Sentenza n. 29 del 2017

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SENTENZA N. 29

ANNO 2017

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-           Paolo                          GROSSI                                 Presidente

-           Giorgio                       LATTANZI                           Giudice

-           Aldo                           CAROSI                                         

-           Marta                          CARTABIA                                  

-           Mario Rosario             MORELLI                                     

-           Giancarlo                    CORAGGIO                                 

-           Giuliano                      AMATO                                        

-           Silvana                        SCIARRA                                     

-           Daria                           de PRETIS                                     

-           Nicolò                         ZANON                                         

-           Franco                        MODUGNO                                  

-           Augusto Antonio        BARBERA                                    

-           Giulio                         PROSPERETTI                             

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 252, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2007)», promosso dal Consiglio di Stato con ordinanza del 30 gennaio 2015 e dal Tribunale amministrativo regionale per la Toscana con ordinanze dell’8 maggio 2015 e del 30 giugno 2015, rispettivamente iscritte ai nn. 173, 205 e 234 del registro ordinanze del 2015, pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 37, 41 e 45, prima serie speciale, dell’anno 2015.

Visti gli atti di costituzione della Pro.Mo.Mar. spa, della Marina Cala de’ Medici spa, della Cala de Medici Cantiere srl, della Marina di Punta Ala spa, nonché gli atti di intervento di Federturismo Confindustria ed altro e di UCINA – Unione nazionale dei cantieri e delle industrie nautiche-Confindustria nautica;

udito nell’udienza pubblica del 10 gennaio 2017 il Giudice relatore Giuliano Amato;

uditi gli avvocati Giovanni Calugi per Pro.Mo.Mar. spa, per Marina Cala de’ Medici spa, e per Cala de Medici Cantiere srl, Flavia Pozzolini per Marina Cala de Medici spa, Filippo Donati per Marina di Punta Ala spa, Rodolfo Barsi per UCINA – Unione Nazionale dei Cantieri e delle Industrie Nautiche - Confindustria Nautica, Stefano Zunarelli per Federturismo Confindustria e per Assomarinas-Associazione italiana porti turistici, e gli avvocati dello Stato Pietro Garofoli e Sergio Fiorentino per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza del 30 gennaio 2015, il Consiglio di Stato ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 41 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 252, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2007)», nella parte in cui determina – anche con riferimento ai rapporti concessori in corso – la misura dei canoni per le concessioni di beni del demanio marittimo per la realizzazione e la gestione di strutture dedicate alla nautica da diporto.

1.1.– Il giudizio a quo ha ad oggetto l’appello proposto dalla Pro.Mo.Mar. spa, per la riforma di due sentenze del Tribunale amministrativo regionale per la Toscana, che hanno rigettato i ricorsi, proposti dalla stessa società, avverso i provvedimenti con i quali il Ministero dei trasporti e l’Agenzia del demanio, sulla base della disposizione censurata, hanno disciplinato l’applicazione, per gli anni 2007, 2008 e 2009, dei nuovi canoni relativi alla concessione demaniale marittima rilasciata nel 2001 alla Pro.Mo.Mar. spa, per la durata di cinquant’anni.

1.2.– Il Consiglio di Stato osserva, in primo luogo, che l’art. 1, comma 252, della legge n. 296 del 2006, ha innovato, a decorrere dal 1° gennaio 2007, i criteri per la determinazione dei canoni annui per le concessioni dei beni del demanio marittimo aventi ad oggetto la realizzazione e la gestione di strutture dedicate alla nautica da diporto. La disposizione in esame non distingue tra nuove concessioni e rapporti concessori in corso e sarebbe quindi applicabile, come il precedente comma 251, anche a questi ultimi.

Il rimettente, premesso di avere già accolto l’istanza avanzata in sede cautelare dalla parte appellante, ritiene rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 252, della legge n. 296 del 2006, nella parte in cui ridetermina il canone per le concessioni per la realizzazione e la gestione di strutture dedicate alla nautica da diporto, anche con riferimento ai rapporti concessori in corso.

1.2.1.– Al fine di fornire una compiuta descrizione della fattispecie concreta, secondo quanto rilevato nella precedente sentenza n. 128 del 2014 di questa Corte, il Consiglio di Stato evidenzia alcune circostanze, a sostegno della rilevanza della questione.

Il rimettente espone che la concessione in esame, rilasciata nel 2001, ha la durata di cinquanta anni dal 29 giugno 1998. Essa non contiene clausole volte a disciplinare le sopravvenienze verificabili per l’aumento dell’importo del canone, salva la previsione dell’aggiornamento annuale «in base alle disposizioni di Legge».

In particolare, la spesa prevista nel piano economico¬finanziario per le opere a mare è pari ad euro 10.705.633 e, per quelle a terra, ad euro 23.498.291,90, con la previsione di investimenti complessivi pari a euro 48.707.068.

La concessione prevede che, al momento della cessazione, le opere erette, complete di tutti gli accessori e le pertinenze, resteranno «in assoluta proprietà dello Stato senza che al concessionario spetti alcun indennizzo, compenso o rimborso di sorta, ferma la facoltà da parte dell’Amministrazione di richiedere, ove lo ritenga opportuno, la demolizione delle opere erette e la riduzione in pristino stato, da farsi a cura e spese del concessionario, senza che ad esso competa compenso, indennizzo o rimborso di sorta».

Il Consiglio di Stato rileva che, per effetto della disposizione censurata, nei cinquanta anni di durata della concessione, l’importo totale dei canoni aumenterebbe da euro 4.551.869 a euro 19.066.289. In definitiva, tale aumento, applicato dal 2007 alla scadenza nel 2048, renderebbe il margine negativo, ossia pari a euro –8.124.134.

1.2.2.– Quanto alla non manifesta infondatezza, il giudice a quo sottolinea che le concessioni di cui al comma 251, relative alle attività turistico-ricreative, sono molto più numerose, comportano di regola investimenti contenuti a carico del concessionario e sono connotate da canoni di importo modesto. Nel 2006, con la normativa in esame, il legislatore è intervenuto sulla misura di tali canoni, al fine di operare un riallineamento ai valori di mercato.

Del tutto diverse sarebbero, invece, le concessioni ‒ di cui al successivo comma 252 ‒ aventi ad oggetto la realizzazione e la gestione di strutture dedicate alla nautica da diporto. Oltre ad essere numericamente limitate, essendo ristretto il numero dei porti turistici, esse comporterebbero ingenti investimenti, sia per la realizzazione delle opere strutturali, destinate ad essere poi acquisite gratuitamente dal demanio, sia per l’impegno gestionale. Ciò richiede un piano economico-finanziario di lungo periodo, nell’ambito del quale l’importo del canone è elemento determinante.

Ad avviso del Consiglio di Stato, la previsione dell’aumento dei canoni anche per i rapporti concessori in corso, senza tener conto del fatto che i canoni sono stati determinati avendo riguardo anche agli investimenti effettuati, sarebbe in contrasto con il principio di cui all’art. 3 Cost., sotto il duplice profilo del trattamento uguale di situazioni disuguali, nonché della lesione del principio della sicurezza giuridica, costitutivo del legittimo affidamento.

Quanto alla disparità di trattamento, il giudice rimettente evidenzia la sostanziale differenza tra le concessioni rispettivamente previste ai commi 251 e 252, avuto riguardo all’immediata redditività dei minori investimenti richiesti per le prime, e al più complesso quadro di lungo periodo per il calcolo di convenienza finanziaria, proprio delle seconde. Da ciò discenderebbe la necessità di considerare questa differenza nella modifica dei canoni, in quanto elemento costitutivo di tale calcolo.

Inoltre, sarebbe leso il legittimo affidamento ingenerato nei concessionari sulla stabilità dell’equilibrio economico-finanziario di lungo periodo, attraverso una modifica sostanziale, che incide su concessioni già rilasciate, tuttora in corso e di lunga durata nel futuro. Viene richiamata, al riguardo, la sentenza n. 92 del 2013.

La disposizione censurata determinerebbe, inoltre, la violazione dell’art. 41 Cost., in riferimento alla libertà di iniziativa economica, poiché scelte imprenditoriali anteriori alla legge in esame sarebbero irragionevolmente frustrate dalla legge sopravvenuta, modificativa dei rapporti contrattuali in corso.

1.3.– Nel giudizio è intervenuta la Presidenza del Consiglio dei ministri, rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata.

1.3.1. – La difesa statale deduce, in primo luogo, che le competenze gestionali in materia di demanio marittimo sono state conferite dal decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112 (Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed agli enti locali, in attuazione del capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59) agli enti territoriali, salvo gli introiti, che rimangono in capo allo Stato.

Fino al 2006, i canoni per concessioni relative alle strutture dedicate alla nautica da diporto sarebbero stati caratterizzati da norme di favore rispetto a quelli dovuti per le concessioni per finalità turistico-ricreative. Infatti il decreto-legge 5 ottobre 1993, n. 400 (Disposizioni per la determinazione dei canoni relativi a concessioni demaniali marittime) prevedeva per questa seconda categoria di atti una quantificazione in misura fissa e tabellare, sulla base di una classificazione delle aree, delle pertinenze demaniali marittime e degli specchi acquei. Tuttavia, non avendo le Regioni provveduto alla preliminare classificazione del territorio costiero, il Ministero dei trasporti e della navigazione, con circolare del 17 dicembre 1998, ha stabilito che, nella more di tale classificazione, i canoni per le concessioni demaniali marittime di carattere turistico-ricreativo venissero ricalcolati applicando le misure unitarie più basse.

Tale situazione è rimasta invariata sino all’adozione della legge n. 296 del 2006, che ha sostituito alcune disposizioni del d.l. n. 400 del 1993. La disposizione denunciata si collocherebbe, quindi, in un processo già in atto, finalizzato alla tutela e alla valorizzazione di tutti i beni di proprietà statale. Verrebbe estesa anche ai canoni demaniali marittimi un’evoluzione che già aveva caratterizzato altri beni pubblici. In ogni caso, la novella introdotta dalla legge n. 296 del 2006 sarebbe ben lontana dal determinare dei canoni analoghi a quelli praticati nel libero mercato.

Per quanto riguarda le concessioni per la realizzazione e gestione di strutture dedicate alla nautica da diporto, la difesa statale sottolinea che esse hanno una durata di gran lunga superiore (di norma, oltre cinquant’anni) rispetto a quella per le attività turistico-ricreative (di regola, sei anni). Tale maggiore durata sarebbe volta a riconoscere ai concessionari un più ampio arco temporale in cui ammortizzare i maggiori investimenti sostenuti e conseguire congrui guadagni dalla gestione delle strutture.

L’Avvocatura generale dello Stato evidenzia, inoltre, che, nella vigenza della concessione, i canoni dovuti dai concessionari in questione verrebbero calcolati applicando non già i valori di mercato abbattuti (previsti per le concessioni per le attività turistico-ricreative), bensì i più favorevoli criteri tabellari previsti per gli specchi acquei, per le aree scoperte e per le aree occupate, i quali non hanno subito mutamenti rispetto alla precedente disciplina. Infatti, sino al termine della concessione, la proprietà delle opere realizzate sulle aree demaniali concesse resta ferma in capo ai concessionari. Pertanto, il pagamento del canone potrebbe essere esteso solo rispetto all’utilizzo del suolo e non anche rispetto ai manufatti, sui quali medio tempore lo Stato non vanta alcun diritto di proprietà.

Infatti, osserva l’Avvocatura generale dello Stato, ai sensi dell’art. 49 del codice della navigazione, solo al termine della concessione le strutture inamovibili costruite dai concessionari vengono incamerate allo Stato. Esse costituiscono pertinenze demaniali marittime, alle quali sono applicabili i criteri di quantificazione dei canoni commisurati ai valori di mercato, peraltro mitigati da alcuni accorgimenti. D’altra parte, tali criteri sono riferibili alle sole pertinenze destinate ad attività commerciali, terziario-direzionali e di produzione di beni e servizi.

La difesa erariale rileva, inoltre, che la disposizione contestata è inserita all’interno di un quadro omogeneo, quello della legge finanziaria 2007, nella quale il legislatore ha compiuto una scelta discrezionale che «valorizza i beni pubblici e mira ad una maggiore redditività per l’ente proprietario e quindi per la generalità dei cittadini, diminuendo proporzionalmente i vantaggi dei soggetti particolari che assumono la veste di concessionari». È parso, infatti, preminente al legislatore lo scopo di «assicurare maggiori entrate all’erario e di perequare le situazioni dei soggetti che svolgono attività commerciali, avvalendosi di beni pubblici, e quelle di altri soggetti che svolgono le identiche attività, ma assoggettati ai prezzi di mercato relativi all’utilizzazione di beni di proprietà privata» (TAR Toscana, Firenze, 13 maggio 2011, n. 852).

Tale interesse, ad avviso della difesa statale, sarebbe prevalente rispetto alla tutela del singolo concessionario, a fortiori con riferimento ad opere che consentono di svolgere una tipica attività imprenditoriale, come nel caso della gestione di un porto. Infatti, le concessioni relative a strutture per la nautica da diporto comprendono pertinenze destinate ad attività commerciali, volte alla produzione di beni e servizi, dunque capaci di produrre reddito.

L’introduzione dei nuovi criteri di determinazione dei canoni, applicabili anche alle concessioni in corso, sarebbe del tutto ragionevole, così come è già stato ritenuto ragionevole il precedente comma 251 nella sentenza n. 302 del 2010. Infatti, essi sarebbero finalizzati alla valorizzazione di un bene pubblico, produttivo di entrate per l’erario.

D’altra parte, non sarebbe ravvisabile alcuna violazione dell’art. 3 Cost., dovendo escludersi che la disposizione in esame contrasti con il canone della ragionevolezza. Al contrario, sarebbe proprio la differenza di trattamento per le concessioni in corso, auspicata dal Consiglio di Stato, a determinare un ingiustificato regime preferenziale per le concessioni relative a strutture destinate alla nautica da diporto, rispetto alle altre concessioni di cui al precedente comma 251. Sarebbe infatti rimasto indimostrato il «valore maggiore dell’investimento», richiesto per la prima tipologia di concessioni, e non si terrebbe conto del fatto che anche per le concessioni con finalità turistico-ricreative sono sovente richiesti investimenti molto significativi.

L’opzione ermeneutica suggerita dal Consiglio di Stato sarebbe, inoltre, censurabile proprio per il criterio su cui si fonda (valore dell’investimento). Essa determinerebbe, infatti, un ulteriore discrimen tra vecchie e nuove concessioni, nell’ambito di quelle, appartenenti alla medesima categoria, che comportano il «medesimo valore d’investimento».

Da ultimo, la difesa dello Stato contesta la censura relativa alla lesione del principio di cui all’art. 41 Cost., poiché formulata in termini generici e apodittici, non essendo dimostrata l’irragionevolezza della legge sopravvenuta. Viceversa, la disposizione censurata sarebbe ispirata proprio alla tutela del libero esercizio della concorrenza, il quale verrebbe violato se i canoni concessori fossero effettivamente esigui rispetto ai valori di mercato.

Viene, infine, evidenziato che il legislatore può e deve mantenere forme di regolazione dell’attività economica volte a garantire, tra l’altro, il principio costituzionale di tutela delle finanze pubbliche. In tal senso, la libertà d’iniziativa può essere «anche ‘ragionevolmente limitata’ (art. 41, secondo e terzo comma, Cost.)».

1.4.– Nel giudizio si è costituita la Pro.Mo.Mar. spa, chiedendo l’accoglimento della questione di legittimità costituzionale.

La parte privata, titolare di concessione demaniale e parte appellante nel giudizio a quo, ha condiviso le argomentazioni svolte dal Consiglio di Stato a sostegno dell’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 252, della legge n. 296 del 2006.

In particolare, la Pro.Mo.Mar. spa evidenzia che, per effetto della disciplina censurata, i canoni relativi alla realizzazione e alla gestione dei porti turistici sono equiparati a quelli previsti per le concessioni con finalità turistico-ricreative e, nel suo caso, hanno subìto un aumento pari a circa il 500 per cento rispetto a quello originariamente fissato nella concessione.

Nel caso in esame, tale aumento avrebbe determinato una variazione del tutto insostenibile al piano finanziario concordato nel 2001 tra concedente e concessionario. Infatti, l’applicazione del canone aumentato (durante il periodo di durata residua della concessione, dal 2007 al 2048) inciderebbe sul margine dell’iniziativa, inizialmente previsto in euro 11.000.000 circa, tanto da renderlo negativo e pari a euro ‒8.124.134.

La parte privata sottolinea, inoltre, che da tale aumento deriva, a carico del concessionario, anche l’incremento dell’imposta sulle concessioni statali per l’occupazione e l’uso di beni demaniali, che le Regioni possono determinare in misura non superiore al triplo del canone di concessione.

D’altra parte, osserva la Pro.Mo.Mar. spa, al concessionario non sarebbe consentita l’interruzione anticipata del rapporto, se non subendo gravissime conseguenze economiche. Infatti, in caso di rinuncia alla concessione, la società perderebbe l’intero investimento e le opere realizzate diverrebbero di proprietà dello Stato, senza che al concessionario spetti alcun indennizzo. Inoltre, la rinuncia alla concessione comporterebbe anche la perdita di efficacia nei confronti dell’amministrazione dei contratti con cui il concessionario ha trasferito a terzi il diritto di godimento su una parte dei beni costruiti in area demaniale. La parte privata sarebbe, quindi, inadempiente nei confronti dei suoi aventi causa, che dovrebbero essere risarciti. Il recesso dalla concessione non sarebbe, quindi, un’ipotesi percorribile.

A sostegno dell’illegittimità costituzionale, la società appellante deduce che l’applicazione della nuova disciplina anche alle concessioni rilasciate prima della sua entrata in vigore sarebbe del tutto inaspettata: infatti, alle concessioni dedicate alla nautica da diporto non era applicabile il precedente aumento dei canoni, previsto dall’art. 32, commi 21, 22 e 23, del decreto legge 30 settembre 2003, n. 269 (Disposizioni urgenti per favorire lo sviluppo e per la correzione dell’andamento dei conti pubblici).

Con la disposizione censurata non solo sarebbe aumentato l’importo unitario dei canoni, ma sarebbe altresì introdotto un criterio di determinazione (importi maggiori per aree occupate da opere di difficile rimozione, minore per le altre aree) opposto rispetto al precedente (canone minore per aree destinate ad opere di difficile rimozione, nonché per le aree rimaste inedificate). Il nuovo canone sarebbe, quindi, più alto per i concessionari che hanno investito di più (per realizzare un porto che al termine della concessione diventa, gratuitamente, di proprietà pubblica) e più basso per i concessionari che hanno investito di meno. I primi sarebbero oggi "sanzionati” per avere realizzato quelle opere di difficile rimozione alla costruzione delle quali il legislatore li aveva incentivati.

La disposizione in esame sconvolgerebbe l’equilibrio economico-finanziario del rapporto, in violazione degli artt. 3, 41 e 97 Cost. Si osserva che la congruità del canone non è connessa al valore del bene concesso, che all’inizio del rapporto è pressoché nullo, in quanto la struttura portuale deve ancora essere realizzata, né sarebbe apprezzabile in relazione a imprecisati "prezzi di mercato”.

Ad avviso della parte privata, si determinerebbe, quindi, un’irragionevole disparità di trattamento tra vecchi e nuovi concessionari, in violazione degli artt. 3 e 41 Cost. Per le imprese che hanno ottenuto la concessione prima del 2007, i nuovi canoni costituirebbero un costo sopravvenuto ed imprevedibile, che non potrebbe essere in alcun modo riequilibrato. Per le imprese che ottengono, invece, la concessione dopo la legge n. 296 del 2006, il nuovo importo dei canoni non comporterebbe conseguenze negative, in quanto esso costituisce uno degli elementi che possono formare oggetto di valutazione da parte degli aspiranti concessionari. In ogni caso, essi possono rifiutare la sottoscrizione della concessione, mentre i concessionari precedenti non hanno la possibilità di recedere dal rapporto, perché ciò comporterebbe la perdita dell’investimento effettuato.

Viene, inoltre, ravvisata un’irragionevole disparita di trattamento tra i concessionari di porti turistici ed i titolari di altre concessioni che, per loro natura, consentono un’immediata redditività con investimenti pressoché nulli e non prevedono la realizzazione di opere di rilevante interesse pubblico.

La disposizione censurata contrasterebbe, inoltre, con i principi e le norme (richiamate quali tertia comparationis) di cui agli artt. 11 e 21-quinquies della legge 7 agosto 1990, n. 241 (Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi) e con l’art. 42 cod. nav. Tali disposizioni non attribuiscono all’amministrazione concedente il potere di modifica unilaterale del contenuto del rapporto e, laddove consentono l’esercizio di poteri autoritativi, prevedono un onere di motivazione in ordine all’interesse pubblico perseguito e la corresponsione di un indennizzo al concessionario.

Sarebbe, inoltre, violato l’affidamento maturato dai concessionari in relazione all’art. 10 della legge 27 dicembre 1997, n. 449 (Misure per la stabilizzazione della finanza pubblica) e al decreto del Ministro dei trasporti e della navigazione 30 luglio 1998, n. 343 (Regolamento recante norme per la determinazione di canoni per concessioni di beni del demanio marittimo e di zone del mare territoriale aventi ad oggetto la realizzazione e la gestione di strutture dedicate alla nautica da diporto). Tali disposizioni contenevano la disciplina speciale dei canoni per le concessioni di costruzione e gestione di porti turistici, «al fine di incentivare la realizzazione delle strutture medesime», con la «previsione di canoni di minori entità per le iniziative che comportino investimenti» economicamente più rilevanti.

Dopo avere sottolineato le differenze tra la disciplina in esame e quella del precedente comma 251, valutata nella sentenza n. 302 del 2010, la difesa della Pro.Mo.Mar. spa deduce, inoltre, che la disposizione censurata avrebbe attribuito all’amministrazione concedente il potere di modificare unilateralmente un elemento essenziale della concessione, senza tuttavia prevedere alcuna comparazione tra interessi pubblici e privati e senza attribuire alcun rilievo al pregiudizio subìto dal concessionario. Il pagamento di un canone pari a quattro volte e mezzo quello originariamente stabilito comporterebbe, infatti, una modifica insostenibile dei presupposti finanziari dell’iniziativa.

Tale stravolgimento dell’equilibrio economico-finanziario della concessione si porrebbe, inoltre, in contrasto con l’interesse pubblico alla migliore gestione del porto turistico. Infatti, le condizioni di sofferenza economico-finanziaria, in cui le imprese concessionarie dei porti turistici di recente realizzazione sarebbero costrette ad operare, ne comprometterebbe l’efficienza gestionale.

Da ciò deriverebbe il pregiudizio dell’interesse pubblico alla tutela della sicurezza della navigazione, cui risponde la realizzazione di un sistema di approdi turistici diffusi lungo le coste. Inoltre, l’attività cantieristica è un settore trainante dell’industria manifatturiera e la nautica da diporto è decisiva nello sviluppo dell’economia turistica del territorio costiero. Sarebbero altresì violati i principi costituzionali di imparzialità e buon andamento dell’amministrazione.

1.5.– Il 1° ottobre 2015 l’UCINA – Unione Nazionale dei Cantieri e delle Industrie Nautiche - Confindustria Nautica ha depositato atto di intervento, nel quale ha chiesto l’accoglimento della questione di legittimità costituzionale sollevata dal Consiglio di Stato.

1.5.1.– In via preliminare, la parte interveniente ha illustrato le ragioni dell’ammissibilità del proprio intervento, sebbene la stessa non rivesta la qualità di parte nel giudizio a quo.

A sostegno della propria legittimazione, l’UCINA evidenzia di proporsi, quale finalità statutaria, oltre a quella di favorire il progresso e la competitività del settore nautico nazionale, quella di rappresentare nelle sedi competenti gli interessi dei soci e di svolgere tutte le attività opportune per tutelare e difendere gli interessi del settore e per promuovere il settore della nautica italiana.

1.5.2.– Nel merito, la difesa dell’UCINA propone, in primo luogo, un’interpretazione della disposizione censurata, tale da evitare il contrasto con i principi costituzionali.

Essa ritiene, in particolare, che siano tuttora vigenti e compatibili entrambi i sistemi di determinazione dei canoni concessori delineati rispettivamente dal d.m. n. 343 del 1998 e dalla legge n. 296 del 2006. Il primo sarebbe applicabile ai concessionari che realizzino le strutture dedicate alla nautica da diporto, mentre il secondo sarebbe riferibile ai titolari di concessioni relative ad aree "occupate” da impianti già realizzati da terzi, e già divenuti di proprietà statale. Sarebbe, dunque, coerente con i principi di logica e imparzialità che la pretesa statuale di canoni più onerosi sia riferita ad opere già realizzate da precedenti concessionari e acquisite al patrimonio erariale, e non già ad opere realizzate dal concessionario, ma non ancora acquisite al patrimonio statuale.

Osserva la difesa della parte interveniente che – mentre la precedente disciplina dei canoni delle concessioni per finalità turistico-ricreative è stata interamente abrogata dall’art. 1, comma 251 della legge n. 296 del 2006 – un’analoga abrogazione non è stata prevista per il d.m. n. 343 del 1998. Ne consegue che, pur essendo stata innovata la misura dei canoni delle concessioni relative alle strutture portuali, sarebbero rimaste in vigore le disposizioni di cui al d.m. n. 343 del 1998.

In questa prospettiva, la nuova disciplina dei canoni dovrebbe intendersi così ripartita: 1) canoni delle concessioni per finalità turistico-ricreative, totalmente innovate con abrogazione espressa di tutta la disciplina precedente; 2) canoni per concessione di strutture portuali interamente di proprietà statale, per le quali trova applicazione il comma 252 (in sostituzione del precedente art. 1, comma 1, del d.m. n. 343 del 1998); 3) canoni per concessione di strutture realizzate dal concessionario e non ancora venute a scadenza, per le quali troverebbe tuttora applicazione il d.m. n. 343 del 1998.

1.5.3.– In via subordinata, qualora tale interpretazione non fosse condivisa, l’UCINA chiede che la disposizione censurata, in quanto applicabile a tutte le concessioni (a quelle in corso e a quelle nuove, a quelle caratterizzate dalla realizzazione delle strutture da parte del concessionario e a quelle nelle quali le strutture siano di proprietà statale) sia dichiarata illegittima in riferimento all’art. 3 Cost., sotto il profilo della disparità di trattamento, dell’irragionevolezza e della lesione del legittimo affidamento.

Non sarebbero applicabili i principi affermati dalla Corte nella sentenza n. 302 del 2010, che ha ritenuto legittimi gli incrementi dei canoni concessori, rilevando che i relativi importi erano fermi da decenni e che si rendeva necessaria una valorizzazione dei beni pubblici. Infatti, tali presupposti difetterebbero nel caso in esame, in cui i beni non appartengono allo Stato, ma al privato che li ha realizzati. Infatti, ai sensi dell’art. 49 cod. nav., essi diverranno pubblici solo alla scadenza della concessione originaria e solo da allora lo Stato, divenuto proprietario dei beni, potrà richiedere il canone che riterrà più adeguato.

1.5.4.– Quanto alla denunciata violazione dell’art. 41 Cost., l’UCINA evidenzia che, per effetto del repentino e rilevantissimo aumento del canone (sino al 500 per cento del precedente), l’attività imprenditoriale, nelle concessioni di lunga durata, verrebbe illegittimamente penalizzata dallo stravolgimento del sinallagma contrattuale e sarebbero così scoraggiati gli investimenti finalizzati alla valorizzazione dei beni demaniali.

1.6.– Il 6 ottobre 2015 le associazioni Federturismo Confindustria e Assomarinas ‒ Associazione italiana porti turistici, hanno depositato atto di intervento, nel quale hanno chiesto l’accoglimento della questione sollevata dal Consiglio di Stato.

1.6.1.– In via preliminare, le parti intervenienti hanno illustrato le ragioni dell’ammissibilità del proprio intervento, sebbene esse non rivestano la qualità di parte nel giudizio a quo.

A sostegno della propria legittimazione, viene evidenziato che l’associazione Federturismo Confindustria riunisce imprese dell’industria del turismo, proponendosi come scopo statutario la tutela delle loro attività sul piano legislativo, economico, produttivo e sindacale, con particolare riguardo ai soggetti istituzionali ai quali sono affidate le scelte fondamentali della politica turistica italiana.

D’altra parte, Assomarinas-Associazione italiana porti turistici riunisce le imprese che gestiscono porti turistici e si prefigge la promozione dell’interesse collettivo di cui è portatrice, imperniato sulla tutela degli interessi dei consociati e sulla rappresentanza sindacale nei rapporti con enti ed istituzioni, al fine di favorire lo sviluppo e la crescita delle imprese turistiche e della nautica da diporto. Entrambe le parti intervenienti deducono, quindi, di essere titolari di un interesse diretto ed immediato all’esito del giudizio, tale da giustificare la loro legittimazione all’intervento.

1.6.2.– Nel merito, la difesa delle due associazioni illustra e sviluppa gli argomenti a sostegno dell’illegittimità costituzionale della disposizione censurata, sia sotto il profilo dell’irragionevole equiparazione delle concessioni in esame a quelle per finalità turistico-ricreative, sia per la lesione del legittimo affidamento dei concessionari nella stabilità del rapporto di concessione, sia, infine, per violazione dell’art. 41 Cost., anche con riferimento all’art. 43 della direttiva 2014/23/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 febbraio 2014, sull’aggiudicazione dei contratti di concessione.

L’irragionevolezza e la disparità di trattamento della disposizione censurata troverebbero conferma nella previsione di cui all’art. 143, comma 8, del decreto legislativo n. 163 del 2006 (Codice dei contratti pubblici), applicabile anche alla costruzione e gestione di strutture dedicate alla nautica da diporto. In particolare, tale disposizione tutela l’affidamento del privato e prevede l’avvio di un’istruttoria al fine di contemperare gli interessi del soggetto inciso dalla sopravvenienza, insistente sul rapporto di durata, garantendone la partecipazione al procedimento.

Ad avviso delle parti intervenienti, sarebbe, invero, paradossale che il privato che realizza un’opera pubblica, nell’ambito di un rapporto regolato dalla legge sui contratti pubblici, sia tutelato sotto il profilo della stabilità degli obblighi economici regolati dalla concessione, mentre chi realizza un’opera nell’ambito di un rapporto regolato da una concessione di cui al d.P.R. 2 dicembre 1997, n. 509 (Regolamento recante disciplina del procedimento di concessione di beni del demanio marittimo per la realizzazione di strutture dedicate alla nautica da diporto, a norma dell’articolo 20, comma 8, della L. 15 marzo 1997, n. 59), sia soggetto all’unilaterale ed arbitraria alterazione del proprio piano economico-finanziario.

Quanto alla violazione dell’art. 41 Cost., la difesa delle parti intervenienti rileva che l’art. 43 della direttiva n. 2014/23/UE, sull’aggiudicazione dei contratti di concessione, indica tassativamente le ipotesi, ed i limiti, nei quali l’amministrazione concedente può modificare il regolamento concessorio. Il concessionario deve, pertanto, essere tenuto indenne, per tutta la durata della concessione, dal cosiddetto "rischio regolatorio”, essendo illegittima ogni modifica dei termini della concessione che non sia determinata da circostanze eccezionali ed imprevedibili da parte di un’amministrazione diligente (art. 43, lettera c), punto i), della direttiva). È, inoltre, prevista la necessità di una nuova procedura di scelta del contraente quando siano apportate modifiche sostanziali ai principali elementi del contratto, tali da dimostrare l’intenzione delle parti di rinegoziarlo.

L’unilaterale modificazione di un elemento essenziale del rapporto concessorio, quale il canone, violerebbe quindi la regola della tendenziale immodificabilità del contratto, senza neppure prevedere alcun correttivo in relazione alla durata della concessione, la quale sarebbe concepita proprio per rendere effettivo il recupero degli investimenti sostenuti dalla parte privata.

La determinazione legislativa di significative modificazioni del sinallagma contrattuale determinerebbe la lesione del principio di ragionevolezza, fino a compromettere la libertà di iniziativa economica privata e la sua destinazione a fini sociali e di pubblica utilità.

2.– Con ordinanza dell’8 maggio 2015, il TAR Toscana ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 41 Cost., questione di legittimità costituzionale della medesima disposizione di cui all’art. 1, comma 252, della legge n. 296 del 2006, nella parte in cui si applica alle concessioni già rilasciate alla data della sua entrata in vigore.

2.1.– Il giudizio a quo ha ad oggetto i ricorsi proposti da quattro società, contitolari di concessione demaniale marittima per la realizzazione di un porto turistico, al fine di ottenere l’annullamento dei provvedimenti con i quali il Comune di Rosignano ha determinato, per gli anni dal 2007 al 2014, la misura dei nuovi canoni di concessione.

Il giudice rimettente ritiene che i principi affermati nella sentenza n. 302 del 2010 non siano riferibili al caso in esame ed è a conoscenza della precedente ordinanza di rimessione n. 173 del 2015, con cui il Consiglio di Stato ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 41 Cost., questione di legittimità costituzionale della medesima disposizione (art. 1, comma 252, della legge n. 296 del 2006). La stessa questione sarebbe rilevante e non manifestamente infondata anche nel giudizio sottoposto al suo esame.

In particolare, con riferimento al requisito della rilevanza, il TAR riferisce che la concessione demaniale della quale sono titolari le parti ricorrenti è stata rilasciata nel 1999, per la durata di cinquant’anni. Scopo della concessione è, per il concessionario, la costruzione e la gestione di un porto turistico. La convenzione prevede che alla scadenza del rapporto, ovvero in caso di decadenza o di rinuncia da parte del concessionario, le opere realizzate, con accessori e pertinenze, restino in proprietà dello Stato. In questo caso, al concessionario nulla sarà dovuto e l’amministrazione potrà decidere di demolire le opere e rimettere in pristino stato i luoghi a cura e spese del concessionario, senza per questo corrispondergli alcunché.

Il giudice rimettente evidenzia, inoltre, che le parti ricorrenti hanno depositato un’analisi economico-finanziaria delle conseguenze dell’aumento dei canoni, dalla quale emerge un incremento dei costi, rispetto alle previsioni fatte all’epoca del rilascio della concessione, pari a euro 5.381.003, commisurato alla complessiva durata dell’investimento. Tali circostanze, dedotte dalle ricorrenti e non contestate dalle amministrazioni resistenti, sarebbero sufficienti a dare conto della rilevanza della disposizione censurata, nella parte in cui si applica alle concessioni già rilasciate alla data della sua entrata in vigore.

Dopo avere sottolineato le differenze tra le concessioni di beni demaniali con finalità turistico-ricreative e le concessioni di beni demaniali finalizzate alla realizzazione e gestione di infrastrutture per la nautica da diporto, il TAR osserva che la finalità di evitare che i titolari di concessioni del secondo tipo operino in condizioni di sofferenza economico-finanziaria risponderebbe anche ad esigenze di rilievo pubblicistico, sia per le rilevanti spese di manutenzione da affrontare, a salvaguardia della sicurezza della navigazione e dell’incolumità pubblica, sia per l’importanza delle infrastrutture destinate alla nautica da diporto per il rilancio del turismo e, quindi, per l’economia.

La precedente disciplina dei canoni concessori teneva conto di tali esigenze e, lungi dal prevedere un ingiustificato regime di favore, consentiva di effettuare investimenti per la realizzazione di opere di difficile rimozione. Il canone era determinato in misura inversamente proporzionale alla rilevanza delle opere stesse. Viceversa, nella disciplina introdotta dalla legge n. 296 del 2006 il criterio si è capovolto, con la previsione di un incremento del canone per le opere di difficile rimozione, che sono proprie delle concessioni per la nautica da diporto.

È ravvisata la violazione dell’art. 3 Cost., in primo luogo, sotto il profilo dell’irragionevole parità di trattamento di situazioni diseguali. L’irragionevolezza sarebbe, inoltre, accentuata dalla mancata previsione di meccanismi graduali, al fine di salvaguardare, in rapporto agli investimenti fatti, l’equilibrio economico-finanziario dell’impresa.

L’art. 3 Cost. sarebbe, inoltre, violato sotto il profilo del legittimo affidamento, per l’imprevista e imprevedibile inversione di tendenza in materia di canoni concessori. Le finalità incentivanti per il settore della nautica da diporto sarebbero, infatti, vanificate dall’improvviso aumento dei canoni, applicati anche alle concessioni demaniali in corso, e sarebbero sconvolte le previsioni di stabilità dell’equilibrio economico-finanziario pianificato per il lungo periodo, nell’aspettativa di un congruo tempo di ammortamento degli investimenti effettuati.

Infine, è denunciato il contrasto con l’art. 41 Cost., in riferimento al principio di libera iniziativa economica, in quanto l’applicazione della disposizione censurata alle concessioni anteriori al 2007 produrrebbe l’effetto irragionevole di frustrare le scelte imprenditoriali, modificando gli elementi costitutivi dei rapporti contrattuali in corso.

2.2.– Nel giudizio è intervenuta la Presidenza del Consiglio dei ministri, rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata.

2.2.1.– La difesa statale riconosce che l’art. 1, comma 252, della legge n. 296 del 2006 estende l’applicazione dell’aumento dei canoni anche alle concessioni concernenti l’attività nautica da diporto. Tuttavia, nella vigenza della concessione, i canoni dovuti da tali concessionari andrebbero calcolati applicando non già i valori di mercato abbattuti (previsti per le concessioni per le attività turistico-ricreative), bensì i più favorevoli criteri tabellari previsti per gli specchi acquei, per le aree scoperte e per le aree occupate. Inoltre, considerato che sino al termine della concessione resta ferma in capo ai concessionari la proprietà delle opere realizzate sulle aree demaniali concesse, il pagamento del canone riguarderebbe solo l’utilizzo del suolo e non anche i manufatti, sui quali medio tempore insiste la proprietà superficiaria dei concessionari. A questo riguardo, l’Avvocatura generale dello Stato evidenzia che è solo al termine della concessione che le strutture inamovibili costruite dai concessionari vengono "incamerate” allo Stato, ai sensi dell’art. 49 cod. nav., assumendo così la natura di pertinenze demaniali marittime, rispetto alle quali potranno, in seguito, trovare applicazione i criteri di quantificazione dei canoni commisurati ai valori di mercato.

Con riferimento alla denunciata violazione dell’art. 3 Cost., sotto il profilo dell’uguale trattamento di situazioni diverse, la difesa statale osserva che la differente «immediata redditività» delle due tipologie di concessioni – ciò che secondo il rimettente imporrebbe di riservare un trattamento eterogeneo alle stesse – varrebbe a giustificare la differente durata delle concessioni, ma non imporrebbe una diversità dei criteri di determinazione del canone.

Pertanto, in difetto di indicazioni di segno diverso – in ogni caso non approfondite dall’ordinanza di rimessione – le due variabili dei costi iniziali e del periodo di ammortamento (entrambi reputati più bassi per le attività turistico-ricreative e più alti per le altre concessioni, destinate alla nautica da diporto) finirebbero reciprocamente per controbilanciarsi. L’asserita disparità economica tra le due tipologie di concessioni sarebbe, quindi, ad avviso della difesa statale, più teorica che reale e non potrebbe, comunque, essere affermata in termini tanto perentori e generali da sostenere una valutazione di irragionevolezza della parificazione dei canoni.

Quanto all’illegittimità dell’estensione dell’aumento dei canoni anche all’attività nautica da diporto, la difesa statale ritiene che, al di là della genericità degli argomenti sulle ricadute negative di tale misura, il giudice rimettente si sia limitato a prospettare una propria declinazione delle scelte che dovrebbero guidare la regolazione del settore, senza tuttavia dimostrare l’effettiva irragionevolezza della scelta che ha ispirato il legislatore del 2006 e senza considerare, d’altra parte, che l’adozione delle necessarie misure di sicurezza – diversamente da quanto sembra ritenere la parte privata – è obbligatoria in ragione di specifiche disposizioni normative e prescinde da calcoli di convenienza economica degli operatori.

In riferimento alla denunciata lesione del principio del legittimo affidamento, l’Avvocatura generale dello Stato ritiene che – lungi dall’essere imprevisto o imprevedibile – l’aumento dei canoni è stato solo una delle tappe di un percorso di valorizzazione dei beni demaniali, avviato già da anni. Viene richiamata, al riguardo, la giurisprudenza costituzionale secondo la quale «interessi pubblici sopravvenuti possono esigere interventi normativi diretti a incidere peggiorativamente anche su posizioni consolidate, con l’unico limite della proporzionalità della incisione rispetto agli obiettivi di interesse pubblico perseguiti» (sentenza n. 56 del 2015).

Infine, quanto alla denunciata lesione dell’art. 41 Cost., l’Avvocatura generale dello Stato osserva da un lato che, laddove gli aumenti concessori non fossero applicabili anche alle concessioni in corso, si verificherebbe un’ingiustificata disparità di trattamento tra i nuovi ed i vecchi concessionari, in contrasto con il principio di parità concorrenziale. Inoltre, un ulteriore ed ingiustificato vantaggio competitivo si produrrebbe se i concessionari di beni demaniali destinati alla nautica da diporto dovessero sostenere canoni di importo irragionevolmente basso. La valorizzazione dei beni pubblici risponderebbe anche all’esigenza di perequare le situazioni degli imprenditori che si avvalgono di beni demaniali e quelle degli imprenditori assoggettati ai prezzi di mercato per l’utilizzazione di immobili di proprietà privata. Verrebbe, in questo modo, ridimensionato il vantaggio di chi usufruisce di concessioni demaniali, rispetto a chi, invece, deve rivolgersi al mercato immobiliare.

2.3.– Nel giudizio si sono costituite le società Marina Cala de’ Medici spa e Cala de’ Medici Cantiere srl, chiedendo l’accoglimento della questione di legittimità costituzionale.

Le parti private, contitolari di concessione demaniale e parti ricorrenti nel giudizio a quo, hanno richiamato le argomentazioni sviluppate dal TAR Toscana a sostegno della denunciata illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 252, della legge n. 296 del 2006.

In particolare, ad avviso delle società ricorrenti, la disciplina in esame, applicata alle concessioni per la costruzione e gestione di porti turistici, rilasciate prima della sua entrata in vigore, sarebbe del tutto inaspettata e violerebbe l’affidamento maturato dai concessionari in relazione all’art. 10 della legge n. 449 del 1997 e al d.m. n. 343 del 1998, che contenevano la disciplina speciale dei canoni per questa tipologia di concessioni.

Ad avviso delle parti private, la disposizione censurata non soltanto aumenta l’importo unitario dei canoni, ma introduce un criterio (importi maggiori per aree occupate da opere di difficile rimozione, minori per le altre aree) inedito ed opposto al precedente (canone minore per le aree destinate ad opere di difficile rimozione; maggiore per le aree non edificate). Ne consegue che il nuovo canone è aumentato per i concessionari che hanno investito di più (al fine di realizzare un’opera destinata a divenire di proprietà pubblica al termine della concessione), e ridotto per i concessionari che hanno investito di meno.

Verrebbe così sconvolto l’equilibrio economico-finanziario del rapporto. Si osserva, in particolare, che la congruità del canone non sarebbe connessa al valore del bene concesso (che all’inizio del rapporto è pressoché nullo, non essendo il porto ancora costruito), né sarebbe apprezzabile in relazione a imprecisati prezzi di mercato. L’elemento centrale del rapporto è dato dal valore e dalla natura delle opere che il concessionario si impegna a realizzare (e che verranno devolute gratuitamente allo Stato), e dalla durata del rapporto (in relazione alla quale l’ingente investimento compiuto può essere ammortizzato).

Si sottolinea che, viceversa, per le concessioni successive all’entrata in vigore della disposizione censurata, i nuovi canoni non comporterebbero conseguenze negative. Essi sarebbero valutabili dagli aspiranti concessionari, i quali avrebbero la possibilità di rifiutare la sottoscrizione della concessione. Viceversa, i titolari di concessioni precedenti non potrebbero recedere dal rapporto, perché ciò comporterebbe la perdita dell’investimento effettuato.

Del tutto irragionevole sarebbe, inoltre, la parità di trattamento tra concessionari di porti turistici ed i titolari di altre concessioni che, per loro natura, consentono un’immediata redditività con investimenti pressoché nulli, e non prevedono la realizzazione di opere di rilevante interesse pubblico.

La disposizione censurata si porrebbe in contrasto con le disposizioni degli artt. 11 e 21-quinquies della legge n. 241 del 1990 e dell’art. 42 cod. nav. Esse non attribuiscono all’amministrazione concedente il potere di modifica unilaterale del contenuto del rapporto e, nelle ipotesi in cui consentono l’esercizio di poteri autoritativi, impongono un onere di motivazione in ordine all’interesse pubblico perseguito e la corresponsione di un indennizzo al concessionario.

Sarebbe, poi, del tutto irrilevante il richiamo ai valori del mercato immobiliare, in quanto non esisterebbe un mercato delle aree private trasformabili in porti turistici, trattandosi necessariamente di aree demaniali poste sul mare.

3.– Con ordinanza del 30 giugno 2015, il TAR Toscana ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 41 Cost., questione di legittimità costituzionale della medesima disposizione di cui all’art. 1, comma 252, della legge n. 296 del 2006, nella parte in cui si applica alle concessioni per la realizzazione e la gestione di infrastrutture per la nautica da diporto già rilasciate alla data della sua entrata in vigore.

3.1.– Il giudizio a quo ha ad oggetto il ricorso proposto dalla Marina di Punta Ala spa, titolare, sin dal 1976, di concessione demaniale marittima per la realizzazione di un porto turistico, al fine di ottenere l’annullamento del provvedimento con cui l’amministrazione concedente ha richiesto il pagamento di canoni di concessione, determinati ai sensi dell’art. 1, comma 252, della legge n. 296 del 2006.

Il TAR ritiene preliminarmente necessaria la valutazione della legittimità costituzionale di tale disposizione, evidenziando che la piena tutela delle situazioni giuridiche azionate dalla ricorrente potrebbe essere conseguita solo con l’accoglimento di tale questione.

Il rimettente è a conoscenza che il Consiglio di Stato, con ordinanza del 30 gennaio 2015, e lo stesso TAR Toscana, con ordinanza dell’8 maggio 2015, hanno già sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 41 Cost., questione di legittimità costituzionale della medesima disposizione.

Con riferimento al requisito della rilevanza, il TAR evidenzia che, nel caso in esame, la società ricorrente ha realizzato, in forza della concessione del 1976, imponenti infrastrutture necessarie alla gestione del porto turistico. La concessione verrà a scadenza il 15 giugno 2033 e prevede che, alla scadenza del rapporto, ovvero in caso di decadenza o di rinuncia da parte del concessionario, le opere realizzate, con accessori e pertinenze fisse e in buono stato di manutenzione, resteranno in proprietà dello Stato ed al concessionario nulla sarà dovuto. Nella relazione del Direttore generale del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti ‒ SIIT Servizio integrato infrastrutture e trasporti della Toscana e Umbria, il valore complessivo delle opere realizzate dalla concessionaria è stato stimato in euro 47.673.946,05.

Il rimettente deduce che l’applicazione dei nuovi canoni concessori, previsti dalla disposizione impugnata, ha comportato un aumento di euro 1.783.182,61 delle somme a tale titolo dovute dalla società ricorrente. Ciò varrebbe a dimostrare l’alterazione, subita dalla ricorrente, dell’equilibrio economico-finanziario del rapporto concessorio.

Con riferimento alla non manifesta infondatezza, il rimettente richiama i principi affermati dalla sentenza n. 302 del 2010, con riferimento ai canoni per le concessioni demaniali marittime di carattere turistico-ricreativo, ma ritiene che gli stessi non siano riferibili alle concessioni demaniali destinate alla realizzazione e gestione di infrastrutture per la nautica da diporto, in considerazione delle differenze che distinguono le due tipologie concessorie: le prime, infatti, sarebbero caratterizzate dall’immediata redditività dei minori investimenti richiesti, mentre le seconde, destinate a durare decenni, si baserebbero su un più complesso quadro di lungo periodo per il calcolo di convenienza finanziaria, tenuto conto della rilevanza degli investimenti e dell’impegno gestionale. In questo caso, infatti, le imprese concessionarie devono approntare un quadro economico-finanziario nel cui ambito, come già osservato dal Consiglio di Stato, è determinante il criterio di fissazione dell’importo del canone, individuato all’atto della concessione tenendo conto della rilevanza degli investimenti.

D’altra parte, il rimettente ravvisa esigenze di rilievo pubblicistico che imporrebbero di evitare che le imprese concessionarie di beni demaniali operino in condizioni di sofferenza economico-finanziaria, dovendo esse affrontare notevoli spese di manutenzione e innovazione tecnologica, a salvaguardia della sicurezza della navigazione e dell’incolumità pubblica.

Sino alla legge finanziaria per il 2007, lo stesso legislatore avrebbe tenuto conto di tali differenze, prevedendo canoni di minore entità per le iniziative che comportassero investimenti per realizzare opere di difficile rimozione. Infatti, il canone era fissato in misura inversa alla maggiore rilevanza delle opere stesse (art. 10, comma 4, della legge n. 449 del 1997 e art. 1, commi 1 e 3, del d.m. n. 343 del 1998). Viceversa, tale criterio sarebbe stato sovvertito dalla disciplina censurata, la quale prevede canoni più elevati per le opere di difficile rimozione, proprie delle concessioni per la nautica da diporto.

La violazione dell’art. 3 Cost. viene, quindi, ravvisata, in primo luogo, sotto il profilo dell’irragionevole equiparazione di situazioni diseguali. Lo stesso art. 3 Cost. sarebbe, inoltre, violato sotto il profilo del principio della sicurezza giuridica, costitutivo di legittimo affidamento, in considerazione dell’imprevista e imprevedibile inversione di tendenza della disciplina dei canoni concessori, dapprima ispirata da finalità incentivanti per le imprese operanti nel settore della nautica da diporto, ed in seguito contrassegnata dall’improvviso e notevole aumento dei canoni, i quali vengono applicati anche alle concessioni demaniali già rilasciate. Ciò avrebbe sconvolto le previsioni di stabilità dell’equilibrio economico-finanziario pianificato in precedenza e per il lungo periodo, sulla legittima aspettativa di un congruo periodo di ammortamento degli investimenti effettuati.

L’irragionevole equiparazione dei rapporti concessori in corso ai nuovi rapporti concessori esporrebbe i titolari di concessioni rilasciate prima del 2007 ad una rilevante modifica dei calcoli di convenienza calibrati sulla precedente disciplina. Viceversa, le imprese titolari di concessioni successive al 2007 avrebbero la possibilità di ponderare adeguatamente tali effetti.

È altresì denunciato il contrasto della disposizione censurata con l’art. 41 Cost., in riferimento al principio di libera iniziativa economica. In quanto applicato alle concessioni rilasciate prima del 2007, il comma 252 produrrebbe l’effetto irragionevole di frustrare le scelte imprenditoriali, modificando gli elementi costitutivi dei rapporti contrattuali in essere.

3.2.– Nel giudizio è intervenuta la Presidenza del Consiglio dei ministri, rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata.

La difesa statale ha svolto le medesime argomentazioni già illustrate nel giudizio avente ad oggetto l’ordinanza dello stesso TAR Toscana dell’8 maggio 2015.

3.3.– Nel giudizio si è costituita la Marina di Punta Ala spa, chiedendo l’accoglimento della questione di legittimità costituzionale.

Dopo avere illustrato il quadro normativo anteriore al 2007, la difesa della Marina di Punta Ala spa ha richiamato ed ulteriormente illustrato le argomentazioni svolte dal Consiglio di Stato nell’ordinanza del 30 gennaio 2015, in relazione all’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 252, della legge n. 296 del 2006.

In particolare, in punto di fatto, la società ricorrente ha evidenziato che, per effetto dei nuovi canoni concessori, introdotti dalla disposizione censurata, l’importo dovuto a questo titolo nel periodo 2007-2015 ha avuto un incremento pari ad euro 1.738.182,61.

La ricorrente ritiene che l’aumento dei canoni relativi alle concessioni di strutture per la nautica da diporto violi l’art. 3 Cost., sotto il profilo del difetto di ragionevolezza, in quanto tale previsione prescinde da qualsiasi considerazione degli investimenti dei concessionari. È, inoltre, denunciata la lesione del legittimo affidamento, atteso il carattere improvviso, repentino ed imprevedibile dell’incremento dei canoni in questione, nonché l’irragionevole disparità di trattamento tra vecchi e nuovi concessionari.

Con riferimento al denunciato contrasto con l’art. 41 Cost., la società ricorrente evidenzia che, per effetto dei nuovi canoni, gli oneri ai quali sono assoggettati i titolari di concessioni per la realizzazione e gestione di porti turistici, sarebbero tali da alterare in modo irreversibile il loro piano economico-finanziario, non potendo essere recuperati se non attraverso un aumento delle tariffe portuali, con conseguente perdita di competitività dei porti turistici italiani rispetto alla strutture ubicate in altri Stati membri dell’Unione europea (in particolare Francia, Spagna e Grecia). Pertanto, ad avviso della Marina di Punta Ala spa, la disposizione censurata, nel penalizzare gli operatori italiani a danno degli operatori di altri Stati membri, si porrebbe, altresì, in contrasto con il principio di non discriminazione stabilito dall’art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea – proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000, e con i principi stabiliti dal Trattato sul funzionamento dell’Unione europea agli artt. 18 (non discriminazione), 49 (libertà di stabilimento) e 56 (libertà di prestazione dei servizi).

Considerato in diritto

1.– Il Consiglio di Stato ed il Tribunale amministrativo regionale per la Toscana hanno sollevato – in riferimento agli artt. 3 e 41 Cost. – questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 252, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2007)», nella parte in cui determina – anche con riferimento ai rapporti concessori in corso – la misura dei canoni per le concessioni di beni del demanio marittimo per la realizzazione e la gestione di strutture dedicate alla nautica da diporto.

2.– Le tre ordinanze di rimessione pongono questioni identiche, o tra loro strettamente connesse, in relazione alla normativa censurata.

Ed invero, tutti i giudici rimettenti – ravvisando la violazione dei medesimi parametri costituzionali – censurano la disposizione sopra indicata, che disciplina la misura dei canoni per le concessioni di beni del demanio marittimo, nella parte in cui essa si applica anche ai rapporti in corso.

I giudizi, pertanto, vanno riuniti per essere congiuntamente esaminati e decisi con unica pronuncia.

3.– In via preliminare, va confermata l’ordinanza dibattimentale, allegata alla presente sentenza, con la quale è stato dichiarato inammissibile l’intervento dell’UCINA – Unione Nazionale dei Cantieri e delle Industrie Nautiche - Confindustria Nautica, e delle associazioni Federturismo Confindustria e Assomarinas ‒ Associazione italiana porti turistici.

4.– Va, inoltre, rilevata l’inammissibilità delle deduzioni svolte dalla difesa della Pro.Mo.Mar. spa, in riferimento alla violazione dell’art. 97 Cost., e dalla difesa della Marina di Punta Ala spa, in riferimento al contrasto con il principio di non discriminazione stabilito dall’art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea – proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000, e con i principi stabiliti dal Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE), sottoscritto a Roma il 25 marzo 1957, ed in particolare con l’art. 18 (non discriminazione), l’art. 49 (libertà di stabilimento) e l’art. 56 (libertà di prestazione dei servizi).

Tali censure sono inammissibili, in quanto volte ad estendere il thema decidendum, quale definito nelle ordinanze di rimessione.

Infatti, per costante giurisprudenza di questa Corte, l’oggetto del giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale è limitato alle disposizioni e ai parametri indicati nelle ordinanze di rimessione; non possono, pertanto, essere presi in considerazione, oltre i limiti in queste fissati, ulteriori questioni o profili di costituzionalità dedotti dalle parti, sia eccepiti, ma non fatti propri dal giudice a quo, sia volti ad ampliare o modificare successivamente il contenuto delle stesse ordinanze (ex plurimis, sentenze n. 96 del 2016; n. 231 e n. 83 del 2015).

5.– La questione sollevata in riferimento agli artt. 3 e 41 Cost. non è fondata.

5.1.– La disposizione censurata sostituisce il previgente comma 3 dell’art. 03 del decreto-legge 5 ottobre 1993, n. 400 (Disposizioni per la determinazione dei canoni relativi a concessioni demaniali marittime), convertito, con modificazioni, dalla legge 4 dicembre 1993, n. 494.

Essa prevede che: «3. Le misure dei canoni di cui al comma 1, lettera b), si applicano, a decorrere dal 1° gennaio 2007, anche alle concessioni dei beni del demanio marittimo e di zone del mare territoriale aventi ad oggetto la realizzazione e la gestione di strutture dedicate alla nautica da diporto». Vengono, quindi, estesi alle concessioni di strutture per la nautica da diporto i medesimi criteri di determinazione dei canoni dettati per le concessioni aventi finalità turistico-ricreative.

5.2.– I giudici a quibus dubitano della legittimità costituzionale di siffatta estensione, ravvisando il contrasto con l’art. 3 Cost., sotto il profilo della lesione dell’affidamento ingenerato rispetto ai rapporti concessori in corso, per l’incremento rilevante e repentino della misura dei canoni delle concessioni per la realizzazione e la gestione di infrastrutture per la nautica. È, inoltre, denunciata l’irragionevole equiparazione delle concessioni già rilasciate a quelle nuove, nonché delle concessioni di strutture per la nautica da diporto a quelle per finalità turistico-ricreative.

Ad avviso dei giudici rimettenti, la disposizione in esame si porrebbe, altresì, in contrasto con l’art. 41 Cost., poiché determinerebbe «l’effetto irragionevole di frustrare le scelte imprenditoriali modificando gli elementi costitutivi dei relativi rapporti contrattuali in essere».

5.3.– Va, innanzitutto, rilevato che la nuova disciplina dettata dalla legge finanziaria 2007 modifica il precedente impianto normativo, contenuto nell’art. 03 del decreto-legge 5 ottobre 1993, n. 400 (Disposizioni per la determinazione dei canoni relativi a concessioni demaniali marittime), prevedendo una nuova modulazione dei criteri di quantificazione dei canoni. Accanto al canone cosiddetto tabellare, che continua ad applicarsi per le concessioni previste dall’art. 03, comma 1, lettera b), n. 1, è introdotto un canone commisurato al valore di mercato, sia pure mitigato da alcuni accorgimenti e abbattimenti (art. 03, comma 1, lettera b, n. 2.1).

La previsione del canone commisurato al valore di mercato costituisce un elemento di novità, particolarmente significativo, introdotto dai commi 251 e 252 della legge n. 296 del 2006. Come già osservato nella sentenza n. 302 del 2010, la ratio di tale innovazione consiste nel perseguimento di obiettivi di equità e razionalizzazione dell’uso dei beni demaniali, senza trascurare determinate categorie di utilizzatori, per le quali sono previste specifiche misure agevolative (art. 03, comma l, lettera c, del d.l. n. 400 del 1993).

In particolare, sono soggette all’applicazione del canone commisurato al valore di mercato le concessioni comprensive di strutture costituenti «pertinenze demaniali marittime destinate ad attività commerciali, terziario-direzionali e di produzione di beni e servizi» (art. 03, comma 1, lettera b, n. 2.1, del d.l. n. 400 del 1993). Il riferimento testuale è, pertanto, alle opere costituenti pertinenze demaniali marittime, come qualificate dall’art. 29 del codice della navigazione.

5.4.− Nel sostenere la censura di irragionevolezza dell’estensione di tale disciplina alle concessioni per la nautica da diporto, le tre ordinanze di rimessione si fondano su comuni presupposti ermeneutici, i quali debbono essere sottoposti a verifica.

In primo luogo, i rimettenti ritengono che i nuovi canoni commisurati ai valori di mercato debbano essere applicati anche ai rapporti concessori in corso alla data di entrata in vigore della legge n. 296 del 2006.

L’impostazione dei giudici rimettenti fa leva, inoltre, su un ulteriore assunto, relativo all’applicabilità dei medesimi canoni anche alle opere realizzate dal concessionario in esecuzione del rapporto concessorio, prima che le stesse siano acquisite in proprietà da parte dello Stato e abbiano, quindi, formalmente assunto la qualità di pertinenze del demanio marittimo.

Tuttavia, nella loro assolutezza, gli assunti sui quali si fondano l’interpretazione dei rimettenti e la denunciata illegittimità costituzionale non possono essere condivisi.

5.5.– Va preliminarmente evidenziato che − con riferimento alle concessioni demaniali per attività turistico-ricreative − la legittimità dei nuovi criteri di calcolo dei canoni è già stata riconosciuta da questa Corte nella sentenza n. 302 del 2010.

In questa pronuncia è stato rilevato, in particolare, che «gli interventi legislativi, volti ad adeguare i canoni di godimento dei beni pubblici, hanno lo scopo, conforme agli artt. 3 e 97 Cost., di consentire allo Stato una maggiorazione delle entrate e di rendere i canoni più equilibrati rispetto a quelli pagati in favore di locatori privati (sentenza n. 88 del 1997). Del resto, un consistente aumento dei canoni in questione era già stato disposto dall’art. 32, commi 21, 22 e 23, del decreto-legge 30 settembre 2003, n. 269 (Disposizioni urgenti per favorire lo sviluppo e per la correzione dell’andamento dei conti pubblici), convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1 della legge 24 novembre 2003, n. 326. La concreta applicazione degli aumenti disposti dalle norme citate è stata successivamente rinviata sino a quando la legge finanziaria del 2007 (art. 1, comma 256) ha disposto la loro abrogazione, mentre contestualmente introduceva i nuovi criteri di calcolo. Questi ultimi hanno sostituito gli aumenti generalizzati dei canoni annui per concessioni demaniali marittime, disposti con il citato d.l. n. 269 del 2003, con un nuovo meccanismo, che incide soprattutto sulle aree maggiormente produttive di reddito, cioè quelle su cui insistono pertinenze destinate ad attività commerciali, terziario-direzionali e di produzione di beni e servizi. Non si può dire pertanto che l’aumento dei canoni, disposto dalla previsione legislativa censurata, sia giunto inaspettato, giacché esso si è sostituito ad un precedente aumento, di notevole entità, non applicato per effetto di successive proroghe, ma rimasto tuttavia in vigore sino ad essere rimosso, a favore di quello vigente, dalla norma oggetto di censura. Né l’incremento può essere considerato frutto di irragionevole arbitrio del legislatore, tale da indurre questa Corte a sindacare una scelta di indirizzo politico-economico, che sfugge, in via generale, ad una valutazione di legittimità costituzionale».

La possibilità di trasferire tali principi, la cui perdurante validità non è neppure in discussione, alle concessioni per la nautica da diporto è esclusa dai rimettenti, i quali evidenziano l’«ontologica differenza» delle stesse, rispetto a quelle per attività turistico-ricreative, già esaminate dalla sentenza ora richiamata.

Gli elementi differenziali delle prime sarebbero costituiti dalla maggiore durata di tali rapporti, dalla loro consistenza numericamente limitata e − soprattutto − dalla notevole entità degli investimenti sostenuti dal concessionario per la realizzazione delle opere che ne costituiscono l’oggetto. Tali elementi varrebbero ad escludere la ragionevolezza dell’equiparazione, introdotta dalla disposizione censurata, delle due tipologie concessorie ai fini dell’applicabilità dei nuovi criteri di determinazione dei canoni.

5.6.− Al riguardo, va osservato che i primi due elementi (maggiore durata e numero limitato di tali concessioni) appaiono ininfluenti ai fini della valutazione della censurata irragionevolezza.

Da un lato, la maggiore durata del rapporto concessorio, in quanto volta a consentire di ammortizzare l’investimento del concessionario su un orizzonte temporale più ampio, vale a bilanciare, diluendoli nel tempo, gli effetti dell’incremento degli oneri a carico dei concessionari.

Dall’altro lato, il numero relativamente esiguo delle concessioni per la nautica da diporto appare circostanza in sé estranea alla valutazione in ordine alla ragionevolezza dell’incremento dei canoni, in quanto incidente sull’equilibrio economico finanziario del rapporto.

Pertanto, seguendo la prospettazione dei giudici a quibus, l’unico tratto distintivo rilevante delle due tipologie di concessioni interessate dagli aumenti introdotti dalla legge n. 296 del 2006 è rappresentato dall’entità degli investimenti richiesti (soprattutto, ma non in via esclusiva) ai titolari di concessioni per la nautica da diporto, laddove queste abbiano ad oggetto opere che debbano essere realizzate a cura del concessionario. Gli effetti discriminatori ed irragionevoli censurati attengono, infatti, alla modifica del calcolo di convenienza economica derivante dall’incremento dei canoni, in quanto applicati a quelle opere che il concessionario si sia impegnato a realizzare in epoca antecedente all’entrata in vigore della nuova disciplina.

5.7.− Tuttavia, con riferimento a tale specifica categoria di rapporti concessori, risulta possibile e doverosa un’interpretazione della disposizione del comma 252 che porta ad escludere l’applicabilità, generale ed indifferenziata, dei canoni commisurati ai valori di mercato a tutte le concessioni di strutture dedicate alla nautica da diporto, rilasciate prima della entrata in vigore della disposizione in esame.

Si lamenta, infatti, che, per effetto dell’applicazione dei canoni indicati anche ai rapporti concessori in corso, verrebbe onerato del medesimo canone, sia chi abbia ricevuto un bene demaniale, sul quale realizzi a proprie spese un’infrastruttura o un impianto di difficile rimozione, sia chi, invece, abbia ricevuto in concessione un bene su cui insista una struttura già realizzata da terzi.

Tuttavia, l’irragionevolezza insita in tale prospettazione è esclusa laddove la commisurazione del canone venga parametrata alle concrete caratteristiche dei rapporti concessori, nonché dei beni demaniali che ne formano l’oggetto.

Invero, l’art. 03 del d.l. n. 400, nel testo sostituito dall’art. 1, comma 251, della legge n. 296 del 2006, prevede che il criterio della media dei valori indicati dall’Osservatorio del mercato immobiliare si applica alle concessioni demaniali marittime comprensive di strutture permanenti costituenti «pertinenze demaniali marittime destinate ad attività commerciali, terziario-direzionali e di produzione di beni e servizi».

Nel delimitare l’ambito applicativo dei nuovi canoni commisurati ai valori di mercato, il tenore letterale della disposizione in esame fa espresso riferimento, dunque, ad opere costituenti pertinenze demaniali marittime che, pertanto, già appartengono allo Stato.

Al fine di stabilire la proprietà statale dei beni di difficile rimozione edificati su suolo demaniale marittimo in concessione, è determinante la scadenza della concessione, essendo questo il momento in cui il bene realizzato dal concessionario acquista la qualità demaniale.

I criteri di calcolo dei canoni commisurati ai valori di mercato, in quanto riferiti alle opere realizzate sul bene e non solo alla sua superficie, risultano applicabili, quindi, soltanto a quelle che già appartengano allo Stato e che già possiedano la qualità di beni demaniali. Nelle concessioni di opere da realizzare a cura del concessionario, ciò può avvenire solo al termine della concessione, e non già nel corso della medesima.

La stessa giurisprudenza del Consiglio di Stato ha riconosciuto che «non tutti i manufatti insistenti su aree demaniali partecipano della natura pubblica – e dell’inerente qualificazione demaniale – della titolarità del sedime, poiché solo ad alcuni, nella stessa dizione della legge, appartiene la natura pertinenziale. Per gli altri (che la legge indica come impianti di difficile o non difficile rimozione: definizione che appare inadatta a stabilire una differenza di categoria, dato che anche gli immobili pertinenziali sono o possono essere, di per sé, rimovibili con facilità o con difficoltà) si deve allora riconoscere, per esclusione, la qualificazione di cose immobili di proprietà privata fino a tutta la durata della concessione, evidentemente in forza di un implicito diritto di superficie» (Consiglio di Stato, sez. VI, 13 giugno 2013, n. 3308; nello stesso senso, Consiglio di Stato, sez. VI, 13 giugno 2013, n. 3307 e Consiglio di Stato, sez. VI, 10 giugno 2013, n. 3196).

Come osservato anche dalla difesa statale, nelle concessioni che prevedono la realizzazione di infrastrutture da parte del concessionario, il pagamento del canone riguarda soltanto l’utilizzo del suolo e non anche i manufatti, sui quali medio tempore insiste la proprietà superficiaria dei concessionari e lo Stato non vanta alcun diritto di proprietà.

Un’interpretazione costituzionalmente corretta della disposizione in esame impone, quindi, la necessità di considerare la natura e le caratteristiche dei beni oggetto di concessione, quali erano all’avvio del rapporto concessorio, nonché delle modifiche successivamente intervenute a cura e spese dell’amministrazione concedente. Mentre con riferimento agli aumenti dei canoni tabellari (art. 03, comma 1, lettera b, n. 1, del d.l. n. 400 del 1993) valgono i principi affermati nella sentenza n. 302 del 2010, viceversa va esclusa l’applicabilità dei nuovi criteri commisurati al valore di mercato alle concessioni non ancora scadute che prevedano la realizzazione di impianti ed infrastrutture da parte del concessionario, ivi incluse quelle rilasciate prima del 2007.

In definitiva, la non adeguata utilizzazione dei poteri interpretativi che la legge riconosce al giudice rimettente porta a ritenere la non fondatezza della presente questione di legittimità costituzionale (sentenze n. 219, n. 95 e n. 45 del 2016; n. 262 e n. 221 del 2015).

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

1) dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 252, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2007)», promossa dal Consiglio di Stato e dal Tribunale amministrativo regionale per la Toscana con le ordinanze indicate in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 gennaio 2017

F.to:

Paolo GROSSI, Presidente

Giuliano AMATO, Redattore

Roberto MILANA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 27 gennaio 2017.

 

Allegato:

ordinanza letta all'udienza del 10 gennaio 2017