SENTENZA N. 219
ANNO 2016
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Paolo GROSSI Presidente
- Alessandro CRISCUOLO Giudice
- Giorgio LATTANZI ”
- Aldo CAROSI ”
- Mario Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Giuliano AMATO ”
- Silvana SCIARRA ”
- Daria de PRETIS ”
- Nicolò ZANON ”
- Augusto Antonio BARBERA ”
- Franco MODUGNO ”
- Giulio PROSPERETTI ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 16-bis, comma 5, della legge 4 febbraio 2005, n. 11 (Norme generali sulla partecipazione dell’Italia al processo normativo dell’Unione europea e sulle procedure di esecuzione degli obblighi comunitari), promosso dal Tribunale ordinario di Bari, nel procedimento vertente tra il Comune di San Ferdinando di Puglia e il Presidente del Consiglio dei ministri più altro, con ordinanza del 30 dicembre 2015, iscritta al n. 74 del registro ordinanze 2016 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 15, prima serie speciale, dell’anno 2016.
Visti l’atto di costituzione, fuori termine, del Comune di San Ferdinando di Puglia, nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 21 settembre 2016 il Giudice relatore Giuliano Amato.
1.− Con ordinanza emessa il 30 dicembre 2015, il Tribunale ordinario di Bari ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, 97, 117, primo comma, 114, 118 e 119, quarto comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 16-bis, comma 5, della legge 4 febbraio 2005, n. 11 (Norme generali sulla partecipazione dell’Italia al processo normativo dell’Unione europea e sulle procedure di esecuzione degli obblighi comunitari), il quale prevede il diritto di rivalsa dello Stato nei confronti delle amministrazioni locali responsabili di violazioni della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848, per gli oneri finanziari sostenuti in esecuzione delle sentenze di condanna rese dalla Corte di Strasburgo nei confronti dello Stato.
2.− Il giudice rimettente è chiamato a decidere in ordine alla domanda proposta dal Comune di San Ferdinando di Puglia nei confronti della Presidenza del Consiglio dei ministri e del Ministero dell’economia e delle finanze, al fine di ottenere l’accertamento negativo del diritto di rivalsa esercitato dallo stesso Ministero per il pagamento della somma di euro 903.100, versata a titolo risarcitorio alla parte privata ricorrente, in esecuzione di una condanna della Corte di Strasburgo nei confronti dello Stato italiano.
Sulla base degli argomenti svolti dalla parte attrice e puntualmente richiamati dall’ordinanza, il giudice a quo ritiene rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 16-bis, comma 5, della legge n. 11 del 2005, introdotto dall’art. 6, comma 1, della legge 25 febbraio 2008, n. 34, recante «Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee (Legge comunitaria 2007)», ora confluito nell’art. 43, comma 10, della legge 24 dicembre 2012, n. 234 (Norme generali sulla partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione della normativa e delle politiche dell’Unione europea). Esso prevede il diritto di rivalsa dello Stato nei confronti delle amministrazioni locali responsabili di violazioni della CEDU, per gli oneri finanziari sostenuti in esecuzione delle sentenze di condanna rese dalla Corte di Strasburgo nei confronti dello Stato.
Il rimettente ritiene, in particolare, che l’univoco tenore letterale della norma impugnata non consenta interpretazioni conformi a Costituzione. Si tratterebbe in particolare di una disciplina sanzionatoria, con efficacia retroattiva, che configura una responsabilità degli enti non già per attività proprie (e dunque addebitabili agli stessi), quanto, piuttosto, per attività che gli stessi enti pongono in essere al solo fine di assicurare la fedele attuazione di quanto disposto dalla legge.
In ciò viene ravvisata la violazione di molteplici parametri costituzionali.
In primo luogo, viene denunciato il contrasto con il principio di ragionevolezza, di cui agli artt. 3 e 97 Cost. in quanto il diritto di rivalsa verrebbe, nella specie, esercitato in applicazione di una normativa entrata in vigore successivamente alla condanna dell’Italia da parte della Corte di Strasburgo. L’ente locale sarebbe sanzionato per comportamenti pregressi, adottati allorché gli stessi non erano previsti come fonte di responsabilità. La portata “retroattiva” della disposizione censurata sarebbe incoerente rispetto alla finalità di prevenzione che la ispira e che è volta alla promozione, negli enti pubblici, di comportamenti virtuosi che non espongano lo Stato a sanzioni derivanti dalla violazione del diritto europeo.
Difetterebbero, inoltre, gli elementi costitutivi della responsabilità dell’ente territoriale. Ad avviso del rimettente, infatti, il Comune di San Ferdinando di Puglia avrebbe fatto fedele e doverosa applicazione delle leggi dello Stato, delle sentenze dei giudici nazionali e della Corte costituzionale, e avrebbe già provveduto a risarcire la parte privata ricorrente per l’illegittima espropriazione subìta. Di converso, lo Stato italiano avrebbe colpevolmente omesso di svolgere le proprie difese e di presentare osservazioni nel giudizio dinanzi alla Corte di Strasburgo. Nell’impossibilità, per il Comune, di partecipare al giudizio innanzi alla CEDU, la condanna sarebbe la conseguenza del comportamento processuale di inerzia e negligenza dello Stato.
La disposizione censurata violerebbe, inoltre, gli artt. 3, 97, 117, primo comma, Cost., nella parte in cui essa disciplina, in modo eguale, attraverso l’uniforme previsione del diritto di rivalsa in capo allo Stato, situazioni che, invece, sono differenti. Ed invero, mentre il contrasto tra il diritto interno ed il diritto comunitario obbliga tanto i giudici quanto le amministrazioni a disapplicare il primo, tale meccanismo non opera nel contrasto tra diritto interno e diritto convenzionale. In quest’ultima ipotesi, infatti, solo la Corte costituzionale può annullare la norma interna per contrasto con la CEDU e con l’art. 117, primo comma, Cost. Nessun giudice e nessuna pubblica amministrazione può disapplicare una normativa interna ritenuta in contrasto con la CEDU.
Tale principio cogente vale a fortiori, per quelle amministrazioni, come i Comuni, che non esercitano alcuna potestà legislativa e sono tenuti ad informare la loro attività al principio di legalità. L’operato di un Comune verrebbe infatti, sanzionato, non solo laddove esso sia discrezionale e volontario, ma anche quando esso sia ossequioso del principio di legalità.
Ad avviso del giudice a quo, sarebbe altresì irragionevole la previsione, con modalità indifferenziate, di uno stesso diritto di rivalsa statale, nei confronti di enti titolari di funzioni costituzionali di diversa intensità.
La violazione degli artt. 3 e 97 Cost. viene, inoltre, ravvisata nella deresponsabilizzazione dello Stato che, in forza della disposizione censurata, esercita il proprio diritto di rivalsa nei confronti di altro ente, ma non per un comportamento addebitabile a quest’ultimo, bensì per un atto, quale è la legge, di cui lo Stato stesso è l’unico soggetto giuridicamente responsabile, mentre l’ente medesimo ha l’obbligo, e non già la mera facoltà, di attenersi a tale atto normativo primario.
In ogni caso, l’entità dell’importo del risarcimento sarebbe tale da mettere in difficoltà il bilancio del Comune, di dimensioni oggettivamente modeste, e si porrebbe in contrasto con l’art. 118 Cost., che attribuisce agli enti locali competenze costituzionalmente rilevanti. Inoltre, la disciplina sul diritto di rivalsa determinerebbe una sostanziale subordinazione degli enti locali rispetto allo Stato, in contrasto con l’art. 114 Cost. Sarebbe, infine, ostacolata la concreta operatività dell’art. 119, comma 4, Cost., in base al quale gli enti locali devono finanziare le funzioni pubbliche loro attribuite.
La previsione della rivalsa statale sul bilancio comunale violerebbe, inoltre, l’art. 24 Cost., sul duplice rilievo, da un lato, dell’impossibilità, per il Comune, di partecipare al giudizio dinanzi alla Corte europea, e, dall’altro, dell’inerzia difensiva dello Stato italiano nell’ambito di tale giudizio.
3.− Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile, ovvero infondata.
3.1.− In via preliminare, la difesa statale eccepisce l’inammissibilità della questione per la mancanza di una congrua motivazione sulla rilevanza. Le ragioni esposte nell’ordinanza sarebbero apodittiche e generiche, così come assolutamente generica sarebbe la descrizione dei fatti che hanno portato alla formulazione dei dubbi di costituzionalità, in quanto non si terrebbe in considerazione l’illegittimità della procedura espropriativa condotta dal Comune, per l’omessa adozione del decreto finale di esproprio e per l’acquisizione di fatto del bene occupato.
Viene, inoltre, eccepito l’omesso tentativo di interpretazione costituzionalmente conforme della disposizione censurata. Ad avviso dell’Avvocatura generale dello Stato, non vi sarebbe alcun automatismo nella condanna dell’amministrazione locale in sede di rivalsa. Infatti, sia alla Presidenza del Consiglio dei ministri, sia al giudice adìto, sarebbe consentita la valutazione dell’incidenza dell’azione causale delle amministrazioni territoriali nella produzione del danno e la comparazione delle responsabilità di queste ultime rispetto a quelle dello Stato. Tale decisivo aspetto sarebbe stato trascurato dal giudice a quo.
3.2.− Nel merito, l’Avvocatura generale dello Stato deduce l’infondatezza della questione di costituzionalità.
Quanto alla denunciata “retroattività” della disposizione censurata, si osserva che la disciplina in contestazione è stata introdotta dall’art. 6, primo comma, lettera e), della legge n. 34 del 2008, il quale, a sua volta, riprendeva quanto sancito dai commi da 1213 a 1223 dell’art. 1 della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato − legge finanziaria 2007). Nel caso in esame, la sentenza di condanna della Corte di Strasburgo è divenuta definitiva il 16 giugno 2008 ed è a questa data che occorrerebbe fare riferimento, trattandosi di azione di rivalsa strettamente dipendente da tale condanna.
La difesa statale evidenzia, inoltre, che la disposizione censurata, anziché introdurre una disciplina sanzionatoria, non farebbe altro che estendere alla fase esecutiva delle sentenze dei giudici europei (Corte di Giustizia e Corte EDU) un istituto generale del diritto civile, qual è la rivalsa, in base al quale avviene il recupero delle somme versate da un soggetto a causa di azioni ascrivibili alla responsabilità di un terzo. Si tratterebbe, infatti, di una disposizione finalizzata a porre rimedio allo squilibrio economico conseguente alla violazione di legge (imputabile all’ente territoriale), da un lato, e all’onere del pagamento del conseguente risarcimento (posto a carico dello Stato), dall’altro lato. Pertanto, non vi sarebbe alcuna irrazionalità nella previsione del diritto di rivalsa dello Stato per le somme pagate in conseguenza dell’azione illegittima dell’amministrazione locale.
Quanto alla disciplina dell’azione di rivalsa, l’Avvocatura generale dello Stato evidenzia la prioritaria finalità del raggiungimento di un’intesa fra Stato ed ente territoriale responsabile e, in mancanza di questa, l’acquisizione di un parere non vincolante della Conferenza unificata (art. 43, commi 7 e 8, della legge n. 234 del 2012). L’adozione del provvedimento esecutivo da parte della Presidenza del Consiglio dei ministri sarebbe prevista come extrema ratio, in caso di esito negativo delle fasi preliminari di consultazione ed intesa. Tali fasi sarebbero volte alla ricerca di modalità di adempimento compatibili con le attività istituzionali dell’ente territoriale e le sue risorse di bilancio (ad esempio, mediante la definizione delle rispettive responsabilità e la rateizzazione della somma da pagare, ovvero attraverso compensazioni con altre partite). In questo modo, la disciplina in esame soddisferebbe i precetti sanciti dagli artt. 3, 97 e 117, primo comma, Cost., invocati dal giudice remittente.
Con riferimento ai parametri di cui agli artt. 24, 114, 118 e 119 Cost., l’Avvocatura generale dello Stato ripercorre i fatti che hanno portato la Corte europea alla condanna dello Stato italiano. Essi si ricollegano ad una procedura espropriativa interamente riconducibile all’iniziativa e alla responsabilità del Comune di San Ferdinando di Puglia, senza alcuna interferenza da parte di uffici statali. Questa si sarebbe conclusa in modo illegittimo, con l’acquisizione di fatto del terreno di proprietà privata, omettendo il completamento della procedura di esproprio e l’adozione del provvedimento finale prescritto dalla legge.
Il Comune sarebbe, dunque, chiamato a rispondere delle conseguenze dannose di azioni ed omissioni allo stesso riconducibili. D’altra parte, il beneficio di tale espropriazione rimarrebbe ad esclusivo vantaggio dell’amministrazione comunale che ha acquisito al suo patrimonio il bene e l’opera pubblica che vi è stata realizzata.
Si evidenzia, inoltre, che, secondo la CEDU, l’ente locale non potrebbe sottrarsi agli obblighi derivanti da una sentenza definitiva, neppure in caso di carenza di risorse finanziarie. Vengono richiamate, al riguardo, le sentenze della Corte di Strasburgo nei casi De Luca contro Italia e Pennino contro Italia.
Viene, infine, contestato che vi sia stata un’inerzia difensiva dello Stato nel giudizio dinanzi alla Corte europea. La Rappresentanza italiana a Strasburgo avrebbe, infatti, compiutamente svolto le proprie funzioni processuali, contestando la tempestività e la fondatezza delle avverse pretese, sia pure senza successo. Inoltre, il Comune sarebbe stato puntualmente informato del ricorso e dei suoi sviluppi ed invitato a formulare le proprie osservazioni. L’Avvocatura generale dello Stato evidenzia, d’altra parte, che dinanzi all’autorità giudiziaria italiana lo stesso Comune è risultato soccombente in tutti i gradi del giudizio relativo alla procedura espropriativa in questione.
Con riferimento alla denunciata retroattività della disposizione censurata, viene, inoltre, evidenziato che − secondo la costante giurisprudenza costituzionale − il legislatore può adottare disposizioni con effetto retroattivo al fine di salvaguardare alcuni interessi fondamentali, quali quelli protetti da principi costituzionali, nel rispetto del criterio di ragionevolezza.
Pertanto, considerata la rilevanza che assumono gli obblighi discendenti dalla CEDU nel nostro ordinamento, ai sensi dell’art. 117 Cost., nonché la preminenza degli interessi tutelati dalla stessa Convenzione, ad avviso dell’Avvocatura generale dello Stato costituisce «un motivo di interesse generale» il dovere dello Stato di attivarsi per eliminare le conseguenze dannose prodotte da una violazione accertata dalla Corte di Strasburgo. Oltre alle misure di carattere individuale, vi rientrerebbero anche quelle che lo Stato ha il dovere di adottare allorché la violazione accertata sia espressione di una prassi − amministrativa o giurisdizionale − o di una disposizione normativa destinata a disciplinare in maniera uniforme le fattispecie dalla stessa regolate, come nel caso in esame.
Quanto al denunciato contrasto con gli artt. 3 e 97 Cost., viene evidenziato che la condotta consistita nell’occupazione acquisitiva integra un fatto illecito, avvenuto in violazione dell’ordinario procedimento di espropriazione per pubblica utilità, dal quale discende, ai sensi dell’art. 2043 del codice civile, il diritto al risarcimento del danno in capo al proprietario del terreno occupato. In questi casi, viene in rilievo un illecito ascrivibile alla pubblica amministrazione e consistente nell’occupazione sine titulo di un suolo privato seguìta dalla sua irreversibile trasformazione per effetto della realizzazione su di esso di un’opera pubblica. A cagione di ciò, si inverano i presupposti della responsabilità della pubblica amministrazione, ai sensi dell’art. 2043 cod. civ., produttiva, come tale, di danno risarcibile.
Pertanto, anche gli enti territoriali − qualora si rendano responsabili di violazioni del diritto interno costituenti lesioni del diritto sovranazionale − debbono rispondere delle conseguenze negative derivanti dall’inosservanza di tali vincoli.
4.− Il Comune di San Ferdinando di Puglia si è costituito in giudizio con memoria depositata il 21 luglio 2016, nella quale ha sostenuto le ragioni dell’illegittimità costituzionale della disposizione censurata.
A suo avviso, l’azione di rivalsa dello Stato sarebbe stata esercitata nonostante il Comune non abbia mai partecipato al giudizio dinanzi alla Corte di Strasburgo e non sia stato mai invitato a chiarire le ragioni che giustificano il suo esonero da qualsiasi responsabilità. Ad avviso della difesa del Comune, in tal modo lo Stato tenterebbe di recuperare dagli enti locali somme relative al risarcimento di danni, la responsabilità dei quali sarebbe ascrivibile esclusivamente ad esso.
1.− Con ordinanza emessa il 30 dicembre 2015, il Tribunale ordinario di Bari ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, 97, 117, primo comma, 114, 118 e 119, quarto comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 16-bis, comma 5, della legge 4 febbraio 2005, n. 11 (Norme generali sulla partecipazione dell’Italia al processo normativo dell’Unione europea e sulle procedure di esecuzione degli obblighi comunitari), il quale prevede il diritto di rivalsa dello Stato nei confronti delle amministrazioni locali responsabili di violazioni della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848, per gli oneri finanziari sostenuti in esecuzione delle sentenze di condanna rese dalla Corte di Strasburgo nei confronti dello Stato.
2.− In via preliminare, va rilevata l’inammissibilità dell’atto di costituzione del Comune di San Ferdinando di Puglia.
Tale costituzione risulta avvenuta il 21 luglio 2016 e quindi oltre il termine di venti giorni dalla pubblicazione dell’ordinanza di rimessione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, prima serie speciale, n. 15 del 13 aprile 2016, fissato dall’art. 3 delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
Il Comune deduce, peraltro, la tempestività della propria costituzione in giudizio, ritenendo, in primo luogo, la natura non perentoria del termine per la costituzione delle parti del giudizio a quo.
Tale assunto non è fondato. Secondo la costante giurisprudenza costituzionale, il termine fissato dall’art. 3 delle norme integrative con riguardo alla costituzione delle parti del giudizio a quo ha natura perentoria e dalla sua violazione consegue, in via preliminare e assorbente, l’inammissibilità degli atti di costituzione depositati oltre la sua scadenza (ex plurimis, sentenze n. 236 e 27 del 2015, n. 364 e n. 303 del 2010, n. 263 e n. 215 del 2009; ordinanze n. 11 del 2010, n. 100 del 2009 e n. 124 del 2008).
In secondo luogo, a sostegno della ritualità della propria costituzione in giudizio, il Comune ha eccepito l’invalidità della notifica dell’ordinanza di rimessione, poiché avvenuta mediante posta elettronica certificata.
Anche tale assunto non è fondato. La notifica in esame è regolarmente avvenuta nelle forme previste dall’art. 149-bis del codice di procedura civile. Tale disposizione è applicabile al giudizio dinanzi a questa Corte in forza del rinvio contenuto nell’art. 39 del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104 (Attuazione dell’articolo 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69, recante delega al governo per il riordino del processo amministrativo), a sua volta richiamato dall’art. 22 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla Costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale).
3.− La questione sollevata in riferimento agli artt. 97, 114, 117, primo comma, 118 e 119, quarto comma, Cost., è inammissibile.
3.1.− Nell’ordinanza di rimessione difetta un’adeguata motivazione in ordine alle ragioni di contrasto tra le disposizioni censurate e i parametri costituzionali sopra indicati.
L’ordinanza di rimessione si limita, infatti, a denunciare il contrasto in termini assertivi ed apodittici, in assenza di un’autonoma ed adeguata illustrazione dei motivi per i quali la normativa censurata integrerebbe la violazione dei parametri evocati.
In particolare, non vengono illustrate le ragioni a sostegno della paventata subordinazione degli enti locali rispetto allo Stato, nonché dell’impossibilità di svolgere competenze costituzionalmente rilevanti né, infine, del pregiudizio che verrebbe arrecato al finanziamento delle funzioni pubbliche attribuite agli enti locali.
Per costante giurisprudenza di questa Corte, «è infatti inammissibile la questione di legittimità costituzionale posta senza un’adeguata ed autonoma illustrazione, da parte del giudice rimettente, delle ragioni per le quali la normativa censurata integrerebbe una violazione del parametro costituzionale evocato. Non basta, in altre parole, l’indicazione delle norme da raffrontare, per valutare la compatibilità dell’una rispetto al contenuto precettivo dell’altra, ma è necessario motivare il giudizio negativo in tal senso e, se del caso, illustrare i passaggi interpretativi operati al fine di enucleare i rispettivi contenuti di normazione» (sentenze n. 120 del 2015 e n. 236 del 2011; ordinanze n. 26 del 2012, n. 321 del 2010, n. 181 del 2009).
4.– In riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., sono infondate le eccezioni di inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 16-bis, comma 5, della legge n. 11 del 2005.
4.1.− L’Avvocatura generale dello Stato eccepisce la genericità della descrizione della fattispecie, in quanto non sarebbero specificati i riferimenti temporali della vicenda e non si darebbe risalto al carattere illegittimo della procedura condotta dal Comune, attesa la mancata adozione del decreto finale di esproprio e l’acquisizione di fatto del bene occupato.
Va, viceversa, rilevato che l’ordinanza di rimessione chiarisce, in termini sintetici ma adeguati, la necessità di fare applicazione della disposizione censurata ai fini della decisione della controversia, in quanto il fondamento del diritto vantato dallo Stato e oggetto di contestazione nel giudizio a quo risiede proprio nella disposizione censurata.
Il giudice rimettente ha riferito, infatti, di essere investito del giudizio di accertamento negativo del credito azionato dallo Stato in via di rivalsa ai sensi dell’art. 16-bis della legge n. 11 del 2005, per il pagamento di quanto versato a titolo risarcitorio alla parte privata ricorrente, in esecuzione della condanna della Corte di Strasburgo, per violazione del diritto di proprietà derivante da una procedura espropriativa illegittima.
4.2.− Quanto ai riferimenti temporali, tenuto conto dei ripetuti interventi modificativi dell’istituto della rivalsa, l’ordinanza di rimessione appare adeguatamente motivata in punto di rilevanza della questione, avendo evidenziato che il Ministero dell’economia e delle finanze ha agito sulla base della sentenza della Corte di Strasburgo del 4 dicembre 2007, nella causa Pasculli contro Italia. Tale pronuncia è divenuta definitiva il 2 giugno 2008, in epoca antecedente all’entrata in vigore della nuova disciplina di cui all’art. 43, comma 10, della legge 24 dicembre 2012, n. 234 (Norme generali sulla partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione della normativa e delle politiche dell’Unione europea), ma successiva alla legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato − legge finanziaria 2007), la quale all’art. 1, commi da 1213 a 1223, stabiliva la precedente disciplina dell’istituto in esame.
4.3.− L’Avvocatura generale dello Stato ha, infine, eccepito l’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale per l’omesso tentativo di un’interpretazione conforme.
Tuttavia, tale possibilità viene consapevolmente esclusa dal rimettente, il quale – dopo avere illustrato le ragioni a sostegno della denunciata illegittimità − ravvisa nel tenore letterale della disposizione un impedimento ad un’interpretazione compatibile con i principi costituzionali evocati.
La giurisprudenza costituzionale ha affermato, a questo riguardo, che la compiuta valutazione da parte del giudice a quo degli argomenti svolti dalle parti, ancorché inidonea ad escludere possibili soluzioni difformi, sia indicativa del tentativo, in concreto effettuato dal rimettente, di utilizzare gli strumenti interpretativi a sua disposizione per verificare la possibilità di una lettura alternativa della disposizione censurata, eventualmente conforme a Costituzione.
In definitiva, «La possibilità di un’ulteriore interpretazione alternativa, che il giudice a quo non ha ritenuto di fare propria, non riveste alcun significativo rilievo ai fini del rispetto delle regole del processo costituzionale, in quanto la verifica dell’esistenza e della legittimità di tale ulteriore interpretazione è questione che attiene al merito della controversia, e non alla sua ammissibilità» (sentenza n. 221 del 2015).
In questo ordine di idee, con riferimento alla dedotta illegittimità della condotta posta in essere dal Comune, va osservato che tale circostanza – in quanto riferibile ai fatti costitutivi della pretesa creditoria statale − attiene al merito della controversia, e non alla necessità di fare applicazione della disposizione censurata.
5.− In riferimento all’art. 3 Cost., la questione non è fondata.
Il giudice a quo denuncia, in primo luogo, l’irragionevolezza insita nella previsione di una disciplina di carattere sanzionatorio, la quale configura una responsabilità degli enti sub-statali non già per attività proprie (e dunque addebitabili agli stessi) quanto, piuttosto, per attività che essi pongono in essere al solo fine di assicurare la fedele attuazione di quanto disposto dalla legge. A suo avviso, il diritto di rivalsa dello Stato verrebbe esercitato per un atto, quale è la legge, di cui lo Stato stesso è l’unico soggetto giuridicamente responsabile.
Tuttavia, secondo l’espresso dettato dell’art. 16-bis, comma 5, l’esercizio del diritto statale di rivalsa presuppone che gli enti locali «si siano resi responsabili di violazioni delle disposizioni della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali». Il fondamento della rivalsa statale nei confronti degli enti locali viene, quindi, esplicitamente individuato nella responsabilità per condotte, imputabili agli stessi enti, poste in essere in violazione della CEDU.
L’esame del dato letterale porta, perciò, ad escludere, tra i possibili contenuti precettivi della disposizione, l’esistenza di un automatismo nella condanna dell’amministrazione locale in sede di rivalsa e, conseguentemente, di una deroga al principio dell’imputabilità. Come evidenziato dalla stessa Avvocatura generale dello Stato, compete, sia alla Presidenza del Consiglio dei ministri, in sede di adozione del decreto costituente titolo esecutivo, sia al giudice adìto, in sede di contestazione giudiziale dello stesso, la valutazione dell’incidenza causale dell’azione delle amministrazioni territoriali nella produzione del danno e la comparazione delle responsabilità di queste ultime rispetto a quelle dello Stato.
È proprio nell’àmbito di tale valutazione che assumono rilievo pregnante, tra l’altro, le circostanze evidenziate dallo stesso rimettente ai fini dell’attribuzione di responsabilità: le ragioni della violazione della CEDU ricavabili dall’accertamento compiuto nella sentenza di condanna del giudice europeo; se sia possibile disapplicare la normativa interna ritenuta in contrasto con il diritto europeo; se sia illegittimo l’operato dell’ente territoriale con riferimento alla disciplina dell’ordinamento interno; se l’ente stesso sia titolare di potestà normativa primaria.
Il requisito dell’imputabilità risulta, infatti, immanente al concetto stesso di responsabilità ed è coerente con la ratio dell’intera normativa sull’esercizio della rivalsa per violazioni del diritto europeo, con riferimento sia alle condanne della Corte di giustizia, sia a quelle della Corte EDU, in quanto volta alla prevenzione di tali violazioni attraverso la responsabilizzazione dei diversi livelli di governo coinvolti nell’attuazione del diritto europeo.
Il contrasto con il principio di ragionevolezza viene, altresì, ravvisato dal rimettente nella portata “retroattiva” dell’art. 16-bis, comma 5, il quale sottoporrebbe a sanzione comportamenti precedenti l’introduzione di tale disciplina, in contrasto rispetto alla finalità di prevenzione che la ispira.
A questo riguardo, va rilevato che l’art. 16-bis è una disposizione di carattere processuale, finalizzata all’esercizio del diritto di rivalsa − di per sé riconducibile all’area della responsabilità aquiliana ai sensi dell’art. 2043 del codice civile – attraverso l’emissione del relativo titolo esecutivo. Pertanto, ciò che rileva ai fini della sua applicabilità è l’avvenuto accertamento del rilievo convenzionale della violazione, accertamento che è rimesso alla Corte di Strasburgo. Infatti, la disposizione in esame fa testuale riferimento alle ipotesi di responsabilità accertate con «sentenze di condanna rese dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nei confronti dello Stato». L’avvenuto accertamento della violazione, espresso nella forma della sentenza di condanna da parte della Corte europea, è quindi l’elemento costitutivo della fattispecie delineata dall’art. 16-bis ed è anche il momento discriminante ai fini della applicazione della disciplina da esso dettata. Ciò vale ad escludere la denunciata retroattività della disposizione censurata, la quale risulta applicabile alle sole ipotesi di responsabilità accertate con sentenza di condanna resa successivamente all’entrata in vigore della legge n. 11 del 2005.
Secondo la più recente giurisprudenza costituzionale, la non adeguata utilizzazione dei poteri interpretativi che la legge riconosce al giudice rimettente e la mancata esplorazione di diverse, pur praticabili, soluzioni ermeneutiche è motivo di non fondatezza della questione di legittimità costituzionale (sentenze n. 95 e n. 45 del 2016; n. 262 e n. 221 del 2015).
6.−Anche in riferimento all’art. 24 Cost., la questione di legittimità costituzionale non è fondata.
La lesione del diritto di difesa viene ravvisata dal giudice a quo sotto un duplice profilo: da un lato, per l’impossibilità, per il Comune, di partecipare al giudizio dinanzi alla Corte europea, e, dall’altro, per l’inerzia difensiva dello Stato italiano nell’àmbito di tale giudizio.
Tuttavia, mentre quest’ultimo aspetto si limita ad evidenziare un inconveniente di mero fatto, come tale non attinente al profilo (astratto) della legittimità costituzionale della norma, il primo aspetto denota l’inconferenza del parametro costituzionale evocato. Infatti, la disposizione censurata, stante il suo inequivoco tenore letterale, è volta a regolare il procedimento attraverso il quale viene esercitato il diritto statale di rivalsa nell’ordinamento interno, non già il diverso procedimento dinanzi alla Corte europea, nell’ambito del quale, ad avviso del rimettente, si sarebbe determinata la compressione del diritto di difesa dell’ente locale.
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara inammissibile, in riferimento agli artt. 97, 114, 117, primo comma, 118 e 119, quarto comma, della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 16-bis, comma 5, della legge 4 febbraio 2005, n. 11 (Norme generali sulla partecipazione dell’Italia al processo normativo dell’Unione europea e sulle procedure di esecuzione degli obblighi comunitari), sollevata dal Tribunale ordinario di Bari con l’ordinanza indicata in epigrafe;
2) dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, in riferimento all’art. 3 Cost., la questione di legittimità costituzionale dell’art. 16-bis, comma 5, della legge n. 11 del 2005, sollevata dal Tribunale ordinario di Bari con l’ordinanza indicata in epigrafe;
3) dichiara non fondata, in riferimento all’art. 24 Cost., la questione di legittimità costituzionale dell’art. 16-bis, comma 5, della legge n. 11 del 2005, sollevata dal Tribunale ordinario di Bari con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21 settembre 2016.
F.to:
Paolo GROSSI, Presidente
Giuliano AMATO, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 12 ottobre 2016.