ORDINANZA N. 33
ANNO 2002
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
- Cesare RUPERTO, Presidente
- Massimo VARI
- Riccardo CHIEPPA
- Gustavo ZAGREBELSKY
- Valerio ONIDA
- Carlo MEZZANOTTE
- Fernanda CONTRI
- Guido NEPPI MODONA
- Piero Alberto CAPOTOSTI
- Annibale MARINI
- Franco BILE
- Giovanni Maria FLICK
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 51, secondo comma, numero 2, del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 (Istituzione e disciplina dell’imposta sul valore aggiunto) e dell'art. 32, primo comma, numero 2, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 (Disposizioni comuni in materia di accertamento delle imposte sui redditi), promossi con quattro ordinanze emesse il 20 settembre 2000 dalla Commissione tributaria regionale di Ancona, iscritte, rispettivamente, ai nn. 469, 470, 471 e 472 del registro ordinanze 2001 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 25, prima serie speciale, dell’anno 2001.
Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 5 dicembre 2001 il Giudice relatore Valerio Onida.
Ritenuto che, con quattro ordinanze, di identico tenore, emesse il 20 settembre 2000, pervenute a questa Corte l'11 maggio 2001, la Commissione tributaria regionale di Ancona ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento all'art. 24, secondo comma, della Costituzione, dell'art. 51, secondo comma, numero 2, del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 (Istituzione e disciplina dell’imposta sul valore aggiunto), "limitatamente all'inciso "rilevate a norma … dell'art. 63, primo comma"", e dell'art. 32, primo comma, numero 1 (recte: 2), del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 (Disposizioni comuni in materia di accertamento delle imposte sui redditi), "limitatamente all'inciso "rilevate a norma dell'art. 33 … terzo comma"";
che il giudice a quo si trova a decidere in sede di appello avverso più decisioni di primo grado che hanno respinto i ricorsi di una società contro accertamenti parziali emessi dall'Ufficio IVA di Pesaro, fondati su risultanze bancarie acquisite in sede di indagini penali per il delitto di frode fiscale a carico di amministratori della stessa società (in fattispecie in cui si discute di ricavi che sarebbero stati, secondo l'ipotesi accusatoria, occultati su libretti al portatore intestati a società fiduciaria ma poi lasciati nella disponibilità diretta dei fiducianti), ed effettuati in applicazione dell'art. 51, secondo comma, numero 2, del d.P.R. n. 633 del 1972, ai cui sensi gli uffici IVA possono invitare i soggetti che esercitano imprese, arti o professioni, indicandone il motivo, a comparire di persona o a mezzo di rappresentanti per esibire documenti e scritture o per fornire dati, notizie e chiarimenti rilevanti ai fini degli accertamenti nei loro confronti anche relativamente, fra l'altro, alle operazioni rilevate a norma dell'art. 63, primo comma, dello stesso d.P.R. n. 633 del 1972 vale a dire attraverso documenti, dati e notizie acquisiti nell'esercizio dei poteri di polizia giudiziaria , e i singoli dati ed elementi risultanti dai conti sono posti a base delle rettifiche e degli accertamenti se il contribuente non dimostra che ne ha tenuto conto nelle dichiarazioni o che non si riferiscono ad operazioni imponibili;
che il remittente ritiene preliminarmente che, nella specie, le prove acquisite in sede penale siano state legittimamente utilizzate ai fini della verifica tributaria, e che in quest'ultima sede non si sia verificata violazione delle norme del codice di procedura penale la cui osservanza é imposta nel corso delle attività ispettive e di vigilanza, a norma dell'art. 220 disp. att. del cod. proc. pen.;
che, ad avviso dello stesso remittente, tuttavia, sussisterebbe una inconciliabile antinomia fra il regime istruttorio-probatorio proprio del procedimento penale, nel cui ambito l'indagato ha il diritto di non rispondere, e dalla mancata partecipazione o dalla mancata risposta non possono derivare conseguenze negative per il medesimo indagato, e quello proprio della materia tributaria, in cui, a seguito della contestazione al contribuente delle risultanze bancarie e dell'invito a comparire per giustificarne la rispondenza alle scritture contabili, la mancata o insufficiente giustificazione comporta l'applicazione della "presunzione di ricavi", e la inottemperanza all’invito a comparire e ad altre richieste degli uffici é punita con sanzione amministrativa;
che, pertanto, vi sarebbe "un momento necessario e tipico di questa procedura in cui il contribuente-indagato si trova a dover obbligatoriamente scegliere se rinunciare ai suoi diritti di indagato (silenzio) per far valere i suoi diritti di contribuente ovvero se rinunciare ai secondi per far valere i primi, esponendosi in tal modo alle previste sanzioni tributarie compresa l'applicazione di presunzioni legali sfavorevoli";
che vi sarebbero ipotesi, previste da normative specifiche, nelle quali l'accertamento tributario diventa rilevante nel processo penale e ne condiziona l'esito: così quando si debba applicare il principio di specialità fra sanzioni penali e sanzioni tributarie in presenza di una prova raggiunta in una sede e non nell'altra, quando la definizione del rapporto tributario sia per legge rilevante anche in sede penale, o quando si acquisiscano e si utilizzino in sede penale decisioni del giudice tributario o atti amministrativi extraprocessuali;
che, in tali casi, dall'esercizio del diritto di non rispondere spettante all'imputato discenderebbero a suo carico conseguenze automaticamente negative sul piano tributario; e anche il diritto di difesa in sede penale ne risulterebbe compromesso o sacrificato, giacchè sia dalla risposta che dalla mancata risposta potrebbero derivare pregiudizi nel processo penale, sia in termini probatori, sia in termini di meccanismi di definizione dei rapporti "mediante monetizzazione";
che pertanto il diritto di difesa sarebbe compromesso sia nel processo tributario che in quello penale, poichè la prova tributaria si identificherebbe e consisterebbe esclusivamente nell'esercizio del diritto di non rispondere dell'imputato-contribuente;
che dunque questa Corte dovrebbe giudicare della legittimità costituzionale degli effetti derivanti dai richiami che le norme denunciate fanno alla documentazione proveniente dalle indagini penali, così che l'eliminazione di tali richiami valga a fornire gli accertamenti bancari effettuati in sede penale e trasferiti in sede tributaria della valenza probatoria propria delle presunzioni semplici;
che é intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, il quale ha eccepito in primo luogo l'inammissibilità, per irrilevanza, della questione relativa all'art. 32, primo comma, numero 2, del d.P.R. n. 600 del 1973, concernente gli accertamenti in materia di imposte dirette, in quanto i giudizi a quibus vertono in materia di IVA; e l'inammissibilità pure della questione relativa all'art. 51, secondo comma, numero 2, del d.P.R. n. 633 del 1972, per insufficiente motivazione della rilevanza e per essere la questione stessa formulata in termini perplessi;
che, nel merito, l'interveniente sostiene l'infondatezza della questione, in quanto l'interesse del contribuente a fornire la giustificazione richiesta non colliderebbe, ma anzi coinciderebbe, con l'interesse alla difesa in sede penale; l'alternativa fra tacere e rispondere non si porrebbe in termini immediati al momento della richiesta di giustificazioni da parte dell'ufficio, poichè il contribuente potrebbe fornire chiarimenti anche in un ulteriore momento, sia in sede amministrativa, sia anche in sede giurisdizionale; e comunque ogni elemento introdotto in un processo costituirebbe fonte di prova secondo i requisiti previsti dalla legge sulla base delle peculiarità e delle esigenze dello specifico tipo di giudizio.
Considerato che i giudizi, aventi il medesimo oggetto, possono essere riuniti per essere definiti con un’unica decisione;
che la questione relativa all'art. 32, primo comma, numero 2, del d.P.R. n. 600 del 1973, concernente gli accertamenti in materia di imposte sui redditi, é manifestamente inammissibile per carenza di rilevanza, avendo i giudizi a quibus ad oggetto accertamenti in materia di IVA;
che, quanto alla questione relativa all'art. 51, secondo comma, numero 2, del d.P.R. n. 633 del 1972, deve ribadirsi anzitutto che la regola, secondo cui i dati e gli elementi risultanti dai conti bancari sono posti a base degli accertamenti se il contribuente non dimostra che ne ha tenuto conto nelle dichiarazioni o che essi non si riferiscono ad operazioni imponibili, "si fonda ragionevolmente sul carattere oggettivo di dette risultanze, relative a rapporti facenti capo al contribuente", onde la presunzione, sempre suscettibile di prova contraria, posta da detta regola non é in contrasto con il diritto di difesa del contribuente garantito dall'art. 24 della Costituzione (ordinanza n. 260 del 2000);
che é estranea al presente giudizio, e spetta al giudice del rapporto tributario, ogni valutazione circa l'estensione della presunzione in questione, con riferimento alle ipotesi in cui le risultanze bancarie attengono a conti facenti capo formalmente a soggetti diversi dal contribuente, allorchè, come nei casi di cui si occupa il remittente, si prospetti una interposizione soggettiva fittizia;
che, una volta stabilita la legittimità costituzionale della predetta presunzione, discendente da elementi legittimamente acquisiti al procedimento tributario, é priva di rilievo, ai fini dell'allegato contrasto con l'art. 24, secondo comma, della Costituzione, la circostanza che il contribuente possa avere di fatto interesse a non addurre giustificazioni eventualmente idonee a vincere la presunzione, nel caso in cui gli elementi che egli potrebbe addurre siano tali da esporlo a conseguenze negative in un altro, distinto procedimento, nel quale é posta in causa una ipotesi di responsabilità penale dello stesso contribuente;
che, infatti, in tale diversa sede il contribuente può avvalersi di tutte le garanzie proprie del procedimento penale; ma non può per ciò solo pretendere di alterare il diverso regime probatorio proprio del rapporto tributario e del suo accertamento, sottraendo all'amministrazione finanziaria la possibilità di avvalersi di una presunzione legittimamente stabilita dalla legge al fine di consentire l'attuazione degli obblighi tributari: ciò senza dire che, almeno normalmente, le giustificazioni che il contribuente potrebbe addurre in sede tributaria per escludere la imponibilità delle operazioni risultanti dai conti bancari possono essere, se reali, idonee anche a sostenere l'insussistenza del reato di frode fiscale, che si realizza appunto con l'occultamento di materia imponibile, e quindi idonee ad apprestare la difesa del contribuente anche in sede penale;
che, per contro, nessuna conseguenza negativa per il contribuente indagato può derivare, nel procedimento penale, dal fatto che in sede tributaria sia stato effettuato un accertamento in base alla presunzione fondata sugli elementi risultanti dalla documentazione bancaria, accertamento rispetto al quale il contribuente non abbia potuto o non abbia voluto fornire giustificazioni idonee a smentire la imponibilità delle operazioni documentate: non avendo l'accertamento tributario così fondato, di per sè, alcuna ulteriore portata probatoria in sede penale, che vada al di là di quella propria della documentazione acquisita nella stessa sede, e trasferita in sede tributaria;
che, per altro verso, la sanzione amministrativa pecuniaria collegata, in sede tributaria, alla inottemperanza all'invito a comparire per esibire documenti o per fornire dati, notizie e chiarimenti rilevanti ai fini dell'accertamento, e ad altre richieste degli uffici (art. 11, comma 1, lettera c, del d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 471) attiene esclusivamente agli obblighi che gravano sul contribuente nell'ambito del procedimento tributario, e non può trovare applicazione per il solo fatto che il contribuente abbia omesso di fornire giustificazioni delle operazioni risultanti dalla documentazione bancaria, suscettibili in ipotesi di contrastare la presunzione di imponibilità delle operazioni medesime;
che, a sua volta, l’asserita preclusione di una integrazione probatoria in sede di giudizio tributario, la quale discenderebbe dall’art. 32, terzo e quarto comma, del d.P.R. n. 600 del 1973, é smentita dalla testuale previsione, nel predetto quarto comma, della possibilità di fornire notizie e documenti con l’atto introduttivo del giudizio di primo grado quando il contribuente non abbia potuto adempiere alla richiesta degli uffici per causa a lui non imputabile: a tacere del fatto che contrariamente a quanto sembra ritenere il remittente il rinvio che l'art. 51, quarto comma, del d.P.R. n. 633 del 1972 fa alle disposizioni dell'art. 32, terzo e quarto comma, del d.P.R. n. 600 del 1973, si riferisce all’inottemperanza ai soli inviti di cui ai numeri 3 e 4, e non anche all’invito di cui al numero 2 del secondo comma dell’art. 51 del d.P.R. n. 633 del 1972 ;
che, pertanto, l'alternativa in cui si trova il contribuente, secondo quanto lamentato dal remittente, fra l'avvalersi pienamente del "diritto al silenzio" di cui egli usufruisce in sede penale e il fornire elementi che potrebbero giovargli in sede tributaria ma, in ipotesi, nuocergli in altra sede, non realizza alcuna situazione di contrasto con il diritto di difesa, che si esplica in ogni procedimento secondo le regole proprie di questo: bensì attiene alle personali scelte che, di fatto, il contribuente-indagato può compiere circa le modalità e le strategie con le quali difendersi in ciascuno dei distinti procedimenti, fermo restando, in ciascuno di essi, il rispettivo regime probatorio stabilito dalla legge;
che la prospettazione del remittente, secondo cui alla documentazione bancaria dovrebbe attribuirsi valenza probatoria inferiore, nei limiti cioé di una presunzione semplice, quando detta documentazione sia acquisita in sede penale e quindi trasferita in sede tributaria, si risolverebbe in una irragionevole differenza di disciplina rispetto al caso in cui la documentazione predetta sia acquisita direttamente in sede tributaria, e in un ingiustificato favore per il contribuente proprio nei casi in cui si ipotizza una più grave ipotesi di evasione, suscettibile di dar luogo a responsabilità penale;
che la questione proposta si palesa dunque manifestamente infondata.
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell'articolo 32, primo comma, numero 2, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 (Disposizioni comuni in materia di accertamento delle imposte sui redditi), sollevata, in riferimento all'art. 24, secondo comma, della Costituzione, dalla Commissione tributaria regionale di Ancona con le ordinanze in epigrafe;
dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'articolo 51, secondo comma, numero 2, del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 (Istituzione e disciplina dell’imposta sul valore aggiunto), sollevata, in riferimento all'articolo 24, secondo comma, della Costituzione, dalla Commissione tributaria regionale di Ancona con le ordinanze in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 14 febbraio 2002.
Cesare RUPERTO, Presidente
Valerio ONIDA, Redattore
Depositata in Cancelleria il 26 febbraio 2002.