SENTENZA
N. 46
ANNO
2014
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
composta dai signori:
- Gaetano SILVESTRI Presidente
- Luigi MAZZELLA Giudice
- Sabino CASSESE "
- Giuseppe TESAURO "
- Paolo Maria NAPOLITANO "
- Giuseppe FRIGO "
- Alessandro CRISCUOLO "
- Paolo GROSSI "
- Giorgio LATTANZI "
- Aldo CAROSI "
- Marta CARTABIA "
- Sergio MATTARELLA "
- Mario Rosario MORELLI "
- Giancarlo CORAGGIO "
- Giuliano AMATO "
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità
costituzionale dell’art. 2 della legge
della Regione autonoma della Sardegna 23 ottobre 2009, n. 4 (Disposizioni
straordinarie per il sostegno dell’economia mediante il rilancio del settore edilizio
e per la promozione di interventi e programmi di valenza strategica per lo
sviluppo), promosso dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale
di Oristano nel procedimento penale a carico di B.A. con ordinanza
del 23 dicembre 2011, iscritta al n. 77 del registro ordinanze 2012 e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 19, prima serie
speciale, dell’anno 2012.
Visti l’atto di costituzione di B.A. nonchè
l’atto di intervento della Regione autonoma della Sardegna;
udito nell’udienza pubblica dell’11 febbraio 2014 il
Giudice relatore Giuseppe Frigo;
uditi gli avvocati Luigi Marcialis
per B.A. e Massimo Luciani per la Regione autonoma
della Sardegna.
1.– Con ordinanza depositata il 23
dicembre 2011, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Oristano
ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 25, 117 e 118 della Costituzione
e all’art. 3 della legge
costituzionale 26 febbraio 1948, n. 3 (Statuto speciale per la Sardegna),
questione di legittimità costituzionale dell’art. 2 della legge della Regione
autonoma della Sardegna 23 ottobre 2009, n. 4 (Disposizioni straordinarie per
il sostegno dell’economia mediante il rilancio del settore edilizio e per la
promozione di interventi e programmi di valenza strategica per lo sviluppo).
1.1.– Il giudice a quo rileva che la
norma censurata consente, «anche mediante il superamento degli indici massimi
di edificabilità previsti dagli strumenti urbanistici ed in deroga alle vigenti
disposizioni normative regionali, l’adeguamento e l’incremento volumetrico dei
fabbricati ad uso residenziale, di quelli destinati a servizi connessi alla
residenza e di quelli relativi ad attività produttive, nella misura massima,
per ciascuna unità immobiliare, del 20 per cento della volumetria esistente».
Ai sensi dell’art. 10, comma 3, della
medesima legge reg. n. 4 del 2009, gli interventi in questione «sono
assoggettati alla procedura di denuncia di inizio attività (DIA)», fatta
eccezione per talune ipotesi, non rilevanti nel procedimento a quo, nelle quali
«deve essere ottenuta la concessione edilizia».
Riferisce il rimettente che, sulla base
della disciplina regionale ora ricordata, una persona aveva intrapreso, in
qualità di committente, opere di ristrutturazione edilizia intese a ricavare
tre appartamenti in luogo dei due esistenti al piano attico di uno stabile
condominiale sito nel Comune di Oristano, incrementando il volume del
fabbricato tramite la copertura della superficie già occupata dalle terrazze. I
lavori erano, peraltro, iniziati prima dello spirare del termine dilatorio di
trenta giorni dalla presentazione della DIA, previsto dall’art. 23 del d.P.R. 6
giugno 2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari
in materia edilizia – Testo A).
Il 3 novembre 2010 la polizia municipale
aveva, quindi, proceduto di propria iniziativa al sequestro dell’opera:
sequestro i cui effetti erano peraltro decaduti.
In esito a ciò, il pubblico ministero
aveva chiesto al rimettente di disporre il sequestro preventivo dell’immobile,
ritenendo configurabile il reato di cui all’art. 44, comma 1, lettera a), del
d.P.R. n. 380 del 2001, che punisce, tra l’altro, l’inosservanza delle
prescrizioni degli strumenti urbanistici: ciò in quanto, con i lavori in
questione, si sarebbe aumentata la cubatura di un edificio insistente su un
lotto di terreno che, in base agli indici di fabbricabilità previsti dagli
strumenti urbanistici locali, aveva già esaurito la propria capacità
edificatoria.
Nel decidere su tale richiesta, il giudice
a quo aveva sollevato, con ordinanza depositata il 20 dicembre 2010, una prima
questione di legittimità costituzionale dell’art. 2 della legge reg. n. 4 del
2009, in relazione alla quale questa Corte aveva disposto, con ordinanza n. 237
del 2011, la restituzione degli atti al rimettente per un nuovo esame della
rilevanza alla luce della sopravvenuta norma di interpretazione autentica di
cui all’art. 5, comma 2, lettera c), del decreto-legge 3 maggio 2011, n. 70
(Semestre Europeo - Prime disposizioni urgenti per l’economia), convertito, con
modificazioni, dalla legge 12 luglio 2011, n. 106.
1.2.– Ad avviso del Giudice di Oristano,
la questione resterebbe rilevante anche alla luce della disposizione ora
indicata, la quale ha chiarito che l’istituto della segnalazione certificata di
inizio attività (SCIA) – introdotto prima dei fatti oggetto del procedimento
principale dall’art. 49, comma 4-bis, del d.l. 31 maggio 2010, n. 78 (Misure
urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività
economica), convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122 –
sostituisce la DIA nella materia edilizia, salvo che si tratti di DIA
alternativa o sostitutiva del permesso di costruire (cosiddetta «super-DIA»).
Nella specie, non si verterebbe in
quest’ultima ipotesi, giacché gli interventi edilizi previsti dalla norma
censurata sarebbero soggetti, in via generale, a DIA cosiddetta «semplice» – da
ritenere sostituita, dunque, dalla SCIA – e non già a «super-DIA».
Rimarrebbe così confermato quanto
sostenuto con la precedente ordinanza di rimessione: e, cioè, che l’avvenuto
inizio dei lavori in discussione prima dei trenta giorni dalla presentazione
della DIA sarebbe privo di rilievo, in quanto la procedura della SCIA non esige
il rispetto di alcun termine, a partire dalla segnalazione, prima dell’inizio
dell’attività; il che impedirebbe di ravvisare nella fattispecie il reato di
cui alla lettera b) dell’art. 44, comma 1, del d.P.R. n. 380 del 2001, quale
ipotesi di esecuzione di opere edili in assenza del prescritto titolo
abilitativo. L’unico reato configurabile – e in relazione al quale potrebbe
essere disposto il sequestro preventivo richiesto dal pubblico ministero –
sarebbe, dunque, quello di cui alla lettera a) dello stesso articolo, se non
fosse per la possibilità di deroga agli strumenti urbanistici prevista dalla
norma regionale censurata: donde la rilevanza della questione.
In via subordinata, peraltro, il
rimettente assume che la questione resterebbe rilevante anche qualora si
ritenesse che la DIA prevista dalla legge regionale sia alternativa o
sostitutiva del permesso di costruire: ipotesi nella quale – non essendo stata
detta denuncia sostituita dalla SCIA – l’indagata dovrebbe rispondere del reato
di cui alla lettera b), per avere iniziato i lavori prima dei trenta giorni
dalla denuncia.
Nelle more, la fattispecie abilitativa
relativa all’ipotetica «super-DIA» si sarebbe, infatti, comunque perfezionata,
essendo l’anzidetto termine dilatorio da tempo spirato: con la conseguenza che
l’indagato, da un lato, potrebbe continuare a costruire; dall’altro, pur
potendo essere condannato per il reato di cui alla lettera b) in relazione ai
lavori eseguiti ante tempus, non potrebbe essere
assoggettato, con la sentenza di condanna, ad un ordine di demolizione delle
opere, stante il titolo abilitativo sopravvenuto. Ciò imporrebbe, allo stato,
il rigetto della richiesta di sequestro, non risultando la misura funzionale ad
alcuna esigenza preventiva.
La conclusione muterebbe, tuttavia, ove
la norma che ha consentito la formazione di quel titolo abilitativo fosse
dichiarata costituzionalmente illegittima. In tal caso, infatti, l’ordine di
demolizione diverrebbe possibile, stante il consolidato orientamento della
giurisprudenza di legittimità in forza del quale il giudice penale ha il dovere
di verificare, a tale fine, la legittimità del titolo sopravvenuto che consente
la realizzazione del manufatto originariamente abusivo. Inoltre, la
prosecuzione dell’attività edilizia in base a detto titolo comporterebbe la
violazione della lettera a) dell’art. 44, che si aggiungerebbe a quella della
lettera b), già consumata.
La richiesta del pubblico ministero
potrebbe essere, dunque, in questo caso accolta, in quanto il sequestro
risulterebbe funzionale sia «a non frustrare le conseguenze ripristinatorie»
connesse all’accertamento della violazione di cui alla lettera b), sia ad
impedire la prosecuzione del reato di cui alla lettera a).
1.3.– Quanto, poi, alla non manifesta
infondatezza della questione, il giudice a quo ripropone le censure già in
precedenza prospettate, rimarcando come la loro validità non risulti in alcun
modo inficiata dalle modifiche apportate, medio tempore, alla legge regionale
in discussione dalla legge reg. Sardegna 21 novembre 2011, n. 21 (Modifiche e
integrazioni alla legge regionale n. 4 del 2009, alla legge regionale n. 19 del
2011, alla legge regionale n. 28 del 1998 e alla legge regionale n. 22 del
1984, ed altre norme di carattere urbanistico).
Il rimettente rileva, in specie, come la
disciplina dell’attività urbanistica risulti improntata al «sistema della
pianificazione», che assegna in modo preminente ai Comuni – quali enti locali
più prossimi al territorio – la valutazione generale degli interessi coinvolti.
Tale competenza dovrebbe essere esercitata, bensì, nel rispetto delle
prescrizioni regionali, senza, tuttavia, che queste possano esautorare i Comuni
delle loro potestà, operando «le concrete scelte urbanistiche con carattere
immediatamente precettivo». L’assetto ora descritto troverebbe, d’altro canto,
«copertura costituzionale» alla luce tanto dei limiti alle competenze
legislative regionali, quanto delle competenze direttamente attribuite ai
Comuni dagli artt. 117 e 118 Cost.
L’art. 2 della legge reg. n. 4 del 2009,
sul cosiddetto «piano casa», avrebbe per converso introdotto un «elemento […]
di rottura» del sistema, autorizzando in modo diretto ampliamenti volumetrici
dei fabbricati esistenti, senza consentire ai Comuni di conformarli alle
concrete esigenze del territorio o di modificarne i presupposti di operatività
(avuto riguardo, ad esempio, al rapporto con le aree di parcheggio e i servizi
connessi).
La norma censurata violerebbe, per
questo verso, l’art. 117 Cost. e l’art. 3, primo comma, dello Statuto speciale
della Regione autonoma della Sardegna, introducendo una «modalità operativa»,
in campo edilizio, avulsa dalla pianificazione urbanistica, qualificabile, per
quanto detto, come «principio dell’ordinamento giuridico della Repubblica» e
come espressione degli «interessi nazionali rappresentati dal sistema di
composizione degli interessi del territorio».
Detta norma si porrebbe, inoltre, in
contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost., in quanto consentirebbe deroghe
generalizzate alle previsioni dei piani urbanistici comunali in assenza della
valutazione ambientale strategica (VAS), imposta dalla direttiva 27 giugno
2001, n. 2001/42/CE (Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio
concernente la valutazione degli effetti di determinati piani e programmi
sull’ambiente), recepita con decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (Norme
in materia ambientale); nonché con gli artt. 117, sesto comma, ultimo periodo,
e 118 Cost., alla luce dei quali la pianificazione urbanistica costituirebbe
«funzione fondamentale dei comuni e come tale […] oggetto di legislazione
esclusiva dello Stato».
La disposizione denunciata violerebbe
anche l’art. 3 Cost., per contrasto con il principio di eguaglianza, sotto un
triplice profilo. In primo luogo, perché assoggetterebbe alla medesima
disciplina situazioni diverse, consentendo indiscriminatamente aumenti
volumetrici su tutto il territorio regionale, sia nelle zone in cui le esigenze
poste a base del «piano casa» sono già state valutate nell’ambito degli
ordinari poteri pianificatori dei Comuni, sia nelle zone in cui detti aumenti
rispondono effettivamente a un bisogno collettivo. In secondo luogo, perché
creerebbe nel territorio sardo una «zona bianca», sottratta al regime della
pianificazione, a differenza del territorio delle altre Regioni che abbiano
disciplinato il «piano casa» nel rispetto delle prerogative comunali. In terzo
luogo, perché renderebbe penalmente lecita in Sardegna un’attività edilizia
contrastante con gli strumenti urbanistici e, come tale, penalmente repressa
nelle altre Regioni.
La norma censurata violerebbe, infine,
la competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia penale, desumibile
dagli artt. 25 e 117 Cost., venendo a restringere l’ambito applicativo della
norma incriminatrice di cui all’art. 44, comma 1,
lettera a), del d.P.R. n. 380 del 2001, tramite la depenalizzazione tanto degli
interventi edilizi non conformi alla pianificazione, che del superamento della
volumetria massima: operazione, questa, da ritenere inibita alla legislazione
regionale alla luce della costante giurisprudenza della Corte costituzionale.
Il rimettente rimarca, per altro verso,
come la Corte abbia reiteratamente riconosciuto la rilevanza e l’ammissibilità
delle questioni di legittimità costituzionale delle «norme penali di favore»,
in base alla considerazione che il loro accoglimento inciderebbe sulle formule
di proscioglimento, sul dispositivo o sul percorso argomentativo che sorregge
la decisione adottata nel giudizio principale, o produrrebbe comunque un
«effetto di sistema».
2.– È intervenuta la Regione autonoma
della Sardegna, in persona del Presidente della Giunta regionale, chiedendo che
la questione sia dichiarata inammissibile o infondata.
2.1.– Ad avviso dell’interveniente, la
questione sarebbe inammissibile per una pluralità di ragioni.
In primo luogo, per la carente
descrizione dei fatti di causa, la quale si ridurrebbe a una mera parafrasi del
capo di imputazione.
In secondo luogo, per difetto di
motivazione sulla rilevanza, sotto un duplice profilo. Il rimettente, da un
lato, avrebbe svolto le sue argomentazioni in riferimento alla richiesta di
sequestro preventivo del pubblico ministero, senza esprimere un «convincimento
adesivo» ad essa; dall’altro, avrebbe ritenuto ravvisabile, in via alternativa,
il reato di cui alla lettera b) o quello di cui alla lettera a) dell’art. 44,
comma 1, del d.P.R. n. 380 del 2001, senza chiarire in rapporto a quale fra le
due figure criminose ritenga rilevante la questione e senza indicare, altresì,
quale reato sia stato contestato dal pubblico ministero.
La questione sarebbe inammissibile,
ancora, per la mancata puntuale individuazione della norma oggetto delle censure.
Nell’esprimere dubbi in ordine alla legittimità costituzionale «della legge che
consente [il] titolo abilitante» vantato dall’indagata, il rimettente non
avrebbe, infatti, specificato a quale «legge» abbia inteso riferirsi: se, cioè,
alla disposizione che ha introdotto la SCIA (art. 49 del d.l. n. 78 del 2010),
o alla norma di interpretazione autentica che ha precisato che la SCIA non
sostituisce la «super-DIA» (art. 5, comma 2, lettera c, del d.l. n. 70 del
2011), ovvero alla legge reg. n. 4 del 2009 o, ancora, alla legge reg. n. 21
del 2011.
Da ultimo, il rimettente avrebbe
sollecitato una pronuncia in malam partem in materia penale, esorbitante dai poteri della
Corte costituzionale alla luce della sua costante giurisprudenza.
La censura riferita alla violazione del
principio di eguaglianza sarebbe, poi, inammissibile in quanto formulata
genericamente. Essa non terrebbe, infatti, conto della complessa disciplina
racchiusa negli articoli da 2 a 6 della legge reg. n. 4 del 2009, i quali
distinguono i diversi interventi edificatori consentiti dal «piano casa» in
relazione alle differenti tipologie edilizie dei corpi di fabbrica già
esistenti.
2.2.– Nel merito, la questione sarebbe
comunque infondata.
Priva di fondamento sarebbe, anzitutto,
la censura di violazione dell’art. 117 Cost. e dell’art. 3, primo comma, dello
Statuto speciale della Regione Sardegna. Da un lato, infatti – contrariamente a
quanto asserito dal rimettente – la legge reg. n. 4 del 2009 non avrebbe
affatto operato una generale «depianificazione»,
essendosi limitata a consentire circoscritti ampliamenti di determinate
categorie di fabbricati già legittimamente esistenti, e dunque conformi agli
strumenti urbanistici. Dall’altro, la tesi in base alla quale la pianificazione
costituirebbe il solo possibile meccanismo di governo del territorio sarebbe
ampiamente smentita dalla legislazione positiva e da tempo abbandonata dalla
dottrina.
Parimenti insussistente sarebbe
l’asserito contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost., giacché la norma
censurata non avrebbe introdotto alcuna deroga alle disposizioni sui
procedimenti di valutazione ambientale strategica, che attengono ad un diverso
ambito di materia (la «tutela dell’ambiente», e non l’«edilizia ed
urbanistica»). In ogni caso, la normativa statale richiede che i piani già
approvati siano sottoposti a VAS solo se le modificazioni che si vogliono
introdurre possano avere effetti significativi sull’ambiente: ipotesi, questa,
da ritenere «esclusa a priori» per gli interventi edificatori disciplinati
dalla legge regionale in esame.
Insussistente sarebbe anche la
denunciata violazione degli artt. 117, sesto comma, ultimo periodo, e 118
Cost., per asserita compromissione delle competenze dei Comuni in tema di
pianificazione urbanistica. La censura trascurerebbe che la materia «edilizia
ed urbanistica» è attribuita alla potestà legislativa primaria della Regione
Sardegna dall’art. 3, primo comma, lettera f), dello statuto: potestà che
rimarrebbe svuotata di significato se la riserva allo Stato della
determinazione delle funzioni fondamentali dei Comuni avesse la portata
assoluta attribuitale dall’ordinanza di rimessione.
L’impostazione del giudice a quo
risulterebbe, inoltre, incoerente con la disposizione del secondo comma
dell’art. 118 Cost., in base alla quale il compito di attribuire ai Comuni le
varie funzioni amministrative è affidato alla «legge statale o regionale,
secondo le rispettive competenze»: laddove, per converso, nella prospettazione del rimettente, le competenze regionali
risulterebbero radicalmente escluse. La Regione Sardegna è, d’altro canto,
titolare, per disposizione statutaria, anche della competenza legislativa
esclusiva in materia di «ordinamento degli enti locali e delle rispettive
circoscrizioni» (art. 3, primo comma, lettera b, dello statuto), in base alla
quale potrebbe definire quali siano le funzioni demandate ai Comuni.
Quanto, poi, alla censura di violazione
del principio di eguaglianza (art. 3 Cost.), correlata al fatto che la norma
censurata consentirebbe aumenti di volumetria su tutto il territorio regionale
a prescindere dalla verifica delle esigenze concrete, essa poggerebbe
sull’erronea premessa che la legge regionale permetta di edificare
indiscriminatamente, quando invece essa consente interventi limitati alle parti
del territorio che il piano ha già riconosciuto come concretamente destinate
all’edificazione e che, anzi, sono state già oggetto di effettiva
trasformazione nei sensi indicati dal piano.
Con riguardo, infine, alla dedotta
invasione della competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia penale,
occorrerebbe considerare che la legge regionale in esame costituisce attuazione
dell’intesa sul «piano casa» adottata il 31 marzo 2009 in sede di Conferenza
unificata. Sarebbe pertanto paradossale se le norme in questione fossero poste
nel nulla in nome dell’esigenza di garantire pretese attribuzioni dello Stato,
quando è proprio quest’ultimo ad averle sollecitate.
Significativo sarebbe, del resto, il
fatto che lo Stato non abbia mai impugnato norme legislative adottate in
attuazione dell’intesa da Regioni ordinarie, di contenuto analogo a quella oggi
sottoposta a scrutinio, mostrando così di ritenerle rientranti nella competenza
di dette Regioni. A fortiori, dunque, l’adozione di simili norme dovrebbe
ritenersi permessa alla Regione Sardegna, titolare, per statuto, di competenza
legislativa piena in materia di «edilizia ed urbanistica».
La conclusione troverebbe, inoltre,
conforto nella giurisprudenza costituzionale e, in particolare, nella sentenza n. 487 del
1989 della Corte, secondo la quale non sarebbe sufficiente che una legge
regionale determini indirette conseguenze in materia penale perché si possa
ritenere che essa abbia invaso il campo riservato alla legislazione statale. Se
così non fosse, d’altro canto, lo Stato, «brandendo l’arma dello ius puniendi», potrebbe non solo
limitare, ma addirittura eliminare ogni spazio di autonomia legislativa per le
Regioni, ivi comprese quelle speciali, anche nelle materie di loro competenza
piena.
3.– Si è costituita altresì B.A.,
persona sottoposta alle indagini nel procedimento a quo, chiedendo che la
questione sia dichiarata inammissibile o respinta nel merito.
3.1.– Dopo aver analiticamente esposto
lo svolgimento della vicenda concreta, la parte privata assume che la questione
sarebbe inammissibile per difetto di rilevanza, giacché le opere edilizie di
cui si discute, al momento della loro esecuzione, erano pienamente lecite in
base alla norma regionale denunciata: con la conseguenza che, anche in caso di
accoglimento della questione, dovrebbe comunque applicarsi la normativa vigente
al momento del fatto, in quanto lex mitior.
Al riguardo, sarebbe inconferente
il richiamo del giudice a quo alla sentenza n. 148 del
1983, in tema di norme penali di favore. A differenza delle norme allora
poste all’attenzione della Corte costituzionale, la disposizione in esame non
sarebbe, infatti, «norma di diritto penale, ma di diritto amministrativo», onde
non vi sarebbe l’esigenza di evitare la creazione di «zone franche»
dell’ordinamento, sottratte al sindacato di costituzionalità, potendo la
questione essere sollevata anche dal giudice amministrativo. Nella specie,
inoltre, la questione si inserisce nella fase delle indagini preliminari, la
quale non potrebbe concludersi altrimenti che con un provvedimento di
archiviazione: sicché la declaratoria di illegittimità costituzionale non
potrebbe avere le implicazioni individuate dalla Corte nella citata sentenza,
quale la possibilità di incidere sulle formule di proscioglimento o sul
dispositivo della sentenza penale.
Un ulteriore motivo di inammissibilità
si connetterebbe al fatto che il giudice a quo non avrebbe tentato di offrire
una interpretazione conforme a Costituzione della norma censurata.
3.2.– Nel merito, la questione sarebbe
manifestamente infondata.
La Regione avrebbe, infatti, esercitato
la propria potestà legislativa nel rispetto delle previsioni costituzionali,
essendo la materia edilizia ed urbanistica di competenza regionale ai sensi
dell’art. 117 Cost. ed espressamente prevista, altresì, dall’art. 3 dello
Statuto speciale della Regione Sardegna.
Riguardo, poi, all’asserita violazione
dell’art. 118 Cost., se pure è indubbio che le funzioni amministrative spettino
ai Comuni e che la pianificazione urbanistica rientri tra queste, esse non
potrebbero comunque prescindere dalle indicazioni fornite dalle norme legislative
statali e regionali vigenti, tra le quali si colloca quella oggetto di
scrutinio.
Insussistente sarebbe, inoltre, la
violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., con riferimento alla direttiva n.
2001/42/CE, giacché, per un verso, tale direttiva concernerebbe i piani e i
programmi elaborati o adottati da un’autorità a livello nazionale, regionale o
locale, rendendo quindi irrilevante la distinzione tra Stato, Regione ed ente
locale; per altro verso, la predetta direttiva prevede, all’art. 3, paragrafo
3, un’eccezione alla necessità della valutazione ambientale strategica e
consente, in tal caso, una libera scelta degli Stati membri attraverso i
competenti organi dotati di potestà legislative.
Per quanto riguarda, infine, la dedotta
violazione degli artt. 117, sesto comma, e 118 Cost., l’affermazione secondo
cui la funzione comunale di pianificazione sarebbe stata completamente
esautorata risulterebbe eccessiva, posto che la norma regionale prevede un
semplice ampliamento volumetrico dei fabbricati, legato a precisi presupposti e
circoscritto entro limiti ben determinati.
4.– Tanto la Regione che la parte
privata hanno depositato memorie illustrative, con le quali hanno insistito
nelle conclusioni già formulate, ribadendo e sviluppando gli argomenti addotti
a loro sostegno.
1.– Il Giudice per le indagini
preliminari del Tribunale di Oristano dubita della legittimità costituzionale
dell’art. 2 della legge della Regione autonoma della Sardegna 23 ottobre 2009,
n. 4 (Disposizioni straordinarie per il sostegno dell’economia mediante il
rilancio del settore edilizio e per la promozione di interventi e programmi di
valenza strategica per lo sviluppo), nella parte in cui consente l’ampliamento
dei fabbricati ad uso residenziale, di quelli destinati a servizi connessi alla
residenza e di quelli relativi ad attività produttive, entro il limite del
venti per cento della volumetria esistente, «anche mediante il superamento
degli indici massimi di edificabilità previsti dagli strumenti urbanistici».
La norma censurata violerebbe,
anzitutto, l’art. 117 della Costituzione e l’art. 3, primo comma, della legge
costituzionale 26 febbraio 1948, n. 3 (Statuto speciale per la Sardegna), in
quanto, autorizzando in modo diretto e immediato ampliamenti volumetrici dei
fabbricati in deroga alle previsioni degli strumenti urbanistici, si porrebbe
in contrasto con il «sistema della pianificazione» – qualificabile come
«normativa di principio dell’ordinamento giuridico della Repubblica» e come
espressione «degli interessi nazionali rappresentati dal sistema di
composizione degli interessi del territorio» – che assegna in modo preminente
ai Comuni, quali enti locali più vicini al territorio, la valutazione generale
degli interessi coinvolti nell’attività urbanistica ed edilizia.
La norma denunciata violerebbe, inoltre,
l’art. 117, primo comma, Cost., in quanto consentirebbe deroghe generalizzate
alle previsioni dei piani urbanistici comunali in assenza della valutazione
ambientale strategica, imposta dalla direttiva 27 giugno 2001, n. 2001/42/CE
(Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio concernente la valutazione
degli effetti di determinati piani e programmi sull’ambiente); nonché gli artt.
117, sesto comma, ultimo periodo, e 118 Cost., in quanto esautorerebbe i Comuni
delle loro competenze in tema di pianificazione urbanistica: materia
qualificabile come «funzione fondamentale dei comuni» e, in quanto tale,
oggetto di legislazione esclusiva dello Stato.
La disposizione regionale violerebbe
anche l’art. 3 Cost., per contrasto con il principio di eguaglianza, sotto un
triplice profilo. In primo luogo, perché assoggetterebbe alla medesima
disciplina situazioni diverse, consentendo aumenti volumetrici sia nelle zone
in cui le esigenze da considerare sono già state oggetto di valutazione
nell’ambito degli ordinari poteri pianificatori dei Comuni, sia nelle zone in
cui detti aumenti rispondono effettivamente a un bisogno collettivo. In secondo
luogo, perché creerebbe nel territorio sardo una «zona bianca», sottratta al
regime della pianificazione, a differenza del territorio di altre Regioni. In
terzo luogo, perché renderebbe lecita in Sardegna un’attività edilizia
contrastante con gli strumenti urbanistici, penalmente repressa nelle altre
parti del territorio nazionale.
La norma censurata violerebbe, infine,
la competenza esclusiva dello Stato in materia penale, sancita dagli artt. 25 e
117 Cost., venendo a restringere la sfera applicativa della norma incriminatrice di cui all’art. 44, comma 1, lettera a), del
decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380 (Testo unico
delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia – Testo A),
tramite la depenalizzazione tanto degli interventi edilizi non conformi alla
pianificazione, che del superamento della volumetria massima.
2.– In via preliminare, va rilevato che
la questione viene risollevata dopo che, in relazione ad una precedente
ordinanza di rimessione emessa nel medesimo procedimento, questa Corte aveva
disposto la restituzione degli atti al giudice a quo per un nuovo esame della
rilevanza alla luce dello ius superveniens, rappresentato dalla norma di
interpretazione autentica di cui all’art. 5, comma 2, lettera c), del
decreto-legge 13 maggio 2011, n. 70 (Semestre Europeo – Prime disposizioni
urgenti per l’economia), convertito, con modificazioni, dalla legge 12 luglio
2011, n. 106, la quale ha chiarito entro quali limiti l’istituto della
segnalazione certificata di inizio attività (SCIA) sostituisca quello della
denuncia di inizio attività (DIA) nella materia edilizia (ordinanza n. 237
del 2011). In quell’occasione, infatti, il rimettente aveva basato la
valutazione di rilevanza della questione sul presupposto che la DIA, prevista
dalla legge reg. n. 4 del 2009 per l’esecuzione delle opere oggetto del
procedimento a quo, fosse stata senz’altro sostituita dalla SCIA: laddove, per
converso, in base alla norma dianzi citata, tale fenomeno non si verifica
quando si tratti di una DIA alternativa o sostitutiva del permesso di
costruire.
Con l’odierna ordinanza di rimessione,
il giudice a quo rimodula l’iter argomentativo, assumendo che la questione
resterebbe rilevante tanto ove si ritenga che, alla luce della norma in parola,
la SCIA abbia surrogato la DIA richiesta dalla legge regionale (ipotesi nella
quale l’attività dell’indagata sarebbe suscettibile di configurare il solo
reato di cui alla lettera a dell’art. 44, comma 1, del d.P.R. n. 380 del 2001,
trattandosi di ampliamento di un fabbricato oltre i limiti massimi di
edificabilità stabiliti dagli strumenti urbanistici); quanto ove si opti per la
soluzione opposta, prospettata dal rimettente in via subordinata (nel qual caso
l’indagata potrebbe essere chiamata a rispondere, in tesi, sia del reato di cui
alla lettera b del medesimo articolo, con riguardo ai lavori eseguiti prima
della scadenza del termine dilatorio di trenta giorni dalla presentazione della
DIA, sia, e di nuovo, del reato di cui alla lettera a, quanto ai lavori
successivi a detta scadenza).
In riferimento ad entrambe le ipotesi,
il giudice a quo ha rilevato, a comprova dell’assunto, che la possibilità di
ravvisare il reato di cui alla lettera a) – e, conseguentemente, di disporre il
sequestro preventivo richiesto dal pubblico ministero al fine di evitare la
prosecuzione di un’attività edilizia contra
legem – resta subordinata alla dichiarazione di
illegittimità costituzionale della norma regionale censurata, sulla cui base
l’indagata ha operato, la quale consente ampliamenti volumetrici dei fabbricati
esistenti anche in deroga agli indici massimi di edificabilità previsti dagli
strumenti urbanistici.
Si tratta di una prospettazione
non implausibile, e tanto basta ai fini
dell’ammissibilità della questione, a prescindere dalle obiezioni cui si
espongono gli ulteriori e concorrenti argomenti sviluppati dal rimettente, che
non occorre pertanto qui esaminare.
3.– Infondata è, poi, l’eccezione di
inammissibilità della questione, formulata, sotto diverse angolazioni, tanto
dalla Regione che dalla parte privata sul rilievo che il rimettente mira
inequivocabilmente a conseguire una pronuncia in malam partem
in materia penale.
Per giungere a tale conclusione non è
necessario far richiamo all’orientamento della giurisprudenza di questa Corte,
invocato dal giudice a quo, che ritiene ammissibile il sindacato di legittimità
costituzionale, anche in malam partem, sulle
cosiddette norme penali di favore (ex plurimis, sentenze n. 79 del 2009,
n. 324 del 2008,
n. 148 del 1983):
qualifica che pure potrebbe competere alla norma censurata alla luce del
criterio di identificazione basato sul paradigma della "specialità sincronica”,
ossia sull’esistenza di un rapporto di specialità tra le norme poste a
raffronto (nel frangente, la norma regionale censurata e l’art. 44, comma 1,
lettera a, del d.P.R. n. 380 del 2001) e sulla loro contemporanea presenza
nell’ordinamento (sentenza
n. 394 del 2006).
Nel caso in esame, è dirimente il
rilievo, logicamente prioritario, che la preclusione delle pronunce in malam partem non può venire comunque in considerazione quando
sia in discussione non il "quomodo” dell’esercizio
della potestà legislativa, ma la stessa idoneità della fonte di produzione
normativa.
Secondo la giurisprudenza da tempo
costante di questa Corte, l’impedimento all’adozione di pronunce di
illegittimità costituzionale di segno sfavorevole per il reo si radica non già in
una ragione meramente processuale – di irrilevanza, nel senso che l’eventuale
decisione di accoglimento non potrebbe trovare comunque applicazione nel
giudizio a quo, alla luce del principio di irretroattività delle norme penali
sfavorevoli – quanto piuttosto in una ragione di ordine sostanziale,
intimamente connessa al principio della riserva di legge espresso dall’art. 25,
secondo comma, Cost. Demandando il potere di normazione
in materia penale, in quanto incidente sui diritti fondamentali dell’individuo
(e, in particolare, sulla libertà personale), all’istituzione che costituisce
la massima espressione della rappresentanza politica – ossia al Parlamento,
eletto a suffragio universale dall’intera collettività nazionale (sentenze n. 230 del 2012,
n. 394 del 2006
e n. 487 del
1989) – detto principio impedisce alla Corte sia di creare nuove
fattispecie criminose o di estendere quelle esistenti a casi non previsti, sia
di incidere in peius
sulla risposta punitiva o su aspetti comunque inerenti alla punibilità (ex plurimis,
ordinanze n. 285
del 2012, n.
204, n. 66
e n. 5 del 2009).
Ma se l’esclusione delle pronunce in malam partem mira a salvaguardare il monopolio del
«soggetto-Parlamento» sulle scelte di criminalizzazione, voluto dall’art. 25,
secondo comma, Cost., sarebbe del tutto illogico che detta preclusione possa
scaturire da interventi normativi operati da soggetti non legittimati, proprio
perché non rappresentativi dell’intera collettività nazionale – quale il
Governo, che si serva dello strumento del decreto legislativo senza il supporto
della legge di delegazione parlamentare (come nel caso recentemente esaminato
dalla sentenza
n. 5 del 2014), ovvero un Consiglio regionale (come nel caso oggi in esame)
– i quali pretendano, in ipotesi, di "neutralizzare” le scelte effettuate da
chi detiene quel monopolio. In simili evenienze, l’eventuale decisione in malam partem della Corte non solo
non collide con la previsione dell’art. 25, secondo comma, Cost., ma vale, anzi,
ad assicurarne il rispetto.
Quanto, poi, al versante processuale,
questa Corte ha ancora di recente ribadito che a rendere ammissibili le
questioni incidentali è sufficiente che la norma impugnata sia applicabile nel
giudizio a quo (come certamente avviene nel caso oggi in esame) e, dunque, a
determinare effetti su di esso, senza che rilevi il "senso” di tali effetti per
le parti in causa (sentenza n. 294 del
2011). La valutazione «del modo in cui il sistema normativo reagisce ad una
sentenza costituzionale di accoglimento» non è, infatti, compito di questa
Corte, «in quanto la stessa spetta al giudice del processo principale, unico
competente a definire il giudizio da cui prende le mosse l’incidente di
costituzionalità» (sentenza n. 28 del
2010). Spetterebbe, pertanto, all’odierno rimettente stabilire le puntuali
conseguenze applicative che potrebbero derivare da una eventuale sentenza di
accoglimento della questione oggi sollevata (sentenza n. 5 del
2014), quale, in specie, la possibilità di accedere alla richiesta di
sequestro preventivo del pubblico ministero, sebbene l’attività edilizia in
discussione si sia svolta sinora nel vigore della norma regionale "liceizzante”, in assunto illegittimamente emanata. La
pronuncia di accoglimento influirebbe, in ogni caso, sull’esercizio della
funzione giurisdizionale per ragioni analoghe a quelle evidenziate da questa
Corte in rapporto alle norme penali di favore (sentenze n. 394 del 2006
e n. 148 del
1983), mutando le premesse normative della decisione che il rimettente è
chiamato ad assumere: detta decisione, infatti, anche se di segno favorevole
per l’indagata, dovrebbe fondarsi su un presupposto diverso dall’insussistenza
di un fatto riconducibile al paradigma punitivo astratto.
Si aggiunga, con specifico riferimento
all’odierno thema decidendum,
che questa Corte ha, già in passato, reiteratamente scrutinato nel merito – e
in più occasioni accolto – questioni di legittimità costituzionale in malam partem aventi ad oggetto norme regionali, sollevate
nell’ambito di giudizi penali (ex plurimis, sentenze n. 234 del 1995,
n. 110 e n. 96 del 1994,
n. 437, n. 307, n. 306 del 1992,
n. 504, n. 213, n. 117 e n. 14 del 1991).
4.– Le ulteriori eccezioni di inammissibilità
formulate dalla Regione e dalla parte privata sono parimenti infondate.
Per quanto attiene alle eccezioni della
Regione, non è ravvisabile, anzitutto, un’omessa descrizione dei fatti di
causa, giacché dall’ordinanza di rimessione emergono in modo adeguato e
puntuale i passaggi salienti della vicenda concreta sulla quale il giudice a
quo è chiamato a pronunciarsi, nei termini in precedenza riferiti.
Neppure è riscontrabile l’eccepito
difetto di motivazione sulla rilevanza, per essersi il rimettente limitato a
richiamare la richiesta di sequestro preventivo del pubblico ministero, senza
esprimere un «convincimento adesivo» ad essa. Il giudice a quo deduce, infatti,
chiaramente che, ove non vi fosse la norma censurata, potrebbero essere riconosciuti
i presupposti della misura richiesta, sia sotto il profilo del fumus commissi delicti che delle esigenze cautelari.
Il rimettente non ha, per altro verso,
prospettato alcuna alternativa irrisolta tra la possibilità di contestare il
reato di cui alla lettera b) o quello di cui alla lettera a) dell’art. 44,
comma 1, del d.P.R. n. 380 del 2001: ha prospettato invece – come già ricordato
– due ipotesi in via subordinata tra loro (che si configuri il solo reato di
cui alla lettera a, se la DIA prevista dalla legge regionale fosse stata
sostituita dalla SCIA; che si configurino entrambi i reati, nel caso opposto).
Contrariamente a quanto asserito dalla Regione, il giudice a quo ha, inoltre,
chiaramente indicato quale reato è stato ipotizzato dal pubblico ministero nel
formulare la richiesta di sequestro (quello di cui alla lettera a).
Non si coglie, infine, alcuna ambiguità
od oscurità nell’individuazione del testo normativo oggetto delle censure, inequivocamente identificato dal rimettente nell’art. 2 della
legge reg. n. 4 del 2009.
Quanto, poi, all’eccezione di
inammissibilità per omessa sperimentazione di una interpretazione
costituzionalmente orientata, formulata dalla parte privata, essa risulta del
tutto generica, non essendo spiegato in qual modo la norma censurata – univoca
nel consentire interventi edilizi con «superamento degli indici massimi di
edificabilità previsti dagli strumenti urbanistici» – potrebbe essere letta in
modo tale da superare i dubbi di legittimità costituzionale prospettati dal
rimettente.
5.– Nel merito, la questione non è
fondata.
La legge reg. Sardegna n. 4 del 2009
costituisce attuazione dell’intesa sul cosiddetto «piano casa», raggiunta tra
Stato, Regioni ed enti locali in sede di Conferenza unificata il 31 marzo 2009
e formalmente sancita con deliberazione della medesima Conferenza del 1° aprile
2009: intesa promossa dal Governo, con la dichiarata finalità di rilancio
dell’economia, tramite la ripresa dell’attività edilizia, quale misura per far
fronte alla situazione di crisi.
Oggetto dell’intesa era l’impegno delle
Regioni ad approvare, entro novanta giorni, proprie leggi – con «validità
temporalmente definita, comunque non superiore a 18 mesi» – le quali
consentissero: a) incrementi, entro il venti per cento della volumetria
esistente, di edifici residenziali uni o bifamiliari o comunque di volumetria
non superiore ai mille metri cubi; b) interventi straordinari di demolizione e
ricostruzione di edifici a destinazione residenziale, con ampliamento entro il
limite del trentacinque per cento della volumetria esistente (venendo,
peraltro, espressamente esclusa la possibilità di operare su «edifici abusivi o
nei centri storici o in aree di inedificabilità
assoluta»). Le Regioni si sono impegnate, per altro verso, ad introdurre «forme
semplificate e celeri per l’attuazione» delle opere di cui si discute.
Sono state fatte salve, in ogni caso,
sia l’«autonomia legislativa regionale» nel promuovere ulteriori forme di
incentivazione volumetrica e diverse tipologie di intervento e nel definire gli
ambiti nei quali gli interventi sono esclusi o limitati; sia – e più in
generale – «ogni prerogativa costituzionale delle regioni a statuto speciale e
delle province autonome».
6.– Le Regioni hanno dato attuazione
all’intesa, munendosi di proprie leggi sul «piano casa», recanti discipline
piuttosto variegate quanto all’ampiezza e alle modalità degli interventi
consentiti. La larga maggioranza delle leggi regionali ha d’altro canto
previsto, con diverse formule, che gli interventi di ampliamento possano essere
realizzati anche in deroga alle prescrizioni degli strumenti urbanistici
localmente vigenti, e particolarmente di quelle relative ai limiti volumetrici.
Nella medesima direzione si è mossa
anche la Regione Sardegna, con la citata legge n. 4 del 2009. Per quanto qui
interessa, l’art. 2 di detta legge – norma oggi impugnata – consente, al comma
1, «anche mediante il superamento degli indici massimi di edificabilità
previsti dagli strumenti urbanistici ed in deroga alle vigenti disposizioni
normative regionali, l’adeguamento e l’incremento volumetrico dei fabbricati ad
uso residenziale, di quelli destinati a servizi connessi alla residenza e di
quelli relativi ad attività produttive, nella misura massima, per ciascuna
unità immobiliare, del 20 per cento della volumetria esistente» (intendendosi
per volumetria esistente «quella realizzata alla data del 31 marzo 2009»).
Il comma 2 dello stesso art. 2 – dopo
aver richiesto, in via generale, che gli adeguamenti ed incrementi si
inseriscano «in modo organico e coerente con i caratteri formali e
architettonici del fabbricato esistente» e che costituiscano «strumento per la
riqualificazione dello stesso» – diversifica le possibili modalità
dell’intervento a seconda della tipologia del fabbricato (uni o bifamiliare,
sottotetto, singolo piano, ecc.).
Nei successivi commi dell’art. 2 sono
indicati, altresì, i casi nei quali l’incremento consentito della volumetria è
aumentato (commi 3 e 8), ovvero diminuito (commi 4 e 5).
Gli interventi in questione (al pari di
quelli previsti, per determinate categorie di immobili, dagli artt. 3, 4 e 6
della legge in questione) non possono comunque avere ad oggetto edifici abusivi
o immobili di particolare interesse (artistico, storico, archeologico, ecc.:
art. 8, comma 1).
Fatta eccezione per talune ipotesi, gli
interventi «sono assoggettati alla procedura di denuncia di inizio attività»,
da avviare entro diciotto mesi dall’entrata in vigore della legge (art. 10,
commi 3 e 4; termine peraltro prorogato da leggi successive).
7.– Ciò premesso, deve escludersi che la
norma censurata violi gli artt. 117 Cost. e 3, primo comma, dello Statuto
speciale della Regione Sardegna, in ragione del suo asserito contrasto con il
«sistema della pianificazione», che assegna in modo preminente ai Comuni, quali
enti locali più vicini al territorio, la valutazione generale degli interessi
coinvolti nell’attività urbanistica ed edilizia.
L’art. 117 Cost. – il cui terzo comma
attribuisce alle Regioni potestà legislativa concorrente in materia di «governo
del territorio» – è parametro, per questo verso, inconferente
alla luce della "clausola di maggior favore” dettata dall’art. 10 della legge
costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda
della Costituzione). L’art. 3, primo comma, lettera f), dello statuto
riconosce, infatti, alla Regione Sardegna una autonomia più ampia di quella
risultante dalla norma costituzionale generale, attribuendole potestà
legislativa primaria, ossia piena, nella materia dell’«edilizia ed
urbanistica», entro la quale si colloca la norma censurata.
Quanto, poi, al parametro statutario,
anche riconoscendo che il «sistema della pianificazione» – evocato, peraltro,
dal rimettente in modo del tutto generico, senza alcun riferimento alle
relative fonti normative – assurga a «principio dell’ordinamento giuridico
della Repubblica» e ad espressione degli «interessi nazionali», limitando
perciò l’esplicazione della competenza legislativa regionale di cui discute, è
dirimente il rilievo che il principio in questione non potrebbe ritenersi così
assoluto e stringente da impedire alla legge regionale – che è fonte normativa
primaria, sovraordinata rispetto agli strumenti
urbanistici locali – di prevedere interventi in deroga quantitativamente, qualitativamente
e temporalmente circoscritti, come quelli di cui si discute.
Al riguardo, deve infatti escludersi che
la norma censurata assuma una vera e propria valenza "eversiva” del «sistema di
pianificazione», così come sostiene il rimettente. Gli incrementi volumetrici,
in deroga agli indici massimi di edificabilità previsti dagli strumenti
urbanistici, sono infatti da essa consentiti – in via straordinaria e
temporanea e con modalità specifiche, diverse a seconda delle tipologie di
fabbricati – solo su edifici già esistenti e che si presuppongono conformi alle
predette previsioni urbanistiche (essendo espressamente esclusi, come detto,
gli edifici abusivi), nonché alla condizione – verificabile dai competenti
organi comunali ai fini dell’eventuale esercizio del potere inibitorio delle
opere dopo la presentazione della DIA – che gli incrementi stessi «si
inseriscano in modo organico e coerente con i caratteri architettonici del
fabbricato esistente» e costituiscano «strumento per la riqualificazione dello
stesso in relazione alla tipologia edilizia interessata».
Specifiche ipotesi di interventi edilizi
in deroga agli strumenti urbanistici sono state e sono, del resto, previste da
numerose norme regionali – tanto di Regioni ordinarie che a statuto speciale –
anche per finalità diverse dall’attuazione dell’intesa sul «piano casa» (quali,
ad esempio, il recupero a fini abitativi dei sottotetti esistenti o il sostegno
a soggetti portatori di handicap): norme che questa Corte ha ritenuto
censurabili non in assoluto, ma ove la deroga investa profili evocativi di
specifici titoli di competenza legislativa esclusiva dello Stato, quale, in
particolare, la disciplina delle distanze tra i fabbricati posta dal decreto
ministeriale 2 aprile 1968, n. 1444, rientrante nella materia dell’«ordinamento
civile» (al riguardo, ordinanza n. 173
del 2011). Ipotesi, questa, non riscontrabile – né dedotta – nel caso in
esame.
8.– Considerazioni analoghe valgono
anche ad escludere la configurabilità della denunciata violazione degli artt.
117, sesto comma, ultimo periodo, e 118 Cost., per avere la norma censurata
«esautorato» i Comuni delle loro competenze in tema di pianificazione
urbanistica: materia qualificabile, in assunto, come «funzione fondamentale»
dei Comuni stessi e, in quanto tale, oggetto di legislazione esclusiva dello
Stato (ai sensi della lettera p dell’art. 117, secondo comma, Cost.).
A prescindere da ogni altro rilievo – e,
in particolare, dalla circostanza, trascurata dal rimettente, che lo statuto di
autonomia riconosce alla Regione Sardegna potestà legislativa primaria, non
solo in materia di «edilizia ed urbanistica», ma anche di «ordinamento degli
enti locali» (art. 3, lettera b) e stabilisce, altresì, il principio del
parallelismo tra funzioni legislative e funzioni amministrative (art. 6) – non
si può comunque addebitare alla norma denunciata, così come ritiene il giudice
a quo, di aver "svuotato” le funzioni comunali in tema di pianificazione
urbanistica, posto che essa si limita a consentire ampliamenti volumetrici di
edifici esistenti ad una certa data in deroga agli indici massimi di
fabbricabilità, collegati a specifici presupposti e circoscritti in limiti ben
determinati.
9.– Insussistente è anche la violazione
dell’art. 117, primo comma, Cost., connessa, secondo il rimettente, al fatto
che la norma denunciata consentirebbe deroghe alla pianificazione comunale
anche in assenza della valutazione ambientale strategica (VAS), richiesta dalla
direttiva n. 2001/42/CE, recepita con il decreto legislativo 3 aprile 2006, n.
152 (Norme in materia ambientale).
Analogamente a quanto già rilevato da
questa Corte in ipotesi similari, si deve in effetti escludere che la disposizione
censurata eluda la disciplina considerata. Essa regola, infatti, soltanto i
profili urbanistici degli interventi di ampliamento, senza recare alcuna
clausola di esclusione dell’applicabilità della normativa sulla VAS: normativa
che, d’altra parte, essendo di portata generale, trova applicazione nei casi da
essa previsti senza necessità di uno specifico richiamo (sentenza n. 168 del
2010, con riferimento alla valutazione di impatto ambientale; con riguardo
alla VAS, sentenza
n. 251 del 2013).
10.– Parimenti infondata è la censura di
violazione della competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia penale
(artt. 25 e 117 Cost.), per avere la norma denunciata reso lecita in Sardegna
una condotta (l’edificazione in contrasto con gli strumenti urbanistici) che,
in base all’art. 44, comma 1, lettera a), del d.P.R. n. 380 del 2001, dovrebbe
rimanere invece soggetta a pena.
Questa Corte ha infatti riconosciuto che
la legislazione regionale – pur non potendo costituire fonte diretta e autonoma
di norme penali, né nel senso di introdurre nuove incriminazioni, né in quello
di rendere lecita un’attività penalmente sanzionata dall’ordinamento nazionale
(a quest’ultimo riguardo, ex plurimis, sentenze n. 185 del 2004,
n. 504, n. 213 e n. 14 del 1991)
– può, tuttavia, «concorrere a precisare, secundum legem, i presupposti di applicazione di norme penali
statali», svolgendo, in pratica, «funzioni analoghe a quelle che sono in grado
di svolgere fonti secondarie statali»: ciò, particolarmente quando la legge
statale «subordini effetti incriminatori o
decriminalizzanti ad atti amministrativi (o legislativi) regionali» (il
riferimento è, in particolare, alle cosiddette norme penali in bianco: sentenze
n. 63 del 2012
e n. 487 del
1989).
Nella specie, è pacifico che il citato
art. 44, comma 1, lettera a), del d.P.R. n. 380 del 2001 – che punisce con
l’ammenda fino a 20.658 euro le trasformazioni del territorio operate in
violazione di norme, prescrizioni e modalità esecutive previste dal Titolo IV
dello stesso decreto, nonché dai regolamenti edilizi, dagli strumenti
urbanistici e dal permesso di costruire – configuri una norma penale in bianco.
Essa rinvia, infatti, ad una serie di altre fonti normative, primarie e secondarie,
e ad atti amministrativi per l’individuazione dei precetti penalmente
sanzionati.
11.– Per quanto riguarda, infine, le
censure concernenti la lesione del principio di eguaglianza (art. 3 Cost.) –
escluso che possa ravvisarsi il profilo di inammissibilità per genericità
eccepito dalla Regione – è sufficiente osservare che si tratta di doglianze
meramente "ancillari” rispetto a quelle prospettate in riferimento agli altri
parametri, precedentemente esaminate, delle quali condividono pertanto la
sorte.
È evidente, in particolare, che la
denunciata diversità di regime tra il territorio sardo e altre parti d’Italia
(fermo restando, peraltro, che la larga maggioranza delle altre Regioni ha
adottato una disciplina più o meno analoga a quella censurata in tema di «piano
casa») in tanto potrebbe integrare, ex se, una violazione dell’art. 3 Cost., in
quanto si neghi la spettanza alla Regione del potere di incidere, con proprie
norme, sulla materia considerata. è fisiologicamente connaturata allo stesso
principio regionalistico, la possibilità di regimi differenziati della stessa
fattispecie tra Regione e Regione, giustificando così sia la specifica
regolamentazione della pianificazione nella Regione Sardegna, sia il compimento
di attività edilizie contrastanti con gli strumenti urbanistici, penalmente
sanzionate in altre Regioni.
12.– La questione va dichiarata, dunque,
non fondata in rapporto a tutti i parametri evocati.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 2 della legge della Regione autonoma della Sardegna 23 ottobre 2009,
n. 4 (Disposizioni straordinarie per il sostegno dell’economia mediante il
rilancio del settore edilizio e per la promozione di interventi e programmi di
valenza strategica per lo sviluppo), sollevata, in riferimento agli artt. 3,
25, 117 e 118 della Costituzione e all’art. 3 della legge costituzionale 26
febbraio 1948, n. 3 (Statuto speciale per la Sardegna ), dal Giudice per le
indagini preliminari del Tribunale di Oristano con l’ordinanza indicata in
epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della
Corte costituzionale, Palazzo della Consulta il 10 marzo 2014.
F.to:
Gaetano SILVESTRI, Presidente
Giuseppe FRIGO, Redattore
Massimiliano BONI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 13 marzo 2014.