SENTENZA N. 63
ANNO 2012
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Alfonso QUARANTA Presidente
- Franco GALLO Giudice
- Luigi MAZZELLA "
- Gaetano SILVESTRI "
- Sabino CASSESE "
- Giuseppe TESAURO "
- Paolo Maria NAPOLITANO "
- Giuseppe FRIGO "
- Alessandro CRISCUOLO "
- Paolo GROSSI "
- Giorgio LATTANZI "
- Aldo CAROSI "
- Marta CARTABIA "
- Sergio MATTARELLA "
- Mario Rosario MORELLI "
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli articoli 30, comma 4, 53, comma 4, e 67, comma 1, dello statuto della Regione Molise approvato, in prima lettura, con deliberazione del Consiglio regionale n. 184 del 19 luglio 2010, confermato, in seconda lettura, con deliberazione n. 35 del 22 febbraio 2011, promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso notificato il 29 marzo/1° aprile 2011, depositato in cancelleria il 5 aprile 2011 ed iscritto al n. 30 del registro ricorsi 2011.
Udito nell’udienza pubblica del 24 gennaio 2012 il Giudice relatore Giuseppe Tesauro;
udito l’avvocato dello Stato Giacomo Aiello per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1.― Con ricorso spedito per la notifica in data 29 marzo/1°aprile 2011, depositato presso la cancelleria della Corte il successivo 5 aprile, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha promosso questione di legittimità costituzionale degli articoli 30, comma 4, 53, comma 4, e 67, comma 1, dello statuto della Regione Molise, approvato, in prima lettura, con deliberazione del Consiglio regionale n. 184 del 19 luglio 2010, confermato, in seconda lettura, con deliberazione n. 35 del 22 febbraio 2011, pubblicato nel Bollettino Ufficiale della Regione n. 7, edizione straordinaria, del 2 marzo 2011, in riferimento all’articolo 117, secondo comma, lettera l), e quinto comma, della Costituzione, ed agli articoli 121, secondo comma, e 123 della Costituzione.
1.1.― Secondo il ricorrente, l’art. 30, comma 4, dello statuto della Regione Molise, nella parte in cui stabilisce che le commissioni consiliari permanenti, al fine di svolgere la funzione di “vigilanza” sull’andamento dell’amministrazione regionale, «possono altresì convocare funzionari dell’amministrazione regionale e degli enti dipendenti i quali, in seduta non pubblica, sono esonerati dal segreto d’ufficio» si porrebbe in contrasto con la disciplina statale in materia di segreto d’ufficio, violando l’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., che riserva alla competenza legislativa statale esclusiva la materia dell’ordinamento civile e penale, nonché l’art. 123 Cost. che regola la potestà statutaria delle Regioni ad autonomia ordinaria. La norma impugnata, infatti, escludendo, peraltro genericamente, l’obbligo del segreto d’ufficio in relazione a qualsiasi atto dell’amministrazione, porrebbe eccezioni al principio contenuto nell’art. 326 del codice penale, che prevede il reato di rivelazione di segreti d’ufficio e che può essere derogato solo con normativa statale, in violazione della competenza legislativa statale esclusiva in materia di ordinamento civile e penale.
1.2.― Anche l’art. 53, comma 4, dello statuto, il quale stabilisce che, con riguardo agli enti, aziende ed agenzie regionali, «il personale degli enti pubblici non economici è equiparato al personale regionale», sarebbe in contrasto con l’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., che riserva alla competenza legislativa statale esclusiva la materia dell’ordinamento civile e con l’art. 123 Cost. che regola la potestà statutaria delle Regioni ad autonomia ordinaria. Detta norma, equiparando a quello regionale il personale degli enti pubblici non economici, peraltro genericamente, così da generare anche incertezza sul regime giuridico del medesimo, impedirebbe «il corretto evolversi della disciplina contrattuale collettiva dei vari comparti interessati, sottraendo per legge materia alla contrattazione, in violazione del principio generale dettato sin dalla legge 29 marzo 1983, n. 93 (Legge quadro sul pubblico impiego), che ha riservato alla contrattazione collettiva per comparti la competenza primaria di regolazione del rapporto di lavoro pubblico».
1.3.― Infine, il ricorrente impugna l’art. 67, comma 1, dello statuto, che regola i rapporti della Regione con l’Unione europea, nella parte in cui prevede che la Giunta regionale «realizza la partecipazione» alla cosiddetta fase ascendente dell’attività normativa europea e, nella fase discendente, «provvede all’attuazione ed esecuzione degli accordi internazionali e degli atti dell’Unione europea». Così disponendo, tale norma sarebbe costituzionalmente illegittima, in primo luogo, in quanto riserva la competenza in materia alla Giunta regionale, laddove l’art. 117, quinto comma, Cost. la attribuisce alla Regione e quindi a tutti i suoi organi, e poi, in particolare con riferimento alla fase cosiddetta discendente (di attuazione ed esecuzione degli accordi internazionali e degli atti dell’Unione europea), in quanto riserva la competenza a svolgere le connesse attività alla Giunta, che ha solo competenze di natura provvedimentale, laddove per le attività di natura legislativa e regolamentare, pure coinvolte, la competenza non può che essere del Consiglio regionale, ai sensi dell’art. 121, secondo e terzo comma, Cost.
2.― La Regione Molise non si è costituita in giudizio.
3.― Nell’imminenza dell’udienza pubblica il Presidente del Consiglio dei ministri ha depositato memoria, con la quale ha insistito nel chiedere l’accoglimento delle questioni di legittimità costituzionale promosse con il ricorso. In particolare, il ricorrente ha ulteriormente precisato, quanto all’art. 30, comma 4, che detta norma invaderebbe la sfera di competenza statale esclusiva in materia di ordinamento penale, posto che la disciplina del segreto d’ufficio è assistita dalla sanzione penale (di cui all’art. 326 cod. pen.), in vista della salvaguardia degli interessi generali dello Stato, ed è garantita mediante la previsione dell’esclusione della rimovibilità del medesimo segreto in sede processuale (art. 201, comma 1, cod. proc. pen.). Essa, di conseguenza, sarebbe palesemente in violazione del precetto dell’armonia con la Costituzione (limite all’autonomia statutaria delle Regioni ad autonomia ordinaria), ed in contrasto con i principi generali in materia di pubblico impiego, posto che le norme sul segreto d’ufficio costituirebbero, appunto, principi generali della materia in questione, idonei, ad imporsi, ancorché come vincoli generali, alla potestà statutaria regionale.
Considerato in diritto
1.― Il Presidente del Consiglio dei ministri ha promosso questione di legittimità costituzionale in via principale degli articoli 30, comma 4, 53, comma 4, e 67, comma 1, del nuovo statuto della Regione Molise, approvato, in prima lettura, con deliberazione del Consiglio regionale n. 184 del 19 luglio 2010, confermato, in seconda lettura, con deliberazione n. 35 del 22 febbraio 2011, per violazione dell’articolo 117, secondo comma, lettera l), e quinto comma, dell’articolo 121, secondo comma, e dell’articolo 123 della Costituzione.
2.― L’art. 30, comma 4, è impugnato nella parte in cui, disciplinando le funzioni delle commissioni permanenti del Consiglio regionale, stabilisce che queste ultime, al fine di svolgere la funzione di “vigilanza” sull’andamento dell’amministrazione regionale, «possono altresì convocare funzionari dell’amministrazione regionale e degli enti dipendenti, i quali, in seduta non pubblica, sono esonerati dal segreto d’ufficio».
In tal modo, ad avviso del ricorrente, la predetta disposizione, escludendo, genericamente, l’obbligo del segreto d’ufficio in relazione a qualsiasi atto dell’amministrazione, porrebbe eccezioni al principio contenuto nell’art. 326 cod. pen., che prevede il reato di rivelazione di segreti d’ufficio, in violazione della competenza legislativa statale esclusiva in materia di ordinamento civile e penale, oltre che in violazione dei limiti che l’art. 123 Cost. pone all’autonomia statutaria delle Regioni. Detta norma, infatti, invaderebbe la sfera di competenza statale esclusiva in materia di ordinamento penale, posto che la disciplina del segreto d’ufficio è assistita dalla sanzione penale (di cui all’art. 326 cod. pen.), in vista della salvaguardia degli interessi generali dello Stato, ed è garantita mediante l’esclusione della rimovibilità del medesimo segreto in sede processuale (art. 201, comma 1, cod. proc. pen.). Essa sarebbe, di conseguenza, in contrasto anche con il limite generale dell’armonia con la Costituzione, posto dall’art. 123 Cost. all’autonomia statutaria delle Regioni ad autonomia ordinaria, oltre che con i principi generali in materia di pubblico impiego.
2.1.― La questione non è fondata.
2.1.1.― La disposizione impugnata è inserita in un articolo del nuovo statuto della Regione Molise, l’art. 30 (intitolato “funzioni delle commissioni”), volto a disciplinare le funzioni delle commissioni permanenti nelle quali si articola il Consiglio regionale. Fra tali funzioni vi è quella di “vigilanza sull’andamento dell’amministrazione regionale”. Nel disciplinare tale competenza, il comma 4 del predetto articolo – analogamente a quanto stabilito in altri statuti regionali (come, ad esempio, all’art. 53, comma 5, dello statuto dell’Umbria, all’art. 38, comma 13, dello statuto dell’Emilia-Romagna, all’art. 45 dello statuto della Regione Campania) – dispone che le citate commissioni possono, fra l’altro, «richiedere al Presidente ed ai componenti della Giunta regionale chiarimenti su questioni relative alle materie di rispettiva competenza. Possono altresì convocare funzionari dell’amministrazione regionale e degli enti dipendenti i quali, in seduta non pubblica, sono esonerati dal segreto d’ufficio».
Questa Corte ha già avuto occasione di affermare che il potere di controllo sull’amministrazione regionale e, più in generale, sugli organi esecutivi della Regione, attribuito alle commissioni consiliari, in quanto articolazioni dei Consigli regionali, è un «potere connaturato ed implicito nelle varie funzioni spettanti ai Consigli medesimi» e rappresenta un «modo di estrinsecazione di dette funzioni» (sentenza n. 29 del 1966). A tale potere di controllo, inoltre, è strumentale il potere di acquisizione di tutti i dati, delle informazioni e dei documenti che siano riconducibili all’attività dei predetti organi. Esso è, pertanto, un «potere istituzionale» del Consiglio regionale, e quindi anche delle sue commissioni, il quale consiste nel «sindacato, strettamente inerente ai suoi compiti di controllo politico, sull’operato degli organi esecutivi della Regione» (sentenza n. 29 del 1966).
L’oggetto diretto ed esclusivo di un simile potere di controllo e vigilanza affidato alle commissioni consiliari nei confronti delle “attività dell'amministrazione regionale e degli enti sottoposti al suo controllo” va, pertanto, «individuato nel funzionamento della amministrazione regionale e degli enti sottoposti al suo controllo, caratterizzandosi, di conseguenza, come strumentale rispetto all’esercizio di competenze proprie della Regione» (sentenza n. 4 del 1991).
Sulla base di tali premesse, questa Corte ha riconosciuto, in primo luogo, che non contrasta con alcuna norma di rango costituzionale la previsione, da parte del legislatore regionale, della facoltà delle predette commissioni consiliari di audizione di pubblici amministratori, di dipendenti dell’amministrazione regionale e degli enti sottoposti a vigilanza della Regione, dal momento che tali commissioni possono «solo appellarsi agli ordinari vincoli di responsabilità politica e amministrativa che legano gli amministratori e i dipendenti regionali all’ente di appartenenza» (sentenza n. 4 del 1991). In secondo luogo, non lede la competenza esclusiva statale in materia penale la norma regionale che detti una disciplina del segreto d’ufficio, attribuendo alle medesime commissioni il potere di apporre il segreto d’ufficio su fatti, atti o documenti ritenuti non divulgabili di cui siano venute a conoscenza nell’esercizio dei predetti poteri di controllo. Una simile disciplina, infatti, «viene ad operare entro i limiti ordinari del segreto di ufficio, la cui determinazione, per quanto concerne l’attività svolta da un organo regionale quale è la Commissione, non può spettare altro che alla valutazione discrezionale della stessa regione» (sentenza n. 4 del 1991).
Considerato che l’oggetto tutelato dal segreto d’ufficio e dalla previsione del divieto di rivelazione dello stesso è costituito dal buon andamento, inteso anche come normale funzionamento della pubblica amministrazione (Cass., 14 novembre 2008, n. 42689; di recente v. Cass. 24 giugno 2011, n. 25366), non può che spettare al legislatore regionale, nell’ambito della propria sfera di competenza, individuare i casi nei quali la tutela del buon andamento e del normale funzionamento dell’amministrazione regionale e degli enti da essa dipendenti debba essere assicurata attraverso l’apposizione del segreto d’ufficio. E, con tutta evidenza, spetta egualmente al medesimo legislatore regionale prevederne le eventuali eccezioni.
Né può ritenersi che l’identificazione, da parte del legislatore regionale, nel quadro delle proprie competenze, di ipotesi di segreto d’ufficio inerenti all’attività svolta dall’amministrazione regionale e dagli enti da essa dipendenti, nonché delle correlative ipotesi di esonero dallo stesso, incidendo sull’applicazione della sanzione penale posta dal legislatore statale all’art. 326 cod. pen., determini una violazione della competenza esclusiva statale in materia di ordinamento penale.
Questa Corte, fin da epoca risalente, ha affermato che, ferma la competenza esclusiva statale in materia penale, «alle leggi regionali non è precluso concorrere a precisare, secundum legem, presupposti d’applicazione di norme penali statali (cfr., fra le altre, le sentenze di questa Corte n. 210 del 1972 e n. 142 del 1969) né concorrere ad attuare le stesse norme»; e che «la tutela penale dei beni rientranti nelle materie regionali, “esclusive” o “concorrenti”, può ben esser autonomamente fornita, attraverso l’incriminazione di violazioni agli stessi beni, dalla legge penale statale», con il risultato di giungere a riconoscere una competenza regionale a «concorrere a definire elementi costitutivi (es. “dovere”, “atto d’ufficio” ecc.) delle fattispecie tipiche incriminate», in relazione ad alcune ipotesi di delitti contro la pubblica amministrazione (sentenza n. 487 del 1989).
A seguito della riforma del Titolo V della Parte seconda della Costituzione tali conclusioni non possono che essere confermate. Se, infatti, è oggi espressamente previsto dall’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., che la materia dell’ordinamento penale è di esclusiva competenza dello Stato, con la conseguenza che «le Regioni non dispongono di alcuna competenza che le abiliti a introdurre, rimuovere o variare con proprie leggi le pene previste dalle leggi dello Stato in tale materia», è anche necessario tener conto che «la “materia penale”, intesa come l’insieme dei beni e valori ai quali viene accordata la tutela più intensa, non è di regola determinabile a priori» : essa «nasce nel momento in cui il legislatore nazionale pone norme incriminatici e ciò può avvenire in qualsiasi settore, a prescindere dal riparto di attribuzioni legislative tra lo Stato e le Regioni» (sentenza n. 185 del 2004). Pertanto, la relativa competenza legislativa statale esclusiva si rivela «potenzialmente incidente nei più diversi ambiti materiali ed anche in quelli compresi nelle potestà legislative esclusive, concorrenti o residuali delle Regioni, le cui scelte potranno risultarne talvolta rafforzate e munite di una garanzia ulteriore, talaltra semplicemente inibite». Sulla base di ciò, non può negarsi a queste ultime quanto in precedenza già ad esse riconosciuto e cioè il potere di concorrere a precisare, secundum legem, presupposti d’applicazione di norme penali statali, nonché a definire elementi costitutivi di talune fattispecie tipiche incriminate, nell’esercizio delle proprie competenze.
2.1.2.― In tale quadro, risultano prive di fondamento le censure di lesione della competenza esclusiva statale di cui all’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost. e di conseguente violazione dei limiti posti dall’art. 123 della Costituzione all’autonomia statutaria regionale, promosse nei confronti dell’art. 30, comma 4, del nuovo statuto della Regione Molise, nella parte in cui attribuisce alle commissioni consiliari permanenti, la facoltà di esonerare dal segreto d’ufficio i funzionari dell’amministrazione regionale e degli enti dipendenti che siano convocati, con la precisazione che l’acquisizione delle notizie deve avvenire in seduta segreta, con conseguente estensione dell’obbligo di segretezza in capo ai membri della commissione.
3.― Ulteriore disposizione oggetto di censura è l’art. 53, comma 4, del nuovo statuto molisano.
La disposizione è censurata nella parte in cui, dopo aver stabilito che la Regione, «per lo svolgimento delle proprie attività, può istituire con legge enti, aziende e agenzie regionali» (comma 1), dispone che «il personale degli enti pubblici non economici è equiparato al personale regionale» (comma 4).
Tale equiparazione, ad avviso del ricorrente, oltre a generare «incertezza sul regime giuridico del personale genericamente equiparato a quello regionale», determinerebbe una violazione della competenza statale esclusiva di cui all’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost. «perché impedirebbe il corretto evolversi della disciplina contrattuale collettiva dei vari comparti interessati, sottraendo per legge materia alla contrattazione». In tal modo la disposizione in esame violerebbe anche i limiti posti dall’art. 123 Cost. alla potestà statutaria delle Regioni.
3.1.― La questione non è fondata.
Le richiamate censure muovono dall’erroneo presupposto secondo il quale la disciplina del personale dell’amministrazione regionale sarebbe attribuita per intero alla competenza del legislatore regionale e, quindi, l’equiparazione ad esso del personale degli enti pubblici regionali non economici sottrarrebbe illegittimamente tale categoria alla contrattazione collettiva, con conseguente violazione della competenza esclusiva statale in materia di ordinamento civile.
Tale assunto è contraddetto dalla giurisprudenza costituzionale, secondo la quale, in base alla nuova formulazione dell’art. 117 Cost., e tenuto conto che nel frattempo è intervenuta la privatizzazione del lavoro pubblico (art. 2 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, recante «Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche»), l’impiego pubblico regionale deve ricondursi, per i profili privatizzati del rapporto, all’ordinamento civile (e quindi alla competenza legislativa statale esclusiva) e solo per i profili “pubblicistico-organizzativi” all’ordinamento e organizzazione amministrativa regionale (e quindi alla competenza legislativa residuale regionale) (fra le altre, sentenze n. 233 del 2006 e n. 2 del 2004; più di recente sentenze n. 339 e n. 77 del 2011). In particolare, questa Corte ha più volte ribadito che il rapporto di impiego alle dipendenze di Regioni ed enti locali, essendo privatizzato, è retto dalla disciplina generale dei rapporti di lavoro di tale tipo ed è perciò soggetto alle regole che ne garantiscono l’uniformità. Di conseguenza, la legge statale, in tutti i casi in cui viene a conformare gli istituti del rapporto di impiego attraverso norme che si impongono all’autonomia privata con il carattere dell’inderogabilità, costituisce un limite alla competenza residuale regionale in tema di organizzazione amministrativa delle Regioni e degli enti pubblici regionali, nonché dello stato giuridico ed economico del relativo personale e va quindi applicata anche ai rapporti di impiego dei dipendenti delle Regioni e degli enti locali (sentenza n. 95 del 2007).
Alla luce di tali indicazioni, risulta evidente che l’equiparazione del personale degli enti pubblici non economici regionali al personale regionale, operata dalla norma censurata, non comporta la temuta sottrazione per legge di una materia di per sé riservata alla contrattazione collettiva per comparti, posto che anche il rapporto di lavoro del personale regionale è – come, peraltro, espressamente previsto dall’art. 52, comma 2, del medesimo testo statutario – «regolato dalla legge e dai contratti». Tale espressa previsione comporta che la norma impugnata non può che essere interpretata nel senso di rinviare, quanto al trattamento del personale degli enti pubblici non economici e di quello del personale regionale, alla disciplina del rapporto di lavoro contenuta nei contratti collettivi stipulati in relazione ai comparti interessati, senza alcuna lesione della riserva di competenza attribuita alla contrattazione collettiva.
La censura di violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost. – alla quale è connessa quella di violazione dei limiti posti all’autonomia statutaria delle Regioni dall’art. 123 Cost. – è, pertanto, priva di fondamento.
4.― È, infine, censurato l’art. 67, comma 1, del nuovo statuto della Regione Molise, nella parte in cui, regolando i rapporti della Regione con l’Unione europea, prevede che la Giunta regionale «realizza la partecipazione» alla cosiddetta fase ascendente dell’attività normativa europea e, nella fase discendente, «provvede all’attuazione ed esecuzione degli accordi internazionali e degli atti dell’Unione europea».
Tale disposizione, così statuendo, sarebbe, innanzitutto, in contrasto con l’art. 117, quinto comma, Cost. in quanto riserverebbe la competenza in materia alla Giunta regionale, laddove l’art. 117, quinto comma, Cost. la attribuisce, genericamente, alla Regione e quindi a tutti i suoi organi. Essa sarebbe, poi, anche in contrasto con l’art. 121 Cost., commi secondo e terzo, nella parte in cui, specie in riferimento alla fase cosiddetta discendente (di attuazione ed esecuzione degli accordi internazionali e degli atti dell’Unione europea), riserverebbe la competenza a svolgere le connesse attività alla Giunta, che ha solo competenze di natura provvedimentale, laddove per le attività di natura legislativa e regolamentare, pure coinvolte, la competenza non può che essere del Consiglio regionale.
4.1.― La questione non è fondata.
Le censure proposte muovono da un’interpretazione della disposizione impugnata che si rivela erronea già dall’esame della formulazione testuale della stessa.
Quest’ultima recita: «La Giunta regionale, nel rispetto delle norme di procedura stabilite dalla legge dello Stato, della legge comunitaria e degli indirizzi impartiti dal Consiglio regionale, realizza la partecipazione della Regione alle decisioni dirette alla formazione degli atti normativi comunitari e provvede all’attuazione ed esecuzione degli accordi internazionali e degli atti dell’Unione Europea». Essa, quindi, richiama espressamente sia la legge statale recante norme di procedura, sia la legge comunitaria, statale e regionale, sia gli indirizzi impartiti dal Consiglio regionale, vincolando la Giunta al rispetto di quanto ivi prescritto, in conformità con quanto stabilito dall’art. 117, quinto comma, Cost., nonché dall’art. 5 della legge 5 giugno 2003, n. 131 (Disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla L. Cost. 18 ottobre 2001, n. 3) e dagli artt. 5 e 16 della legge 4 febbraio 2005, n. 11 (Norme generali sulla partecipazione dell’Italia al processo normativo dell’Unione europea e sulle procedure di esecuzione degli obblighi comunitari), oltre che in linea con le indicazioni della giurisprudenza costituzionale (da ultimo, sentenza n. 151 del 2011; in specie, sentenza n. 239 del 2004).
La norma impugnata, inoltre, si inserisce in un contesto normativo, costituito dai commi seguenti del medesimo art. 67, che espressamente individuano le competenze in materia sia della Giunta che del Consiglio, al quale ultimo sono attribuite le competenze legislative e normative coinvolte, in conformità al riparto delineato dall’art. 121, secondo e terzo comma, della Costituzione. Tanto è confermato, ad esempio, dal fatto che al comma 4 del medesimo articolo è prescritto che «Con legge regionale sono stabiliti modalità e tempi per l’approvazione dell’annuale legge comunitaria regionale. La legge comunitaria, nei casi in cui deferisce al regolamento regionale l’attuazione degli atti dell’Unione europea, ne stabilisce i criteri e i principi direttivi».
Le censure proposte nei confronti dell’art. 67, comma 1, pertanto, sono prive di fondamento.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 30, comma 4, dello statuto della Regione Molise, approvato, in prima lettura, con deliberazione del Consiglio regionale n. 184 del 19 luglio 2010, confermato, in seconda lettura, con deliberazione n. 35 del 22 febbraio 2011, pubblicato nel Bollettino Ufficiale della Regione n. 7, edizione straordinaria, del 2 marzo 2011, in riferimento agli articoli 117, secondo comma, lettera l), e 123 della Costituzione, promossa dal Presidente del Consiglio dei ministri, con il ricorso indicato in epigrafe;
2) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 53, comma 4, del predetto statuto, in riferimento agli articoli 117, secondo comma, lettera l), e 123 della Costituzione, promossa dal Presidente del Consiglio dei ministri, con il ricorso indicato in epigrafe;
3) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 67, comma 1, del predetto statuto, in riferimento agli articoli 117, quinto comma, e 121, secondo e terzo comma, della Costituzione, promossa dal Presidente del Consiglio dei ministri, con il ricorso indicato in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 marzo 2012.
F.to:
Alfonso QUARANTA, Presidente
Giuseppe TESAURO, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 21 marzo 2012.