SENTENZA N. 230
ANNO 2012
Commenti alla
decisione di
I. Antonio Ruggeri, Penelope alla Consulta: tesse
e sfila la tela dei suoi rapporti con la Corte EDU, con significativi richiami
ai tratti identificativi della struttura dell’ordine interno e distintivi
rispetto alla struttura dell’ordine convenzionale ("a prima lettura” di Corte
cost. n. 230 del 2012), in questa ,
nella Sezione "Studi e Commenti”, 2012
II. Antonio Ruggeri, Ancora a margine di Corte
cost. n. 230 del 2012, post scriptum, in questa ,
nella Sezione "Studi e Commenti”, 2012
III. Valerio Napoleoni, Mutamento
di giurisprudenza in bonam
partem e revoca del giudicato di condanna:
altolà della Consulta a prospettive avanguardistiche di (supposto) adeguamento
ai dicta della Corte di Strasburgo, per
gentile concessione di Diritto
Penale Contemporaneo
IV.
Francesca Colombi, Gli
strumenti di garanzia dei diritti fondamentali fra Costituzione e Cedu: riserva di legge e base legale. Riflessioni a margine
di un obiter dictum di
Corte cost. sent. 8 ottobre
2012, n. 230, per g.c. della Rivista AIC
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta
dai signori:
- Alfonso QUARANTA Presidente
- Franco GALLO Giudice
- Luigi MAZZELLA ”
- Gaetano SILVESTRI ”
- Sabino CASSESE
”
- Giuseppe TESAURO ”
- Paolo Maria NAPOLITANO ”
- Giuseppe FRIGO ”
- Alessandro CRISCUOLO ”
- Paolo GROSSI ”
- Giorgio LATTANZI ”
- Aldo CAROSI ”
- Marta CARTABIA ”
- Sergio MATTARELLA ”
- Mario Rosario MORELLI ”
ha
pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’articolo
673 del codice di procedura penale, promosso dal Tribunale di Torino nel
procedimento di esecuzione nei confronti di D.M. con ordinanza depositata il 21
luglio 2011, iscritta al n. 3 del registro ordinanze 2012 e pubblicata nella Gazzetta
Ufficiale della Repubblica n. 5, prima serie speciale, dell’anno 2012.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 23 maggio 2012 il Giudice
relatore Giuseppe Frigo.
Ritenuto in
fatto
1.– Con ordinanza depositata il 21
luglio 2011, il Tribunale di Torino, in composizione monocratica, ha sollevato questione
di legittimità costituzionale dell’articolo 673 del codice di procedura penale,
«nella parte in cui non prevede l’ipotesi di revoca della sentenza di condanna
(o di decreto penale di condanna o di sentenza di applicazione della pena su
concorde richiesta delle parti) in caso di mutamento giurisprudenziale –
intervenuto con decisione delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione – in
base al quale il fatto giudicato non è previsto dalla legge penale come reato»,
deducendo la violazione degli articoli 3, 13, 25, secondo comma, e 27, terzo
comma, della Costituzione, nonché dell’art. 117, primo comma, Cost., in
relazione agli artt. 5, 6 e 7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950,
ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848 (d’ora in avanti:
«CEDU»).
Il rimettente è chiamato a provvedere,
quale giudice dell’esecuzione, sull’istanza del pubblico ministero di revoca
parziale, ai sensi dell’art. 673 cod. proc. pen., della sentenza di
applicazione della pena su richiesta delle parti, emessa il 9 luglio 2010 dal
Tribunale di Torino nei confronti di una persona nata in Mali e divenuta
irrevocabile il 9 marzo
Il giudice a quo osserva come, a seguito della modifica di detta disposizione
ad opera della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di
sicurezza pubblica), sia sorta questione in ordine alla perdurante
applicabilità o meno della fattispecie agli stranieri irregolarmente presenti
nel territorio dello Stato (non provvisti, in quanto tali, del permesso di
soggiorno): interrogativo al quale
Il giudice a quo rileva, tuttavia, come il caso sottoposto al suo esame non
risulti «perfettamente riconducibile al fenomeno dell’abolitio criminis». Il fatto giudicato con la
sentenza della cui revoca si discute è stato, infatti, commesso in data
successiva a quella di entrata in vigore della legge n. 94 del 2009
(segnatamente, l’11 giugno 2010) e, dunque, in un momento nel quale la norma
incriminatrice di cui all’art. 6, comma 3, del d.lgs. n. 286 del 1998 risultava
già formulata nei termini attuali. Non si sarebbe, pertanto, di fronte ad un
fenomeno di successione nel tempo di leggi (intese come «fonti formali»), ma ad
una successione nel tempo di diverse interpretazioni giurisprudenziali della
medesima «fonte formale»: in altri termini, il pubblico ministero avrebbe
sollecitato la revoca parziale della sentenza a fronte di una abolitio criminis
conseguente, non già ad un intervento legislativo, ma ad un mutamento di
giurisprudenza.
L’art. 673 cod. proc. pen. non prende,
tuttavia, in considerazione tale fattispecie, prevedendo la revoca della
sentenza di condanna passata in giudicato nei soli casi di abrogazione e di
dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice; né,
d’altra parte, sarebbe possibile estendere in via analogica la disposizione
censurata all’ipotesi in questione, a causa della natura eccezionale dei poteri
di intervento in executivis
sulla pronuncia del giudice della cognizione. La giurisprudenza di legittimità
risulta, del resto, ferma nel negare che l’art. 673 cod. proc. pen. possa
trovare applicazione in presenza di un mutamento giurisprudenziale che escluda
la rilevanza penale di fatti analoghi a quello già giudicato, non costituendo
detto mutamento uno «ius superveniens»,
neppure ove consegua a una pronuncia delle Sezioni unite della Corte di
cassazione.
Il giudice a quo dubita, tuttavia, della legittimità costituzionale di tale
«approdo», evidenziando come, con riferimento tanto al cosiddetto «giudicato
esecutivo» (correlato alla preclusione prevista dall’art. 666, comma 2, cod.
proc. pen.), quanto al cosiddetto «giudicato cautelare» (istituto elaborato in
via giurisprudenziale),
Gli argomenti addotti a sostegno di tale
diverso indirizzo – legati, per un verso, al necessario rispetto dei principi
di eguaglianza e di retroattività dei trattamenti punitivi più favorevoli,
«anche in un’ottica europea», e, per altro verso, alla funzione nomofilattica
esercitata dalle Sezioni unite – non potrebbero non valere anche con riguardo
alla revoca delle sentenze passate in giudicato, a fronte di un sopravvenuto
mutamento di giurisprudenza con il quale si affermi che un determinato fatto
non è previsto dalla legge come reato.
In questa prospettiva, il giudice a quo reputa che la norma censurata
violi, anzitutto, l’art. 117, primo comma, Cost., ponendosi in contrasto sia
con l’art. 7 che con gli artt. 5 e 6 della CEDU.
Premesso che – per giurisprudenza costituzionale
ormai costante – le norme della CEDU, nel significato loro attribuito dalla
Corte europea dei diritti dell’uomo, integrano, quali «norme interposte», il
parametro costituzionale evocato, nella parte in cui impone la conformazione
della legislazione interna ai vincoli derivanti dagli obblighi internazionali,
il rimettente reputa pienamente conferenti, agli odierni fini, le
considerazioni svolte dalle Sezioni unite della Corte di cassazione nella
sentenza 21 gennaio 2010-13 maggio 2010, n. 18288, a proposito del cosiddetto
«giudicato esecutivo».
Si rileva in questa sentenza che l’art.
7 della CEDU, pur enunciando formalmente il solo divieto di applicazione
retroattiva della norma penale a svantaggio dell’imputato, è stato interpretato
dalla Corte europea come espressivo del più generale principio di legalità in
materia penale, nelle sue diverse manifestazioni (determinatezza della
fattispecie incriminatrice, divieto di analogia in malam partem). La portata della norma convenzionale è
stata estesa, altresì, sino a comprendervi il principio – implicito – di
retroattività della legge penale meno severa (Corte
europea dei diritti dell’uomo, Grande Camera, sentenza 17 settembre 2009,
Scoppola contro Italia): principio che, d’altra parte – per reiterata
affermazione della Corte di giustizia dell’Unione europea – trova
riconoscimento anche nel diritto dell’Unione, in quanto appartenente alle
tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri.
Al tempo stesso,
Su tale premessa
Particolarmente significative, in ordine
alla rilevanza da attribuire al cosiddetto «diritto giurisprudenziale»,
risulterebbero, altresì, le pronunce della Corte di giustizia che hanno
ritenuto applicabile il principio di irretroattività anche alla nuova
interpretazione in senso sfavorevole di una norma sanzionatoria, ove detta
interpretazione non risultasse ragionevolmente prevedibile nel momento della
commissione dell’infrazione (Corte
di giustizia, sentenza 8 febbraio 2007, ricorso C-3/06 P, Groupe
Danone contro Commissione).
In questo quadro, ove non si considerasse
l’ipotesi del mutamento giurisprudenziale alla luce dell’art. 7 della CEDU, si
rischierebbe, da un lato, «di depotenziare la portata di quella norma (e la sua
funzione garantista)» e, dall’altro, di porre il nostro ordinamento in
contrasto anche con i principi ricavabili dagli artt. 5 e 6 della CEDU.
Tale conclusione si imporrebbe non
soltanto in rapporto ai mutamenti giurisprudenziali sfavorevoli agli imputati –
riguardo ai quali viene in rilievo il valore della «prevedibilità» dell’esito
interpretativo – ma anche in relazione ai mutamenti giurisprudenziali
favorevoli, che chiamerebbero in gioco il principio di retroattività del
trattamento penale più mite. Negando ogni rilievo a tali mutamenti, l’art. 673
cod. proc. pen. violerebbe, dunque, l’art. 7 della CEDU e, con esso, l’art.
117, primo comma, Cost.: in tal modo, infatti, una persona potrebbe essere
privata della libertà (o esposta ad una ulteriore privazione di essa) in
relazione ad un fatto che, reputato in origine penalmente illecito, non è più
considerato tale, successivamente alla condanna definitiva, dalla
giurisprudenza «che si consolida nel diritto vivente».
L’auspicato intervento della Corte
costituzionale, volto a rendere compatibile l’art. 673 cod. proc. pen. con
l’art. 7 della CEDU, si porrebbe, d’altra parte, «in linea di assoluta
coerenza» con altri principi costituzionali, che l’attuale formulazione della
norma denunciata rischierebbe parimenti di ledere.
Lo stesso legislatore ordinario assegna,
in effetti, un «ruolo di preminenza» alla giurisprudenza di legittimità, in
funzione di orientamento della giurisprudenza successiva, oltre che dei
comportamenti dei consociati. L’art. 65 del regio decreto 30 gennaio 1941, n.
12 (Ordinamento giudiziario) individua, infatti, nella Corte di cassazione
«l’organo supremo della giustizia», incaricato di «assicura[re] l’esatta
osservanza e l’uniforme interpretazione della legge, l’unità del diritto
oggettivo nazionale». Plurime norme processuali – in particolare, quelle degli
artt. 610, comma 2, e 618, comma 1, cod. proc. pen. e dell’art. 172 disp. att. cod. proc. pen. – attribuiscono, poi, una
«posizione di particolare preminenza» alle Sezioni unite della Corte di
cassazione, cui vengono assegnati i ricorsi quando le questioni trattate sono
di speciale importanza o quando occorre dirimere contrasti insorti tra le
decisioni delle singole sezioni.
Anche la giurisprudenza costituzionale
riconoscerebbe un «decisivo rilievo» al «diritto vivente», specie se
«cristallizzato» a seguito di interventi delle Sezioni unite, al punto da
reputare inammissibili le questioni di legittimità costituzionale sollevate da
ordinanze che lo trascurino.
La funzione nomofilattica attribuita
dall’ordinamento alla Corte di cassazione – e alle Sezioni unite in particolare
– riposerebbe, d’altra parte, su esigenze di rilievo costituzionale, quali
quelle di assicurare l’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge (art. 3
Cost.) e di consentire ai consociati di prevedere le conseguenze giuridiche dei
propri atti, così da poter operare consapevoli scelte di azione (artt. 25 e 27
Cost.).
Dovendosi, dunque, presupporre che le
decisioni successive si conformino «tendenzialmente» al «diritto vivente», la
scelta legislativa di continuare a punire – non revocando la sentenza di
condanna – chi abbia tenuto un comportamento che, secondo il «diritto vivente
sopravvenuto», originato da una decisione delle Sezioni unite, non è più
previsto dalla legge come reato, si paleserebbe manifestamente irragionevole.
Essa verrebbe a ledere tanto il principio «di (tendenziale) retroattività della
normativa penale più favorevole», desumibile dagli artt. 3 e 25, secondo comma,
Cost.; quanto il principio di eguaglianza (art. 3, primo comma, Cost.),
originando il rischio che persone che hanno commesso il medesimo fatto vengano
trattate in modo diverso per evenienze puramente casuali e, comunque, non
riconducibili a loro scelte (quale il semplice ordine di trattazione dei
processi).
La soluzione legislativa censurata
violerebbe, altresì, l’art. 13 Cost., venendo a privilegiare «ragioni di tutela
dell’ordinamento» – in specie, quelle di certezza del diritto e di tendenziale
stabilità delle decisioni – rispetto a «precise esigenze di libertà della
persona».
Nell’ipotesi di cui si discute, inoltre,
l’esecuzione della pena non svolgerebbe più alcuna funzione né sul piano della
retribuzione o della prevenzione (sia essa generale o speciale) – non essendovi
alcuna ragione perché tali funzioni si esplichino in rapporto a un
comportamento che, secondo il diritto vivente sopravvenuto, non costituisce
reato – né sul piano della rieducazione del condannato, in quanto il fatto
commesso, alla luce del nuovo assetto giurisprudenziale che ne esclude la
rilevanza penale, non richiederebbe più alcuna attività rieducativa. Di qui, dunque,
la violazione anche dell’art. 27, terzo comma, Cost.
Non gioverebbe, d’altra parte, obiettare
che l’accoglimento della questione – attribuendo un ruolo «para-normativo» alle
pronunce della Corte di cassazione – rischierebbe di «ingessare» la giurisprudenza
e di inibire, così, la funzione evolutiva che essa storicamente ha sempre avuto
nel nostro ordinamento, «imponendo una deviazione della nostra tradizione
giuridica di civil law [verso] quella propria degli
ordinamenti di common law».
L’obiezione non sarebbe in effetti
persuasiva, specie ove si tenga conto dei limiti dell’intervento richiesto
(volto a valorizzare, non qualsiasi mutamento giurisprudenziale, ma solo quelli
conseguenti a pronunce delle Sezioni unite e che affermino l’irrilevanza penale
di un certo fatto), nonché dei valori che vengono in rilievo (il favor rei, in una prospettiva di tutela
della libertà personale). In ogni caso, anche in esito alla pronuncia invocata,
resterebbero possibili ulteriori mutamenti della giurisprudenza, anche in senso
sfavorevole all’imputato (in particolare, nel senso di ritenere riconducibile
ad una determinata ipotesi di reato un fatto già considerato ad essa estraneo).
Un simile mutamento di giurisprudenza varrebbe, tuttavia, solo per il processo
nel quale la questione controversa è stata discussa e assumerebbe un valore
orientativo delle successive decisioni solo a partire dalla data di
pubblicazione della sentenza che lo esprime.
La questione sarebbe, da ultimo,
rilevante nel giudizio a quo,
giacché, nel caso di suo accoglimento, diverrebbe possibile esaminare la
richiesta del pubblico ministero – che altrimenti andrebbe respinta – e
rideterminare eventualmente la pena inflitta al condannato.
2.– È intervenuto il Presidente del
Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello
Stato, chiedendo che la questione venga dichiarata inammissibile per difetto di
rilevanza o, in subordine, manifestamente infondata.
Ad avviso della difesa dello Stato, la
questione sarebbe priva di rilevanza, giacché, nel caso sottoposto all’esame
del giudice a quo, si sarebbe in
presenza di una abolitio criminis
legislativa, conseguente alla modifica dell’art. 6, comma 3, del d.lgs. n. 286
del 1998 attuata dall’art. 1, comma 22, lettera h), della legge n. 94 del 2009. Il giudice rimettente potrebbe,
pertanto, pronunciarsi sulla richiesta a lui rivolta applicando direttamente
l’art. 673 cod. proc. pen., senza alcuna necessità di sollevare una questione
di legittimità costituzionale relativa alla mancata inclusione dei mutamenti
giurisprudenziali tra le ipotesi prese in considerazione da detta norma.
Nel merito, la questione sarebbe
comunque priva di fondamento.
L’art. 673 cod. proc. pen. prevede la
revoca della sentenza di condanna (o del decreto penale di condanna) allorché
la norma incriminatrice sia stata abrogata o dichiarata incostituzionale in
epoca successiva al passaggio in giudicato. La disposizione richiederebbe
presupposti rigorosi perché significative sono le conseguenze che scaturiscono
dalla sua applicazione: il provvedimento di revoca comporta, infatti, la
cessazione dell’esecuzione della sentenza e dei suoi effetti penali. Affinché
un risultato di tale spessore possa prodursi sarebbe necessaria la
sopravvenienza di un fatto modificativo «radicale», che non solo incida sulla
norma che ha fondato il giudizio di condanna, ma che presenti, altresì – come
nei casi attualmente previsti dalla disposizione censurata – i caratteri della
generalità e della intrinseca e tendenziale stabilità, nell’assicurare
l’irrilevanza penale di una determinata condotta. Il precedente
giurisprudenziale, per converso, fa stato solo nel procedimento penale cui si
riferisce e non è ulteriormente vincolante, potendo essere contraddetto da una
decisione successiva, emessa da qualsiasi giudice della Repubblica.
Né sarebbe possibile pervenire a
conclusioni difformi con riguardo alle pronunce delle Sezioni unite della Corte
di cassazione. Malgrado l’indubbio «prestigio» di cui godono tali pronunce, i
principi di diritto da esse affermati restano suscettibili di modifica e di
evoluzione, anche su impulso delle sezioni singole. Riconoscere una «così
straordinaria vis espansiva» alla
pronuncia di legittimità, sia pure delle Sezioni unite, non si concilierebbe
col criterio di ragionevolezza e produrrebbe, altresì, un effetto di «ingessamento» della giurisprudenza, a torto sottovalutato
dal rimettente.
Una diversa soluzione non si
giustificherebbe neppure sulla base delle decisioni della Corte di Strasburgo
relative all’art. 7 della CEDU, cui fa riferimento il giudice a quo, trattandosi di pronunce che, pur
valorizzando l’interpretazione giurisprudenziale, la relegherebbero comunque
«ad un ruolo eventuale e sub-legislativo, nel senso che deve essere comunque la
lettura del precetto a segnare il confine tra ciò che è lecito e ciò che è
sanzionato penalmente». In ogni caso, un eventuale diverso indirizzo della
Corte europea dei diritti dell’uomo non potrebbe mai legittimare interventi
contrastanti con l’art. 25 della nostra Costituzione, che, richiamando sempre e
soltanto la legge formale, non consentirebbe soluzioni del genere di quella
auspicata dal rimettente. L’unica eccezione sarebbe rappresentata dalle
sentenze della Corte di giustizia che, interpretando in maniera autoritativa il
diritto dell’Unione europea con effetto diretto per gli Stati membri e le
relative giurisdizioni, incidano sul sistema normativo impedendo la
configurabilità del reato. Solo in questo caso l’effetto risulterebbe
paragonabile a quello della legge sopravvenuta.
Esclusa, con ciò, la fondatezza della
denuncia di violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., alla medesima
conclusione dovrebbe pervenirsi anche in rapporto agli altri parametri
costituzionali evocati dal giudice a quo.
Quanto all’art. 3 Cost., nessuna lesione
del principio di eguaglianza potrebbe scorgersi in presenza di un mutamento –
sempre reversibile – degli orientamenti giurisprudenziali.
Con riguardo all’art. 13 Cost., le
«precise esigenze di libertà della persona», richiamate nell’ordinanza di rimessione,
costituirebbero «un concetto vago e fumoso, difficilmente conciliabile con i
profili esclusivamente tecnici della questione».
In ordine, poi, all’art. 25, secondo
comma, Cost., non pertinente sarebbe il richiamo del giudice a quo al «principio di (tendenziale)
retroattività della normativa penale più favorevole», trattandosi di principio
non costituzionalizzato, diversamente da quello che vieta la condanna in forza
di una legge entrata in vigore successivamente alla commissione del fatto. Ciò,
fermo restando che entrambi i principi si riferiscono comunque alla legge, e
non già all’interpretazione che di essa venga data dai giudici.
Da ultimo, non sarebbe neppure configurabile una
lesione dell’art. 27, terzo comma, Cost. La finalità rieducativa della pena
andrebbe, infatti, sempre riconosciuta a fronte di condotte che mantengano la
loro rilevanza penale, almeno fino a quando tale rilevanza non venga esclusa da
una legge abrogatrice o da una pronuncia della Corte
costituzionale.
Considerato
in diritto
1.– Il Tribunale di Torino dubita della
legittimità costituzionale dell’articolo 673 del codice di procedura penale,
nella parte in cui non include, tra le ipotesi di revoca della sentenza di
condanna (nonché del decreto penale e della sentenza di applicazione della pena
su richiesta delle parti), anche il «mutamento giurisprudenziale», determinato
da una decisione delle Sezioni unite della Corte di cassazione, in base al
quale il fatto giudicato non è previsto dalla legge come reato.
Ad avviso del giudice a quo, la norma censurata violerebbe,
per questo verso, l’art. 117, primo comma, della Costituzione, ponendosi in
contrasto con l’art. 7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali (d’ora in avanti: «CEDU»): disposizione
che – secondo l’interpretazione datane dalla Corte europea dei diritti
dell’uomo – da un lato, sancisce implicitamente anche il principio di
retroattività dei trattamenti penali più favorevoli e, dall’altro, ingloba nel
concetto di «legalità» in materia penale non solo il diritto di produzione
legislativa, ma anche quello di derivazione giurisprudenziale; con conseguente
possibile lesione anche degli artt. 5 e 6 della CEDU, che tutelano,
rispettivamente, il diritto alla libertà e alla sicurezza e il diritto all’equo
processo.
La norma denunciata violerebbe, altresì,
l’art. 3 Cost. A fronte dell’esplicita valorizzazione, da parte dello stesso
legislatore ordinario, della funzione nomofilattica della Corte di cassazione
(art. 65 del regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12, recante l’«Ordinamento
giudiziario») e particolarmente di quella svolta dalle Sezioni unite di detta
Corte (artt. 610, comma 1, e 618, comma 1, cod. proc. pen.; art. 172 disp. att. cod. proc. pen.), la scelta di continuare a
punire l’autore di un fatto che, secondo il «diritto vivente sopravvenuto»,
ricostruito con decisione resa dalle Sezioni unite, non è più previsto dalla
legge come reato, risulterebbe manifestamente irragionevole e lesiva del
principio di eguaglianza. In tal modo, persone che hanno commesso fatti
identici rischierebbero di essere trattate in modo radicalmente differenziato
per evenienze puramente casuali, quale il semplice ordine di trattazione dei
processi.
La soluzione normativa censurata si
porrebbe, altresì, in contrasto «con il principio di (tendenziale)
retroattività della normativa penale più favorevole», desumibile dagli artt. 3
e 25, secondo comma, Cost., e violerebbe anche l’art. 13 Cost., privilegiando
ragioni di «tutela dell’ordinamento» – quali quelle di certezza del diritto e
di stabilità delle decisioni – rispetto a «precise esigenze di libertà della
persona».
Risulterebbe leso, infine, l’art. 27,
terzo comma, Cost., giacché, nell’ipotesi considerata, l’esecuzione della pena
rimarrebbe priva di scopo: né la funzione retributiva, né quella di prevenzione
generale o speciale, né, ancora, la rieducazione del condannato avrebbero,
infatti, alcuna ragion d’essere a fronte della commissione di un fatto che,
alla luce dell’assetto giurisprudenziale sopravvenuto, deve considerarsi privo
di rilevanza penale.
2.– Va preliminarmente rilevato come il
problema esegetico, sorto nel procedimento in cui si è proposto il quesito di
costituzionalità, attenga all’individuazione dei confini soggettivi di
operatività della contravvenzione di omessa esibizione di documenti, prevista
dall’art. 6, comma 3, del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle
disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla
condizione dello straniero).
Nel vigore del testo originario della
norma, le Sezioni unite della Corte di cassazione – componendo il contrasto di
giurisprudenza insorto sul punto – avevano ritenuto che del reato potessero
rispondere anche gli stranieri illegalmente presenti nel territorio dello
Stato. La disposizione puniva, infatti, con le pene congiunte dell’arresto e
dell’ammenda gli stranieri che, «senza giustificato motivo», non esibissero, a
richiesta degli ufficiali e degli agenti di pubblica sicurezza, due categorie
di documenti, in via alternativa fra loro: il passaporto o altro documento di
identificazione, «ovvero» il permesso o la carta di soggiorno. La circostanza
che, alla luce di tale dettato normativo, l’esibizione di uno qualsiasi dei
documenti in questione fosse sufficiente ad escludere il reato, dimostrava –
secondo le Sezioni unite – come l’incriminazione mirasse unicamente a
permettere la sicura identificazione dello straniero, e non anche a verificarne
la regolare presenza nel territorio dello Stato: prospettiva nella quale la
fattispecie appariva riferibile anche al soggiornante irregolare, cui non era
preclusa la possibilità – ancorché non in possesso, per detta qualità, del
permesso o della carta di soggiorno – di esibire il passaporto o altro
documento di identificazione (Cass., sez. un., 29 ottobre 2003-27 novembre
2003, n. 45801).
La riscrittura della norma
incriminatrice, successivamente operata dalla legge 15 luglio 2009, n. 94
(Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), ha generato, peraltro,
immediati dubbi in ordine alla perdurante validità della conclusione ora
ricordata: problema che
Di contrario avviso si sono mostrate,
tuttavia, le Sezioni unite, alle quali la prima Sezione, con ordinanza dell’11
novembre
3.– Ciò premesso, l’eccezione di
inammissibilità della questione per difetto di rilevanza – sollevata
dall’Avvocatura dello Stato sul rilievo che nella specie si sarebbe di fronte
ad una abolitio criminis
dipendente da successione di leggi nel tempo, già rientrante nell’ambito di
operatività dell’art. 673 cod. proc. pen. (l’avvenuta modifica dell’art. 6,
comma 3, del d.lgs. n. 286 del 1998 ad opera della legge n. 94 del 2009) – non
è fondata.
Il giudice a quo è chiamato, in effetti, a pronunciarsi sull’istanza di revoca
parziale di una sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti,
formulata dal pubblico ministero sulla base del principio affermato dalle
Sezioni unite nella citata sentenza n. 16453 del 2011. Come si sottolinea,
peraltro, nell’ordinanza di rimessione, il fatto giudicato con la sentenza
della cui revoca si discute è stato commesso in data successiva a quella di
entrata in vigore della legge n. 94 del 2009 e, dunque, in un momento nel quale
la norma incriminatrice di cui all’art. 6, comma 3, del d.lgs. n. 286 del 1998
risultava già formulata nei termini attuali: il che esclude che la successione
tra il vecchio e il nuovo testo di detta norma possa venire in considerazione,
come fenomeno atto a rendere operante il precetto dell’art. 2, secondo comma,
cod. pen., al quale la disposizione processuale dell’art. 673 cod. proc. pen.
è, per questo verso, correlata («nessuno può essere punito per un fatto che,
secondo una legge posteriore» – s’intende, alla commissione di tale fatto –
«non costituisce reato e, se vi è stata condanna, ne cessano l’esecuzione e gli
effetti penali»). Il problema dirimente, nella prospettiva del giudice a quo, è unicamente quello del modo in
cui la norma incriminatrice già vigente al momento della realizzazione del
fatto, e tuttora in vigore, debba essere interpretata: se, cioè, essa si
rivolga o meno anche agli stranieri illegalmente soggiornanti, a prescindere da
quale fosse il regime operante anteriormente alla novella del 2009.
Ne consegue che non può ritenersi implausibile l’assunto sulla cui base il giudice a quo reputa rilevante la questione
sollevata: ossia che la richiesta di revoca sottoposta al suo vaglio si basa
sulla successione nel tempo, non già di leggi, ma di diverse interpretazioni
giurisprudenziali della medesima norma di legge (l’esegesi più lata, quanto ai
soggetti attivi, del novellato art. 6, comma 3, del d.lgs. n. 286 del 1998,
inizialmente adottata dalle sezioni singole della Corte di cassazione – cui
risulta allineata la sentenza revocanda – e quella di
segno restrittivo, in seguito accolta dalle Sezioni unite).
4.– Neppure può ravvisarsi una ragione
di inammissibilità della questione nel fatto che il giudice a quo non si sia premurato di verificare
se – una volta esclusa l’applicabilità del vigente art. 6, comma 3, del d.lgs.
n. 286 del 1998 agli stranieri irregolarmente soggiornanti – l’inottemperanza
da parte di tali soggetti all’ordine di esibizione dei documenti di
identificazione, anziché restare priva di rilievo penale, possa eventualmente
integrare altra fattispecie criminosa più generale, tuttora presente
nell’ordinamento: in specie, quella risultante dalla disposizione combinata
dell’art. 294 del regio decreto 6 maggio 1940, n. 635 (Approvazione del
regolamento per l’esecuzione del testo unico 18 giugno 1931, n. 773 delle leggi
di pubblica sicurezza) – secondo cui «la carta d’identità od i titoli
equipollenti devono essere esibiti ad ogni richiesta degli ufficiali e degli
agenti di pubblica sicurezza» – e dell’art. 221 del r.d. 18 giugno 1931, n. 773
(Approvazione del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza), che punisce
la violazione del predetto precetto con le pene alternative dell’arresto o
dell’ammenda. Ove tale ipotesi risultasse valida, verrebbe, in effetti, meno il
presupposto di operatività dell’art. 673 cod. proc. pen., essendosi al
cospetto, non di una abolitio criminis, ma
di una cosiddetta abrogatio sine abolitione,
rientrante nel paradigma della semplice successione di leggi modificatrici, in
ordine alla quale l’applicazione retroattiva della lex mitior (quale sarebbe la fattispecie
prevista dalla legislazione in materia di pubblica sicurezza dianzi ricordata)
incontra, in base all’art. 2, quarto comma, cod. pen., il limite del giudicato.
Al riguardo, è peraltro assorbente la
considerazione che, con la questione sollevata, il giudice a quo chiede di estendere il meccanismo di revoca disciplinato dall’art.
673 cod. proc. pen. al mutamento di giurisprudenza conseguente a una decisione
delle Sezioni unite della Corte di cassazione, la quale affermi che il fatto
già giudicato non è previsto dalla legge come reato: e ciò – come meglio si
chiarirà più avanti – senza possibili margini di scostamento del giudice
dell’esecuzione dalla soluzione interpretativa adottata dall’organo della
nomofilachia.
Nella specie, la citata sentenza delle
Sezioni unite n. 16543 del 2011 – pur senza affrontare il problema dianzi
evidenziato – ha comunque affermato, in termini inequivoci, che in rapporto
all’omessa esibizione dei documenti da parte dello straniero illegalmente
soggiornante è intervenuta un’abolitio criminis: il che, stante la formulazione del petitum, basta,
dunque, a rendere rilevante la questione sollevata.
5.– Corretto – e comunque rispondente
alla corrente lettura della norma censurata da parte della Corte di cassazione
– appare anche il presupposto ermeneutico su cui poggia il quesito di
costituzionalità, rappresentato dall’estraneità del fenomeno del «mutamento
giurisprudenziale» all’area applicativa dell’istituto della «revoca della
sentenza per abolizione del reato», quale attualmente delineato dall’art. 673
cod. proc. pen.
Di riflesso alle norme sostanziali di
cui agli artt. 2, secondo comma, cod. pen. e 30, quarto comma, della legge 11
marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte
costituzionale), ma con previsione che ne muta la prospettiva d’intervento –
facendo incidere la valenza «demolitoria» dell’abolitio criminis direttamente sulla sentenza del
giudice della cognizione, anziché sulla sola esecuzione di essa (sentenza n. 96 del
1996) – l’art. 673 cod. proc. pen. stabilisce, infatti, al comma 1, che,
nel caso di abrogazione o di dichiarazione di illegittimità costituzionale
della norma incriminatrice, il giudice dell’esecuzione revoca la sentenza o il
decreto penale di condanna (formula che ricomprende, secondo una lettura ormai
pacifica, anche la sentenza di applicazione della pena su richiesta delle
parti), dichiarando che il fatto non è previsto dalla legge come reato e
adottando i provvedimenti conseguenti. La norma censurata prende, dunque, in
considerazione due fenomeni, entrambi riconducibili, in senso ampio, al
paradigma dell’«abolizione del reato», richiamato nella rubrica: per effetto
dell’intervento del legislatore o in seguito alla declaratoria di illegittimità
costituzionale da parte di questa Corte, la fattispecie incriminatrice, in
relazione alla quale è stata emessa la pronuncia divenuta irrevocabile, viene,
infatti, espunta dall’ordinamento giuridico.
La giurisprudenza di legittimità ha ritenuto
estensibile l’istituto anche al caso di sopravvenienza di una sentenza della
Corte di giustizia dell’Unione europea che affermi l’incompatibilità della
norma incriminatrice interna con il diritto dell’Unione avente effetto diretto
per gli Stati membri, stante la sostanziale equiparabilità di detta pronuncia –
la quale impedisce in via generale ai giudici nazionali di fare applicazione
della norma considerata – ad una legge sopravvenuta, con portata abolitrice del
reato (nella giurisprudenza di questa Corte, sull’idoneità delle sentenze della
Corte di giustizia a costituire ius superveniens, ex plurimis, ordinanze n. 311
del 2011, n.
241 del 2005 e n. 125 del 2004).
La stessa giurisprudenza di legittimità
ha, per converso, escluso che possano collocarsi nel perimetro applicativo
dell’art. 673 cod. proc. pen. fenomeni attinenti alle semplici dinamiche
interpretative della norma incriminatrice, quali il mutamento di giurisprudenza
e la risoluzione di contrasti giurisprudenziali, ancorché conseguenti a
decisioni delle Sezioni unite della Corte di cassazione. Si è rilevato,
infatti, che un orientamento giurisprudenziale, per quanto autorevole, non ha
la stessa efficacia delle ipotesi previste dalla norma censurata, stante il
difetto di vincolatività della decisione rispetto a quelle dei giudici chiamati
ad occuparsi di fattispecie analoghe: circostanza che impedisce di considerare
i fenomeni dianzi indicati alla stregua di uno ius novum.
6.– Il giudice a quo reputa, tuttavia, costituzionalmente necessaria una modifica
di tale assetto, chiedendo segnatamente a questa Corte di aggiungere al novero
dei presupposti di operatività della revoca anche il «mutamento
giurisprudenziale – intervenuto con decisione delle Sezioni Unite della Corte
di cassazione – in base al quale il fatto giudicato non è previsto dalla legge
penale come reato».
7.– Se pure ammissibile per le ragioni
dianzi esposte, la questione non è, tuttavia, nel merito, fondata.
La prima e fondamentale censura svolta
dal rimettente – quella di violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., per
contrasto con l’art. 7 della CEDU, così come interpretato dalla Corte di
Strasburgo – trova il suo presupposto nell’orientamento di questa Corte,
costante a partire dalle sentenze n. 348
e n. 349 del
2007, in forza del quale le norme della CEDU, nel significato loro
attribuito dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, specificamente istituita
per dare ad esse interpretazione e applicazione, integrano, quali «norme
interposte», il parametro costituzionale evocato, nella parte in cui impone la
conformazione della legislazione interna ai vincoli derivanti dagli obblighi
internazionali (ex plurimis,
tra le ultime, sentenze
n. 78 del 2012, n. 303, n. 236 e n. 113 del 2011):
ciò, peraltro, nei limiti in cui la norma convenzionale, come interpretata
dalla Corte europea – la quale si pone pur sempre a livello sub-costituzionale
– non venga a trovarsi in conflitto con altre conferenti previsioni della
Costituzione italiana (sentenze n. 303,
n. 236 e n. 113 del 2011,
n. 93 del 2010,
n. 317 e n. 311 del 2009),
e ferma restando, altresì, la spettanza a questa Corte di un «margine di
apprezzamento e di adeguamento», che – nel rispetto della «sostanza» della
giurisprudenza di Strasburgo – le consenta comunque di tenere conto delle
peculiarità dell’ordinamento in cui l’interpretazione della Corte europea è
destinata ad inserirsi (sentenze n. 303
e n. 236 del
2011, n. 311
del 2009).
Nella specie, il rimettente individua la
«norma convenzionale interposta» – con la quale la norma interna denunciata si
porrebbe in asserito contrasto, non componibile per via d’interpretazione –
combinando fra loro due distinte affermazioni della Corte europea, riferite
all’art. 7, paragrafo 1, della CEDU (ove si stabilisce che «nessuno può essere
condannato per una azione o una omissione che, al momento in cui è stata
commessa, non costituiva reato secondo il diritto interno o internazionale», e
che, «parimenti, non può essere inflitta una pena più grave di quella
applicabile al momento in cui il reato è stato commesso»).
La prima affermazione – espressiva di un
mutamento di indirizzo intervenuto solo in tempi recenti nella giurisprudenza
della Corte di Strasburgo – è quella per cui la citata norma convenzionale,
malgrado il suo tenore letterale (evocativo del solo divieto di applicazione
retroattiva della norma penale sfavorevole), sancisce implicitamente – in
aggiunta al più generale principio di legalità dei delitti e delle pene (nullum crimen nulla poena sine lege), con i
corollari dell’esigenza di determinatezza delle previsioni punitive e del
divieto di analogia in malam partem – anche il
principio di retroattività della legge penale più mite (Corte europea
dei diritti dell’uomo, Grande Camera, 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia;
in senso conforme, sentenze 27 aprile 2010, Morabito
contro Italia e 7
giugno 2011, Agrati ed altri contro Italia).
L’altra affermazione – che riflette, per
contro, un orientamento della Corte europea da tempo consolidato – è quella in
virtù della quale la nozione di «diritto» («law»),
utilizzata nella norma della Convenzione, deve considerarsi comprensiva tanto
del diritto di produzione legislativa che del diritto di formazione giurisprudenziale.
Tale lettura «sostanziale», e non già «formale», del concetto di «legalità
penale», se pure stimolata dalla necessità di tenere conto dei diversi sistemi
giuridici degli Stati parte – posto che il riferimento alla sola legge di
origine parlamentare avrebbe limitato la tutela derivante dalla Convenzione
rispetto agli ordinamenti di common law
– è stata ritenuta valevole dalla Corte europea anche in rapporto agli
ordinamenti di civil law, alla luce del rilevante apporto
che pure in essi la giurisprudenza fornisce all’individuazione dell’esatta
portata e all’evoluzione del diritto penale (tra le altre, sentenze 8
dicembre 2009, Previti contro Italia; Grande Camera,
17 settembre 2009, Scoppola contro Italia; 20 gennaio
2009, Sud Fondi s.r.l. ed altri contro Italia; Grande
Camera, 24 aprile 1990, Kruslin contro Francia).
Proprio tale seconda affermazione
dimostra, peraltro, come, nell’interpretazione offerta dalla Corte di
Strasburgo, il principio convenzionale di legalità penale risulti meno
comprensivo di quello accolto nella Costituzione italiana (e, in generale,
negli ordinamenti continentali). Ad esso resta, infatti, estraneo il principio
– di centrale rilevanza, per converso, nell’assetto interno – della riserva di
legge, nell’accezione recepita dall’art. 25, secondo comma, Cost.; principio
che, secondo quanto reiteratamente puntualizzato da questa Corte, demanda il
potere di normazione in materia penale – in quanto incidente sui diritti
fondamentali dell’individuo, e segnatamente sulla libertà personale –
all’istituzione che costituisce la massima espressione della rappresentanza
politica: vale a dire al Parlamento, eletto a suffragio universale dall’intera
collettività nazionale (sentenze n. 394 del
2006 e n.
487 del 1989), il quale esprime, altresì, le sue determinazioni all’esito
di un procedimento – quello legislativo – che implica un preventivo confronto
dialettico tra tutte le forze politiche, incluse quelle di minoranza, e, sia
pure indirettamente, con la pubblica opinione.
Al di là, peraltro, dall’evidenziato
scarto di tutela – che pure preclude una meccanica trasposizione
nell’ordinamento interno della postulata equiparazione tra legge scritta e
diritto di produzione giurisprudenziale – risulta assorbente, ai presenti fini,
la considerazione che
Innanzitutto,
È, peraltro, da escludere –
contrariamente a quanto mostra di ritenere il giudice a quo – che dalle conclusioni raggiunte a proposito del principio
di irretroattività della norma sfavorevole possa automaticamente ricavarsi
l’esigenza "convenzionale” di rimuovere, in nome del principio di retroattività
della lex mitior, le
decisioni giudiziali definitive non sintoniche con il sopravvenuto mutamento
giurisprudenziale in bonam
partem. I due principi hanno, infatti, diverso
fondamento. L’irretroattività della norma penale sfavorevole rappresenta uno
strumento di garanzia del cittadino contro persecuzioni arbitrarie, espressivo
dell’esigenza di «calcolabilità» delle conseguenze giuridico-penali della
propria condotta, quale condizione necessaria per la libera autodeterminazione
individuale: esigenza con la quale contrasta un successivo mutamento
peggiorativo "a sorpresa” del trattamento penale della fattispecie. Nessun
collegamento con la predetta libertà ha, per converso, il principio di
retroattività della norma più favorevole, in quanto la lex mitior sopravviene alla commissione del
fatto, cui l’autore si era liberamente e consapevolmente autodeterminato in
base al panorama normativo (e giurisprudenziale) dell’epoca: trovando detto
principio fondamento piuttosto in quello di eguaglianza, che richiede, in linea
di massima, di estendere la modifica mitigatrice della legge penale, espressiva
di un mutato apprezzamento del disvalore del fatto, anche a coloro che hanno
posto in essere la condotta in un momento anteriore (sentenza n. 394 del
2006; analogamente sentenze n. 236 del
2011 e n.
215 del 2008).
Con riguardo al carattere non assoluto
che, in tale prospettiva, il principio della retroattività in mitius resta suscettibile di assumere,
occorre d’altra parte osservare – come già in altra occasione (sentenza n. 236 del
2011) – che
La limitazione ora indicata non potrebbe
evidentemente non valere – nella prospettiva del giudice a quo – anche in rapporto ai mutamenti di giurisprudenza. La stessa
Corte di Strasburgo ha avuto modo, del resto, di rilevare, in termini generali,
come, nel caso di avvenuta composizione di un contrasto di giurisprudenza da
parte di un tribunale supremo nazionale, l’esigenza di assicurare la parità di
trattamento non possa essere utilmente invocata al fine di travolgere il
principio di intangibilità della res
iudicata: infatti, «intendere il principio di eguaglianza nell’applicazione
della legge nel senso che ciò che risulta dalle decisioni posteriori implica la
revisione di tutte le decisioni definitive anteriori che risultino contraddittorie
con quelle più recenti sarebbe contrario al principio di sicurezza giuridica» (Corte
europea dei diritti dell’uomo, 28 giugno 2007, Perez Arias contro Spagna, sempre nella misura in cui i
principi interpretativi siano applicabili al nostro ordinamento).
Indipendentemente, dunque, dalla
verifica di compatibilità con il principio della riserva di legge, sancito
dall’art. 25, secondo comma, Cost. – sulla cui esigenza pone l’accento
l’Avvocatura dello Stato nelle sue difese – si deve conclusivamente rilevare,
ancor prima, che l’ipotetica «norma convenzionale interposta», chiamata a
fungere da parametro di verifica della legittimità costituzionale della
disposizione denunciata, risulta in realtà priva di attuale riscontro nella
giurisprudenza della Corte europea.
8.– Inconferenti rispetto alla
fattispecie in esame si palesano, poi, i concorrenti riferimenti agli artt. 5 e
6 della CEDU addotti dal giudice a quo.
Quanto all’asserita lesione dell’art. 5,
essa viene prospettata dal rimettente richiamando – alla stregua della sentenza
delle Sezioni unite della Corte di cassazione 21 gennaio 2010-13 maggio 2010,
n. 18288, relativa al cosiddetto «giudicato esecutivo» (ove, peraltro, il
richiamo assumeva una diversa valenza) – la pronuncia della Corte di Strasburgo
che ha ravvisato la lesione del diritto alla libertà personale e alla
sicurezza, tutelato dalla citata norma convenzionale, in una fattispecie di ritardata
concessione dell’indulto ad un condannato a causa di dubbi interpretativi circa
i termini di operatività del provvedimento di clemenza (Corte
europea dei diritti dell’uomo, 10 luglio 2003, Grava contro Italia).
Difetta, peraltro – né il rimettente l’ha comunque posta in evidenza – una
qualsivoglia analogia tra il caso esaminato dalla Corte europea e quello
oggetto del giudizio interno: analogia il cui riscontro rappresenta un
presupposto necessario per "importare” il principio affermato in sede europea
nell’ambito del controllo di legittimità costituzionale (sentenza n. 239 del
2009).
Con riguardo, poi, all’ipotizzato
contrasto con l’art. 6 della CEDU, il giudice a quo richiama l’orientamento della Corte di Strasburgo secondo il
quale la presenza di divergenze profonde e persistenti nella giurisprudenza di
una corte suprema nazionale circa l’interpretazione di una determinata norma
legislativa, non superabili o in fatto non superate tramite il ricorso a
meccanismi che permettano di comporre tali contrasti, è suscettibile di
tradursi in una violazione del diritto all’equo processo, stante l’ostacolo che
ne può derivare ad una efficace difesa in giudizio (in questo senso, oltre alla
sentenza
2 luglio 2009, Iordan Iordanov
contro Bulgaria, citata dal giudice a
quo, sentenze
24 giugno 2009, Tudor Tudor contro Romania e 2
dicembre 2007, Beian contro Romania, di nuovo
nella misura in cui i principi interpretativi siano applicabili al nostro
ordinamento).
Anche in questo caso, si tratta,
peraltro, di fattispecie non comparabile con quella oggetto dell’odierno
scrutinio. La revoca della sentenza per abolizione del reato è istituto
chiaramente distinto dai meccanismi di composizione dei contrasti di
giurisprudenza, che
9.– Parimenti infondate risultano le
censure di violazione del principio di eguaglianza, anche sotto il profilo
della ragionevolezza (art. 3 Cost.).
Contrariamente a quanto assume il
giudice a quo, non può ritenersi
manifestamente irrazionale che il legislatore, per un verso, valorizzi, anche
in ossequio ad esigenze di ordine costituzionale, la funzione nomofilattica
della Corte di cassazione, e delle Sezioni unite in particolare – postulando,
con ciò, che la giurisprudenza successiva si uniformi «tendenzialmente» alle
decisioni di queste ultime – e, dall’altro, ometta di prevedere la revoca delle
condanne definitive pronunciate in relazione a fatti che, alla stregua di una
sopravvenuta diversa decisione dell’organo della nomofilachia, non sono
previsti dalla legge come reato, col risultato di consentire trattamenti
radicalmente differenziati di autori di fatti analoghi.
L’orientamento espresso dalla decisione
delle Sezioni unite "aspira” indubbiamente ad acquisire stabilità e generale
seguito: ma – come lo stesso rimettente riconosce – si tratta di connotati solo
«tendenziali», in quanto basati su una efficacia non cogente, ma di tipo
essenzialmente "persuasivo”. Con la conseguenza che, a differenza della legge
abrogativa e della declaratoria di illegittimità costituzionale, la nuova
decisione dell’organo della nomofilachia resta potenzialmente suscettibile di
essere disattesa in qualunque tempo e da qualunque giudice della Repubblica,
sia pure con l’onere di adeguata motivazione; mentre le stesse Sezioni unite
possono trovarsi a dover rivedere le loro posizioni, anche su impulso delle
sezioni singole, come in più occasioni è in fatto accaduto.
In questa logica si giustifica, dunque,
il mancato riconoscimento all’overruling giurisprudenziale favorevole della capacità di
travolgere il principio di intangibilità della res iudicata, espressivo dell’esigenza di certezza dei rapporti
giuridici esauriti: esigenza il cui fondamentale rilievo – come lo stesso
rimettente ricorda – è ampiamente riconosciuto anche nell’ambito dell’Unione
europea (Corte
di giustizia, sentenze 22 dicembre 2010, C-507/08, Commissione contro
Repubblica slovacca; 3
settembre 2009, C-2/08, Fallimento Olimpiclub s.r.l.;
16
marzo 2006, C-234/04, Kapferer). Al fine di porre
nel nulla ciò che, di per sé, dovrebbe rimanere intangibile – il giudicato,
appunto – il legislatore esige, non irragionevolmente, una vicenda modificativa
che determini la caduta della rilevanza penale di una determinata condotta con
connotati di generale vincolatività e di intrinseca stabilità (salvo, nel caso
di legge abrogatrice, un eventuale nuovo intervento
legislativo di segno ripristinatorio): connotati che la vicenda considerata dal
giudice a quo, di contro, non possiede.
Né giova alla tesi del rimettente il
riferimento alle recenti pronunce della giurisprudenza di legittimità che hanno
ritenuto rilevanti i mutamenti di giurisprudenza al fine del superamento del
cosiddetto «giudicato esecutivo» e del cosiddetto «giudicato cautelare»
(rispettivamente, la già citata sentenza delle Sezioni unite n. 18288 del 2010
– sulla quale il giudice a quo
ricalca larga parte delle proprie censure – e la sentenza della seconda Sezione
6 maggio 2010-25 maggio 2010, n. 19716). Dette pronunce non hanno mancato,
infatti, di porre adeguatamente in risalto il netto iato che separa i predetti
istituti dal giudicato vero e proprio: discutendosi, in quelle ipotesi, di
semplici preclusioni processuali inerenti a decisioni rese rebus sic stantibus, volte a prevenire la
defatigante reiterazione di istanze con il medesimo oggetto al giudice
dell’esecuzione o della cautela, rispetto alle quali si tratta solo di
stabilire se il riferimento al mutato orientamento della giurisprudenza possa
configurare o meno un nuovo argomento di diritto.
Parimenti non probante è il riferimento
del rimettente alla rilevanza che questa Corte attribuisce al cosiddetto
«diritto vivente» ai fini dell’individuazione dell’oggetto dello scrutinio di
legittimità costituzionale, anche quando si discuta di norme penali. Tale
soluzione risponde ad una esigenza di rispetto del ruolo spettante ai giudici
comuni – e segnatamente all’organo giudiziario depositario della funzione di
nomofilachia – nell’attività interpretativa: in presenza di un indirizzo
giurisprudenziale costante o, comunque, ampiamente condiviso – specie se
consacrato in una decisione delle Sezioni unite della Corte di cassazione –
10.– Lungi, dunque, dal risultare
necessario al fine di rimuovere una presunta contraddizione del sistema,
sarebbe, viceversa, proprio l’intervento richiesto dal giudice a quo a risultare foriero di aporie,
tenuto conto delle caratteristiche dell’istituto che dovrebbe essere attinto
dall’auspicata pronuncia additiva di questa Corte.
L’art. 673 cod. proc. pen. attribuisce,
infatti, natura obbligatoria all’intervento del giudice dell’esecuzione, in
presenza d’una abolitio criminis. Nel
caso di accoglimento del petitum,
tale tratto di obbligatorietà si comunicherebbe anche all’ipotesi aggiuntiva di
revoca prefigurata dal rimettente (com’è, del resto, nella logica delle sue
censure): con la conseguenza che il giudice dell’esecuzione sarebbe senz’altro
tenuto a rimuovere il giudicato di condanna contrastante col dictum dell’organo della nomofilachia,
anche qualora non lo condividesse.
In questo modo, tuttavia, la richiesta
pronuncia additiva comporterebbe una vera e propria sovversione "di sistema”,
venendo a creare un generale rapporto di gerarchia tra le Sezioni unite e i
giudici dell’esecuzione, al di fuori del giudizio di rinvio: con risultati,
peraltro, marcatamente disarmonici, stante la estraneità della regola dello stare decisis
alle coordinate generali dell’ordinamento. In sede esecutiva, il giudice
sarebbe tenuto, infatti, ad uniformarsi alla decisione "favorevole” delle
Sezioni unite, revocando il giudicato di condanna. Di contro, il giudice della
cognizione, il quale si trovasse a giudicare ex novo un fatto analogo, non avrebbe il medesimo obbligo, e
potrebbe quindi disattendere – sia pure sulla base di adeguata motivazione – la
soluzione adottata dall’organo della nomofilachia (provocando eventualmente,
con ciò, un nuovo mutamento di giurisprudenza). Sarebbe, tuttavia, illogico che
il vincolo di adeguamento alle Sezioni unite valga in presenza di un giudicato
di segno contrario (magari sorretto da ampie argomentazioni sul punto specifico
della rilevanza penale del fatto) e non operi, invece, allorché il giudicato
deve ancora formarsi. Né varrebbe obiettare che – nella prospettiva del giudice
a quo – stante l’"affidamento”
generato nei consociati dalla decisione delle Sezioni unite, il giudice della
cognizione che si discosti da quest’ultima non potrebbe comunque condannare
l’imputato, in virtù della ipotizzata estensione del principio di
irretroattività anche alla nuova interpretazione sfavorevole della norma
penale. Tale obiezione potrebbe – in ipotesi – risultare appropriata se il
giudizio vertesse su un fatto commesso dopo la decisione delle Sezioni unite:
non qualora si tratti di fatto anteriormente realizzato, il cui autore non
aveva alcuna ragione per confidare sulla liceità penale della propria condotta,
posta in essere quando era imperante un orientamento giurisprudenziale di segno
contrario.
11.– Infondata è anche l’ulteriore censura
di violazione del «principio di (tendenziale) retroattività della normativa
penale più favorevole»: principio che il rimettente reputa desumibile dagli
artt. 3 e 25, secondo comma, Cost.
Per costante giurisprudenza di questa
Corte, il principio di retroattività della legge penale più favorevole al reo
non trova, in realtà, fondamento costituzionale nell’art. 25, secondo comma,
Cost. – che si limita a sancire il principio di irretroattività delle norme
penali più severe – ma, come già accennato, esclusivamente nel principio di
eguaglianza, che impone, in linea di massima, di equiparare il trattamento dei
medesimi fatti, in presenza di una mutata valutazione legislativa del loro
disvalore, a prescindere dalla circostanza che essi siano stati commessi prima
o dopo l’entrata in vigore della norma che ha disposto l’abolitio criminis o la modifica mitigatrice.
Proprio in conseguenza di ciò, il principio in questione non ha, quindi,
carattere assoluto, rimanendo suscettibile di deroghe ad opera della legislazione
ordinaria, quando ne ricorra una sufficiente ragione giustificativa (ex plurimis, sentenze n. 236 del
2011, n. 215
del 2008, n.
394 e n. 393
del 2006).
A prescindere, peraltro, dalla
possibilità che la salvaguardia dell’intangibilità del giudicato rappresenti
una adeguata ragione di deroga, secondo quanto reiteratamente ritenuto in
passato da questa Corte (sentenze n. 74 del
1980 e n. 6
del 1978; ordinanza
n. 330 del 1995), è assorbente la considerazione che il principio in
questione attiene – anche in base alla relativa disciplina codicistica
(art. 2, secondo, terzo e quarto comma, cod. pen.) – alla sola successione di
«leggi». Per poterlo estendere anche ai mutamenti giurisprudenziali
bisognerebbe, dunque, poter dimostrare – ed è questa, in effetti, la premessa
concettuale del rimettente – che la consecutio
tra due contrastanti linee interpretative giurisprudenziali equivalga ad un
atto di produzione normativa.
Ad opporsi ad una simile equazione non
è, peraltro, solo la considerazione – svolta dalla giurisprudenza di legittimità
precedentemente richiamata, in sede di individuazione dei confini applicativi
dell’art. 673 cod. proc. pen. – attinente al difetto di vincolatività di un
semplice orientamento giurisprudenziale, ancorché avallato da una pronuncia
delle Sezioni unite. Vi si oppone anche, e prima ancora – in uno alla già più
volte evocata riserva di legge in materia penale, di cui allo stesso art. 25,
secondo comma, Cost. – il principio di separazione dei poteri, specificamente
riflesso nel precetto (art. 101, secondo comma, Cost.) che vuole il giudice
soggetto (soltanto) alla legge.
Né la conclusione perde di validità per
il solo fatto che la nuova decisione dell’organo della nomofilachia sia nel
segno della configurabilità di una abolitio criminis. Al pari della creazione delle norme, e delle
norme penali in specie, anche la loro abrogazione – totale o parziale – non
può, infatti, dipendere, nel disegno costituzionale, da regole
giurisprudenziali, ma soltanto da un atto di volontà del legislatore (eius est abrogare cuius
est condere).
12.– Le residue censure di violazione
degli artt. 13 e 27, terzo comma, Cost., sono prive di autonomia.
Esse cadono, del pari, con la premessa
concettuale su cui poggiano: ossia la pretesa che la consecutio tra diversi orientamenti giurisprudenziali equivalga ad
una operazione creativa di nuovo diritto (oggettivo), così da giustificare il
richiesto intervento dilatativo del perimetro di applicazione dell’istituto
delineato dall’art. 673 cod. proc. pen.
Siffatta erronea esegesi comporterebbe
la consegna al giudice, organo designato all’esercizio della funzione
giurisdizionale, di una funzione legislativa, in radicale contrasto con i
profili fondamentali dell’ordinamento costituzionale.
13.– La questione va dichiarata, pertanto, non fondata
in rapporto a tutti i parametri invocati.
per questi motivi
dichiara non fondata la questione di legittimità
costituzionale dell’articolo 673 del codice di procedura penale, sollevata, in
riferimento agli articoli 3, 13, 25, secondo comma, 27, terzo comma, e 117,
primo comma, della Costituzione, dal Tribunale di Torino con l’ordinanza
indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte
costituzionale, Palazzo della Consulta, l'8 ottobre
2012.
F.to:
Alfonso QUARANTA, Presidente
Giuseppe FRIGO, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 12 ottobre 2012.