SENTENZA N. 179
ANNO 2017
Commento alla decisione di
Carlo Bray
per g.c. di Diritto Penale Contemporaneo
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta
dai signori:
- Paolo GROSSI Presidente
- Giorgio LATTANZI Giudice
- Aldo CAROSI ”
- Marta CARTABIA ”
- Mario Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Giuliano AMATO ”
- Silvana SCIARRA ”
- Daria de
PRETIS ”
- Nicolò ZANON ”
- Franco MODUGNO ”
- Augusto Antonio BARBERA ”
- Giulio PROSPERETTI ”
ha
pronunciato la seguente
SENTENZA
nei
giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 73, comma 1, del decreto
del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi
in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione,
cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), promossi
dal Tribunale ordinario di Ferrara, sezione penale, con ordinanza del 18
novembre 2015 e dal Giudice dell’udienza preliminare presso il Tribunale
ordinario di Rovereto con ordinanza del 9 marzo 2016, iscritte ai nn. 89 e 100 del
registro ordinanze 2016 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica nn. 18 e 21, prima serie speciale,
dell’anno 2016.
Visti
gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 7 giugno 2017 il
Giudice relatore Marta Cartabia.
Ritenuto
in fatto
1.–
Con ordinanza del 18 novembre 2015 (r.o. n. 89 del
2015), il Tribunale ordinario di Ferrara, sezione penale, ha sollevato – in
riferimento agli artt.
3, 25 e 27, terzo comma, della
Costituzione – questioni di legittimità costituzionale dell’art. 73, comma
1, del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo
unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze
psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di
tossicodipendenza), nella parte in cui prevede – per i fatti posti in essere a
partire dal 21 maggio 2014 – un minimo edittale di anni otto di reclusione ed
euro 25.822 di multa, anziché di anni quattro di reclusione ed euro 10.329 di
multa.
1.1.– Il rimettente ha premesso di essere investito
del giudizio abbreviato nei confronti di M.E. O., imputato del reato di cui
all’art. 73, comma 1, del d.P.R. n. 309 del 1990, per
detenzione di g. 112,34 netti di cocaina, contenente g. 41,34 di principio
attivo (pari a circa 112 dosi commerciali). Ha inoltre precisato che il fatto
risulta accertato all’esito della perquisizione effettuata il 7 ottobre 2015 e
che l’imputato ha ammesso l’addebito, mentre natura e quantità dello
stupefacente si desumono dalla perizia tossicologica espletata.
Il
giudice a quo ha altresì precisato che il fatto non può ritenersi di «lieve entità»
ai sensi dell’art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del
1990, in considerazione della quantità e qualità della sostanza, nonché del
contestuale possesso di una rilevante somma di denaro in contanti. Pur dovendo
essere inquadrato nell’autonoma fattispecie di cui al comma 1 del citato art.
73, il fatto sarebbe, tuttavia, di gravità modesta e collocherebbe l’imputato
negli «anelli terminali della catena dello spaccio», così che assumerebbe
rilevanza il trattamento sanzionatorio minimo previsto dalla legge.
1.2.– In relazione alla fattispecie in giudizio, la
pena minima prevista dal menzionato art. 73, comma 1, appare irragionevole e
lesiva dell’art. 3 Cost. in quanto addirittura doppia
(otto anni di reclusione contro quattro anni di reclusione) rispetto alla pena
edittale massima prevista per l’ipotesi della «lieve entità» di cui al comma 5
dello stesso art. 73. Il rimettente, infatti, ha ricordato che la
giurisprudenza costituzionale ha più volte affermato che la commisurazione
delle sanzioni, pur rientrando nella discrezionalità legislativa, non può
essere manifestamente irragionevole o arbitraria. Nella specie, a fronte di due
fattispecie omogenee il cui disvalore si muove con continuità anche nel
passaggio dalla fattispecie lieve a quella non lieve, vi sarebbe una forte e
ingiustificata discontinuità in termini di trattamento sanzionatorio. In tal
modo, sarebbe violato l’art. 3 Cost., in quanto a
violazioni di gravità di poco superiore corrisponde una reazione punitiva
«enormemente» più afflittiva.
Il
rimettente ha precisato che il legislatore, in altri casi in cui ha configurato
ipotesi di «lieve entità», di «minore gravità» o di «particolare tenuità», ha
previsto trattamenti sanzionatori contigui, se non addirittura caratterizzati
da parziali sovrapposizioni.
Contigui
erano, del resto, i trattamenti sanzionatori previsti ai commi 1-bis e 5
dell’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990, nel testo
riformato dal decreto-legge 30 dicembre 2005, n. 272 (Misure urgenti per
garantire la sicurezza ed i finanziamenti per le prossime Olimpiadi invernali,
nonché la funzionalità dell’Amministrazione dell’interno. Disposizioni per
favorire il recupero di tossicodipendenti recidivi e modifiche al testo unico
delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope,
prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, di
cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309),
convertito, con modificazioni, dalla legge 21 febbraio 2006, n. 49. Solo con il
decreto-legge 23 dicembre 2013, n. 146, (Misure urgenti in tema di tutela dei
diritti fondamentali dei detenuti e di riduzione controllata della popolazione
carceraria), convertito, con modificazioni, dalla legge 21 febbraio 2014, n.
10, si era creato un varco edittale tra il massimo edittale del fatto lieve
(anni cinque di reclusione) e il minimo edittale del fatto non lieve (anni sei
di reclusione). Tale divario si è poi ampliato ulteriormente a seguito della sentenza n. 32 del
2014 della Corte costituzionale, che ha determinato la ripresa di
applicazione dell’art. 73, comma 1, nel testo precedente la modifica introdotta
con la legge di conversione del d.l. n. 272 del 2005,
e a seguito delle modifiche introdotte dal decreto-legge 20 marzo 2014, n. 36
(Disposizioni urgenti in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze
psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di
tossicodipendenza, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre
1990, n. 309), convertito, con modificazioni, dalla legge 16 maggio 2014, n.
79.
In
ragione del divario sanzionatorio che separa il massimo edittale della
fattispecie lieve dal minimo previsto per la fattispecie non lieve, il vigente
art. 73 impedirebbe al giudice l’adeguamento della pena al caso concreto,
violando l’art. 3 Cost.
Ad
avviso del rimettente, il censurato trattamento sanzionatorio «pare violare
anche il principio di offensività del reato ricavabile dall’art. 25 Cost.» e
risulta in contrasto anche con il principio della funzione rieducativa della
pena ex art. 27, terzo comma, Cost., in quanto
stabilisce una pena sproporzionata che, come tale, verrebbe percepita come
ingiusta dal condannato.
Il
giudice a quo ritiene che a tali vulnera la Corte costituzionale possa
rimediare dichiarando l’illegittimità dell’art. 73, comma 1, del d.P.R. n. 309 del 1990 nella parte in cui prevede un minimo
edittale di anni otto di reclusione ed euro 25.822 di multa, anziché nella
misura stabilita per il massimo edittale della fattispecie lieve di cui al
comma 5 del medesimo articolo di legge, quantificata in anni quattro di
reclusione ed euro 10.329 di multa, con riguardo ai soli fatti commessi a
partire dal 21 maggio 2014, data di entrata in vigore della legge n. 79 del
2014 che, convertendo il d.l. n. 36 del 2014, ha
ridotto nei citati termini il massimo edittale di cui all’art. 73, comma 5 del
medesimo d.P.R. n. 309 del 1990.
2.– Con atto depositato il 24 maggio 2016, è
intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, assistito e difeso
dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione venga
dichiarata non fondata.
L’interveniente
ha evidenziato che il trattamento sanzionatorio censurato rientra appieno nella
sfera di discrezionalità politica del legislatore e che l’adeguamento del fatto
al caso concreto sia comunque realizzabile attraverso gli istituti (quali le
attenuanti generiche) che l’ordinamento mette a disposizione del giudice.
3.–
Con ordinanza del 21 gennaio 2016 (r.o. n. 100 del
2016), il Giudice dell’udienza preliminare presso il Tribunale ordinario di
Rovereto ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 11, 27, terzo comma, e 117, primo comma, Cost.,
questioni di legittimità costituzionale dell’art. 73, comma 1, del d.P.R. n. 309 del 1990, nella parte in cui prevede un
minimo edittale di anni otto di reclusione ed euro 25.822 di multa, anziché di
anni quattro di reclusione ed euro 10.329 di multa.
3.1.– In particolare, il rimettente ha premesso di
essere investito del giudizio abbreviato nei confronti di I. S., arrestato il
27 settembre 2015 nella flagrante detenzione di g. 58,291 di eroina, risultata
contenere mg. 18.447 di principio attivo, che consentono di ricavare 738 dosi
medie efficaci.
Lo
stesso giudice a quo ha precisato come il processo non presenti difficoltà di
sorta in relazione all’accertamento della responsabilità penale dell’imputato,
invero incontestata anche dalla difesa dello stesso.
Il
fatto, tuttavia, non potrebbe ritenersi di «lieve entità» ai sensi dell’art.
73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990, dovendo,
conseguentemente, farsi applicazione del comma 1 dello stesso art. 73.
A
questo riguardo vengono ripercorse, nell’ordinanza di rimessione, le vicende
normative e giurisprudenziali che hanno interessato la disposizione di cui
all’art. 73, con particolare riferimento alla sentenza n. 32 del
2014, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale delle modifiche
introdotte dagli artt. 4-bis e 4-vicies ter del d.l.
n. 272 del 2005 (come convertito, con modificazioni, dalla legge n. 49 del
2006) per vizio della procedura legislativa ex art. 77, secondo comma, Cost.
Tale sentenza, in considerazione del particolare vizio accertato, ha determinato
la ripresa di applicazione del testo dell’art. 73, commi 1, 2, 3 e 4, del d.P.R. n. 309 del 1990 anteriore alle predette modifiche,
mentre il testo vigente dei commi 5 e 5-bis del medesimo art. 73 è quello
risultante dall’intervento, successivo alla citata sentenza, effettuato dal
legislatore con il d.l. n. 36 del 2014, come
convertito dalla legge n. 79 del 2014. Quest’ultima modifica normativa, tra le
altre cose, ha trasformato in fattispecie autonoma la precedente circostanza
attenuante del fatto di lieve entità, e ha abbassato a mesi sei di reclusione
il minimo edittale di questa autonoma fattispecie, lasciando inalterato il
massimo edittale di anni quattro di reclusione.
In
questo quadro normativo, risultante da una pluralità di modifiche intervenute
in rapida successione, il minimo edittale previsto per il fatto non lieve ex
art. 73, comma 1, del d.P.R. n. 309 del 1990 risulta
essere doppio rispetto al massimo edittale stabilito per il «fatto lieve» dal
comma 5 del medesimo art. 73. Ciò, ad avviso del rimettente, è determinato non
da una ponderata scelta di politica criminale, ma al disordinato succedersi
degli eventi che hanno portato il legislatore a farsi carico di due emergenze,
determinate rispettivamente dagli effetti della sentenza della
Corte costituzionale n. 32 del 2014 e dalla necessità di contrastare il
sovraffollamento carcerario: di qui la rimodulazione della pena edittale per il
fatto di lieve entità, che si applica indistintamente alle droghe "leggere” e
alle droghe "pesanti”, in misura tale da non consentire la custodia cautelare
in carcere.
La
ravvisata sperequazione sanzionatoria che, ad avviso del giudice a quo, si
verifica nel caso del trattamento previsto per le droghe cosiddette "pesanti”,
per le quali appunto il minimo edittale di pena previsto dal comma 1 del citato
art. 73 è addirittura doppio rispetto al massimo edittale previsto dal comma 5
della stessa disposizione in caso di «lieve entità» del fatto, indifferentemente
per le droghe cosiddette "pesanti” o "leggere”, determinerebbe l’illegittimità
costituzionale della disposizione impugnata.
3.2.– In particolare il giudice a quo ritiene che il
minimo edittale di pena previsto dal comma 1 dell’impugnato art. 73 violi il
«principio di ragionevolezza-uguaglianza» di cui all’art. 3 Cost.
La
violazione del principio di uguaglianza deriva, in primo luogo, dal fatto che
si impongono trattamenti sanzionatori molto diversi a fatti sostanzialmente
uguali; i fatti concreti che si pongono immediatamente prima e immediatamente
dopo il confine tra le due fattispecie in progressione, di cui ai commi 5 e 1
dell’art. 73, sono puniti con «pene concrete necessariamente diversissime tra
loro», sia sotto il profilo quantitativo, sia sotto il profilo delle modalità
di esecuzione della punizione, potendo i fatti di lieve entità essere trattati
al di fuori del circuito carcerario, mentre i fatti non lievi necessariamente
dentro. In secondo luogo, il principio di uguaglianza sarebbe violato perché si
puniscono nello stesso modo fatti differenti: infatti, l’elevato minimo
edittale previsto per i fatti non lievi porta il giudice ad attestarsi su detti
minimi, anche per casi caratterizzati da quantitativi progressivamente maggiori
di sostanza stupefacente oggetto del delitto. Infine, l’ampia divaricazione
punitiva tra le due fattispecie spinge, nei fatti, il giudice a configurare
come fattispecie lievi casi che potrebbero rientrare nella fascia bassa di
gravità delle fattispecie di cui al comma 1. Di qui, plurime ragioni di
violazione dell’art. 3 Cost.
Secondo
il rimettente, l’idea di fondare una censura ex art. 3 Cost. in base al
confronto tra il limite edittale minimo del reato maggiore e quello massimo del
reato minore trova fondamento nei precedenti della Corte costituzionale
(vengono citate le sentenze n. 143 del
2014, n. 80
del 2014, n.
68 del 2012 e n.
341 del 1994). Su tali basi il giudice a quo ritiene che la violazione del
principio di ragionevolezza-uguaglianza emerga nel raffronto tra norme: tra il
comma 1 e il comma 5 dell’art. 73, per la distanza edittale di pena tra il
fatto lieve e non lieve, e, in seconda battuta, tra il comma 4 e il comma 5
dello stesso art. 73, per l’assenza di tale distacco edittale di pena se i
fatti lievi e non lievi riguardano droghe cosiddette «leggere».
Tale
impostazione consentirebbe anche di individuare un preciso petitum per
rimediare al vulnus costituzionale: l’unica possibilità per evitare
l’asimmetria di trattamento, ritenuta intollerabile, sarebbe infatti quella di
«agganciare» il minimo edittale per i fatti di cui al comma 1 dell’art. 73 al
massimo edittale per i fatti di lieve entità di cui al comma 5, cioè alla «pena
prevista dallo stesso legislatore per la classe di fatti concreti omogenea
quanto a contenuto offensivo». Dovrebbe invero escludersi, non foss’altro che per la sua irrilevanza nel giudizio a quo,
la possibilità di innalzare il massimo edittale del fatto lieve al minimo
edittale del fatto non lieve. Parimenti da escludere sarebbe la possibilità di
riferirsi ai limiti edittali minimi previsti in generale per la pena della
reclusione e della multa ai sensi degli artt. 23 e 24 del codice penale: tale
soluzione aggraverebbe l’irragionevolezza e la disuguaglianza in quanto il
fatto non lieve avrebbe un limite edittale minimo di gran lunga inferiore a
quello stabilito per il fatto lieve.
3.3.–
Il rimettente ritiene che il minimo edittale previsto dall’art. 73, comma 1,
del d.P.R. n. 309 del 1990 determini altresì, in sé
considerato e a prescindere da ogni comparazione, una violazione macroscopica
del principio di proporzionalità, in quanto troppo elevato in relazione alla
gravità del reato punito, avuto riguardo ai beni giuridici tutelati (salute,
ordine pubblico e sicurezza collettiva), le modalità di aggressione
(trattandosi di reato di pericolo presunto) e l’intensità della colpevolezza
(essendo richiesto solo il dolo generico). Anche qui, la notevolissima distanza
del minimo edittale di pena rispetto a quello previsto per reati certamente più
gravi e lesivi dei medesimi beni giuridici, rivela la sproporzione della pena
che, come tale, frustra il principio della funzione rieducativa della stessa,
sancita dall’art. 27, terzo comma, Cost.
3.4.–
La violazione del principio di proporzione viene invocata dal giudice a quo
anche in relazione agli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., posto che tale
principio è espressamente riconosciuto dall’art. 49, paragrafo 3, della Carta
dei diritti fondamentali dell’Unione europea, applicabile alla specie in quanto
rientrante nell’ambito di rilevanza comunitaria ex art. 83, paragrafo 1, del
Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, trattandosi di materia sulla
quale l’Unione ha legiferato con la decisione quadro del Consiglio dell’Unione
europea del 25 ottobre 2004, n. 2004/757/GAI (Decisione quadro del Consiglio
riguardante la fissazione di norme minime relative agli elementi costitutivi
dei reati e alle sanzioni applicabili in materia di traffico illecito di
stupefacenti).
Nella
specie, il principio di riserva di legge vigente in materia penale impedirebbe
una disapplicazione della norma nazionale contrastante con il diritto
dell’Unione; disapplicazione che, peraltro, aggraverebbe il rischio di
sperequazioni punitive (posto che i fatti non lievi avrebbero un minimo
edittale inferiore ai fatti lievi) e pregiudicherebbe il controllo accentrato
di costituzionalità, sancito dall’art. 134 Cost. Conseguentemente il rimettente
ritiene che l’unica via sia rappresentata dall’attivazione dello scrutinio di
costituzionalità in riferimento ai parametri di cui agli art. 11 e 117 Cost., i quali stabiliscono il necessario rispetto dei
vincoli europei, anche sulla base di trattati che comportano limitazioni di
sovranità, quali quelli istitutivi dell’Unione europea.
Inoltre,
pur essendo la norma nazionale formalmente rispettosa dei vincoli imposti dalla
citata decisione-quadro n. 2004/757/GAI, ciò nondimeno la distanza del minimo
edittale da quello di cinque anni fissato dalla normativa europea costituisce
un «forte indice di manifesta sproporzione in eccesso», censurabile attraverso
il ricorso al menzionato art. 49, paragrafo 3, della Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione europea.
3.5.– Un ulteriore profilo di violazione del
principio di proporzione viene affermato in relazione al divieto di pene
inumane o degradanti, riconosciuto dall’art. 27, terzo comma, prima parte,
Cost. e dall’art. 3 della Convenzione per la
salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma
il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n.
848, e dall’art. 4 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea,
quali norme interposte rispetto all’art. 117, primo comma, Cost.
In
particolare, il giudice a quo ha rimarcato che il minimo edittale di pena
previsto dall’art. 73, comma 1, del d.P.R. n. 309 del
1990, oltre ad essere disumano per eccessiva durata, contribuirebbe a provocare
gravi forme di sovraffollamento carcerario, per le quali l’Italia è già stata
condannata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo con la sentenza
8 gennaio 2013, Torreggiani e altri contro Italia.
3.6.– Il giudice rimettente rimarca, infine, come a
differenza di precedenti questioni di legittimità costituzionale aventi ad
oggetto la medesima disposizione, già giudicate inammissibili dalla Corte
costituzionale, la questione sollevata si caratterizzerebbe per la
determinatezza del petitum, indicando una soluzione costituzionalmente
obbligata, che permette di evitare che l’ordinamento presenti zone franche
immuni dal sindacato di legittimità della Corte costituzionale.
4.– Con atto depositato il 14 giugno 2016, è
intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, assistito e difeso
dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione venga
dichiarata non fondata.
In
particolare, l’Avvocatura generale dello Stato, richiamata la discrezionalità
legislativa in materia di determinazione del trattamento sanzionatorio, ha
rimarcato come il minimo edittale di pena previsto dall’art. 73, comma 1, del d.P.R. n. 309 del 1990 per fatti non lievi concernenti
droghe cosiddette "pesanti”, non possa ritenersi irragionevole in
considerazione dell’elevato allarme sociale suscitato dai crimini così puniti.
Viene
poi contestato il carattere costituzionalmente obbligato della soluzione
proposta dal rimettente, ciò che precluderebbe l’intervento manipolativo
richiesto alla Corte costituzionale.
Considerato in diritto
1.–
Con ordinanze iscritte, rispettivamente, al n. 89 e al n. 100 del registro
ordinanze 2016, il Tribunale ordinario di Ferrara, sezione penale, e il Giudice
dell’udienza preliminare presso il Tribunale ordinario di Rovereto hanno
sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 73, comma 1, del
decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico
delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope,
prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza),
nella parte in cui prevede un minimo edittale di anni otto di reclusione ed
euro 25.822 di multa, anziché di anni quattro di reclusione ed euro 10.329 di
multa (il Tribunale ordinario di Ferrara in relazione ai soli fatti posti in essere
a partire dal 21 maggio 2014).
La
disposizione impugnata punisce con la pena edittale minima sopra indicata i
casi "non lievi” di coltivazione, produzione, fabbricazione, estrazione,
raffinazione, vendita, offerta o messa in vendita, cessione o ricezione, a
qualsiasi titolo, distribuzione, commercio, acquisto, trasporto, esportazione,
importazione, procacciamento ad altri, invio, passaggio o spedizione in
transito, consegna per qualunque scopo o comunque di illecita detenzione, fuori
dalle ipotesi previste dall’articolo 75 (vale a dire fuori dei casi di
destinazione all’uso personale), di sostanze stupefacenti o psicotrope di cui
alle tabelle I e III previste dall’articolo 14 (cosiddette droghe "pesanti”)
dello stesso d.P.R. n. 309 del 1990 (d’ora in avanti
anche: Testo unico sugli stupefacenti).
Entrambe
le ordinanze ravvisano plurime violazioni della Costituzione determinate
dall’ampia forbice edittale creatasi tra il minimo di pena – previsto nella
misura di anni otto di reclusione ed euro 25.822 di multa – per i fatti non
lievi concernenti le droghe "pesanti” ai sensi dell’art. 73, comma 1, del d.P.R. n. 309 del 1990 e il massimo di pena – previsto
nella misura di anni quattro di reclusione ed euro 10.329 di multa – per i
fatti lievi concernenti sia droghe "pesanti” sia droghe "leggere” ai sensi
dell’art. 73, comma 5, del medesimo decreto.
1.1.– Più precisamente, il Tribunale ordinario di
Ferrara ritiene che la disposizione impugnata violi l’art. 3 Cost., in quanto
determina un quadro sanzionatorio irragionevole, caratterizzato da una
sproporzionata differenza di pena tra l’ipotesi di cui al comma 1 e quella di
cui al comma 5 dell’art. 73 del d.P.R. n. 309 del
1990, a fronte di un grado minimo di differenza quanto a disvalore del fatto
tra le due fattispecie.
In
secondo luogo, sarebbe violato l’art. 25 Cost., in
relazione al «principio di offensività», in quanto l’impugnato art. 73
sottopone ad una marcata differenza di trattamento sanzionatorio fatti di
offensività «solo leggermente diversa».
Infine,
sarebbe altresì violato l’art. 27, terzo comma, Cost.,
in quanto la sproporzione della misura della pena rispetto alla gravità del
fatto ne pregiudica la funzione rieducativa.
1.2.– Da parte sua, il Giudice dell’udienza
preliminare presso il Tribunale ordinario di Rovereto, ritiene violato l’art. 3
Cost., in relazione al «principio di ragionevolezza-uguaglianza», in quanto
l’abnorme distanza tra le grandezze espresse dal massimo edittale per il fatto
di lieve entità e il minimo edittale per il reato maggiore impedisce in
concreto al giudice di svolgere il proprio ruolo, di adeguare al caso concreto
la pena, imponendo gravi sperequazioni punitive.
In
secondo luogo, sarebbe violato l’art. 27, terzo comma, Cost.,
in quanto l’impugnato art. 73 non rispetta il principio di proporzionalità
della pena rispetto alla gravità del reato, quale desumibile dal rango del bene
giuridico tutelato, dalle modalità di aggressione e dall’intensità della
colpevolezza e impone pene disumane o degradanti.
Si
prospetta altresì la violazione degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost. in
riferimento all’art. 49, paragrafo 3, della Carta dei diritti fondamentali
dell’Unione europea, che sancisce il principio di proporzionalità della pena,
in quanto la previsione di periodi di reclusione superiori in misura abnorme
alle soglie minime stabilite dalla decisione quadro del Consiglio dell’Unione
europea del 25 ottobre 2004, n. 2004/757/GAI (Decisione quadro del Consiglio
riguardante la fissazione di norme minime relative agli elementi costitutivi dei
reati e alle sanzioni applicabili in materia di traffico illecito di
stupefacenti) determinerebbe una violazione dei vincoli derivanti
dall’ordinamento dell’Unione.
Infine,
viene ravvisata la violazione dell’art. 117, primo comma, Cost. in riferimento all’art. 3 della Convenzione per la
salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata
a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955,
n. 848, e all’art. 4 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea,
in quanto la pena edittale minima di otto anni di reclusione, oltre ad essere
disumana per eccessiva durata, contribuisce a provocare gravi forme di
sovraffollamento carcerario.
2.– I giudizi devono essere riuniti in
considerazione dell’identità dell’oggetto delle questioni sollevate e delle
analoghe ragioni di illegittimità indicate nelle ordinanze di rimessione del
Tribunale ordinario di Ferrara e del Giudice dell’udienza preliminare presso il
Tribunale ordinario di Rovereto.
3.– Occorre preliminarmente osservare che la
questione così come prospettata dagli odierni remittenti presenta profili di
novità rispetto a quelle dichiarate inammissibili con le sentenze n. 148
e n. 23 del 2016.
In quei casi, l’inammissibilità era dovuta a una pluralità di vizi delle
ordinanze di rimessione, tra i quali l’indeterminatezza del petitum e la
mancata individuazione di un trattamento sanzionatorio alternativo a quello in
vigore, che consentisse a questa Corte di sanare i vizi costituzionali
lamentati; sicché «l’accoglimento della questione prospettata finirebbe per
privare di sanzione il fatto non lieve, di cui all’art. 73, comma 1, del d.P.R. n. 309 del 1990, lasciando invece punito il solo
fatto lieve, di cui al comma 5 del medesimo art. 73, con l’effetto di
aggravare, anziché eliminare, la lamentata irragionevolezza del trattamento
sanzionatorio» (sentenza
n. 148 del 2016).
Tali
vizi non sussistono nelle odierne ordinanze di rimessione del Tribunale di
Ferrara e del Giudice per le indagini preliminari di Rovereto. Entrambi i
rimettenti, infatti, lamentano l’irragionevolezza e la sproporzione della
divaricazione sanzionatoria che separa il minimo della pena per i fatti di non
lieve entità concernenti le cosiddette droghe "pesanti” (comma 1 dell’art. 73, del d.P.R. n. 309 del 1990) e il massimo della pena previsto
dal legislatore per i fatti di lieve entità concernenti tutte le sostanze
stupefacenti (comma 5 del medesimo art. 73): i primi, colpiti con una pena
minima di otto anni di reclusione; i secondi, con una pena massima di quattro
anni di reclusione. Il vulnus costituzionale è ravvisato, quindi, non tanto
nella entità della pena in sé considerata, quanto nell’eccessivo divario
venutosi a creare, come si dirà, in seguito a una serie di interventi del
legislatore, sia precedenti che successivi alla sentenza n. 32 del
2014 di questa Corte.
Impostata
in questo modo la questione, entrambe le ordinanze di rimessione giungono a
formulare petita determinati, individuando come
soluzione costituzionalmente adeguata la parificazione del minimo edittale per
il fatto non lieve al massimo edittale di pena previsto per il fatto lieve,
così da superare i rilievi contenuti nelle citate sentenze n. 148
e n. 23 del 2016.
4.– Al fine di affrontare adeguatamente la
questione come prospettata nel presente giudizio, occorre anzitutto rivisitare
i principali snodi dello sviluppo della giurisprudenza di questa Corte
sull’ampiezza e i limiti del sindacato di legittimità costituzionale in materia
penale, in riferimento alle norme sanzionatorie.
4.1.– Cardine della cornice costituzionale di
riferimento è il principio di legalità sancito all’art. 25 Cost., per cui le
scelte sulla misura della pena sono affidate alla discrezionalità politica del
legislatore. Detta discrezionalità, tuttavia, non può essere assoluta,
dovendosi misurare con altri principi costituzionali, tra cui il fondamentale
principio di eguaglianza contenuto all’art. 3 Cost.,
che esige un diritto penale non arbitrario, non irragionevole e non
sproporzionato, nonché i principi di cui all’art. 27 Cost., per cui le pene non
possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere
alla rieducazione del condannato. La traiettoria della giurisprudenza
costituzionale in materia di pena, pertanto, si dispiega tra due poli, in
costante tensione fra loro: da un lato, il dovuto riguardo alle scelte politiche,
quale componente necessaria del principio di legalità; dall’altro, la
indefettibile tutela degli ulteriori principi e diritti costituzionali, a cui
deve conformarsi anche il legislatore della punizione. Preservare l’armonia tra
i due livelli di legalità – ordinaria e costituzionale – è compito del giudice
delle leggi in ogni settore dell’ordinamento e nei confronti di qualsiasi
illegittimo esercizio del potere legislativo.
4.2.–
La giurisprudenza di questa Corte ha sempre avuto cura di salvaguardare gli
spazi spettanti alle valutazioni di politica criminale del legislatore relative
alla congruenza fra i reati e le pene (ex multis, sentenze n. 167 del
1982, n. 22
del 1971 e n.
109 del 1968), riservandosi di intervenire solo a fronte di determinazioni
palesemente arbitrarie di quest’ultimo, cioè in caso di sperequazioni punitive
di tale gravità da risultare radicalmente ingiustificate (ex plurimis, sentenze n. 282 del
2010, n. 22
del 2007, n.
325 del 2005 e n. 364 del 2004),
anche alla luce dei canoni di razionalità (sentenza n. 218 del
1974) e di ragionevolezza (sentenza n. 22 del
2007). Non sono mancati neppure in passato significativi interventi di
questa Corte volti a censurare scelte sanzionatorie manifestamente
irragionevoli e arbitrarie. Così sono state dichiarate illegittime:
disposizioni di legge che comportavano una ingiustificata parificazione
sanzionatoria (ad esempio con le sentenze n. 176 del
1976 e n.
218 del 1974 in materia di caccia), specie quando tale parificazione si era
tradotta in un inammissibile stravolgimento dei valori messi in gioco (sentenza n. 26 del
1979 in materia di reati militari); ovvero norme che determinavano una
ingiustificata discriminazione, assoggettando a sanzioni diverse fattispecie
assimilabili per l’identità del bene protetto (sentenza n. 409 del
1989 in punto di sanzioni per il rifiuto del servizio militare); o ancora
norme caratterizzate da eccessiva ampiezza della cornice edittale della pena,
tali da non porre sufficienti limiti alla discrezionalità del giudice in fase
di irrogazione della stessa, in violazione del principio di legalità (sentenza n. 299 del
1992 in ordine al reato militare di violata consegna). Tra gli interventi
più incisivi della Corte in materia di misura della pena, è da richiamare la sentenza n. 341 del
1994, avente ad oggetto le sanzioni previste per il reato di oltraggio, in
cui la Corte ha giudicato illegittimo il minimo edittale, in quanto sproporzionato
rispetto all’offensività della complessiva gamma dei fatti sussumibili nella
fattispecie astratta.
4.3.– Tali interventi hanno posto in evidenza il
problema del trattamento sanzionatorio residuo all’esito della dichiarazione di
illegittimità costituzionale, non potendo questa Corte sostituire alle scelte
del legislatore, dichiarate costituzionalmente illegittime, proprie e autonome
quantificazioni punitive, senza invadere un ambito affidato in primo luogo al
legislatore. Nel rispetto dei limiti dei poteri che le sono propri, la Corte ha
ritenuto di poter incidere sulla misura della pena solo rintracciando
all’interno dell’ordinamento vigente una adeguata disposizione sanzionatoria
sostitutiva di quella dichiarata costituzionalmente illegittima (in tema, v. sentenza n. 22 del
2007), in modo da non lasciare vuoti legislativi e da rispettare, al
contempo, la riserva di legge ex art. 25 Cost.: in talune occasioni, ha
ritenuto che si riespandesse una disciplina punitiva
più generale (ad esempio, nella sentenza n. 26 del
1979, in materia di reati militari); in altre, ha fatto riferimento alla
pena prevista dal legislatore per la fattispecie di reato rispetto alla quale è
stata ravvisata una illegittima diversificazione (ad esempio nelle sentenze n. 78 del
1997 e n.
409 del 1989 in materia, rispettivamente, di violazioni di norme sul
commercio di medicinali e di rifiuto del servizio militare); infine, in ipotesi
invero eccezionali, ha ritenuto applicabile la pena minima prevista dalle disposizioni
generali del codice penale, quando tale minimo non determinasse a sua volta
irragionevolezze o eccessive dilatazioni degli intervalli edittali in modo tale
da mantenere margini adeguati alla discrezionalità del giudice (ad esempio,
nella già citata sentenza
n. 341 del 1994 in materia di oltraggio).
4.4.– Nella giurisprudenza costituzionale più
recente, gli interventi di questa Corte sulle disposizioni sanzionatorie sono
divenuti più frequenti, con una serie di decisioni ispirate a una sempre
maggiore garanzia della libertà personale e dei principi costituzionali che
delineano «il volto costituzionale del sistema penale» (secondo l’espressione
coniata nella sentenza
n. 50 del 1980). Sul fertile terreno dei principi di cui agli artt. 3 e 27
Cost., che esigono di contenere la privazione della libertà e la sofferenza
inflitta alla persona umana nella misura minima necessaria e sempre allo scopo
di favorirne il cammino di recupero, riparazione, riconciliazione e
reinserimento sociale, si è innestato il principio di proporzionalità della
pena, conosciuto in molti ordinamenti europei, e codificato anche nell’art. 49,
paragrafo 3, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea,
richiamata anche dai giudici rimettenti nel presente giudizio. Radicato
nell’art. 3 Cost. e nei principi di eguaglianza e
ragionevolezza di cui costituisce una delle possibili declinazioni, il
principio di proporzionalità della pena è altresì presupposto dall’art. 27
Cost., come ha sottolineato questa Corte sin dalla sentenza n. 313 del
1990. In tale pronuncia, la Corte ha osservato che la finalità rieducativa,
a cui la pena deve tendere «da quando nasce, nell’astratta previsione
normativa, fino a quando in concreto si estingue», è un principio che «seppure
variamente profilato, è ormai da tempo diventato patrimonio della cultura
giuridica europea, particolarmente per il suo collegamento con il "principio di
proporzione” fra qualità e quantità della sanzione, da una parte, e offesa,
dall’altra» (sentenza
n. 313 del 1990).
In
particolare, la Corte costituzionale è intervenuta non solo con decisioni
meramente ablative per eliminare le barriere normative al bilanciamento delle
circostanze che impedivano al giudice di adeguare la pena al fatto (sentenze n. 106
e n. 105 del
2014 e n.
251 del 2012), ma anche con pronunce additive per censurare la mancata
previsione in una fattispecie di un’attenuante stabilita in fattispecie
consimili (sentenza
n. 68 del 2012 concernente l’attenuante del fatto di particolare tenuità in
relazione al sequestro di persona a scopo di estorsione) o per allineare alla
soglia di punibilità più alta (prevista per il reato di infedele dichiarazione
dei redditi) quella irragionevolmente più bassa stabilita dal legislatore (per
l’omesso versamento dell’IVA, sentenza n. 80 del
2014). Più recentemente, con la sentenza n. 56 del
2016, questa Corte ha censurato una «legislazione ondivaga», che
differenziava la risposta sanzionatoria a seconda che la violazione riguardasse
vincoli ambientali imposti ex lege o per via provvedimentale, ritenendo pertanto non giustificata la
mancata parificazione della risposta sanzionatoria nelle due ipotesi.
4.5.–
Con la sentenza
n. 236 del 2016 con la quale questa Corte – fondando la decisione sui
principi di ragionevolezza e di proporzionalità – ha dichiarato l’illegittimità
costituzionale dell’art. 567, secondo comma, cod. pen.,
nella parte in cui punisce il delitto di alterazione di stato mediante falso
con la pena della reclusione da cinque a quindici anni, anziché con la pena
della reclusione da tre a dieci anni, prevista dal primo comma del medesimo
art. 567 in relazione all’alterazione di stato mediante sostituzione di un
neonato. È bene osservare che la Corte è giunta alla declaratoria di
illegittimità costituzionale in seguito a «un controllo di proporzionalità
sulla cornice edittale stabilita dalla norma censurata» e «non già [in forza
di] una verifica sull’asserito diverso trattamento sanzionatorio di condotte
simili o identiche». La Corte ha identificato il vizio che inficia la norma in
un difetto di proporzione tra la cornice edittale e il reale disvalore del
fatto. Tuttavia, ha proseguito la Corte, «[a]nche nel
giudizio di "ragionevolezza intrinseca” di un trattamento sanzionatorio penale,
incentrato sul principio di proporzionalità, è […] essenziale l’individuazione
di soluzioni già esistenti, idonee a eliminare o ridurre la manifesta
irragionevolezza lamentata (sentenza n. 23 del
2016)». In questa prospettiva, la parificazione sanzionatoria rispetto alla
fattispecie di cui al primo comma del medesimo art. 567 cod. pen. è stata considerata come
«unica soluzione praticabile». Del resto, alla Corte è consentito rettificare
le scelte del legislatore solo «in riferimento a grandezze già rinvenibili
nell’ordinamento (sentenze
n. 148 del 2016 e n. 22 del 2007)»,
senza «sovrapporre, dall’esterno, una dosimetria sanzionatoria eterogenea
rispetto alle scelte legislative» (sentenza n. 236 del
2016).
4.6.– Questa Corte ritiene di dover seguire anche
nel presente giudizio la linea di sviluppo giurisprudenziale indicata ai
paragrafi che precedono, in tutte le sue articolazioni. Deve quindi ribadirsi,
da un lato, che spetta a questa Corte il sindacato sulla proporzionalità e
sulla ragionevolezza intrinseca della misura della pena prevista dal
legislatore all’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990,
non potendo essa in alcun modo abdicare alla sua essenziale funzione di
controllo di costituzionalità di scelte legislative che incidono sulla libertà
e i diritti della persona. D’altra parte, occorre altresì insistere sul fatto
che, quando per riparare al vulnus costituzionale non soccorra lo strumento
demolitorio, la Corte costituzionale non può autonomamente e a propria
discrezione decidere la misura della pena. In assenza di una univoca
indicazione legislativa già disponibile nel sistema giuridico, questa Corte
reputa necessario, nel rispetto delle reciproche competenze istituzionali,
richiamare prioritariamente il legislatore alla propria responsabilità, affinché
la misura della pena sia riportata in armonia con i principi costituzionali per
via legislativa, scegliendo una tra le molteplici opzioni sanzionatorie tutte
ugualmente legittime e alternative a quella censurata. In mancanza di un
intervento del legislatore, la Corte sarebbe però successivamente obbligata a
intervenire, non mai in malam partem,
e comunque nei limiti già tracciati dalla sua giurisprudenza.
4.7.– Allo scopo può non essere superfluo richiamare
alcuni precedenti che bene esemplificano i rapporti tra Corte e legislatore in
materia penale.
Così,
nella sentenza
n. 279 del 2013 – in presenza di gravissime violazioni dei diritti
fondamentali della persona, consistenti in un trattamento detentivo contrario
al senso di umanità, addirittura oggetto di condanna dell’Italia da parte della
Corte europea dei diritti dell’uomo per violazione del divieto di tortura e
trattamenti inumani e degradanti (sentenza
8 gennaio 2013, Torreggiani e altri contro Italia)
– questa Corte ha riconosciuto «l’effettiva sussistenza del vulnus denunciato
dai rimettenti e la necessità che l’ordinamento si doti di un rimedio idoneo»,
ma ha ritenuto inammissibili le questioni sollevate «per la pluralità di
soluzioni normative che potrebbero essere adottate». Più precisamente, questa
Corte ha preso atto della «pluralità di possibili configurazioni dello
strumento normativo occorrente per impedire che si protragga un trattamento
detentivo contrario al senso di umanità, in violazione degli artt. 27, terzo
comma, e 117, primo comma, Cost., in relazione quest’ultimo all’art. 3 della
CEDU» e, a fronte di tale pluralità, ha ribadito che «il "rispetto della
priorità di valutazione da parte del legislatore sulla congruità dei mezzi per
raggiungere un fine costituzionalmente necessario” (sentenza n. 23 del
2013) comporta una dichiarazione di inammissibilità delle questioni».
Tuttavia, nel dichiarare l’inammissibilità la Corte ha altresì di nuovo
sottolineato che «"non sarebbe tollerabile l’eccessivo protrarsi dell’inerzia
legislativa in ordine al grave problema individuato nella presente pronuncia” (sentenza n. 23 del
2013)».
Prima
ancora, in materia di "revisione europea”, è stato solo in seguito al protrarsi
dell’inerzia del legislatore, nonostante il «pressante invito» rivoltogli con
la precedente sentenza
n. 129 del 2008, che la Corte, con la sentenza n. 113 del
2011, ha ritenuto indispensabile, per riparare al vulnus costituzionale,
introdurre la possibilità della riapertura del processo «quando ciò sia
necessario, ai sensi dell’art. 46, paragrafo 1, della Convenzione per la
salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, per
conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte europea dei diritti
dell’uomo». In tale caso, atteso invano l’intervento legislativo, la Corte
costituzionale ha ritenuto di poter fare riferimento «[al]l’istituto, fra
quelli attualmente esistenti nel sistema processuale penale, che presenta
profili di maggiore assonanza con quello la cui introduzione appare necessaria
al fine di garantire la conformità dell’ordinamento nazionale al parametro
evocato», precisando altresì che la soluzione prescelta «non implica una
pregiudiziale opzione di questa Corte a favore dell’istituto della revisione,
essendo giustificata soltanto dall’inesistenza di altra
e più idonea sedes dell’intervento additivo» e che
«[i]l legislatore resta pertanto e ovviamente libero di regolare con una
diversa disciplina – recata anche dall’introduzione di un autonomo e distinto
istituto – il meccanismo di adeguamento alle pronunce definitive della Corte di
Strasburgo, come pure di dettare norme su specifici aspetti di esso sui quali
questa Corte non potrebbe intervenire, in quanto involventi scelte
discrezionali».
5.– Ciò chiarito in merito ai principi elaborati
dalla giurisprudenza di questa Corte, l’esame del caso di specie richiede la
previa ricostruzione della complessa evoluzione legislativa e giurisprudenziale
che ha portato all’assetto sanzionatorio censurato dai rimettenti.
L’originario
art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 (cosiddetta legge
Iervolino-Vassalli) differenziava il trattamento sanzionatorio dei reati aventi
ad oggetto le droghe "pesanti” (puniti al comma 1 con la reclusione da otto a
venti anni e con la multa) rispetto a quello dei reati aventi ad oggetto le
droghe "leggere” (puniti al comma 4 con la reclusione da due a sei anni e con
la multa). La stessa distinzione tra droghe "pesanti” e "leggere” veniva poi
riproposta anche per i fatti di lieve entità, in relazione ai quali il comma 5
del medesimo art. 73 stabiliva un’attenuante ad effetto speciale cosiddetta
autonoma o indipendente, con conseguente rideterminazione delle cornici
edittali nella misura: da uno a sei anni di reclusione per i fatti concernenti
le droghe "pesanti”; da sei mesi a quattro anni di reclusione per quelli
relativi alle droghe "leggere”, oltre alle rispettive sanzioni pecuniarie.
Il
legislatore del 2006 ha riunificato il trattamento sanzionatorio relativo alle
condotte previste dal citato art. 73, sopprimendo la distinzione fondata sul
tipo di sostanza stupefacente: ciò è avvenuto ad opera dell’art. 4-bis del
decreto-legge 30 dicembre 2005, n. 272 (Misure urgenti per garantire la
sicurezza ed i finanziamenti per le prossime Olimpiadi invernali, nonché la
funzionalità dell’Amministrazione dell’interno. Disposizioni per favorire il
recupero di tossicodipendenti recidivi e modifiche al testo unico delle leggi
in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione,
cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, di cui al
decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309), convertito,
con modificazioni, dalla legge 21 febbraio 2006, n. 49 (cosiddetta legge
Fini-Giovanardi). In particolare, le nuove disposizioni – poi dichiarate
costituzionalmente illegittime con sentenza n. 32 del
2014 per vizi procedurali della legge di conversione – avevano previsto, in
relazione a qualsiasi tipo di stupefacente, la pena della reclusione da sei a
venti anni e la multa, per i fatti non lievi, e la pena della reclusione da uno
a sei anni e la multa per i casi in cui fosse applicabile l’attenuante del
fatto di lieve entità.
Con
il successivo decreto-legge 23 dicembre 2013, n. 146 (Misure urgenti in tema di
tutela dei diritti fondamentali dei detenuti e di riduzione controllata della
popolazione carceraria), convertito, con modificazioni, dalla legge 21 febbraio
2014, n. 10, è stato modificato il comma 5 dello stesso art. 73, trasformando
la circostanza attenuante del fatto di lieve entità in fattispecie autonoma di
reato e riducendo il limite edittale massimo della pena detentiva da sei a
cinque anni di reclusione.
Tale
modifica non è stata intaccata dalla sentenza n. 32 del
2014 della Corte costituzionale, che ha dichiarato l’illegittimità
costituzionale degli articoli 4-bis e 4-vicies ter del d.l.
n. 272 del 2005, per violazione dell’art. 77, secondo comma, Cost., in
particolare, perché tali articoli sono stati introdotti con emendamenti in sede
di conversione, nonostante il difetto del requisito di omogeneità e del
necessario nesso funzionale tra gli emendamenti proposti e il contenuto del
decreto-legge. In conseguenza della illegittimità procedurale nell’iter di
formazione, questa Corte ha precisato che le disposizioni dichiarate
illegittime fossero inidonee «ad innovare l’ordinamento e, quindi, anche ad
abrogare la precedente normativa». Conseguentemente hanno ripreso vigore le –
per vero mai legittimamente abrogate –disposizioni dell’art. 73, nella
originaria formulazione, di cui al testo del 1990: con riferimento ai soli
fatti di non lieve entità è, dunque, tornata in rilievo la distinzione fondata
sulla tipologia della sostanza stupefacente oggetto della condotta, così che la
pena per le violazioni relative a fatti non lievi concernenti le droghe
"pesanti” è risultata da otto a venti anni di reclusione oltre la multa, mentre
quella per i fatti non lievi concernenti le droghe "leggere” è risultata da due
a sei anni di reclusione oltre la multa. La citata sentenza n. 32 del
2014 non ha invece intaccato il trattamento sanzionatorio relativo ai fatti
di lieve entità, in quanto modificato con il d.l. n.
146 del 2013, successivo all’entrata in vigore delle disposizioni del d.l. n. 272 del 2005 dichiarate costituzionalmente
illegittime.
Infine,
il legislatore è tornato nuovamente sulla materia, nell’ambito delle misure
adottate per fronteggiare il sovraffollamento carcerario, anche a seguito della
sentenza
Torreggiani dell’8 gennaio 2013, con cui la Corte
europea dei diritti dell’uomo ha condannato l’Italia per violazione dell’art. 3
della CEDU (divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti). Il
decreto-legge 20 marzo 2014, n. 36 (Disposizioni urgenti in materia di
disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e
riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, di cui al decreto del
Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309), convertito, con
modificazioni, dalla legge 16 maggio 2014, n. 79, ha ulteriormente diminuito il
massimo edittale della pena prevista per il fatto di lieve entità concernente
tutte le droghe (e quindi anche le cosiddette droghe "pesanti”), fissandolo
nella misura di anni quattro di reclusione oltre la multa. Inoltre, il medesimo
decreto-legge ha completamente ridisegnato il quadro normativo di riferimento:
per quanto qui di interesse, meritano attenzione le modifiche apportate agli
artt. 13 e 14 del Testo unico sugli stupefacenti, che concernono le tabelle
contenenti le diverse sostanze oggetto di incriminazione nell’art. 73 (art. 1,
commi 2 e 3, del citato decreto-legge); il comma 5-bis del medesimo art. 73,
relativo alla sanzione sostitutiva del lavoro di pubblica utilità (art. 1,
comma 24-ter, lettera b, del citato decreto-legge); l’art. 75 dello stesso
Testo unico, concernente l’uso personale di sostanze stupefacenti (art. 1,
comma 24-quater, del citato decreto-legge).
6.–
A seguito del complesso sviluppo legislativo e giurisprudenziale sopra
ricostruito, si è venuta a creare, in relazione alle droghe "pesanti”, una
profonda frattura nel trattamento sanzionatorio tra minimo edittale del fatto
di non lieve entità (otto anni) e massimo edittale del fatto lieve (quattro
anni), ritenuta in contrasto con i principi di ragionevolezza e proporzionalità
garantiti dagli artt. 3 e 27 Cost., oltre che dall’art. 49, paragrafo 3, della
Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e dall’art. 3 della
Convenzione dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.
Le
doglianze dei rimettenti lamentano il rischio di sperequazioni punitive dovute
allo iato sanzionatorio censurato, che costringe il giudice a punire con pene
molto diverse tra loro casi non molto dissimili per offensività, ovvero a
imporre pene sproporzionate, in eccesso o in difetto, in un numero rilevante di
condotte. Al fine di rimediare a tale violazione dei principi costituzionali,
europei e convenzionali, i giudici rimettenti chiedono a questa Corte di
ripristinare un continuum punitivo tra le due fattispecie.
Significativo
in proposito risulta l’iter seguito nell’ordinanza di rimessione del Giudice
dell’udienza preliminare presso il Tribunale di Rovereto. Egli rileva,
anzitutto, un’identità di struttura delle fattispecie di cui al comma 1 e al
comma 5 del citato art. 73, le quali si differenzierebbero solo per il
carattere "lieve” o "non lieve” del fatto, ma sarebbero identificate dalle
medesime condotte e dal medesimo oggetto materiale (le cosiddette droghe
"pesanti”). L’identità di struttura denoterebbe una analoga configurazione
delle due fattispecie astratte e «una progressione senza soluzione di
continuità dell’offesa (dal fatto lieve al fatto non lieve)». Alla graduale
progressività dell’offesa non corrisponderebbe, però, un’altrettanto
graduale progressività della risposta sanzionatoria che, invece, è
caratterizzata da un salto cospicuo, posto che la pena detentiva minima per il
fatto non lieve è pari al doppio della pena massima stabilita per il fatto
lieve. Di qui la questione di legittimità costituzionale e la richiesta rivolta
a questa Corte di rimodulare l’entità della pena in modo tale da assicurare
continuità sanzionatoria tra il comma 5 e il comma 1 dell’art. 73.
7.
– Le questioni non sono ammissibili.
Le
due ipotesi di reato delineate rispettivamente dal comma 1 e dal comma 5
dell’art. 73 sono due fattispecie autonome, come è stato riconosciuto dalla
Corte di cassazione nell’esercizio del proprio compito istituzionale di
interpretazione e applicazione della legge in chiave nomofilattica (ex plurimis Corte di cassazione, sezione sesta penale, 24
novembre 2016-8 febbraio 2017, n. 5812; Corte di cassazione, sezione terza
penale, 23 febbraio 2016-9 giugno 2016, n. 23882; Corte di cassazione, sezioni
unite penali, 26 febbraio 2015-28 maggio 2015, n. 22471; Corte di cassazione,
sezione quarta penale 24 ottobre 2014-28 novembre 2014, n. 49754). Deve
rilevarsi però che, a differenza di quanto ritenuto dal giudice di Rovereto,
non si tratta di due fattispecie del tutto omogenee. Benché nelle due
disposizioni le condotte siano descritte in termini analoghi e l’oggetto
materiale sia parzialmente sovrapponibile, nondimeno merita di essere rimarcato
che il fatto di non lieve entità di cui al comma 1 del citato art. 73 riguarda
le sole droghe "pesanti”, mentre il fatto di lieve entità di cui al comma 5
dello stesso art. 73 si caratterizza per l’indistinzione tra i diversi tipi di
droghe.
Vero
è che le rilevate differenze tra i due reati non giustificano salti
sanzionatori di entità così rilevante come quello attualmente presente nei
diversi commi dell’art. 73. Tuttavia, contrariamente a quanto ritenuto dai
rimettenti, a tale incongruenza può porsi rimedio attraverso una pluralità di
soluzioni tutte costituzionalmente legittime. Sicché, la determinazione del
minimo edittale per il fatto non lieve ex art. 73, comma 1, del d.P.R. n. 309 del 1990, in misura pari al massimo edittale
del fatto lieve ex art. 73, comma 5, dello stesso decreto, non costituisce
l’unica soluzione in armonia con la Costituzione.
Né
può ritenersi imposto, dal punto di vista costituzionale, che a continuità
dell’offesa debba necessariamente corrispondere una continuità della risposta
sanzionatoria. In particolare, deve rilevarsi che la tenuità o la levità del
fatto possono essere (e sono) prese in considerazione dal legislatore a diverso
titolo e con effetti che possono determinare "spazi di discrezionalità
discontinua” nel trattamento sanzionatorio. Più precisamente simile
discontinuità può corrispondere a una ragionevole esigenza di politica
criminale volta a esprimere, attraverso un più mite trattamento sanzionatorio,
una maggiore tolleranza verso i comportamenti meno lesivi e, viceversa,
manifestare una più ferma severità, con sanzioni autonome più rigorose, nei
confronti di condotte particolarmente lesive.
8.– Questa Corte ritiene, dunque, che la
divaricazione – venutasi a creare a seguito del d.l.
n. 36 del 2014, come modificato dalla legge di conversione – tra il minimo
edittale di pena previsto dal comma 1 dell’art. 73 del d.P.R.
n. 309 del 1990 e il massimo edittale della pena comminata dal comma 5 dello
stesso articolo – ha raggiunto un’ampiezza tale da determinare un’anomalia
sanzionatoria rimediabile con plurime opzioni legislative. Conseguentemente,
«il "rispetto della priorità di valutazione da parte del legislatore sulla
congruità dei mezzi per raggiungere un fine costituzionalmente necessario” (sentenza n. 23 del
2013) comporta una dichiarazione di inammissibilità delle questioni» (sentenza n. 279 del
2013).
Tenuto
conto dell’elevato numero dei giudizi, pendenti e definiti, aventi ad oggetto
reati in materia di stupefacenti, non può non formularsi un pressante auspicio
affinché il legislatore proceda rapidamente a soddisfare il principio di
necessaria proporzionalità del trattamento sanzionatorio, risanando la frattura
che separa le pene previste per i fatti lievi e per i fatti non lievi dai commi
5 e 1 dell’art. 73, del d.P.R. n. 309 del 1990.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
1)
dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 73,
comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309
(Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze
psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di
tossicodipendenza), sollevate, in riferimento agli artt. 3, 25 e 27, terzo
comma, della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Ferrara, sezione penale,
con l’ordinanza indicata in epigrafe;
2)
dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 73,
comma 1, del d.P.R. n. 309 del 1990, sollevate, in
riferimento agli artt. 3, 11, 27, terzo comma, e 117, primo comma, quest’ultimo
in relazione agli artt. 4 e 49, paragrafo 3, della Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione europea e in relazione all’art. 3 della Convenzione
per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, dal
Giudice dell’udienza preliminare presso il Tribunale ordinario di Rovereto, con
l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così
deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta,
il 7 giugno 2017.
F.to:
Paolo
GROSSI, Presidente
Marta
CARTABIA, Redattore
Roberto
MILANA, Cancelliere
Depositata
in Cancelleria il 13 luglio 2017.