SENTENZA N. 109
ANNO 2016
Commento alla decisione di
Luisa Romano
per g.c. di
Diritto Penale Contemporaneo
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta
dai signori:
- Paolo GROSSI Presidente
- Giuseppe FRIGO Giudice
- Giorgio LATTANZI ”
- Aldo CAROSI ”
- Marta CARTABIA ”
- Mario Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Silvana SCIARRA ”
- Daria de PRETIS ”
- Nicolò ZANON ”
- Franco MODUGNO ”
- Augusto Antonio BARBERA ”
- Giulio PROSPERETTI ”
ha
pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 75 del d.P.R.
9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli
stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei
relativi stati di tossicodipendenza), promossi dalla Corte d’appello di
Brescia con ordinanze del 10 marzo e dell’11 giugno 2015, rispettivamente
iscritte ai nn. 98 e 200
del registro ordinanze 2015 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn.
22 e 41, prima serie speciale, dell’anno 2015.
Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei
ministri;
udito nella camera di consiglio del 9 marzo 2016 il Giudice
relatore Giuseppe Frigo.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 10 marzo 2015 (r.o. n. 98 del 2015), la Corte d’appello di Brescia ha
sollevato, in riferimento agli artt. 3, 13, secondo comma, 25, secondo comma, e
27, terzo comma,
della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 75
del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di
disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione
dei relativi stati di tossicodipendenza), nella parte in cui – secondo un
consolidato indirizzo della giurisprudenza di legittimità – non include tra le
condotte punibili con sole sanzioni amministrative, ove finalizzate in via
esclusiva all’uso personale della sostanza stupefacente, anche la coltivazione
di piante di cannabis.
La Corte rimettente premette di essere investita
dell’appello proposto dai difensori dell’imputato avverso la sentenza del
Tribunale ordinario di Brescia che aveva dichiarato il loro assistito colpevole
del delitto di cui all’art. 73, commi 1, 1-bis
e 5, del d.P.R. n. 309 del 1990, per aver coltivato nel garage della propria
abitazione otto piante di canapa indiana, due delle quali in avanzato stato di
maturazione, e per aver illecitamente detenuto, nella propria camera da letto,
grammi 25 di marijuana.
I difensori avevano censurato, in particolare, il
fatto che il Tribunale fosse pervenuto ad un giudizio di responsabilità penale
pur in mancanza della prova della destinazione allo spaccio della marijuana e
dello stupefacente ricavabile dalle piantine di canapa indiana: prova che –
vertendo su un elemento costitutivo del delitto contestato – sarebbe spettato
alla pubblica accusa fornire. A fronte di ciò, avevano chiesto che l’imputato
fosse assolto dal reato ascrittogli anche in relazione alla condotta di
coltivazione, sulla base di una interpretazione costituzionalmente orientata
dell’art. 75 del d.P.R. n. 309 del 1990, che faccia rientrare tra le condotte
di chi «comunque detiene» lo stupefacente anche quella di coltivazione per
ricavare droga destinata esclusivamente al consumo personale. In subordine,
avevano riproposto l’eccezione di illegittimità costituzionale della citata
disposizione già formulata in primo grado e ritenuta irrilevante dal Tribunale,
sul presupposto che fosse provata la destinazione allo spaccio del prodotto
della coltivazione.
Al riguardo, la Corte rimettente osserva che,
contrariamente a quanto ritenuto dal primo giudice, né la quantità dello
stupefacente rinvenuto presso l’imputato – quello pronto all’uso e quello
ricavabile dalle piantine una volta giunte a maturazione (quantità non
rilevante sia per valore economico che in relazione al numero di dosi
ottenibili) – né alcun altro elemento consentirebbero di ritenere raggiunta la
prova che lo stupefacente stesso fosse destinato, in tutto o in parte, ad
essere ceduto a terzi.
L’imputato dovrebbe essere, pertanto, assolto dal
reato contestatogli con riguardo alla detenzione dei 25 grammi di marijuana, la
quale risulterebbe penalmente irrilevante per l’espresso disposto dell’art. 75
del d.P.R. n. 309 del 1990. Altrettanto non potrebbe dirsi, invece, per la
coltivazione delle otto piantine di cannabis.
L’interpretazione adeguatrice prospettata dalla difesa, intesa a far refluire
anche la coltivazione per uso personale tra le condotte sanzionate in via
amministrativa dalla norma censurata, resterebbe, infatti, esclusa alla luce di
un orientamento ormai consolidato della giurisprudenza di legittimità.
Quest’ultima, per oltre un decennio, è stata «sostanzialmente granitica»
nell’affermare l’impraticabilità di una simile interpretazione. Dopo un
tentativo, operato da un indirizzo minoritario, di limitare la nozione di
«coltivazione» alla sola attività gestita con caratteri di imprenditorialità,
facendo rientrare la cosiddetta coltivazione "domestica” nel generico concetto
di detenzione di cui all’art. 75 del d.P.R. n. 309 del 1990, sono intervenute
le sezioni unite della Corte di cassazione con la sentenza 24 aprile-10 luglio
2008, n. 28605, ribadendo il
principio per cui «costituisce condotta penalmente rilevante qualsiasi attività
non autorizzata di coltivazione di piante dalle quali sono estraibili sostanze
stupefacenti, anche quando sia realizzata per la destinazione del prodotto ad
uso personale»: principio al quale si è attenuta la giurisprudenza di
legittimità successiva.
Ciò renderebbe, peraltro, rilevante la questione di
legittimità costituzionale prospettata in via subordinata dalla difesa:
questione che la Corte rimettente ritiene, altresì, non manifestamente
infondata in rapporto ai parametri dell’eguaglianza e della necessaria
offensività del reato, nei termini di seguito indicati.
Preliminarmente, il giudice a quo si dichiara consapevole del fatto che la Corte
costituzionale, con la sentenza n. 360 del
1995, ha già dichiarato non fondata analoga questione. Reputa, tuttavia,
che la soluzione meriti di essere rivista alla luce non soltanto dell’evoluzione
giurisprudenziale nell’individuazione della ratio
della disciplina penale degli stupefacenti, ma anche della normativa
sovranazionale sopravvenuta.
Osserva, in questa ottica, la Corte rimettente che
l’art. 75 del d.P.R. n. 309 del 1990 configura come mero illecito
amministrativo il fatto di chi, «per farne uso personale, illecitamente
importa, esporta, acquista, riceve a qualsiasi titolo o comunque detiene
sostanze stupefacenti o psicotrope». La legge considererebbe, dunque,
penalmente irrilevante la condotta di chi detiene lo stupefacente a fini di
consumo personale, quale che sia il comportamento pregresso che ha originato
tale detenzione («comunque detiene»). Rientrerebbe, pertanto, tra i semplici
illeciti amministrativi anche la detenzione, a detto fine, di sostanza
stupefacente ricavata da piante coltivate dallo stesso detentore.
Di contro, in base all’«unica interpretazione
legittimata dalla giurisprudenza di legittimità», allorché il soggetto sia
sorpreso quando ha ancora in corso la coltivazione la sua condotta assume
rilevanza penale.
Tale disciplina violerebbe il principio di
eguaglianza (art. 3 Cost.), assoggettando a trattamenti diversi comportamenti
identici, o almeno del tutto assimilabili. La denunciata sperequazione non
potrebbe essere giustificata con il rilievo che la condotta di detenzione – a
differenza di quella di coltivazione – è collegabile immediatamente e
direttamente al successivo uso personale, finalità che sola giustifica
l’applicazione del regime sanzionatorio meno rigoroso previsto dall’art. 75 del
d.P.R. n. 309 del 1990. La maggiore «distanza» della condotta di coltivazione
rispetto all’utilizzo finale dello stupefacente potrebbe rendere più
difficoltoso, in punto di fatto, l’accertamento della finalità di consumo personale,
ma risulterebbe inidonea ad imprimere un maggior disvalore alla condotta, una
volta che detta finalità sia stata comunque accertata.
La norma censurata violerebbe, altresì, in parte qua, il principio di necessaria
offensività del reato, ricavabile dalla disposizione combinata degli artt. 13,
secondo comma, 25, secondo comma, e 27, terzo comma, Cost.
Ancor più dopo la modifica del quadro normativo
conseguita al referendum abrogativo
del 18-19 aprile 1993, la salute individuale rimarrebbe, infatti, estranea agli
obiettivi di tutela della disciplina dettata dagli artt. 73 e 75 del d.P.R. n.
309 del 1990. Come chiarito dalle sezioni unite della Corte di cassazione con
la sentenza 24 giugno-21 settembre 1998, n. 9973, scopo dell’incriminazione di
cui al citato art. 73 è piuttosto «quello di combattere il mercato della droga,
[…] che mette in pericolo la salute pubblica, la sicurezza e l’ordine pubblico,
nonché il normale sviluppo delle giovani generazioni».
In questa prospettiva, la coltivazione di piante di
cannabis finalizzata al consumo
personale, proprio perché non prodromica all’immissione della droga sul
mercato, risulterebbe radicalmente inidonea a ledere i beni giuridici protetti
e, dunque, inoffensiva.
Che la protezione della salute o dell’incolumità
individuale dell’agente da comportamenti autolesivi sia estranea non solo al
sistema normativo in esame, ma all’intero ordinamento penale, lo dimostrerebbe,
d’altronde, il fatto che non solo altri comportamenti notoriamente nocivi per
la salute di chi li pone in essere (quali il tabagismo e l’abuso di sostanze
alcooliche), ma persino la più grave delle condotte autolesive, e cioè il
tentativo di suicidio, restino privi di rilevanza penale.
L’evidenziata ratio
delle norme incriminatrici in tema di stupefacenti risulterebbe confermata,
inoltre, dalla decisione quadro 25 ottobre 2004, n. 2004/757/GAI (Decisione quadro del Consiglio riguardante
la fissazione di norme minime relative agli elementi costitutivi dei reati e
alle sanzioni applicabili in materia di traffico illecito di stupefacenti),
il cui art. 2, dopo aver elencato le condotte connesse al traffico di
stupefacenti che gli Stati membri sono tenuti ad assoggettare a sanzione
penale, esclude espressamente dal campo di applicazione della decisione stessa
le condotte precedentemente descritte – compresa quella di coltivazione – se
tenute dai loro autori soltanto ai fini del consumo personale della sostanza,
quale definito dalle legislazioni nazionali.
1.1.– È intervenuto il Presidente del Consiglio dei
ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale
ha chiesto che la questione sia dichiarata inammissibile.
Secondo la difesa dello Stato, il giudice a quo avrebbe richiesto alla Corte un
intervento che non solo non potrebbe ritenersi costituzionalmente obbligato, ma
che finirebbe, anzi, per tradursi in una sorta di riscrittura della norma
censurata, inserendovi una fattispecie attualmente non prevista: operazione
che, in materia penale e, più in generale, sanzionatoria, risulterebbe preclusa
a fronte del rigorosissimo principio di legalità che la regge.
1.2.– Con successiva memoria, la difesa dello Stato
ha ribadito l’eccezione di inammissibilità, chiedendo, in via subordinata, che
la questione sia dichiarata non fondata nel solco di quanto già deciso dalla
Corte con la sentenza
n. 360 del 1995.
Ha rilevato, altresì, come non risulti probante, a
sostegno delle tesi del giudice a quo,
la decisione quadro n. 2004/757/GAI, la quale – nell’escludere dal suo campo di
applicazione le condotte finalizzate al consumo personale della sostanza
stupefacente da parte del loro autore, compresa quella di coltivazione –
affida, tuttavia, la definizione di tali condotte agli ordinamenti nazionali,
lasciando quindi al legislatore del singolo Stato membro ampia discrezionalità
al riguardo.
2.– La Corte d’appello di Brescia ha sollevato
identica questione con successiva ordinanza dell’11 giugno 2015 (r.o. n. 200 del 2015), emessa nell’ambito del giudizio di
appello avverso altra sentenza del Tribunale ordinario di Brescia, che aveva
dichiarato l’imputato colpevole dei reati di «illecita detenzione di sette
piante di marijuana» e di porto ingiustificato di un coltello a serramanico.
Nell’occasione, il difensore appellante aveva
lamentato che l’imputato fosse stato ritenuto responsabile del primo dei due
reati, in violazione del principio di offensività, nonostante il mancato
accertamento della percentuale di principio attivo ricavabile dalle piantine e
in assenza di ogni prova circa la destinazione a terzi della sostanza. A
quest’ultimo riguardo, aveva sostenuto che l’indirizzo giurisprudenziale che
attribuisce rilievo penale alla coltivazione a prescindere dall’individuazione
del destinatario dello stupefacente contrasterebbe con il principio di
eguaglianza, sottoponendo detta condotta ad un trattamento ingiustificatamente
deteriore rispetto a quella di colui che, pur avendo coltivato le piante, abbia
già raccolto il prodotto.
Anche in questo caso, secondo la Corte bresciana,
non potrebbe ritenersi, in effetti, raggiunta la prova che lo stupefacente
derivato dalla lavorazione delle foglie fosse destinato, sia pure solo in
parte, alla cessione a terzi.
Sarebbe, di conseguenza, pure nel frangente
rilevante la questione di legittimità costituzionale dell’art. 75 del d.P.R. n.
309 del 1990, nella parte in cui non include la coltivazione di piante di cannabis, finalizzata in via esclusiva
al consumo personale, tra le condotte punibili con sole sanzioni
amministrative: questione la cui non manifesta infondatezza viene motivata con
considerazioni identiche a quelle svolte nell’ordinanza r.o.
n. 98 del 2015.
2.1.– È intervenuto il Presidente del Consiglio dei
ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato,
chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata.
L’interveniente osserva che la Corte
costituzionale, con la sentenza n. 360 del
1995, ha già rigettato una questione di legittimità costituzionale analoga,
rilevando come la condotta di detenzione di sostanze stupefacenti per uso
personale non sia affatto comparabile a quella di coltivazione, ancorché
parimenti finalizzata al consumo personale. La prima, infatti, è una condotta
immediatamente antecedente al consumo, rispetto alla quale si giustifica la
scelta legislativa di non ricorrere alla più severa sanzione penale:
connotazione che non si riscontra, invece, rispetto alla condotta di
coltivazione.
La stessa destinazione all’uso personale si presta,
d’altro canto, ad essere apprezzata in termini diversi nelle due ipotesi. Nella
detenzione, infatti, essendo il quantitativo di sostanza stupefacente certo e
determinato, è possibile, alla luce delle circostanze oggettive e soggettive,
un giudizio prognostico circa la destinazione della sostanza. Nel caso della
coltivazione, invece, la quantità di prodotto estraibile dalle piante coltivate
non è apprezzabile con sufficiente grado di certezza, sicché la correlata
valutazione in ordine alla destinazione della sostanza ad uso personale,
anziché di spaccio, risulta maggiormente ipotetica e meno affidabile.
Se ciò vale ad escludere la denunciata violazione
del principio di eguaglianza, parimenti insussistente risulterebbe l’asserito
contrasto con il principio di offensività.
Secondo quanto affermato dalla Corte
costituzionale, infatti, non è incompatibile con detto principio la
configurazione di reati di pericolo presunto, salva la sindacabilità della
ragionevolezza della valutazione legislativa, operata in via astratta, circa la
pericolosità delle condotte cui si attribuisce rilevanza penale.
Nel caso della coltivazione, la pericolosità
astratta della condotta incriminata sarebbe, peraltro, innegabile, stante la
sua idoneità ad accrescere indiscriminatamente i quantitativi di stupefacente
disponibili e ad aumentare le occasioni di spaccio, attentando, così, al bene
giuridico protetto. La circostanza, poi, che la specifica condotta sottoposta all’esame
del giudice a quo non presenti
nemmeno in grado minimo il requisito dell’offensività, lungi dal poter fondare
la questione di costituzionalità sollevata, implicherebbe soltanto un giudizio
di merito devoluto al giudice comune.
Considerato in diritto
1.– La Corte d’appello di Brescia, con due
ordinanze di analogo tenore, dubita della legittimità costituzionale dell’art.
75 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di
disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e
riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), nella parte in cui –
secondo un consolidato indirizzo della giurisprudenza di legittimità – non
include tra le condotte punibili con sole sanzioni amministrative, ove finalizzate
in via esclusiva all’uso personale della sostanza stupefacente, anche la
coltivazione di piante di cannabis.
Ad avviso della Corte rimettente, risulterebbe in
tal modo violato il principio di eguaglianza (art. 3 della Costituzione), sotto
il profilo della ingiustificata disparità di trattamento fra chi detiene per
uso personale sostanza stupefacente ricavata da piante da lui stesso
precedentemente coltivate – assoggettabile soltanto a sanzioni amministrative,
in forza della disposizione denunciata – e chi è sorpreso mentre ha in corso
l’attività di coltivazione, finalizzata sempre al consumo personale: condotta
che assume, invece, rilevanza penale.
La norma censurata violerebbe, altresì, in parte qua, il principio di necessaria
offensività del reato, desumibile dalla disposizione combinata degli artt. 13,
secondo comma, 25, secondo comma, e 27, terzo comma, Cost. In quanto non
diretta ad alimentare il mercato della droga, la coltivazione di piante di cannabis per uso personale risulterebbe,
infatti, inidonea a ledere i beni giuridici protetti dalla norma incriminatrice
di cui all’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990, costituiti – alla luce delle
indicazioni della giurisprudenza di legittimità – non già dalla salute
individuale dell’agente, ma dalla salute pubblica, dalla sicurezza e
dall’ordine pubblico, nonché dal «normale sviluppo delle giovani generazioni».
2.– Le due ordinanze di rimessione sollevano la
medesima questione, sicché i relativi giudizi vanno riuniti per essere definiti
con unica decisione.
3.– L’eccezione di inammissibilità formulata
dall’Avvocatura generale dello Stato con riguardo alla questione sollevata
dall’ordinanza r.o. n. 98 del 2015 – ma riferibile
evidentemente anche all’omologa questione proposta dalla seconda ordinanza –
non è fondata.
Secondo la difesa dello Stato, la questione sarebbe
inammissibile in quanto volta ad aggiungere una ulteriore fattispecie nella
norma sanzionatoria amministrativa censurata: operazione che, oltre a non
apparire costituzionalmente obbligata, si scontrerebbe con il «rigorosissimo»
principio di legalità che regge la materia penale e, amplius, sanzionatoria.
Per costante giurisprudenza di questa Corte,
tuttavia, il principio di riserva di legge enunciato dall’art. 25, secondo
comma, Cost. – impedendo alla Corte stessa «di creare nuove fattispecie
criminose o di estendere quelle esistenti a casi non previsti», oltre che «di
incidere in peius sulla risposta
punitiva o su aspetti comunque inerenti alla punibilità» (per tutte, sentenza n. 394 del
2006) – preclude, in materia penale, unicamente le sentenze additive in malam partem (ex plurimis, sentenza n. 57 del
2009; ordinanze n. 285 del 2012
e n. 437 del
2006). Nessun ostacolo – al di là di quello generale, legato all’esigenza
che l’intervento risulti costituzionalmente vincolato nei contenuti, così da
non implicare scelte discrezionali spettanti in via esclusiva al legislatore –
incontrano invece le sentenze additive in
bonam partem, quale
quella invocata dall’odierno rimettente, intesa a trasformare in illecito
amministrativo una condotta che, secondo il "diritto vivente”, configurerebbe
il delitto di cui all’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990.
La pronuncia richiesta non comporterebbe, d’altra
parte, alcuna opzione discrezionale fra più possibili alternative. Se le
censure del giudice a quo fossero
fondate, questa Corte si limiterebbe, infatti, ad estendere alla fattispecie
considerata (coltivazione per uso personale) il trattamento stabilito dal
legislatore per il tertium comparationis
(detenzione per uso personale).
Questa Corte, del resto, è già stata reiteratamente
investita in passato di questioni analoghe all’attuale, e le ha costantemente
scrutinate nel merito (sentenza n. 360 del
1995, ordinanze n. 414 e n. 150 del 1996).
4.– Nel merito, la questione non è fondata.
La disposizione in esame rappresenta il momento
saliente di emersione della strategia – cui si ispira la normativa italiana in
materia di sostanze stupefacenti e psicotrope a partire dalla legge 22 dicembre
1975, n. 685 (Disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope. Prevenzione,
cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza) – volta a
differenziare, sul piano del trattamento sanzionatorio, la posizione del
consumatore della droga da quelle del produttore e del trafficante. L’idea di fondo
del legislatore è che l’intervento repressivo debba rivolgersi precipuamente
nei confronti dei secondi, dovendosi scorgere, di norma, nella figura del
tossicodipendente o del tossicofilo una manifestazione di disadattamento
sociale, cui far fronte, se del caso, con interventi di tipo terapeutico e
riabilitativo.
In questa prospettiva – esclusa la rilevanza
dell’assunzione dello stupefacente in sé – il legislatore ha ritenuto di dover,
altresì, sottrarre talune condotte ad essa propedeutiche alla sfera applicativa
delle norme incriminatrici di settore, facendole oggetto di distinta
considerazione normativa, variamente articolata nel corso del tempo. La
relativa disciplina riflette chiaramente, peraltro, anche la preoccupazione di
evitare che la strategia considerata si traduca in un fattore agevolativo della
diffusione della droga tra la popolazione: fenomeno che – in assonanza con le
indicazioni provenienti dalla normativa sovranazionale – è ritenuto meritevole
di fermo contrasto a salvaguardia tanto della salute pubblica, «sempre più
compromessa da tale diffusione», quanto della sicurezza e dell’ordine pubblico,
«negativamente incisi vuoi dalle pulsioni criminogene indotte dalla
tossicodipendenza […] vuoi dal prosperare intorno a tale fenomeno della criminalità
organizzata […], nonché a fini di tutela delle giovani generazioni» (sentenza n. 333 del
1991). Di qui, dunque, la previsione di condizioni e limiti di operatività
del regime differenziato.
Questo fa perno, in concreto, su un dato inerente
all’intenzione dell’agente: la finalità di «uso personale» della sostanza.
Configurata in origine come causa di non punibilità correlata ad un limite
quantitativo non definito (la «modica quantità» dello stupefacente oggetto
della condotta: art. 80 della legge n. 685 del 1975), detta finalità è stata
successivamente trasformata – con soluzione di maggior rigore – in elemento che
"degrada” l’illecito penale in illecito amministrativo, nel rispetto di un
limite quantitativo più stringente (la «dose media giornaliera» determinata
dall’autorità amministrativa: art. 75 del d.P.R. n. 309 nel 1990, nel testo
originario); limite venuto poi a cadere per effetto del referendum abrogativo del 18-19 aprile 1993. La perdurante presenza
di un apparato sanzionatorio amministrativo, composto da un ventaglio di misure
non pecuniarie di significativo spessore (a cominciare dalla sospensione della
patente di guida degli autoveicoli), attesta, peraltro, come anche all’attività
di assunzione di sostanze stupefacenti vengano annessi connotati di disvalore (sentenza n. 296 del
1996): ciò, pur tenendo conto della possibilità, offerta all’autore
dell’illecito, di evitare l’applicazione delle sanzioni sottoponendosi, con
esito positivo, ad un programma terapeutico e socio-riabilitativo (art. 75,
comma 11, del d.P.R. n. 309 del 1990).
Sotto il profilo che qui più interessa, una
costante della disciplina in discorso è rappresentata dalla "selettività” del
trattamento più benevolo connesso alla finalità di uso personale, il quale –
nella logica dianzi indicata – risulta circoscritto ad una parte soltanto delle
numerose condotte relative agli stupefacenti suscettive di assumere rilevanza
penale. Ne restano escluse, infatti, non solo le condotte che implicano il
trasferimento della droga a terzi (o propedeutiche ad esso), e perciò
strutturalmente incompatibili con il consumo della sostanza da parte
dell’agente (vendita, commercio, cessione e via dicendo), ma anche plurime
condotte cosiddette "neutre”, compatibili, cioè, tanto con il fine di uso
personale che con quello di cessione a terzi. Il trattamento più favorevole
era, in effetti, inizialmente riservato alle sole condotte di acquisto e di
detenzione (art. 80 della legge n. 689 del 1975), per essere poi
progressivamente esteso anche a quelle di importazione (art. 75 del d.P.R. n.
309 del 1990, nel testo originario), esportazione e ricezione a qualsiasi
titolo (art. 75 del d.P.R. n. 309 del 1990, come sostituito dall’art. 4-ter del decreto-legge 30 dicembre 2005,
n. 272, recante «Misure urgenti per garantire la sicurezza ed i finanziamenti
per le prossime Olimpiadi invernali, nonché la funzionalità dell’Amministrazione
dell’interno. Disposizioni per favorire il recupero di tossicodipendenti
recidivi e modifiche al testo unico delle leggi in materia di disciplina degli
stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei
relativi stati di tossicodipendenza, di cui al decreto del Presidente della
Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309», convertito, con modificazioni, dalla legge
21 febbraio 2006, n. 49).
Nel testo attualmente vigente – frutto
dell’ulteriore novellazione operata dall’art. 1,
comma 24-quater, del decreto-legge 20
marzo 2014, n. 36 (Disposizioni urgenti in materia di disciplina degli
stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei
relativi stati di tossicodipendenza, di cui al decreto del Presidente della
Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, nonché di impiego di medicinali),
convertito, con modificazioni, dalla legge 16 maggio 2014, n. 79 – la norma
censurata configura quindi come illecito amministrativo (anziché penale) il
fatto di chi, «per farne uso personale, illecitamente importa, esporta,
acquista, riceve a qualsiasi titolo o comunque detiene sostanze stupefacenti o
psicotrope».
Tra le condotte ammesse a fruire del trattamento di
minor rigore non risulta, dunque, inclusa – né mai lo è stata – la coltivazione
non autorizzata di piante dalle quali possono estrarsi sostanze stupefacenti
(quale la cannabis): attività che
figura, per converso, in testa all’elenco dei comportamenti penalmente repressi
dalla norma chiave del sistema – l’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 – e la
cui equiparazione quoad poenam alla
fabbricazione illecita della droga è ribadita, altresì, dall’art. 28, comma 1,
del medesimo decreto.
5.– A più riprese, è stata prospettata, peraltro,
la tesi che le condotte "neutre” non menzionate dal legislatore – prima fra
tutte, la coltivazione – potessero essere "recuperate” all’area di irrilevanza
penale connessa alla finalità di uso personale facendole rientrare, tramite una
lettura estensiva, nel concetto generico e "di chiusura” di «detenzione» dello
stupefacente («comunque detiene»).
Respinta dalla giurisprudenza di legittimità nel
vigore della legge n. 685 del 1975, detta ipotesi interpretativa ha trovato un
certo seguito in rapporto alla previsione dell’art. 75 del d.P.R. n. 309 del
1990, all’indomani della consultazione referendaria del 1993. Nella seconda
metà degli anni ’90, la giurisprudenza di legittimità è tornata, peraltro, ad
attestarsi saldamente sulla soluzione negativa.
Un tentativo di "rivitalizzare” l’esegesi in
discorso è stato operato, a distanza di un decennio, da alcune sentenze della
sesta sezione penale della Corte di cassazione, facendo leva sull’assunto che
la nozione penalmente rilevante di «coltivazione» dovesse ritenersi evocativa
della sola coltivazione «in senso tecnico-agrario», o «imprenditoriale»: con la
conseguenza che la coltivazione cosiddetta "domestica” (effettuata, cioè,
tramite messa a dimora delle piante in vasi presso l’abitazione dell’agente,
come nei casi oggetto dei giudizi a quibus) sarebbe ricaduta tra le fattispecie di
«detenzione», sanzionate in via amministrativa dalla norma denunciata, ove
finalizzate al consumo personale (per tutte, Corte di cassazione, sezione
sesta, sentenza 18 gennaio-10 maggio 2007, n. 17983).
Tale ricostruzione non ha trovato, tuttavia, l’avallo
delle sezioni unite, le quali, con due sentenze "gemelle” del 2008, hanno
confermato la validità dell’indirizzo tradizionale. Rilevato come l’ipotizzata
esegesi restrittiva della nozione penalmente rilevante di «coltivazione» non
trovi conforto – come si sosteneva – nella disciplina delle autorizzazioni
all’esercizio di tale attività, recata dagli artt. 26 e seguenti del d.P.R. n.
309 del 1990, il supremo organo della nomofilachia ha ribadito il principio per
cui «costituisce condotta penalmente rilevante qualsiasi attività non
autorizzata di coltivazione di piante dalle quali sono estraibili sostanze
stupefacenti, anche quando sia realizzata per la destinazione del prodotto ad
uso personale» (Corte di cassazione, sezioni unite, sentenze 24 aprile-10
luglio 2008, n. 28605 e n. 28606).
La giurisprudenza di legittimità successiva si è
uniformata a tale indicazione: onde non appare contestabile che il presupposto
interpretativo che fonda l’odierno quesito di costituzionalità debba
effettivamente qualificarsi, allo stato, come "diritto vivente”.
6.– In parallelo all’accennata vicenda
interpretativa, questa Corte è stata reiteratamente chiamata, dal canto suo, a
verificare se il trattamento diversificato delle condotte "neutre” – e,
segnatamente, la mancata previsione dell’irrilevanza penale della coltivazione
finalizzata all’"autoconsumo” – fosse fonte di vulnera costituzionali.
La risposta è stata, peraltro, negativa.
Nel vigore della legge n. 685 del 1975, la Corte
ha, in particolare, escluso che il mancato assoggettamento della coltivazione
alla medesima disciplina stabilita per la detenzione di modiche quantità di
stupefacente per uso personale potesse ritenersi contrastante con i principi di
eguaglianza e di ragionevolezza (art. 3 Cost.). Ciò, in quanto la condotta in
discussione presentava un più accentuato disvalore rispetto alla seconda,
trattandosi di «comportamento idoneo ad accrescere il quantitativo di
stupefacenti presenti sul territorio nazionale», e maggiormente pericoloso
anche dell’importazione, «non essendo valutabile a priori il quantitativo di droga potenzialmente ricavabile» (ordinanza n. 231
del 1982, confermata dalle ordinanze n. 136 del 1987,
n. 308 del 1985,
n. 260 e n. 258 del 1984,
n. 189 e n. 91 del 1983).
Ad analoga conclusione la Corte è pervenuta in
rapporto alla disposizione dell’art. 75 del d.P.R. n. 309 del 1990, quale
risultante all’esito del referendum
abrogativo, censurata nella parte in cui non omologava, sotto l’aspetto
considerato, la coltivazione alle fattispecie della detenzione, dell’acquisto e
dell’importazione. Al riguardo, si è rilevato come la condotta in questione non
fosse, in realtà, comparabile con quelle addotte come tertia comparationis. La detenzione, l’acquisto
e l’importazione di sostanze stupefacenti per uso personale si collegavano,
infatti, immediatamente e direttamente all’uso stesso, e ciò rendeva non
irragionevole un atteggiamento meno rigoroso nei confronti di chi aveva già
operato una scelta che – ancorché
valutata sempre in termini di illiceità – l’ordinamento non intendeva
contrastare con lo strumento più rigido della sanzione penale. La coltivazione
si collocava invece all’esterno dell’«area contigua al consumo»: il che
giustificava «un possibile atteggiamento di maggior rigore, rientrando nella
discrezionalità del legislatore anche la scelta di non agevolare comportamenti
propedeutici all’approvvigionamento di sostanze stupefacenti per uso
personale». La più accentuata pericolosità della condotta di coltivazione
derivava, peraltro – oltre che dalla minore affidabilità della prognosi circa
la destinazione all’uso personale, conseguente all’impossibilità di determinare
con sufficiente certezza la quantità di sostanza stupefacente ricavabile dalle
piante coltivate – anche dal fatto che, come già rilevato nel precedente
contesto normativo, «l’attività produttiva è destinata ad accrescere
indiscriminatamente i quantitativi coltivabili e quindi ha una maggiore
potenzialità diffusiva delle sostanze stupefacenti estraibili» (sentenza n. 360 del
1995, confermata, in parte qua,
dalla sentenza n.
296 del 1996 e dalle ordinanze n. 414 e n. 150 del 1996).
Pronunciando su questione concernente la norma
incriminatrice di cui all’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990, questa Corte ha
escluso, altresì, che la sottoposizione a pena della coltivazione,
indipendentemente dalla destinazione del prodotto, collidesse con il principio
di necessaria offensività del reato. Si è, infatti, osservato che la
fattispecie criminosa considerata, nella sua configurazione astratta, poggiava
su una presunzione di pericolo non irragionevole, inerendo a condotta «idonea
ad attentare al bene della salute dei singoli per il solo fatto di arricchire
la provvista esistente di materia prima e quindi di creare potenzialmente più
occasioni di spaccio di droga»: e ciò tanto più a fronte della rilevata
attitudine dell’attività produttiva ad incrementare in modo indefinito i
quantitativi coltivabili. Quanto, poi, all’offensività della singola condotta
in concreto accertata, la sua eventuale carenza non radicava alcuna questione
di costituzionalità, ma implicava «soltanto un giudizio di merito devoluto al
giudice ordinario», all’esito del quale la punibilità poteva essere esclusa (sentenza n. 360 del
1995).
7.– Con le odierne ordinanze di rimessione, la
Corte d’appello di Brescia torna a denunciare, sulla scorta di argomenti in
buona parte nuovi, la violazione di entrambi gli anzidetti parametri.
La violazione dell’art. 3 Cost. viene dedotta sotto
un profilo particolare e specifico: quello, cioè, della ingiustificata
disparità di trattamento fra chi detiene per uso personale sostanza
stupefacente ricavata da piante da lui stesso in precedenza coltivate – condotta
inquadrabile nella formula «comunque detiene», presente nella norma censurata,
e dunque sanzionata (in assunto) solo in via amministrativa – e chi è invece
sorpreso mentre ha ancora in corso l’attività di coltivazione, finalizzata
sempre all’uso personale, trovandosi con ciò esposto – secondo il "diritto
vivente” – alle sanzioni penali previste dall’art. 73 del d.P.R. n. 309 del
1990. La rilevanza, amministrativa o penale, dell’illecito finirebbe, in altre
parole, per dipendere – irrazionalmente – dal momento della scoperta: il
coltivatore per proprio consumo andrebbe incontro a semplici sanzioni
amministrative se ha già raccolto il prodotto; risponderebbe penalmente se non
lo ha ancora fatto.
Come già rilevato, tuttavia, dalle sezioni unite
della Corte di cassazione nelle citate sentenze del 2008, in replica ad analogo
argomento, la censura poggia su una premessa inesatta: ossia, che la detenzione
per uso personale dello stupefacente "autoprodotto” renda non punibile la
condotta di coltivazione, rimanendo il precedente illecito penale "assorbito”
dal successivo illecito amministrativo.
In realtà, tale assorbimento non si verifica
affatto: a rimanere "assorbito”, semmai, è l’illecito amministrativo, dato che
la disponibilità del prodotto della coltivazione non rappresenta altro che
l’ultima fase della coltivazione stessa, ossia la "raccolta” del coltivato (o
può essere, comunque, considerata un post
factum non punibile, in quanto ordinario sviluppo della condotta penalmente
rilevante).
In questa prospettiva, la disparità di trattamento
denunciata non sussiste: il detentore a fini di consumo personale dello
stupefacente "raccolto” e il coltivatore "in atto” rispondono entrambi
penalmente.
8.– Considerazioni un poco più articolate merita la
seconda doglianza, afferente al principio di necessaria offensività del reato.
8.1.– Al riguardo, giova preliminarmente ricordare
come, per costante giurisprudenza di questa Corte, il principio in parola operi
su due piani distinti. Da un lato, come precetto rivolto al legislatore, il
quale è tenuto a limitare la repressione penale a fatti che, nella loro
configurazione astratta, presentino un contenuto offensivo di beni o interessi
ritenuti meritevoli di protezione (cosiddetta offensività "in astratto”).
Dall’altro, come criterio interpretativo-applicativo per il giudice comune, il
quale, nella verifica della riconducibilità della singola fattispecie concreta
al paradigma punitivo astratto, dovrà evitare che ricadano in quest’ultimo
comportamenti privi di qualsiasi attitudine lesiva (cosiddetta offensività "in
concreto”) (sentenze n. 225 del 2008,
n. 265 del 2005,
n. 519 e n. 263 del 2000).
Quanto al primo versante, il principio di
offensività "in astratto” non implica che l’unico modulo di intervento
costituzionalmente legittimo sia quello del reato di danno. Rientra, infatti,
nella discrezionalità del legislatore l’opzione per forme di tutela anticipata,
le quali colpiscano l’aggressione ai valori protetti nello stadio della
semplice esposizione a pericolo, nonché, correlativamente, l’individuazione
della soglia di pericolosità alla quale riconnettere la risposta punitiva (sentenza n. 225 del
2008): prospettiva nella quale non è precluso, in linea di principio, il
ricorso al modello del reato di pericolo presunto (sentenze n. 133 del 1992,
n. 333 del 1991
e n. 62 del 1986).
In tale ipotesi, tuttavia, affinché il principio in
questione possa ritenersi rispettato, occorrerà «che la valutazione legislativa
di pericolosità del fatto incriminato non risulti irrazionale e arbitraria, ma
risponda all’id quod plerumque accidit» (sentenza n. 225 del
2008; analogamente, sentenza n. 333 del
1991).
8.2.– Come già ricordato, questa Corte, con la sentenza n. 360 del
1995, ha ritenuto che l’incriminazione della coltivazione di piante da cui
si estraggono sostanze stupefacenti, a prescindere dalla destinazione del
prodotto, rispetti la suddetta condizione, poggiando su una non irragionevole
valutazione prognostica di attentato al bene giuridico protetto.
Ad avviso del giudice a quo, tale conclusione – formulata ponendo come termine di
riferimento del giudizio di pericolosità il «bene della salute dei singoli» –
meriterebbe di essere rivista alla luce di due (asseriti) elementi di novità:
l’evoluzione della giurisprudenza di legittimità in ordine alla ratio delle norme incriminatrici di
settore e la normativa sovranazionale sopravvenuta.
Dalla prima emergerebbe come la salute individuale
dell’autore del fatto resti, in realtà, estranea agli obiettivi di protezione
penale: e ciò in conformità all’indirizzo generale dell’ordinamento di non
annettere rilevanza penale ai comportamenti «autolesivi», compreso quello
estremo (il tentato suicidio). Secondo quanto puntualizzato dalle sezioni unite
della Corte di cassazione con la sentenza 24 giugno-21 settembre 1998, n. 9973
(ampiamente ripresa dalla giurisprudenza di legittimità successiva), scopo
dell’incriminazione delle condotte previste dall’art. 73 del d.P.R. n. 309 del
1990 è, infatti, «quello di combattere il mercato della droga, espellendolo dal
circuito nazionale poiché, proprio attraverso la cessione al consumatore viene
realizzata la circolazione della droga e viene alimentato il mercato di essa
che mette in pericolo la salute pubblica, la sicurezza e l’ordine pubblico
nonché il normale sviluppo delle giovani generazioni».
In questa prospettiva, la coltivazione per uso
personale, proprio in quanto non finalizzata all’immissione della droga sul
mercato, si rivelerebbe, peraltro, priva di qualsiasi potenzialità lesiva dei
beni giuridici protetti: con la conseguenza che la presunzione di pericolosità
sottesa alla sua incriminazione risulterebbe del tutto irrazionale.
L’assunto troverebbe conferma nella decisione
quadro 25 ottobre 2004, n. 2004/757/GAI (Decisione
quadro del Consiglio riguardante la fissazione di norme minime relative agli
elementi costitutivi dei reati e alle sanzioni applicabili in materia di
traffico illecito di stupefacenti), la quale – dopo aver enumerato le
condotte connesse al traffico di stupefacenti che gli Stati membri dell’Unione
europea sono chiamati a configurare come reati (tra cui anche la coltivazione
della cannabis: art. 2, paragrafo 1)
– esclude dal proprio campo applicativo le condotte (coltivazione compresa)
«tenute dai loro autori soltanto ai fini del […] consumo personale quale
definito dalle rispettive legislazioni nazionali» (art. 2, paragrafo 2).
8.3.– La tesi del giudice a quo non può essere seguita.
Al riguardo, è opportuno osservare, anzitutto, come
la decisione delle sezioni unite richiamata dal rimettente non introduca
effettivi elementi di novità rispetto al panorama avuto di mira dalla sentenza n. 360 del
1995. Essa riprende, infatti – dichiaratamente – affermazioni formulate da
questa stessa Corte già al principio degli anni ’90 (in particolare, con la già citata sentenza
n. 333 del 1991, nonché con la sentenza n. 133 del
1992), sulla scorta di pronunce ancora anteriori (sentenze n. 1044 del 1988,
n. 243 del 1987,
n. 31 del 1983
e n. 9 del 1972).
Neppure è accreditabile come novità significativa,
ai presenti fini, la decisione quadro n. 2004/757/GAI, la quale reca solo
«norme minime» in tema di repressione penale delle condotte aventi ad oggetto
sostanze stupefacenti. Essa non obbliga gli Stati membri a prevedere come reato
la coltivazione per uso personale, ma neppure impedisce loro di farlo. Nel
quarto "considerando” si afferma, anzi, espressamente che «l’esclusione di
talune condotte relative al consumo personale dal campo di applicazione della
presente decisione quadro non rappresenta un orientamento del Consiglio sul
modo in cui gli Stati membri dovrebbero trattare questi altri casi nella loro
legislazione nazionale».
8.4.– Al di là di ciò, se si raffronta l’elenco
delle condotte incriminate dall’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 con quello
delle condotte sanzionate attualmente solo in via amministrativa dalla norma
denunciata, ove sorrette dalla finalità di uso personale, si apprezza
immediatamente il criterio che ha presieduto alla selezione delle seconde.
Il legislatore ha negato, cioè, rilievo alla
predetta finalità – oltre che in rapporto alle condotte con essa logicamente
incompatibili, perché implicanti la "circolazione” della droga («vende, offre o
mette in vendita, cede, distribuisce, commercia, trasporta, procura ad altri,
invia, passa o spedisce in transito, consegna per qualunque scopo») – anche
rispetto alle condotte "neutre” che hanno la capacità di accrescere la quantità
di stupefacente esistente e circolante, agevolandone così indirettamente la
diffusione («coltiva, produce, fabbrica, estrae, raffina»).
Proprio questo, in effetti, è il tratto saliente
che, nella visione del legislatore, vale a diversificare la coltivazione – come
pure la produzione, la fabbricazione, l’estrazione e la raffinazione della
droga – dalla semplice detenzione (e dalle altre condotte "neutre” a carattere
"non produttivo”), conferendo ad essa una maggiore pericolosità, che giustifica
la sancita irrilevanza della finalità di consumo personale.
In proposito, si è peraltro osservato come, a
differenza delle altre condotte "produttive”, la coltivazione non richieda
neppure la disponibilità di "materie prime” soggette a rigido controllo, ma
normalmente solo dei semi (la cui detenzione, alla stregua del più recente
indirizzo della giurisprudenza di legittimità, non è di per sé punibile, salvo
che i semi contengano un principio attivo stupefacente e siano detenuti a fini
di cessione: al riguardo, Corte di cassazione, sezione sesta, 19 giugno-8
ottobre 2013, n. 41607).
Inoltre – come ampiamente rimarcato dalla
giurisprudenza di legittimità – la coltivazione presenta l’ulteriore
peculiarità di dare luogo ad un processo produttivo in grado di
"autoalimentarsi” e di espandersi, potenzialmente senza alcun limite
predefinito, tramite la riproduzione dei vegetali.
Tale attitudine ad innescare un meccanismo di
creazione di nuove disponibilità di droga, quantitativamente non
predeterminate, rende non irragionevole la valutazione legislativa di
pericolosità della condotta considerata per la salute pubblica – la quale non è
che la risultante della sommatoria della salute dei singoli individui – oltre
che per la sicurezza pubblica e per l’ordine pubblico, quantomeno in rapporto
all’attentato ad essi recato «dalle pulsioni criminogene indotte dalla
tossicodipendenza» (sentenza n. 333 del
1991).
Al riguardo, giova ribadire quanto già rimarcato
nella sentenza n.
360 del 1995: e, cioè, che la strategia d’intervento volta a riservare, per
le ragioni precedentemente indicate, un trattamento meno rigoroso al
consumatore dello stupefacente – lasciando, peraltro, ferma la qualificazione
delle sue scelte in termini di illiceità – non esclude che il legislatore,
nell’ottica di prevenire i deleteri effetti connessi alla diffusione
dell’abitudine al consumo delle droghe, resti libero di non agevolare (e, amplius, di
contrastare) i comportamenti
propedeutici all’approvvigionamento dello stupefacente per uso personale. Allo
stesso modo in cui detta strategia non rende illegittima la sottoposizione a
pena del cedente "al minuto” che fornisce la sostanza al tossicofilo, malgrado
ciò si risolva in un evidente ostacolo all’approvvigionamento (con particolare
riguardo al cedente a titolo gratuito, sentenza n. 296 del
1996), essa non impedisce neppure al legislatore di considerare penalmente
rilevante, ex se, l’attività intesa a
produrre nuova droga.
8.5.– Va ribadita, peraltro, al tempo stesso, anche
l’altra affermazione della sentenza n. 360 del
1995: ossia la spettanza al giudice comune del compito di allineare la figura
criminosa in questione al canone dell’offensività "in concreto”, nel momento
interpretativo ed applicativo.
Si tratta, del resto, di una indicazione ampiamente
recepita – nei suoi termini generali – dalla giurisprudenza di legittimità,
secondo la quale compete al giudice verificare se la singola condotta di
coltivazione non autorizzata, contestata all’agente, risulti assolutamente
inidonea a porre a repentaglio il bene giuridico protetto e, dunque, in
concreto inoffensiva, escludendone in tal caso la punibilità (Corte di
cassazione, sezioni unite, sentenze 24 aprile-10 luglio 2008, n. 28605 e n.
28606). Risultato, questo, conseguibile sia – secondo l’impostazione della
sentenza n. 360 del 1995 – facendo leva sulla figura del reato impossibile
(art. 49 del codice penale); sia – secondo altra prospettiva – tramite il
riconoscimento del difetto di tipicità del comportamento oggetto di giudizio.
9.– Alla luce delle considerazioni che precedono,
la questione va dichiarata, dunque, non fondata.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 75 del
d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina
degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione
dei relativi stati di tossicodipendenza), sollevata, in riferimento agli artt.
3, 13, secondo comma, 25, secondo comma, e 27, terzo comma, della Costituzione,
dalla Corte d’appello di Brescia con le ordinanze indicate in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte
costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 marzo 2016.
F.to:
Paolo GROSSI, Presidente
Giuseppe FRIGO, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 20 maggio 2016.