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SENTENZA N. 44
ANNO 1964
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONE
composta dai signori Giudici:
Prof. Gaspare AMBROSINI, Presidente
Prof. Giuseppe CASTELLI AVOLIO
Prof. Antonino PAPALDO
Prof. Nicola JAEGER
Prof. Giovanni CASSANDRO
Prof. Biagio PETROCELLI
Dott. Antonio MANCA
Prof. Aldo SANDULLI
Prof. Giuseppe BRANCA
Prof. Michele FRAGALI
Prof. Costantino MORTATI
Prof. Giuseppe CHIARELLI
Dott. Giuseppe VERZÌ
Dott. Giovanni Battista BENEDETTI
Prof. Francesco Paolo BONIFACIO,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 3, n. 8, della legge 20 febbraio 1958, n. 75 (abolizione della regolamentazione della prostituzione e lotta contro lo sfruttamento della prostituzione altrui), promosso con ordinanza emessa il 4 luglio 1963 dal Tribunale di Firenze nel procedimento penale a carico di Marchetti Remo, iscritta al n. 161 del Registro ordinanze 1963 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, n. 231 del 31 agosto 1963.
Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri;
udita nell'udienza pubblica del 18 marzo 1964 la relazione del Giudice Giuseppe Verzi;
udito il vice avvocato generale dello Stato Dario Foligno, per il Presidente del Consiglio dei Ministri.
Ritenuto in fatto
Nel corso del procedimento penale contro Marchetti Remo, il Tribunale di Firenze, con ordinanza del 4 luglio 1963, ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell'art. 3, n. 8, della legge 20 febbraio 1958, n. 75, in riferimento agli artt. 13 e 27 della Costituzione.
L'ordinanza rileva che questa legge, volta a sopprimere le case di prostituzione quale forma di impresa che si fondava sul triste commercio dell'altrui prostituzione, ha determinato gravi inconvenienti: gli sconci spettacoli ai quali si assiste nelle vie e nelle piazze delle nostre città, la preoccupante recrudescenza delle malattie veneree e l'accentuarsi del fenomeno dello sfruttamento della prostituzione, essendosi generalizzata la figura del cosiddetto protettore. E, dopo avere rilevato che l'abolizione del controllo sanitario su chi esercita la prostituzione contrasterebbe con l'art. 32 della Costituzione, ritiene che la incriminazione prevista dall'art. 3, n. 8, della legge, ("chiunque in qualsiasi modo favorisca o sfrutti la prostituzione altrui") non sia formulata con determinazione sufficientemente precisa, riducendosi, in definitiva, al nome o titolo del reato senza specificazione del contenuto; onde sarebbero violati gli artt. 13 e 27 della Costituzione, i quali postulano - come fondamentale garanzia del cittadino - la espressa previsione legislativa del fatto costituente reato.
La predetta ordinanza, ritualmente notificata e comunicata, è stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale, n. 231 del 31 agosto 1963.
Nel presente giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei Ministri. E, con deduzioni del 6 agosto 1963, l'Avvocatura generale dello Stato, dopo avere premesso che l'ordinanza di rimessione è priva di qualsiasi pur vago riferimento alla rilevanza della risoluzione delle proposte questioni per la definizione del giudizio principale, osserva che tali questioni, non collegate con l'oggetto del giudizio stesso, sono prospettate nella opinione che il mancato raggiungimento del fine della norma, oppure il mancato esercizio della riserva di legge di cui all'art. 32 della Costituzione, possano costituire motivo di illegittimità costituzionale. In merito, poi, alla fattispecie prevista dall'art. 3, n. 8, della legge, osserva che i concetti di agevolazione e di sfruttamento della prostituzione - già di per sé determinati e delimitati - trovano riscontro nelle abrogate fattispecie degli artt. 531 e seguenti del Codice penale, onde non sarebbe ravvisabile alcun contrasto con gli artt. 13 e 27 della Costituzione.
Con memoria del 5 marzo 1964, la stessa Avvocatura dello Stato aggiunge che, abolita la regolamentazione dell'esercizio della prostituzione per raggiungere - come è noto - una più completa elevazione della morale pubblica e per attuare i principi di libertà e di dignità della persona umana, doveva essere represso anche il lenocinio clandestino. A ciò avrebbe provveduto l'art. 3 della legge, che sarebbe un articolo a previsioni plurime, nel quale, alla elencazione di reati distinti, succederebbe nel n. 8 una norma di chiusura, atta a punire l'aspetto residuale di qualsiasi forma di favoreggiamento o di sfruttamento della prostituzione.
Considerato in diritto
1. - Occorre in via preliminare accertare quali questioni ha sollevato l'ordinanza di rimessione. L'Avvocatura generale dello Stato si è diffusamente occupata dell'abolizione del controllo sanitario su chi esercita la prostituzione, per dimostrare che tale abolizione non contrasta con l'art. 32 della Costituzione, che tutela la salute pubblica; ma la Corte ritiene che il Tribunale non ha inteso proporre siffatta questione. Ed invero l'ordinanza non si pone neppure il quesito della rilevanza della risoluzione di essa ai fini della definizione di un procedimento penale per il reato di sfruttamento della prostituzione altrui; non fa alcun richiamo alle specifiche norme della legge 20 febbraio 1958, n. 75, riferentisi all'abolizione del controllo sanitario; e non prende in esame la legge 25 luglio 1956, n. 837, nella quale il Parlamento ha voluto riunire tutte le norme atte a prevenire e combattere la diffusione delle malattie veneree. Né appare sufficiente a delineare una questione di legittimità costituzionale, il semplice richiamo alla violazione dell'art. 32 della Costituzione, fatto, quasi incidentalmente, in una premessa generale dell'ordinanza sugli scopi perseguiti dalla legge in esame e sui danni, che dalla stessa sarebbero stati provocati, fra i quali viene anche compreso l'aumento delle malattie veneree.
Pertanto, la Corte deve esaminare soltanto la questione della legittimità dell'art. 3, n. 8, della legge sopraindicata, proposta dall'ordinanza in riferimento agli artt. 13 e 27 della Costituzione.
2. - La questione, la cui rilevanza ai fini della decisione del processo principale appare evidente, non è fondata.
È da premettere che non è affatto pertinente il richiamo al principio della libertà personale dei cittadini ed a quello della personalità della responsabilità penale, garantiti dagli artt. 13 e 27 della Costituzione. Invece, la norma che dà fondamento legale alla potestà punitiva, ed espressamente sancisce la non retroattività della legge nel tempo, è contenuta nell'art. 25 della Costituzione, il quale, nel secondo comma, dispone che: "nessuno può essere punito se non in forza di una legge, che sia entrata in vigore prima del fatto commesso". La questione, nei termini proposti dall'ordinanza, può essere quindi esaminata soltanto in riferimento all'art. 25.
3. - Il Tribunale afferma che la formulazione della norma impugnata, la quale punisce colui che "in qualsiasi modo favorisca o sfrutti la prostituzione altrui" è generica, priva di contenuto e non concreta perciò una espressa ed individuata previsione del fatto costituente reato; dal che deriverebbe un contrasto col precetto costituzionale della espressa riserva di legge in materia penale, richiesta dall'art. 25 della Costituzione.
La Corte ritiene che siffatto apprezzamento non è giustificato. Particolari ragioni di tutela della dignità umana hanno indotto il legislatore ad abolire la regolamentazione della prostituzione, la registrazione, il tesseramento e qualsiasi altra degradante qualificazione o sorveglianza sulle donne che esercitano la prostituzione. Il legislatore non si è però limitato a dare una nuova disciplina, ma, preoccupato dalle conseguenze dannose che possano derivarne, ha seguito anche un'altra direttiva, che appare riprodotta nel titolo della legge in esame (lotta contro lo sfruttamento della prostituzione). Ha emanato quindi nuove norme penali, atte a reprimere la diffusione di questo male sociale, prevedendo nell'art. 3 della ripetuta legge - varie ipotesi criminose, onde punire quelle attività che in qualsiasi modo vengano a ledere l'interesse che si intende tutelare.
I concetti di agevolazione e di sfruttamento della prostituzione altrui presentano una obiettività ben definita, anche perché acquisiti da tempo nel Codice penale e sottoposti a lunga elaborazione dottrinale. Essi hanno un preciso ed inconfondibile significato, che non si presta ad equivoche interpretazioni. Allargare il raggio di applicazione della previsione legislativa fino a comprendere attività che prima rimanevano impunite non significa svuotare di contenuto la norma, ma estenderla e rafforzarla. E la circostanza che sia stata usata una formula, la quale, pur essendo di più ampio contenuto, risulti sinteticamente espressa, non costituisce un vizio della norma - siccome ritiene l'ordinanza di rimessione - ma un fatto normale in materia penale. Ed invero, tutti i comandi giuridici sono per loro natura di carattere generale ed astratto; ed è ben noto che, nell'indicare i fatti tipici costituenti reato, la legge a volte fa una descrizione minuta di essi, ma spesso si limita a dare un'ampia nozione del fatto, senza scendere a particolari di esecuzione. E già questa Corte ha avuto occasione di affermare in proposito che "il principio in virtù del quale nessuno può essere punito per un fatto che non sia espressamente preveduto come reato dalla legge (art. 1 del Codice penale) non è attuato nella legislazione penale seguendo sempre un criterio di rigorosa descrizione del fatto. Spesso le norme penali si limitano ad una descrizione sommaria ed all'uso di espressioni meramente indicative, realizzando nel miglior modo possibile l'esigenza di una previsione tipica dei fatti costituenti reato" (sentenza n. 27 del 23 maggio 1961).
Bisogna infine rilevare che queste nuove figure di reato, sottoposte al vaglio della dottrina e della giurisprudenza, sono state efficacemente determinate nei loro contorni e limiti. Onde, sotto qualsiasi aspetto esaminata, la censura della norma appare priva di fondamento;
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 3, n. 8, della legge 20 febbraio 1958, n. 75 (abolizione della regolamentazione della prostituzione e lotta contro lo sfruttamento della prostituzione altrui), proposta con ordinanza del Tribunale di Firenze del 4 luglio 1963, in riferimento agli artt. 13 e 27 (rectius 25) della Costituzione.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 4 giugno 1964.
Gaspare AMBROSINI - Giuseppe CASTELLI AVOLIO - Antonino PAPALDO - Nicola JAEGER - Giovanni CASSANDRO - Biagio PETROCELLI - Antonio MANCA - Aldo SANDULLI - Giuseppe BRANCA - Michele FRAGALI - Costantino MORTATI - Giuseppe CHIARELLI - Giuseppe VERZÌ - Giovanni BATTISTA BENEDETTI - Francesco Paolo BONIFACIO.
Depositata in cancelleria il 16 giugno 1964.
Presidente AMBROSINI
Relatore VERZI'