invocato art. 2 Cost. un parametro non
conferente rispetto all’(intromissione di terzi nell’)esercizio dell’attività
di prostituzione.
6.– Pertinente risulta,
invece, alla luce di quanto si è detto, il riferimento all’art. 41 Cost.:
parametro, del resto, espressamente richiamato (con i suoi divieti) nell’ambito
dei lavori preparatori della legge n. 75 del 1958, ove pure si affermò che lo
scopo della legge era di mettere fine al coinvolgimento dello Stato
nell’"industria del meretricio”.
Quel che lamenta
il giudice a quo, d’altra parte, è che le norme incriminatrici censurate,
inibendo con la minaccia della pena la collaborazione di terzi, impediscano alla
persona dedita alla prostituzione di svolgere la propria attività in modo
organizzato, ed eventualmente anche nella forma di una vera e propria impresa.
6.1.– Anche tale
questione è, tuttavia, infondata.
In base all’art.
41, secondo comma, Cost. la libertà di iniziativa economica è tutelata a
condizione che non comprometta altri valori che la Costituzione considera
preminenti: essa non può, infatti, svolgersi «in contrasto con l’utilità
sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità
umana».
Nella specie, la
compressione delle possibilità di sviluppo dell’attività di prostituzione che
deriva dalle norme censurate è strumentale al perseguimento di obiettivi che
involgono i valori ora indicati. Tali obiettivi si identificano segnatamente,
anche alla luce delle ricordate indicazioni dei lavori preparatori della legge
n. 75 del 1958, nella tutela dei diritti fondamentali delle persone vulnerabili
e della dignità umana.
È, in effetti,
inconfutabile che, anche nell’attuale momento storico, quando pure non si sia
al cospetto di vere e proprie forme di prostituzione forzata, la scelta di
"vendere sesso” trova alla sua radice, nella larghissima maggioranza dei casi,
fattori che condizionano e limitano la libertà di autodeterminazione
dell’individuo, riducendo, talora drasticamente, il ventaglio delle sue opzioni
esistenziali. Può trattarsi non soltanto di fattori di ordine economico, ma
anche di situazioni di disagio sul piano affettivo o delle relazioni familiari
e sociali, capaci di indebolire la naturale riluttanza verso una "scelta di
vita” quale quella di offrire prestazioni sessuali contro mercede.
Né giova obiettare
che, in tale prospettiva, la disciplina censurata si paleserebbe – nella sua
assolutezza – eccedente lo scopo, vietando ogni cooperazione anche con quelle
persone che si prostituiscano per effetto di scelte pienamente libere e
consapevoli: fenomenologia che, per quanto ridotta possa essere la sua
incidenza percentuale, meriterebbe, comunque sia, un trattamento differenziato.
Al riguardo,
occorre considerare che, in questa materia, la linea di confine tra decisioni
autenticamente libere e decisioni che non lo sono si presenta fluida già sul
piano teorico – risultando, perciò, non agevolmente traducibile sul piano normativo
in formule astratte – e, correlativamente, di problematica verifica sul piano
processuale, tramite un accertamento ex post affidato alla giurisdizione
penale.
A ciò si
affiancano, peraltro, anche preoccupazioni di tutela delle stesse persone che
si prostituiscono – in ipotesi – per effetto di una scelta (almeno
inizialmente) libera e consapevole. Ciò in considerazione dei pericoli cui esse
si espongono nell’esercizio della loro attività: pericoli connessi al loro
ingresso in un circuito dal quale sarà poi difficile uscire volontariamente,
stante la facilità con la quale possono divenire oggetto di indebite pressioni
e ricatti, nonché ai rischi per l’integrità fisica e la salute, cui esse
inevitabilmente vanno incontro nel momento in cui si trovano isolate a contatto
con il cliente (pericoli di violenza fisica, di coazioni a subire atti sessuali
indesiderati, di contagio conseguente a rapporti sessuali non protetti e via
dicendo).
Riguardo, poi,
alla concorrente finalità di tutela della dignità umana, è incontestabile che,
nella cornice della previsione dell’art. 41, secondo comma, Cost., il concetto
di «dignità» vada inteso in senso oggettivo: non si tratta, di certo, della
"dignità soggettiva”, quale la concepisce il singolo imprenditore o il singolo lavoratore.
È, dunque, il legislatore che – facendosi interprete del comune sentimento
sociale in un determinato momento storico – ravvisa nella prostituzione, anche
volontaria, una attività che degrada e svilisce l’individuo, in quanto riduce
la sfera più intima della corporeità a livello di merce a disposizione del
cliente.
Valutazioni tutte,
quelle dianzi indicate, che spiegano e giustificano, dunque, sul piano
costituzionale, la scelta del legislatore italiano – per nulla isolata, come si
è visto, nel panorama internazionale – di inibire, con le norme denunciate, la
possibilità che l’esercizio della prostituzione formi oggetto di attività
imprenditoriale.
6.2.– Il fatto
stesso che il legislatore – in accordo con i postulati del modello
abolizionista – identifichi nella persona che si prostituisce il "soggetto
debole” del rapporto spiega, altresì, la scelta di non intervenire penalmente
nei confronti di quest’ultima, ma solo nei confronti dei terzi che
"interagiscano” con la prostituzione altrui.
Come rilevato
anche dal Tribunale costituzionale del Portogallo nella decisione in precedenza
richiamata, non vi è alcuna insanabile contraddizione nella dissociazione del
giudizio sulla condotta-base della prostituta da quello sulla condotta del
terzo che ne agevola – o sfrutta o istiga – l’attività.
Non si tratta di
ipotesi isolata.
Allo stesso modo,
infatti, questa Corte ha escluso che possa ritenersi censurabile sul piano
costituzionale la disparità di trattamento tra il consumatore di sostanze
stupefacenti e chi gli fornisce la sostanza: il primo resta immune da pena
(incorrendo solo in sanzioni amministrative: art. 75 del d.P.R. 9 ottobre 1990,
n. 309, recante il «Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli
stupefacenti e delle sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione
dei relativi stati di tossicodipendenza»); il secondo va, invece, incontro a
severe sanzioni criminali (art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990) (sentenza n. 296 del
1996).
Giova
sottolineare, per altro verso, che è ben vero che il vigente ordinamento non
vieta, di per sé, l’offerta di sesso a pagamento, ma ciò non significa che essa
si configuri come espressione di un diritto costituzionalmente tutelato. Significativo,
in tal senso, è che il patto avente ad oggetto lo scambio tra prestazioni
sessuali e utilità economica venga tradizionalmente configurato come contratto
nullo per illiceità della causa, in quanto contrario ai boni mores (art. 1343 del codice civile), il cui unico effetto
giuridicamente rilevante è la soluti retentio, vale a
dire il diritto della persona che si prostituisce di trattenere le somme
ricevute dal cliente (art. 2035 cod. civ.), senza, tuttavia, che ella possa
agire giudizialmente nel caso di mancato pagamento spontaneo (Corte di
cassazione, sezione seconda penale, sentenza 17 gennaio 2001-5 marzo 2001, n.
9348; vedi, anche, Corte di cassazione, sezione quinta civile, sentenza 27
luglio 2016, n. 15596).
La circostanza –
sulla quale insistono tanto l’ordinanza di rimessione, quanto le parti
costituite – che la giurisprudenza di legittimità consideri ormai tassabili i
proventi della prostituzione è, poi, ben poco significativa. Attualmente,
infatti, l’ordinamento tributario assoggetta, in via generale, a imposizione
anche i proventi derivanti da fatti, atti o attività qualificabili come
illecito civile, amministrativo o penale, ove non sottoposti a sequestro o
confisca penale (art. 14, comma 4, della legge 24 dicembre 1993, n. 537, recante
«Interventi correttivi di finanza pubblica»). Anche per questo aspetto, dunque,
non vi è nulla di contraddittorio fra l’assoggettamento a imposta dei proventi
dell’attività di meretricio e il fatto che la legge, pur senza sanzionarla
direttamente, adotti misure indirette, di carattere penale, intese ad arginare
lo sviluppo dell’attività tassata, colpendo i terzi che vi cooperano.
Nessun argomento a
sostegno della denunciata violazione dell’art. 41 Cost. può essere ricavato,
infine, dalla sentenza
della Corte di giustizia 20 novembre 2011, causa C-268/99, Jany
e altri, precedentemente richiamata. Essa ha qualificato, bensì, la
prostituzione come attività economica svolta in qualità di lavoratore autonomo:
ma ciò al solo fine di escludere che l’esercizio di tale attività possa essere
considerato un comportamento abbastanza grave da legittimare restrizioni
all’accesso o al soggiorno, nel territorio di uno Stato membro, di un cittadino
di altro Stato membro, nel caso in cui il primo Stato (nella specie l’Olanda,
Paese la cui legislazione è ispirata al modello "regolamentarista”)
non abbia adottato misure repressive ove il medesimo comportamento sia posto in
essere da un proprio cittadino.
7.– Nelle
considerazioni dianzi svolte è insita l’infondatezza anche dell’ulteriore
questione riferita al principio di necessaria offensività del reato.
7.1.– Per costante
giurisprudenza di questa Corte, l’individuazione dei fatti punibili, così come
la determinazione della pena per ciascuno di essi, costituisce materia affidata
alla discrezionalità del legislatore. Gli apprezzamenti in ordine alla "meritevolezza” e al "bisogno di pena” – dunque,
sull’opportunità del ricorso alla tutela penale e sui livelli ottimali della
stessa – sono, infatti, per loro natura, tipicamente politici (sentenze n. 95 del
2019 e n. 394 del 2006). Le scelte legislative in materia sono pertanto
censurabili, in sede di sindacato di legittimità costituzionale, solo ove
trasmodino nella manifesta irragionevolezza o nell’arbitrio (ex plurimis, sentenze n. 95 del
2019, n. 273
e n. 47 del 2010;
ordinanze n. 249
e n. 71 del 2007;
nonché, con particolare riguardo al trattamento sanzionatorio, sentenze n. 179 del
2017, n. 236
e n. 148 del
2016).
Tali affermazioni appaiono
tanto più valide in rapporto a un fenomeno come quello della prostituzione, il
quale, per quanto rilevato in apertura di discorso, si presta a un’ampia
varietà di differenti valutazioni e strategie d’intervento.
Per quel che
attiene, poi, più specificamente, alla limitazione della discrezionalità
legislativa che deriva, comunque sia, dall’esigenza di rispetto del principio
di offensività, questa Corte ha da tempo chiarito come tale principio «operi su
due piani distinti. Da un lato, come precetto rivolto al legislatore, il quale
è tenuto a limitare la repressione penale a fatti che, nella loro
configurazione astratta, presentino un contenuto offensivo di beni o interessi
ritenuti meritevoli di protezione (cosiddetta offensività "in astratto”). Dall’altro,
come criterio interpretativo-applicativo per il giudice comune, il quale, nella
verifica della riconducibilità della singola fattispecie concreta al paradigma
punitivo astratto, dovrà evitare che ricadano in quest’ultimo comportamenti
privi di qualsiasi attitudine lesiva (cosiddetta offensività "in concreto”) (sentenze n. 225 del
2008, n. 265
del 2005, n.
519 e n. 263
del 2000). Quanto al primo versante, il principio di offensività "in
astratto” non implica che l’unico modulo di intervento costituzionalmente
legittimo sia quello del reato di danno. Rientra, infatti, nella
discrezionalità del legislatore l’opzione per forme di tutela anticipata, le
quali colpiscano l’aggressione ai valori protetti nello stadio della semplice
esposizione a pericolo, nonché, correlativamente, l’individuazione della soglia
di pericolosità alla quale riconnettere la risposta punitiva (sentenza n. 225 del
2008): prospettiva nella quale non è precluso, in linea di principio, il
ricorso al modello del reato di pericolo presunto (sentenze n. 133 del
1992, n. 333
del 1991 e n.
62 del 1986). In tale ipotesi, tuttavia, affinché il principio in questione
possa ritenersi rispettato, occorrerà "che la valutazione legislativa di
pericolosità del fatto incriminato non risulti irrazionale e arbitraria, ma
risponda all’id quod plerumque
accidit” (sentenza n. 225 del
2008; analogamente, sentenza n. 333 del
1991)» (sentenza
n. 109 del 2016).
7.2.– Nel caso in
esame, si registrano significative oscillazioni della giurisprudenza di
legittimità in ordine all’individuazione del bene giuridico protetto dalle
disposizioni penali della legge n. 75 del 1958.
Per lungo tempo,
essa ha infatti individuato l’oggetto della tutela – conformemente
all’originaria impostazione del codice penale – nel buon costume e nella
moralità pubblica (dunque, in un interesse "metaindividuale”
e indisponibile). Nel 2004 tale indirizzo è stato oggetto di revisione,
essendosi affermato, in alcune pronunce, che la legge in questione mirerebbe,
in realtà, principalmente a salvaguardare la dignità e la libertà di
determinazione della persona che si prostituisce (Corte di cassazione, sezione
terza penale, 8 giugno 2004-2 settembre 2004, n. 35776; abbina pariteticamente
tale interesse individuale alla protezione della moralità pubblica e del buon
costume, Corte di cassazione, sezione terza penale, 9 novembre 2004-21 gennaio
2005, n. 1716). Ed è proprio valorizzando il riferimento alla libera
autodeterminazione della persona nella sfera sessuale, operato dal nuovo
indirizzo giurisprudenziale (peraltro in combinazione alla dignità), che la
Corte rimettente nega che le norme censurate possano ritenersi rispettose del
principio di offensività: se la persona ha liberamente scelto di prostituirsi,
chi l’aiuta a realizzare la sua scelta recherebbe un vantaggio, e non un danno,
allo stesso interesse tutelato.
Successivamente,
peraltro, la giurisprudenza di legittimità ha conosciuto una ulteriore
evoluzione. Secondo le più recenti pronunce in materia, infatti, il bene
protetto dalla legge n. 75 del 1958 non sarebbe né la morale pubblica, né la
libera autodeterminazione sessuale della persona che esercita il meretricio, la
quale, se fosse conculcata contro la sua volontà, darebbe luogo a ben diversi
reati. La tutela si focalizzerebbe, invece, soltanto sulla dignità della
persona esplicata attraverso lo svolgimento dell’attività sessuale, che non
potrebbe costituire materia di contrattazioni (Corte di cassazione, sezione
terza penale, sentenze 17 novembre 2017-30 marzo 2018, n. 14593 e 19 luglio
2017-7 febbraio 2018, n. 5768).
Questa nuova
correzione di rotta è criticata dalle parti costituite, le quali ravvisano in
essa un mero espediente per evitare di dover riconoscere l’illegittimità
costituzionale delle disposizioni censurate. Il richiamo al concetto di dignità
– che nella cornice del più recente orientamento assume chiaramente una valenza
oggettiva – maschererebbe, nella sostanza, una riesumazione della vecchia
prospettiva della tutela della morale dominante: valore insuscettibile – in
assunto – di assurgere a oggetto della tutela penale, ostandovi il principio di
laicità dello Stato, che impedirebbe di assoggettare a pena determinate
condotte solo perché considerate dai più eticamente scorrette.
7.3.– Al riguardo,
è peraltro dirimente il rilievo che le incriminazioni oggetto dell’odierno
scrutinio si rivelano, comunque sia, conciliabili con il principio di
offensività "in astratto” ove riguardate nell’ottica della protezione dei
diritti fondamentali dei soggetti vulnerabili e delle stesse persone che
esercitano la prostituzione per scelta, nei termini già illustrati: ottica
nella quale esse risultano rispettose dei canoni indicati dalla giurisprudenza
di questa Corte, appena sopra ricordati.
Quanto precede non
significa, peraltro – come appare evidente – che l’incriminazione delle
"condotte parallele” alla prostituzione rappresenti una soluzione
costituzionalmente imposta e che il legislatore non possa, nella sua
discrezionalità, decidere di fronteggiare i pericoli insiti nel fenomeno della
prostituzione con una strategia diversa. Quella in esame rientra,
semplicemente, nel ventaglio delle possibili opzioni di politica criminale, non
contrastanti con la Costituzione.
In rapporto alla
disciplina vigente, resta d’altra parte ferma, in ogni caso, l’operatività del
principio di offensività nella sua proiezione concreta e, dunque, il
potere-dovere del giudice comune di escludere la configurabilità del reato in
presenza di condotte che, in rapporto alle specifiche circostanze, si rivelino
concretamente prive di ogni potenzialità lesiva.
8.– Infondata è
anche l’ultima questione, con la quale si denuncia il difetto di determinatezza
e tassatività della sola fattispecie del favoreggiamento.
Questa Corte ha
già avuto modo di dichiarare non fondata analoga questione, sollevata
all’indomani dell’entrata in vigore della legge n. 75 del 1958, anche con
riguardo alla fattispecie dello sfruttamento (sentenza n. 44 del
1964, ribadita dalla successiva ordinanza n. 98 del
1964). La conclusione va qui confermata.
Per costante
giurisprudenza di questa Corte, «l’inclusione nella formula descrittiva
dell’illecito di espressioni sommarie, di vocaboli polisensi, ovvero di
clausole generali o concetti "elastici”, non comporta un vulnus del parametro
costituzionale evocato, quando la descrizione complessiva del fatto incriminato
consenta comunque al giudice – avuto riguardo alle finalità perseguite
dall’incriminazione ed al più ampio contesto ordinamentale in cui essa si
colloca – di stabilire il significato di tale elemento mediante un’operazione
interpretativa non esorbitante dall’ordinario compito a lui affidato: quando
cioè quella descrizione consenta di esprimere un giudizio di corrispondenza
della fattispecie concreta alla fattispecie astratta, sorretto da un fondamento
ermeneutico controllabile; e, correlativamente, permetta al destinatario della
norma di avere una percezione sufficientemente chiara ed immediata del relativo
valore precettivo» (sentenza n. 25 del
2019; nello stesso senso, sentenze n. 172 del
2014, n. 282
del 2010, n.
21 del 2009, n.
327 del 2008 e n. 5 del 2004).
Nella specie, la
descrizione del fatto incriminato, nella sua "asciuttezza” – «chiunque in
qualsiasi modo favorisca […] la prostituzione altrui» – fa perno, comunque sia,
su un concetto, quale quello di favoreggiamento, di ampio e sperimentato uso
nell’ambito del diritto penale, e che compare (sia pure senza l’inciso «in qualsiasi
modo») anche in rapporto al delitto di prostituzione minorile (art. 600-bis,
primo comma, cod. pen.).
Per questo verso,
la disposizione incriminatrice non è affatto più indeterminata di quanto lo sia
la generale disposizione sul concorso di persone nel reato (art. 110 cod. pen.), costruita anch’essa come clausola sintetica («[q]uando più persone concorrono nel medesimo reato»). Il
favoreggiamento, del resto, non è altro che una forma di concorso materiale
nella prostituzione altrui (pur con la particolarità che, per le ragioni già
poste in evidenza, nell’occasione è punito solo il compartecipe e non l’autore
del fatto).
Contrariamente a
quanto ritiene la Corte rimettente, nessun argomento a sostegno della tesi
dell’indeterminatezza del precetto può essere ricavato dall’indirizzo
giurisprudenziale secondo il quale, ai fini della punibilità, la condotta di
favoreggiamento deve essersi risolta in un aiuto alla prostituzione, e non già
alla persona dedita ad essa (per tutte, Corte di cassazione, sezione terza
penale, sentenze 4 febbraio 2014-17 febbraio 2014, n. 7338 e 22 maggio 2012-21
settembre 2012, n. 36595). L’affermazione è, infatti, sintonica al testo della
norma censurata – il quale esige che la condotta incriminata favorisca
l’attività, e non la persona che la esercita – e mira proprio ad evitare
indebite dilatazioni della sfera applicativa della figura criminosa.
L’esistenza, poi, di dubbi o contrasti riguardo alla concreta applicazione del
principio in rapporto a determinate fattispecie non vale, di per sé, a
dimostrare il difetto di precisione del precetto, trattandosi di evenienza che
rientra nella fisiologia dell’ermeneutica giudiziale.
Cade, con ciò,
anche la censura di violazione dell’art. 3 Cost., sotto il profilo
dell’ingiustificata disparità di trattamento di situazioni in assunto analoghe.
9.– Alla luce
delle considerazioni che precedono, le questioni vanno dichiarate, pertanto,
non fondate in relazione a tutti i parametri evocati.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale
dell’art. 3, primo comma, numeri 4), prima parte, e 8), della legge 20 febbraio
1958, n. 75 (Abolizione della regolamentazione della prostituzione e lotta
contro lo sfruttamento della prostituzione altrui), sollevate, in riferimento
agli artt. 2, 3, 13, 25, secondo comma, 27 e 41 della Costituzione, dalla Corte
d’appello di Bari con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in
Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 6 marzo
2019.
F.to:
Giorgio LATTANZI,
Presidente
Franco MODUGNO,
Redattore
Roberto MILANA,
Cancelliere
Depositata in
Cancelleria il 7 giugno 2019.
Ordinanza del 5
marzo 2019 allegata