SENTENZA N. 282
ANNO 2010
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Francesco AMIRANTE Presidente
- Ugo DE SIERVO Giudice
- Paolo MADDALENA “
- Alfio FINOCCHIARO “
- Alfonso QUARANTA “
- Franco GALLO “
- Luigi MAZZELLA “
- Gaetano SILVESTRI “
- Sabino CASSESE “
- Maria Rita SAULLE “
- Giuseppe TESAURO “
- Paolo Maria NAPOLITANO “
- Giuseppe FRIGO “
- Alessandro CRISCUOLO “
- Paolo GROSSI “
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 9, secondo comma, della legge 27 dicembre 1956 n. 1423 (Misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità), come sostituito dall’art. 14 del decreto-legge 27 luglio 2005, n. 144 (Misure urgenti per il contrasto del terrorismo internazionale), convertito, con modificazioni, dalla legge 31 luglio 2005, n. 155, promosso dal Tribunale di Trani, sezione distaccata di Andria, nel procedimento penale a carico di G. D., con ordinanza del 12 ottobre 2009, iscritta al n. 314 del registro ordinanze 2009 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 1, prima serie speciale, dell’anno 2010.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 9 giugno 2010 il Giudice relatore Alessandro Criscuolo.
Ritenuto in fatto
1. — Il Tribunale di Trani, sezione distaccata di Andria, in composizione monocratica, con l’ordinanza indicata in epigrafe ha sollevato, in riferimento agli articoli 25, secondo comma, e 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 9, secondo comma, della legge 27 dicembre 1956, n. 1423 (Misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità), come sostituito dall’articolo 14 del decreto-legge 27 luglio 2005, n. 144 (Misure urgenti per il contrasto del terrorismo internazionale), convertito, con modificazioni, dalla legge 31 luglio 2005, n. 155, in relazione all’art. 5, terzo comma, prima parte, della stessa legge n. 1423 del 1956.
Il rimettente premette di essere chiamato a giudicare in un procedimento penale a carico di G. D., arrestato in flagranza del reato previsto e punito dalla norma censurata e tratto a giudizio con rito direttissimo per avere, «quale soggetto sottoposto alla misura della sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno nel Comune di Andria, in forza del decreto n. 5/06 M. P. emesso in data 11.1.2006 dal Tribunale di Bari, violato, con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, le prescrizioni di cui al punto n. 4 del citato decreto e cioè quelle di “vivere onestamente, rispettare le leggi dello Stato e non dare ragione alcuna di sospetto in ordine alla propria condotta” e precisamente perché: 1) si poneva alla guida di un ciclomotore senza aver conseguito il previsto certificato di idoneità alla guida dei ciclomotori e senza essere munito di patente perché revocata; 2) si poneva alla guida dello stesso ciclomotore senza indossare il casco protettivo; 3) transitava nella zona battuta da spacciatori e tossicodipendenti, così dando ragione di sospetto con la propria condotta».
Il giudice a quo prosegue esponendo che, all’esito della convalida dell’arresto, l’imputato ha formulato richiesta di giudizio abbreviato, che è stato disposto.
Nell’ambito di tale giudizio il difensore ha sollevato questione di legittimità costituzionale – in riferimento agli artt. 3, 13, 25 e 27 Cost. – dell’art. 9 della legge n. 1423 del 1956, nella parte in cui, richiamando il dettato dell’art. 5 della stessa legge, sanziona la prescrizione di «rispettare le leggi».
2. — Tanto premesso, il giudicante osserva che «l’art. 9, 2° comma, L. 1423/1956, come modificato dall’art. 14 D. L. 144/2005, si pone in contrasto sia con l’art. 25, 2° comma, che con l’art. 3 della Costituzione facendo emergere due profili autonomi e distinti di illegittimità costituzionale».
Ad avviso del giudice a quo, in relazione al contrasto con l’art. 25, secondo comma, Cost., il detto art. 9, nella parte in cui sanziona penalmente l’inosservanza della prescrizione prevista nell’art. 5, terzo comma, della stessa legge n. 1423 del 1956, cioè quella di “vivere onestamente, di rispettare le leggi e non dare ragione di sospetti”, violerebbe il principio di tassatività sancito, in modo implicito ma certo, dal citato art. 25 Cost., «quale corollario e completamento logico dei princìpi della riserva di legge e della irretroattività».
Il detto principio di tassatività imporrebbe la tipizzazione e la determinatezza della fattispecie di reato, affinché la condotta sanzionata penalmente possa essere sempre individuata, o, comunque, individuabile con sicurezza.
Tuttavia, l’obbligo di vivere onestamente, di rispettare le leggi e non dare ragione di sospetti, pur essendo compreso tra le prescrizioni imposte al sorvegliato speciale, costituirebbe un obbligo di carattere generale, concernente tutta la collettività, non riferibile specificamente al detto soggetto. Pertanto, proprio per la sua portata generale, l’obbligo indicato non potrebbe individuare una prescrizione a contenuto precettivo, tipico e specifico, della misura della sorveglianza speciale, onde non sarebbe possibile riconoscere con precisione la condotta idonea ad integrare il reato di violazione della sorveglianza speciale, dato il carattere vago ed indeterminato degli elementi utilizzati per la tipizzazione della fattispecie.
Infatti, andrebbe definito il concetto di “vivere onestamente” e sarebbe necessario stabilire le leggi di cui si impone il rispetto; inoltre bisognerebbe chiedersi quali siano i comportamenti idonei a generare ragioni di sospetto.
Il rimettente richiama, poi, l’ordinanza di questa Corte n. 354 del 2003 e, pur rimarcando che essa dichiarò inammissibile, per difetto di rilevanza in quella fattispecie, la questione di legittimità costituzionale della norma in questa sede censurata in riferimento all’art. 25, secondo comma, Cost., pone in evidenza quanto si legge in detto provvedimento, cioè che «l’art. 5 prevede – accanto a specifiche e qualificate condotte che configurano altrettanti e ben precisi “obblighi”, tutti puntualmente circoscritti nominatim dalla previsione di legge la quale evidentemente assume in parte qua valore precettivo – alcune prescrizioni di “genere”; queste ultime, riconducibili al paradigma dell’honeste vivere, sono anch’esse funzionali alla ratio essendi della sorveglianza speciale, ma non sono certo qualificabili alla stregua di specifici “obblighi” penalmente sanzionati; paradigma, quello accennato, al quale è certamente possibile ricondurre anche la prescrizione di “non dare ragione di sospetti”, rappresentando essa null’altro che la proiezione esteriore del comportamento di chi osservi appunto il più generale precetto costituzionalmente imposto a chiunque di vivere onestamente».
Ciò posto, e riferito l’orientamento dominante nella giurisprudenza della Corte di cassazione, secondo cui l’inosservanza – da parte del sorvegliato speciale di pubblica sicurezza – delle menzionate prescrizioni integra pur sempre il reato di cui all’art. 9 della legge 1423 del 1956 (nel testo vigente), ad avviso del giudicante è inevitabile rilevare come tale norma, «nella parte in cui sanziona penalmente la violazione delle prescrizioni di cui alla prima parte del terzo comma del predetto art. 5, si ponga in evidente contrasto con l’art. 25, 2° comma, della Costituzione in quanto viola il principio costituzionale di tassatività sancito in detto articolo della Costituzione».
La questione, per le considerazioni esposte, sarebbe non manifestamente infondata e risulterebbe, altresì, rilevante, «in quanto la eventuale declaratoria di illegittimità costituzionale è destinata ad incidere sulle decisioni del giudice remittente nella misura in cui porterebbe ad escludere la sussistenza del fatto di reato contestato».
3. — Sotto altro profilo, il rimettente ritiene la norma censurata in contrasto con l’art. 3 Cost. per violazione del principio di eguaglianza.
Richiamato il precetto dell’art. 9, secondo comma, della legge n. 1423 del 1956, come sostituito dall’art. 14 del d.l. n. 144 del 2005, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 155 del 2005, il giudice a quo rileva che esso «tipizza come delitto la violazione della misura di sorveglianza speciale in alternativa alla previsione del 1° comma dello stesso art. 9 che invece configura come contravvenzione la semplice inosservanza degli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale senza l’obbligo o il divieto di soggiorno».
Tuttavia, dal punto di vista della concreta offensività della condotta, l’inosservanza degli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale presenta la stessa carica di disvalore, «a prescindere dal fatto che il sorvegliato speciale sia o meno gravato anche dall’obbligo o dal divieto di soggiorno, diversamente dal caso in cui sia invece proprio questa, e cioè la prescrizione inerente all’obbligo o al divieto di soggiorno, ad essere violata».
Per conseguenza, il più severo trattamento sanzionatorio previsto dall’art. 9, secondo comma (testo vigente), della legge n. 1423 del 1956 crea, ad avviso del giudicante, una ingiustificata disparità di trattamento tra sorvegliato speciale semplice e sorvegliato speciale con obbligo o divieto di dimora.
Infatti, la diversità del trattamento sanzionatorio andrebbe ancorata alla maggiore gravità del fatto, da valutare in relazione alla concreta offensività di esso, e non alla qualità del soggetto, sicché «va apprezzata allo stesso modo con riferimento alle prescrizioni concretamente violate a prescindere dalla previsione o meno nel provvedimento applicativo della misura della sorveglianza speciale dell’obbligo o del divieto di soggiorno; la previsione di tale obbligo o divieto non incide sulla offensività e gravità della condotta, ma serve solo a connotare diversamente il comportamento imposto al sorvegliato speciale e ad imporgli una più gravosa prescrizione che se violata può sì giustificare la configurabilità della fattispecie delittuosa prevista nel 2° comma dell’art. 9 L. 1423/1956».
4. — Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto nel presente giudizio di legittimità costituzionale, chiedendo che la questione sia dichiarata manifestamente infondata.
La difesa dello Stato, con riferimento all’art. 25, secondo comma, Cost., sostiene che la pretesa anomalia denunziata nell’ordinanza di rimessione va inquadrata «nell’ambito del noto e non infrequente fenomeno delle così dette leggi penali in bianco: espressione coniata dalla dottrina con cui si suole denominare quella legge che faccia rinvio a un atto normativo di grado inferiore, per indicare tutte le connotazioni di un fatto che la legge medesima considera penalmente illecito».
Al riguardo, l’Avvocatura richiama l’art. 650 del codice penale ed osserva che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, detta norma «non contrasta con la riserva di legge sancita dall’articolo 25, secondo comma, della Costituzione. La Corte ha in più occasioni affermato che il principio di legalità non è violato quando sia una legge dello Stato, non importa se proprio la medesima legge o un’altra legge, ad indicare con sufficiente specificazione i presupposti, i caratteri, il contenuto e i limiti del provvedimento dell’autorità non legislativa, alla cui trasgressione deve seguire la pena (sent. n. 26 del 1966 e sent. n. 62 del 1969); nel caso dell’art. 650 c. p., la materialità della contravvenzione è descritta tassativamente in tutti i suoi elementi costitutivi, spettando al giudice penale di indagare, volta per volta, se il provvedimento sia stato legittimamente emesso nell’esercizio di un potere-dovere previsto da una legge che determini con “sufficiente specificazione” le condizioni e l’ambito di applicazione del provvedimento».
Ad avviso della difesa dello Stato, lo stesso paradigma si osserva anche nella fattispecie normativa in esame, nella quale l’art. 9, secondo comma, prevede la reclusione da uno a cinque anni, ed è consentito l’arresto anche fuori dei casi di flagranza, quando l’inosservanza riguardi gli obblighi e le prescrizioni inerenti alla sorveglianza speciale.
Il contenuto delle prescrizioni è ricavabile con riferimento indiretto ed implicito alle misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose, dettate dall’art. 5 della stessa legge n. 1423 del 1956. Al terzo comma di detto articolo fanno riferimento le prescrizioni di «vivere onestamente, rispettare le leggi dello Stato, non dare ragione alcuna di sospetto in ordine alla propria condotta», indicate nel punto 4 del decreto del Tribunale di Bari; e, nella specie, la violazione di tali prescrizioni era stata accertata in flagrante, con riferimento a comportamenti posti in essere dal sorvegliato speciale in violazione di specifiche norme di legge dettate dall’ordinamento generale, come quelle del vigente codice della strada.
Secondo l’Avvocatura dello Stato, anche la questione sollevata con riguardo all’art. 3 Cost. sarebbe manifestamente infondata.
Infatti, un trattamento più severo per chi non osservi gli obblighi e le prescrizioni inerenti alla sorveglianza speciale, con obbligo o divieto di soggiorno, non può dirsi irragionevole, trattandosi di obblighi e prescrizioni relative alla misura di prevenzione più grave, irrogata a soggetto ritenuto portatore di speciale pericolosità. In proposito, è richiamata la sentenza di questa Corte n. 161 del 2009.
Considerato in diritto
1. — Il Tribunale di Trani, sezione distaccata di Andria, in composizione monocratica, dubita, in riferimento agli articoli 25, secondo comma, e 3 della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’articolo 9, secondo comma, della legge 27 dicembre 1956, n. 1423 (Misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità), come sostituito dall’articolo 14 del decreto-legge 27 luglio 2005, n. 144 (Misure urgenti per il contrasto del terrorismo internazionale), convertito, con modificazioni, dalla legge 31 luglio 2005, n. 155, in relazione all’art. 5, terzo comma, prima parte, della stessa legge n. 1423 del 1956.
Il rimettente premette di essere chiamato a giudicare in un procedimento penale con rito direttissimo a carico di G. D., arrestato in flagranza del reato di cui al denunziato art. 9, secondo comma, della legge n. 1423 del 1956, per avere, «quale soggetto sottoposto alla misura della sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno nel Comune di Andria, in forza del decreto n. 5/06 M. P. emesso in data 11.1.2006 dal Tribunale di Bari, violato, con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, le prescrizioni di cui al punto n. 4 del citato decreto e cioè quelle di “vivere onestamente, rispettare le leggi dello Stato e non dare ragione alcuna di sospetto in ordine alla propria condotta” e precisamente perché: 1) si poneva alla guida di un ciclomotore senza aver conseguito il previsto certificato di idoneità alla guida dei ciclomotori e senza essere munito di patente perché revocata; 2) si poneva alla guida dello stesso ciclomotore senza indossare il casco protettivo; 3) transitava nella zona battuta notoriamente da spacciatori e tossicodipendenti, così dando ragione di sospetto con la propria condotta».
Il giudice a quo aggiunge che, dopo la convalida dell’arresto, l’imputato ha formulato richiesta di giudizio abbreviato, che è stato disposto, e nell’ambito di tale giudizio il difensore ha sollevato questione di legittimità costituzionale della normativa sopra indicata, per contrasto con gli artt. 3, 25, 27 e 13 Cost.
Ciò premesso, il giudicante ritiene che la normativa censurata violi sia l’art. 25, secondo comma, sia l’art. 3 Cost., facendo emergere due profili autonomi e distinti di illegittimità costituzionale.
Con riguardo al primo profilo, il rimettente osserva che detta normativa, nella parte in cui sanziona come delitto di violazione della sorveglianza speciale l’inosservanza della prescrizione prevista dall’art. 5, terzo comma, prima parte, della legge n. 1423 del 1956 (vivere onestamente, rispettare le leggi e non dare ragione di sospetti), si pone in contrasto con il principio di tassatività, sancito in modo implicito ma certo dall’art. 25 Cost., «quale corollario e completamento logico dei princìpi della riserva di legge e della irretroattività». Il principio di tassatività «impone la determinazione e la determinatezza della fattispecie di reato affinché possa essere sempre individuata o comunque individuabile con sicurezza la condotta sanzionata penalmente». Tali caratteri mancherebbero nelle menzionate prescrizioni, che si limiterebbero a prevedere obblighi generali riguardanti tutta la collettività, sicché non sarebbe possibile riconoscere con precisione la condotta idonea ad integrare il reato contestato.
Quanto al secondo profilo, il trattamento sanzionatorio ben più severo, previsto dalla norma censurata per il sorvegliato speciale con obbligo o divieto di soggiorno rispetto al sorvegliato speciale non gravato da tali obblighi, darebbe luogo ad una ingiustificata disparità di trattamento, in quanto «dal punto di vista della concreta offensività della condotta, la inosservanza degli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale presenta oggettivamente la stessa carica di disvalore», nell’uno e nell’altro caso, onde sarebbe violato il principio dettato dall’art. 3 Cost.
2. — La questione, in relazione ad entrambi i profili, non è fondata, nei sensi di seguito precisati.
2.1. — Va premesso che l’art. 9 della legge n. 1423 del 1956, come oggi vigente dopo le modifiche apportate con l’art. 14 del d.l. n. 144 del 2005, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 155 del 2005, dispone nel primo comma che il «contravventore agli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale è punito con l’arresto da tre mesi ad un anno»; nel secondo comma aggiunge che se «l’inosservanza riguarda gli obblighi e le prescrizioni inerenti alla sorveglianza speciale con l’obbligo o il divieto di soggiorno, si applica la pena della reclusione da uno a cinque anni ed è consentito l’arresto anche fuori dei casi di flagranza».
Questa Corte, con sentenza n. 161 del 2009, dopo avere ricostruito l’evoluzione della normativa in esame (punto 3 del Considerato in diritto), ha ritenuto non irragionevole la scelta legislativa di inasprire il trattamento sanzionatorio delle condotte penalmente illecite, inerenti alla misura della sorveglianza speciale con l’obbligo o il divieto di soggiorno, scelta attuata collocando nella relativa fattispecie criminosa, punita con la reclusione da uno a cinque anni, anche l’inosservanza delle prescrizioni inerenti a tale misura, disposte dal tribunale ai sensi dell’art. 5 della legge n. 1423 del 1956 e successive modificazioni. Al riguardo, si è posto in rilievo che la pur severa sanzione prevista dalla norma denunziata (peraltro con un consistente divario tra il minimo e il massimo edittale della pena, con conseguente ampia flessibilità del trattamento punitivo) concerne soggetti sottoposti ad una grave misura di prevenzione, perché ritenuti pericolosi per la sicurezza pubblica, in relazione alla cui salvaguardia altre misure non sono state considerate idonee.
Le prescrizioni – che la persona sottoposta ad una delle misure di prevenzione previste dall’art. 3 della legge n. 1423 del 1956 deve osservare – sono determinate dal tribunale, all’esito del procedimento giurisdizionale applicativo della misura stessa, in base al citato art. 5 della medesima legge, il cui terzo comma così dispone: «In ogni caso prescrive di vivere onestamente, di rispettare le leggi, di non dare ragione di sospetti e di non allontanarsi dalla dimora senza preventivo avviso all’autorità locale di pubblica sicurezza; prescrive, altresì, di non associarsi abitualmente alle persone che hanno subìto condanne e sono sottoposte a misure di prevenzione o di sicurezza, di non rincasare la sera più tardi e di non uscire la mattina più presto di una data ora e senza comprovata necessità e, comunque, senza averne data tempestiva notizia all’autorità locale di pubblica sicurezza, di non detenere e non portare armi, di non trattenersi abitualmente nelle osterie, bettole, o in case di prostituzione e di non partecipare a pubbliche riunioni».
Come questa Corte ha già osservato, il fondamento delle misure di prevenzione è nel principio secondo cui l’ordinato e pacifico svolgimento dei rapporti sociali deve essere garantito, oltre che dal complesso di norme repressive di fatti illeciti, anche da un sistema di misure preventive contro il pericolo del loro verificarsi in avvenire, sistema che corrisponde ad una esigenza fondamentale di ogni ordinamento, accolta e riconosciuta negli artt. 13, 16 e 17 Cost. (sentenze n. 23 del 1964 e n. 27 del 1959). E le prescrizioni sopra indicate mirano appunto a garantire il detto fine di tutela preventiva, anche allo scopo di consentire l’esercizio di adeguati controlli da parte dell’autorità di pubblica sicurezza.
Ciò posto, venendo alla questione di legittimità costituzionale sollevata dal rimettente con riferimento all’art. 25, secondo comma, Cost., si deve osservare che, per costante giurisprudenza di questa Corte, per verificare il rispetto del principio di tassatività o di determinatezza della norma penale occorre non già valutare isolatamente il singolo elemento descrittivo dell’illecito, bensì collegarlo con gli altri elementi costitutivi della fattispecie e con la disciplina in cui questa s’inserisce.
In particolare, «l’inclusione nella formula descrittiva dell’illecito di espressioni sommarie, di vocaboli polisensi, ovvero di clausole generali o concetti elastici, non comporta un vulnus del parametro costituzionale evocato, quando la descrizione complessiva del fatto incriminato consenta comunque al giudice – avuto riguardo alle finalità perseguite dall’incriminazione ed al più ampio contesto ordinamentale in cui essa si colloca – di stabilire il significato di tale elemento mediante un’operazione interpretativa non esorbitante dall’ordinario compito a lui affidato: quando cioè quella descrizione consenta di esprimere un giudizio di corrispondenza della fattispecie concreta alla fattispecie astratta, sorretto da un fondamento ermeneutico controllabile; e, correlativamente, permetta al destinatario della norma di avere una percezione sufficientemente chiara ed immediata del relativo valore precettivo» (ex plurimis: sentenze n. 327 del 2008; n. 5 del 2004; n. 34 del 1995; n. 122 del 1993).
In questo quadro, la prescrizione di «vivere onestamente», se valutata in modo isolato, appare di per sé generica e suscettibile di assumere una molteplicità di significati, quindi non qualificabile come uno specifico obbligo penalmente sanzionato (ordinanza n. 354 del 2003). Tuttavia, se è collocata nel contesto di tutte le altre prescrizioni previste dal menzionato art. 5 e se si considera che è elemento di una fattispecie integrante un reato proprio, il quale può essere commesso soltanto da un soggetto già sottoposto alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale con obbligo o divieto di soggiorno, essa assume un contenuto più preciso, risolvendosi nel dovere imposto a quel soggetto di adeguare la propria condotta ad un sistema di vita conforme al complesso delle suddette prescrizioni, tramite le quali il dettato di «vivere onestamente» si concreta e si individualizza.
Quanto alla prescrizione di «rispettare le leggi», contrariamente all’opinione espressa dal rimettente, essa non è indeterminata ma si riferisce al dovere, imposto al prevenuto, di rispettare tutte le norme a contenuto precettivo, che impongano cioè di tenere o non tenere una certa condotta; non soltanto le norme penali, dunque, ma qualsiasi disposizione la cui inosservanza sia ulteriore indice della già accertata pericolosità sociale.
Né vale addurre che questo è un obbligo generale, riguardante tutta la collettività, perché il carattere generale dell’obbligo, da un lato, non ne rende generico il contenuto e, dall’altro, conferma la sottolineata esigenza di prescriverne il rispetto a persone nei cui confronti è stato formulato, con le garanzie proprie della giurisdizione, il suddetto giudizio di grave pericolosità sociale.
Infine, in ordine alla prescrizione di «non dare ragione di sospetti», ancora una volta essa non va considerata in modo isolato ma nel contesto delle altre prescrizioni contemplate dall’art. 5, tra cui assume particolare rilevanza, al fine di dare concretezza al dettato normativo, il divieto posto al sorvegliato speciale di non frequentare determinati luoghi o persone.
Inoltre, non è esatto ritenere che la prescrizione de qua possa esaurirsi in un mero sospetto, disancorato da qualsiasi circostanza concreta. L’applicazione di essa, invece, richiede la valutazione oggettiva di fatti, collegati alla condotta della persona, che siano idonei a rivelarne la proclività a commettere reati. La valutazione di tale idoneità, dovendo essere compiuta in concreto e con riferimento alle singole fattispecie, non può che essere demandata al competente giudice penale.
La questione di legittimità costituzionale della norma censurata, in relazione all’art. 25, secondo comma, Cost., non è dunque fondata, nei sensi fin qui esposti.
2.2. — Anche la questione di legittimità costituzionale della medesima norma, sollevata in riferimento all’art. 3 Cost., non è fondata.
Questa Corte, con sentenza n. 161 del 2009, ha già sottoposto a scrutinio detta norma, con riferimento al parametro ora citato, e ne ha escluso la difformità rispetto alla Costituzione sotto i profili denunciati.
Gli argomenti addotti in questa sede dal rimettente non consentono di modificare tale orientamento.
Invero, ad avviso del giudice a quo, sussiste una ingiustificata disparità di trattamento tra sorvegliato speciale cosiddetto “semplice” e sorvegliato speciale con obbligo o divieto di dimora. Infatti, mentre il contravventore agli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale è punito con l’arresto da tre mesi ad un anno (art. 9 citato, primo comma), se l’inosservanza riguarda gli obblighi e le prescrizioni inerenti alla sorveglianza speciale con l’obbligo o il divieto di soggiorno, si applica la pena della reclusione da uno a cinque anni ed è consentito l’arresto anche fuori dei casi di flagranza.
Tuttavia, secondo il rimettente, «dal punto di vista della concreta offensività della condotta, la inosservanza degli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale presenta oggettivamente la stessa carica di disvalore a prescindere dal fatto che il sorvegliato speciale sia o meno gravato anche dall’obbligo o dal divieto di soggiorno, diversamente dal caso in cui invece sia proprio questa, e cioè la prescrizione inerente all’obbligo o al divieto di soggiorno, ad essere violata». Di qui l’ingiustificata disparità di trattamento.
Questo assunto non può essere condiviso, perché il rimettente muove da un presupposto interpretativo erroneo.
Invero, non è esatto che la condotta del sorvegliato speciale cosiddetto “semplice” e quella del sorvegliato speciale con obbligo di soggiorno in un determinato comune (come nella specie) abbiano pari carattere offensivo, e quindi pari gravità, in caso d’inosservanza agli obblighi e alle prescrizioni inerenti alla sorveglianza speciale.
L’art. 3, terzo comma, della legge n. 1423 del 1956, e successive modificazioni, stabilisce che «Nei casi in cui le altre misure di prevenzione non sono ritenute idonee alla sicurezza pubblica può essere imposto l’obbligo di soggiorno nel comune di residenza o di dimora abituale». La stessa legge, dunque, prevede una graduazione nell’ambito delle misure di prevenzione, riservando la sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno ai casi di più accentuata pericolosità sociale, nei quali le altre misure non sono ritenute idonee; e questa maggiore pericolosità necessariamente rende più grave l’inosservanza delle prescrizioni imposte al soggetto.
Ne deriva che le due situazioni non sono omogenee, onde l’asserita violazione dell’art. 3 Cost. non è ravvisabile, dovendosi per il resto confermare la costante giurisprudenza di questa Corte, secondo cui le scelte legislative aventi ad oggetto la configurazione delle fattispecie criminose e il relativo trattamento sanzionatorio sono censurabili, in sede di costituzionalità, soltanto qualora la relativa discrezionalità sia stata esercitata in modo manifestamente irragionevole, arbitrario o radicalmente ingiustificato (ex plurimis: sentenze n. 161 del 2009, n. 324 del 2008, n. 22 del 2007, n. 394 del 2006); mentre il raffronto tra fattispecie normative, finalizzato a verificare la ragionevolezza delle scelte del legislatore, deve avere ad oggetto casistiche omogenee, risultando altrimenti improponibile la stessa comparazione (ex plurimis: sentenza n. 161 del 2009; ordinanze n. 41 del 2009, n. 71 e n. 30 del 2007).
Per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 9, secondo comma, della legge 27 dicembre 1956, n. 1423 (Misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità), come sostituito dall’articolo 14 del decreto-legge 27 luglio 2005, n. 144 (Misure urgenti per il contrasto del terrorismo internazionale), convertito, con modificazioni, dalla legge 31 luglio 2005, n. 155, sollevata, in riferimento agli articoli 25, secondo comma, e 3 della Costituzione, dal Tribunale di Trani, sezione distaccata di Andria, in composizione monocratica, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 luglio 2010.
F.to:
Francesco AMIRANTE, Presidente
Alessandro CRISCUOLO, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 23 luglio 2010.