SENTENZA N.
239
ANNO 2014
I. Fabio Fiorentin,
La Consulta dichiara
incostituzionale l’art. 4 bis ord. penit.
laddove non esclude dal divieto di concessione dei
benefici la detenzione domiciliare speciale e ordinaria in favore delle
detenute madri, per g. c. di Diritto
Penale Contemporaneo)
II. Fabio Cassibba, La
Consulta accantona la prevedibilità delle nuove contestazioni e compie
un’incursione sul diritto vivente, per g.c. di Archivio Penale
III. Maria Teresa Trapasso, Osservazioni
a prima lettura, per g.c. di Archivio Penale
IV. Anna Maria Capitta, Detenzione
domiciliare per le madri e tutela del minore: la Corte costituzionale rimuove
le preclusioni stabilite dall’art. 4-bis , co. 1, ord. penit.
ma impone la regola di giudizio, per g.c. di Archivio
Penale
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Giuseppe TESAURO Presidente
- Paolo Maria NAPOLITANO Giudice
- Giuseppe FRIGO ”
- Alessandro CRISCUOLO ”
- Paolo GROSSI ”
- Giorgio LATTANZI ”
- Aldo CAROSI ”
- Marta CARTABIA ”
- Sergio MATTARELLA ”
- Mario Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Giuliano AMATO ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità
costituzionale dell’art. 4-bis, comma
1, della legge
26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla
esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), promosso dal
Tribunale di sorveglianza di Firenze nel procedimento relativo a M.F. con ordinanza
del 31 gennaio 2013, iscritta al n. 103 del registro ordinanze 2013 e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 21, prima serie
speciale, dell’anno 2013.
Visto l’atto di intervento
del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 24
settembre 2014 il Giudice relatore Giuseppe Frigo.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 31
gennaio 2013 il Tribunale di sorveglianza di Firenze ha sollevato, in
riferimento agli artt. 3,
29, 30 e 31 della
Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 4-bis, comma 1, della legge 26 luglio
1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle
misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui estende il
divieto di concessione dei benefici penitenziari, stabilito nei confronti dei
detenuti e degli internati per taluni gravi delitti che non collaborino con la
giustizia, anche alla misura della detenzione domiciliare speciale, prevista
dall’art. 47-quinquies della medesima
legge a favore delle condannate madri di prole di età non superiore a dieci
anni.
Il giudice a quo premette di
essere investito dell’istanza di concessione della detenzione domiciliare
speciale, presentata ai sensi del citato art. 47-quinquies da una donna di origine nigeriana, detenuta per
l’espiazione della pena di nove anni e sei mesi di reclusione, risultante dal
cumulo delle pene inflittele con tre sentenze irrevocabili di condanna, una
delle quali relativa, tra l’altro, ai delitti di cui agli artt. 600 e 601 del
codice penale (riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù e tratta di
persone), compresi tra quelli in relazione ai quali opera il divieto sopra
indicato.
Al riguardo, il rimettente
riferisce che l’interessata è madre di un bambino nato il 9 febbraio 2008
(dunque di età inferiore a dieci anni) tenuto con sé dalla donna all’atto
dell’ingresso in carcere – avvenuto l’11 febbraio 2009 – in quanto minore di
tre anni a quella data. Dopo il compimento del terzo anno di età, il Tribunale
per i minorenni di Firenze aveva disposto l’affidamento del bambino ai servizi
sociali, con provvedimento, peraltro, non ancora divenuto definitivo, a seguito
del ricorso proposto dalla cognata della detenuta.
Grazie all’iniziativa degli
operatori dell’area educativa della casa circondariale era stata individuata
una soluzione per permettere alla detenuta di occuparsi del figlio fuori del
circuito carcerario, in una struttura di accoglienza messa a disposizione dal
Comune di Firenze: soluzione che consentirebbe al Tribunale per i minorenni di
rivedere la propria decisione.
Nel rendere le informazioni
richieste ai sensi dell’art. 4-bis,
comma 2, della legge n. 354 del 1975, il Comitato provinciale per l’ordine e la
sicurezza pubblica di Firenze si era, d’altra parte, espresso nel senso
dell’impossibilità di escludere collegamenti della condannata con la
criminalità organizzata, senza, peraltro, offrire alcun elemento da cui
desumere l’attualità e la concretezza di detti collegamenti. Si dovrebbe, di
conseguenza, ritenere che il periodo di carcerazione subìto abbia dissolto ogni
eventuale legame o contatto con organizzazioni criminali dell’interessata
(peraltro, non condannata per delitti di tipo associativo).
Ancorché la soluzione
proposta dagli operatori della casa circondariale appaia adeguata, soprattutto
in rapporto alle esigenze del minore – il quale «in pratica sta crescendo in
carcere con la madre per i reati da costei commessi» – e sebbene non sia
ravvisabile alcun attuale e concreto pericolo di reiterazione delle condotte
illecite da parte della condannata, la sua richiesta non potrebbe, allo stato,
essere accolta. Vi osterebbe, infatti, la preclusione prevista dall’art. 4-bis, comma 1, della legge n. 354 del
1975, in forza del quale le misure alternative alla detenzione previste dal
Capo VI del Titolo I di detta legge, esclusa la liberazione anticipata – misure
che ricomprendono anche la detenzione domiciliare speciale – possono essere
concesse ai detenuti e agli internati per taluni gravi delitti, ivi elencati,
solo ove essi collaborino con la giustizia a norma dell’art. 58-ter. Tra i reati ostativi figurano,
infatti, come sopra accennato, anche quelli di cui agli artt. 600 e 601 cod. pen., per
i quali l’istante sta scontando la pena; né, d’altro canto, risulta accertata
dal competente Tribunale di sorveglianza una collaborazione della detenuta con
la giustizia, ovvero l’impossibilità, l’inesigibilità o l’irrilevanza di tale
collaborazione, che, consentirebbero di rimuovere la preclusione ai sensi del
comma 1-bis dell’art. 4 della legge
n. 354 del 1975.
Neppure, poi, gioverebbe
alla richiedente la scissione delle pene cumulate, al fine di verificare se
quelle inflitte per i reati ostativi siano state integralmente espiate, con
conseguente venir meno dei relativi effetti preclusivi. La pena irrogata
all’interessata per i delitti di cui agli artt. 600 e 601 cod. pen. è pari, infatti, a sette anni
di reclusione, sicché la sua integrale espiazione risulta ancora lontana.
Ciò premesso, il giudice a
quo dubita della legittimità costituzionale dell’art. 4-bis, comma 1, della legge n. 354 del 1975, nella parte in cui
estende la disciplina da esso dettata anche alla misura prevista dall’art. 47-quinquies.
Il rimettente osserva che la
norma censurata preclude l’accesso ai benefici penitenziari ai soggetti
riconosciuti responsabili di gravi delitti, sancendo nei loro confronti «una
sorta di presunzione di pericolosità» che prescinde quasi del tutto dall’esame
della personalità del condannato e dagli esiti del trattamento penitenziario.
Detta preclusione assoluta, che esclude ogni discrezionalità della magistratura
di sorveglianza nella concessione del beneficio, trova un temperamento solo in
presenza di un particolare comportamento attivo del condannato, rappresentato
dalla collaborazione con la giustizia, accertata dal tribunale di sorveglianza
con procedura camerale (art. 58-ter,
comma 2, della legge n. 354 del 1975), ovvero nel caso di riconoscimento
dell’inesigibilità, impossibilità o irrilevanza di tale collaborazione.
Siffatto regime preclusivo è
sancito in rapporto ai benefici penitenziari, e specialmente alle misure
alternative alla detenzione, costituenti uno dei principali strumenti di
realizzazione della finalità rieducativa della pena, enunciata dall’art. 27, terzo comma,
Cost. Peraltro, se può apparire «comprensibile e ragionevole» che il
legislatore, nella sua discrezionalità, individui per i responsabili di alcuni
gravi delitti un percorso più complesso e impegnativo di quello normalmente
necessario per accedere ai benefici penitenziari, la conclusione muterebbe
necessariamente di segno quando il «diritto "ostacolato”» abbia «poco o nulla a
che vedere con la situazione esecutiva di un condannato».
Benché inclusa, ratione materiae, nel
Capo VI del Titolo I della legge n. 354 del 1975, la detenzione domiciliare
speciale differirebbe profondamente dalle altre misure alternative alla
detenzione. Essa prescinderebbe, infatti, «da qualsiasi contenuto rieducativo o
trattamentale», essendo volta unicamente a ripristinare,
ove possibile, la convivenza tra madre e figli, così da consentire alla prole
di fruire delle cure di cui abbisogna per un corretto sviluppo fisio-psichico.
La misura in questione
sarebbe finalizzata, dunque, alla tutela di quel «superiore interesse» del
minore cui fa riferimento l’art. 3 della Convenzione sui diritti del fanciullo,
fatta a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva con legge 27
maggio 1991, n. 176, in forza del quale «In tutte le decisioni relative ai
fanciulli, di competenza sia delle istituzioni pubbliche o private di
assistenza sociale, dei tribunali, delle autorità amministrative o degli organi
legislativi, l’interesse superiore del fanciullo deve essere una considerazione
preminente».
La stessa Corte costituzionale,
con la sentenza
n. 31 del 2012, ha posto puntualmente l’accento sull’importanza
dell’interesse del figlio minore a vivere e a crescere nell’ambito della
propria famiglia, mantenendo un rapporto equilibrato e continuativo con
ciascuno dei genitori, dai quali ha diritto di ricevere cura, educazione e
istruzione, «interesse complesso, articolato in diverse situazioni giuridiche,
che hanno trovato riconoscimento e tutela sia nell’ordinamento internazionale
sia in quello interno».
In tale prospettiva,
risulterebbe lesivo del principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.) sottoporre
indiscriminatamente tutte le misure alternative alla detenzione ai vincoli e
alle preclusioni di cui all’art. 4-bis,
comma 1, della legge n. 354 del 1975, trascurando la diversità «quasi
ontologica» tra le misure che hanno come finalità il reinserimento sociale del
condannato, e che costituiscono perciò dei «benefici», e la detenzione
domiciliare speciale, che mira invece a proteggere l’infanzia. In questo modo,
il «superiore interesse» del minore, anziché prevalere, «cedere[bbe] il passo innanzi alla pretesa punitiva dello Stato ed
ai rigori che il Legislatore ha inteso prevedere per l’accesso ai benefici
penitenziari per i responsabili di gravi delitti». Non sarebbe, in effetti,
ragionevole addossare sulle «fragili spalle» del minore le conseguenze delle
gravi responsabilità penali della madre, e tantomeno quelle della sua scelta di
non collaborare con la giustizia, ovvero del fatto che ella non riesca a vedere
riconosciuta l’impossibilità, l’inesigibilità o l’irrilevanza della propria
collaborazione.
La norma censurata
violerebbe, altresì, gli artt. 29, 30 e 31 Cost.,
ponendosi in contrasto sia con la direttiva costituzionale di tutela della
famiglia come società naturale, sia con il diritto-dovere dei genitori di
educare i figli e il corrispondente diritto di questi ultimi di essere educati
dai primi, sia, infine, con l’obbligo di protezione dell’infanzia.
Né, d’altra parte, sarebbe
possibile evitare i vulnera denunciati tramite una interpretazione
«costituzionalmente orientata», la quale si risolverebbe nella illegittima
disapplicazione di una disposizione «chiara e cogente» nel suo tenore
letterale.
La questione sarebbe,
altresì, rilevante, posto che, alla luce di quanto in precedenza evidenziato,
solo la preclusione contestata impedirebbe, nella specie, di entrare nel merito
della domanda di concedere la detenzione domiciliare speciale alla condannata
istante, con conseguente ripristino di una condizione di vita più adeguata per
il minore.
2.– È intervenuto il Presidente del
Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello
Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o infondata.
La difesa dello Stato
assume, in via preliminare, che il richiamo del giudice a quo alla sentenza n. 31 del
2012 di questa Corte non sarebbe conferente. Nell’occasione, infatti, la
Corte ha ritenuto contrario al principio di ragionevolezza l’automatismo della
perdita della potestà genitoriale sancito dall’art. 569 cod. pen. nei confronti del genitore
condannato per il delitto di alterazione di stato (art. 567 cod. pen.): ciò, sul rilievo che tale delitto, diversamente da
altre ipotesi criminose in danno di minori, non reca in sé una presunzione
assoluta di pregiudizio per i loro interessi morali e materiali, tale da
indurre a ravvisare immancabilmente l’inidoneità dell’autore del fatto
all’esercizio della potestà genitoriale.
Di contro, il divieto delle
misure alternative alla detenzione sancito dall’art. 4-bis, comma 1, della legge n. 354 del 1975 non è assoluto, ma
relativo, venendo meno nel caso in cui il condannato collabori con la giustizia
o non si trovi nelle condizioni di poter collaborare utilmente. In ogni caso, i
detenuti per i reati indicati dalla norma censurata vedrebbero sempre tutelati
i rapporti con i figli attraverso i colloqui effettuati in istituto, non
colpiti dal divieto in questione.
Nell’introdurre la misura
della detenzione domiciliare speciale, di cui all’art. 47-quinquies della legge n. 354 del 1975, il legislatore avrebbe,
d’altro canto, operato un bilanciamento tra due valori costituzionalmente protetti:
il primo costituito dalla tutela della famiglia e del rapporto delle detenute
madri con i figli minori, che, sebbene compressa, non è esclusa nel corso
dell’esecuzione della pena; il secondo rappresentato dall’interesse dello Stato
ad esercitare la potestà punitiva. Il bilanciamento sarebbe stato assicurato
prevedendo, da un lato, che l’accesso alla detenzione domiciliare speciale
resti precluso nei soli casi di condanna per delitti che assumono «un
significativo grado di offensività in relazione alla
rilevanza del bene protetto»; dall’altro, escludendo l’effetto ostativo
allorché il condannato collabori con la giustizia o la sua collaborazione
risulti inesigibile, impossibile o irrilevante.
Considerato in diritto
1.– Il Tribunale di
sorveglianza di Firenze dubita della legittimità costituzionale dell’art. 4-bis, comma 1, della legge 26 luglio
1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle
misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui estende il
divieto di concessione dei benefici penitenziari, stabilito nei confronti dei
detenuti e degli internati per taluni gravi delitti che non collaborino con la
giustizia, anche alla misura della detenzione domiciliare speciale, prevista
dall’art. 47-quinquies della medesima
legge a favore delle condannate madri di prole di età non superiore a dieci
anni.
Ad avviso del rimettente, la
norma censurata violerebbe il principio di ragionevolezza (art. 3 della
Costituzione), assoggettando la misura considerata al medesimo regime
restrittivo stabilito per le altre misure alternative alla detenzione previste
dal Capo VI del Titolo I della legge n. 354 del 1975, senza tener conto dei
marcati tratti differenziali che la separano da queste. Diversamente dalle
altre misure, infatti, la detenzione domiciliare speciale non costituirebbe un
«beneficio» tendente al reinserimento sociale del condannato, ma tutelerebbe il
preminente interesse del figlio minore a recuperare al più presto un normale
rapporto di convivenza con la madre al di fuori dell’ambiente carcerario.
Facendo prevalere su tale interesse la pretesa punitiva dello Stato, la
disposizione denunciata riverserebbe, dunque, irragionevolmente «sulle fragili
spalle del minore» le conseguenze delle gravi responsabilità penali della madre
e della sua scelta di non collaborare con la giustizia, ovvero del fatto che
ella non riesca a veder riconosciuta l’inesigibilità, l’impossibilità o
l’irrilevanza di detta collaborazione.
La norma denunciata
violerebbe, altresì, gli artt. 29, 30 e 31 Cost.,
ponendosi in contrasto con l’imperativo costituzionale di tutela della famiglia
come società naturale, con il diritto-dovere dei genitori di educare i figli e
con il corrispondente diritto di questi di essere educati dai primi, nonché con
l’obbligo di protezione dell’infanzia.
2.– La questione è fondata, nei termini di
seguito specificati.
L’art. 4-bis della legge n. 354 del 1975 reca una disciplina speciale, a
carattere restrittivo, per la concessione dei benefici penitenziari a
determinate categorie di detenuti o di internati, che si presumono socialmente
pericolosi in ragione del tipo di reato per il quale la detenzione o
l’internamento sono stati disposti: disciplina la cui genesi rimonta alla
"stagione emergenziale” in tema di lotta alla criminalità organizzata risalente
al principio degli anni ’90 dello scorso secolo.
Nella versione d’origine –
introdotta dall’art. 1 del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152 (Provvedimenti
urgenti in tema di lotta alla criminalità organizzata e di trasparenza e buon
andamento dell’attività amministrativa), convertito, con modificazioni, dalla
legge 12 luglio 1991, n. 203 – il citato art. 4-bis distingueva le figure criminose di riferimento in due "fasce”.
Per i reati "di prima fascia” – comprendenti l’associazione di tipo mafioso, i
relativi "delitti-satellite”, il sequestro di persona a scopo di estorsione e
l’associazione finalizzata al narcotraffico – l’accesso alle misure era
subordinato all’acquisizione di elementi tali da escludere l’attualità di
collegamenti con la criminalità organizzata; per i reati "di seconda fascia” si
richiedeva – in termini inversi, dal punto di vista probatorio –
l’insussistenza di elementi tali da far ritenere attuali detti collegamenti.
A seguito della riforma
operata dal decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306 (Modifiche urgenti al nuovo
codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità
mafiosa), convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992, n. 356,
assumeva un ruolo centrale nell’economia dell’istituto la collaborazione con la
giustizia. L’utile collaborazione, nei sensi indicati dall’art. 58-ter della legge n. 354 del 1975,
diveniva, infatti, condicio sine qua non per l’accesso ai benefici in rapporto
ai delitti "di prima fascia”, salva la possibilità di ritenere sufficiente una
collaborazione «oggettivamente irrilevante» ove al condannato fossero state
concesse talune attenuanti, sintomatiche di una minore pericolosità.
La ratio del congegno –
agevolmente individuabile, anche alla luce dei lavori preparatori – era di
duplice ordine.
Da un lato, il meccanismo
poggiava sulla presunzione legislativa che la commissione di determinati
delitti dimostrasse il collegamento dell’autore con la criminalità organizzata
e costituisse, quindi, un indice di pericolosità sociale incompatibile con
l’ammissione del condannato ai benefici penitenziari extramurari.
La scelta di collaborare con la giustizia veniva assunta, in questa
prospettiva, come la sola idonea ad esprimere con certezza la volontà di emenda
del condannato e, dunque, a rimuovere l’ostacolo alla concessione delle misure,
in ragione della sua valenza "rescissoria” di tale legame.
Si coniugava a ciò –
assumendo, in fatto, un rilievo preminente, nella situazione del momento –
l’obiettivo di incentivare, per ragioni investigative e di politica criminale
generale, la collaborazione con la giustizia dei soggetti appartenenti o
"contigui” ad associazioni criminose, che appariva come strumento essenziale
per la lotta alla criminalità organizzata.
Pur registrando con
preoccupazione «la tendenza alla configurazione normativa di "tipi di autore”»,
individuati sulla base del titolo astratto del reato commesso, «per i quali la
rieducazione non sarebbe possibile o potrebbe non essere perseguita» (sentenza n. 306 del
1993), e pur censurando con dichiarazioni di illegittimità costituzionale
vari aspetti specifici della disciplina, questa Corte escludeva comunque che la
soluzione adottata dal legislatore potesse ritenersi, di per sé, in contrasto
con l’art. 27, terzo comma, Cost.
La Corte rilevava, infatti,
come il regime speciale risultasse collegato all’accertata commissione di
delitti che «sono […], o possono ritenersi, espressione tipica di una
criminalità connotata da livelli di pericolosità particolarmente elevati, in
quanto la loro realizzazione presuppone di norma, ovvero per la comune
esperienza criminologica, una struttura e una organizzazione criminale tali da
comportare tra gli associati o i concorrenti nel reato vincoli di omertà e di
segretezza particolarmente forti». A fronte di ciò, il legislatore aveva
assunto, non irragionevolmente, la collaborazione con la giustizia ad indice
legale «della rottura dei collegamenti con la criminalità organizzata, che a
sua volta è condizione necessaria, sia pure non sufficiente, per valutare il
venir meno della pericolosità sociale ed i risultati del percorso di
rieducazione e di recupero del condannato, a cui la legge subordina […]
l’ammissione alle misure alternative alla detenzione e agli altri benefici
previsti dall’ordinamento penitenziario» (sentenza n. 273 del
2001). La preclusione sancita dalla norma non era, d’altra parte, assoluta
e definitiva, ma dipendeva da una opzione volontaria del condannato, rivedibile
in ogni momento: quella, appunto, di non collaborare, pur essendo in condizione
di farlo, avendo «la giurisprudenza costituzionale in tema di collaborazione
impossibile, irrilevante o comunque oggettivamente inesigibile» escluso
«qualsiasi automatismo degli effetti nel caso in cui la mancata collaborazione
non [potesse] essere imputata ad una libera scelta del condannato» (sentenza n. 135 del
2003).
Neppure, poi, era
ravvisabile una violazione dell’art. 3 Cost., posto che,
per un verso, l’incentivo alla collaborazione con la giustizia, perseguito dal
legislatore, non poteva qualificarsi come «costrizione» a tale comportamento,
che il detenuto era sempre libero di non adottare, e, per altro verso, «la
condizione di condannato per delitti di criminalità organizzata non era certo
comparabile con quella del comune cittadino», tenuto alla denuncia dei soli
delitti contro la personalità dello Stato puniti con l’ergastolo (sentenza n. 39 del
1994).
3.– L’assetto delineato dai provvedimenti
dei primi anni ’90 veniva modificato, in prosieguo di tempo, da una serie di
novelle legislative, che, da un lato, mutavano l’architettura complessiva
dell’art. 4-bis e, dall’altro, ne
ampliavano progressivamente l’ambito di operatività, con l’innesto di numerose
altre fattispecie criminose nella lista dei reati ostativi. La stratificazione
degli interventi normativi sfociava, alfine, nella riformulazione ad ampio
respiro operata dall’art. 3 del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure
urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale,
nonché in tema di atti persecutori), convertito, con modificazioni, dalla legge
23 aprile 2009, n. 38, che conferiva alla disposizione l’odierna fisionomia (introducendo
anche una "terza fascia” di reati ostativi, rappresentata da delitti a
carattere sessuale, per i quali la concessione dei benefici è subordinata agli
esiti dell’osservazione scientifica della personalità, condotta collegialmente
per almeno un anno).
Concentrando l’attenzione
sulla disposizione del comma 1 dell’art. 4-bis,
riguardante attualmente i soli delitti "di prima fascia” – cui è riferita la
questione in esame – la norma censurata stabilisce che «L’assegnazione al
lavoro all’esterno, i permessi premio e le misure alternative alla detenzione
previste dal capo VI, esclusa la liberazione anticipata, possono essere
concessi ai detenuti e agli internati» per i delitti ivi elencati «solo nei
casi in cui tali detenuti e internati collaborino con la giustizia a norma
dell’articolo 58-ter». L’interessato
deve essersi, cioè, adoperato, anche dopo la condanna, «per evitare che
l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori», ovvero deve aver
«aiutato concretamente l’autorità di polizia o l’autorità giudiziaria nella
raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti o per la
individuazione o la cattura degli autori dei reati».
Recependo le indicazioni di
questa Corte (sentenze n. 68 del 1995, n. 357 del 1994
e n. 306 del
1993), il comma 1-bis dell’art. 4-bis estende la possibilità di accesso
ai benefici ai casi in cui un’utile collaborazione con la giustizia risulti
inesigibile, per la limitata partecipazione del condannato al fatto criminoso
accertata nella sentenza di condanna, ovvero impossibile, per l’integrale
accertamento dei fatti e delle responsabilità, operato con la sentenza
irrevocabile; nonché ai casi in cui la collaborazione offerta dal condannato si
riveli «oggettivamente irrilevante», sempre che, in questa evenienza, sia stata
applicata al condannato taluna delle circostanze attenuanti di cui agli artt.
62, numero 6), 114 o 116 del codice penale. In tutte le ipotesi dianzi indicate
occorre, peraltro, che «siano stati acquisiti elementi tali da escludere
l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o
eversiva».
A seguito delle ricordate
implementazioni, l’elenco dei reati che rendono operante il regime speciale
abbraccia, allo stato, ipotesi criminose notevolmente eterogenee, comprensive
anche dei delitti contro la personalità individuale di cui agli artt. 600 e 601
cod. pen.,
per i quali la detenuta istante nel procedimento a quo ha riportato condanna.
Il nesso con l’originaria matrice politico-criminale della norma si coglie, al
riguardo, nel fatto che la riduzione o il mantenimento in schiavitù o in
servitù e la tratta di persone, nell’attuale momento storico, costituiscono
solitamente espressione del crimine organizzato, anche per il loro frequente
collegamento con lo sfruttamento della prostituzione.
4.– Il giudice a quo non contesta, peraltro,
la legittimità costituzionale del regime di cui all’art. 4-bis, comma 1, della legge n. 354 del 1975, in sé considerato:
reputando, anzi, «comprensibile e ragionevole» che nei confronti degli autori
di delitti di particolare gravità e allarme sociale il legislatore stabilisca
regole di accesso ai benefici penitenziari più severe di quelle valevoli per la
generalità degli altri condannati.
Il rimettente si duole, per
converso, del fatto che il regime restrittivo risulti esteso anche ad una
misura alternativa alla detenzione avente finalità affatto peculiari, che la
porrebbero su un piano nettamente distinto rispetto alle altre, rendendo non
più valida l’indicata conclusione: quale, in particolare, la detenzione
domiciliare speciale prevista dall’art. 47-quinquies
della legge n. 354 del 1975.
Si tratta di istituto la cui
introduzione si colloca – rappresentandone una delle tappe salienti –
nell’ambito del processo di progressivo ampliamento dei presidi a tutela del
rapporto tra condannate madri e figli minori.
Giova, al riguardo,
ricordare come all’epoca dell’emanazione della nuova legge di ordinamento
penitenziario le uniche norme intese a proteggere tale rapporto fossero
costituite dagli artt. 146 e 147, numero 3), cod. pen., che disciplinavano,
rispettivamente, il rinvio obbligatorio (per la donna incinta o con prole di
età non superiore a sei mesi) e il rinvio facoltativo (per la madre di prole di
età non superiore ad un anno) dell’esecuzione della pena.
Il nuovo ordinamento
penitenziario varato con la legge n. 354 del 1975, sebbene ispirato ai principi
di umanizzazione della pena e della rieducazione del condannato, si era
limitato d’altra parte a prevedere, sotto il profilo considerato – oltre alla
presenza, presso ogni istituto penitenziario per donne, di servizi speciali per
l’assistenza sanitaria alle gestanti e alle puerpere – la possibilità per le
detenute madri di tenere presso di sé i figli fino all’età di tre anni, con il
connesso obbligo dell’amministrazione penitenziaria di organizzare appositi
asili nido, per la cura e l’assistenza dei bambini (art. 11, ottavo e nono
comma). Appariva evidente, peraltro, come l’ingresso del minore di tre anni in
carcere costituisse una soluzione largamente insoddisfacente del problema,
giacché, per un verso, si limitava a differire il distacco dalla madre,
rendendolo sovente ancor più drammatico; per altro verso, inseriva il bambino
in un "contesto punitivo” e povero di stimoli, tutt’altro che idoneo alla
creazione di un rapporto affettivo fisiologico con la figura genitoriale.
Un netto progresso, su
questo versante, era segnato dalla legge 10 ottobre 1986, n. 663 (Modifiche
alla legge sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative
e limitative della libertà), che introduceva nel sistema l’istituto della
detenzione domiciliare (art. 47-ter
della legge n. 354 del 1975), identificandone nella madre di prole in tenera
età uno dei destinatari tipici. Tale misura – i cui presupposti soggettivi e
oggettivi di fruibilità venivano successivamente modificati a più riprese dal
legislatore, in senso dilatativo – consentiva al bambino di giovarsi di
un’assistenza materna continuativa in ambiente familiare, o comunque extramurario, malgrado lo stato di detenzione della
genitrice.
Nel testo vigente, il comma
1 del citato art. 47-ter consente, in
particolare, alla madre di prole di età inferiore a dieci anni, con lei
convivente, di espiare in forma extracarceraria la pena della reclusione non
superiore a quattro anni, anche se costituente parte residua di maggior pena,
nonché la pena dell’arresto di qualsiasi entità (lettera a). In accordo con i
principi affermati da questa Corte (sentenza n. 215 del
1990), analoga possibilità è accordata al padre, nel caso in cui la madre
sia deceduta o assolutamente impossibilitata ad assistere la prole (lettera b).
5.– Un ulteriore passo in avanti – e si
giunge così al punto che qui particolarmente interessa – era compiuto dalla legge
8 marzo 2001, n. 40, intitolata specificamente «Misure alternative alla
detenzione a tutela del rapporto tra detenute e figli minori».
A fianco di altri interventi
– tra cui l’ampliamento del rinvio dell’esecuzione della pena, che, nella sua
forma facoltativa, giungeva fino ai tre anni di età del bambino (soglia massima
consentita per la permanenza in carcere con la madre detenuta: ciò, nell’ottica
di limitare quanto più possibile il fenomeno della "carcerizzazione
degli infanti”), e la previsione della possibilità di ammettere le condannate
alla cura e all’assistenza all’esterno dei figli infradecenni
(art. 21-bis della legge n. 354 del
1975) – la novella introduceva la misura della detenzione domiciliare speciale
(art. 47-quinquies della legge n. 354
del 1975).
Come si desume dall’incipit
della norma («Quando non ricorrono le condizioni di cui all’articolo 47-ter»), detto istituto assume natura
"sussidiaria” e "complementare” rispetto alla detenzione domiciliare
"ordinaria” (e segnatamente a quella prevista dal comma 1, lettere a e b, del
citato art. 47-ter), trovando
applicazione in assenza dei presupposti che legittimano il ricorso a
quest’ultima: laddove il riferimento è soprattutto all’ipotesi in cui la pena
detentiva da scontare superi il limite dei quattro anni di reclusione.
In tale evenienza, le
condannate con prole di età non superiore a dieci anni possono essere comunque
ammesse ad espiare la pena «nella propria abitazione, o in altro luogo di
privata dimora, ovvero in luogo di cura, assistenza o accoglienza, al fine di
provvedere alla cura e alla assistenza dei figli», a condizione che abbiano già
espiato almeno un terzo della pena o almeno quindici anni, nel caso di condanna
all’ergastolo (comma 1 dell’art. 47-quinquies).
In aggiunta a ciò, occorre che vi sia «la possibilità di ripristinare la
convivenza con i figli» e che non sussista «un concreto pericolo di commissione
di ulteriori delitti»: condizione, quest’ultima, non esplicitamente enunciata
in rapporto alla detenzione domiciliare ordinaria. Come rilevato da questa
Corte, «il senso dell’estensione si rinviene nel rilievo preminente
dell’interesse dei bambini, che non devono essere eccessivamente penalizzati
dalla differenza di situazione delle rispettive madri in riferimento alla
gravità dei reati commessi ed alla quantità di pena già espiata» (sentenza n. 177 del
2009).
Analogamente a quanto
avviene per detenzione domiciliare ordinaria, è inoltre previsto che, se la
madre è deceduta o versa in condizioni tali da renderle assolutamente
impossibile provvedere alla cura dei figli, e non vi è modo di affidare la
prole ad altri che al padre, la misura in esame può essere concessa anche al
padre detenuto (comma 7 dell’art. 47-quinquies).
6.– L’ultima tappa dell’evoluzione
normativa in esame è costituita dalla legge
21 aprile 2011, n. 62 (Modifiche al codice di procedura penale e alla legge
26 luglio 1975, n. 354, e altre disposizioni a tutela del rapporto tra detenute
madri e figli minori).
Unitamente, anche qui, ad
altri interventi – tra cui la previsione del diritto della madre (o
eventualmente del padre) di visitare all’esterno del carcere il figlio minore
infermo (art. 21-ter della legge n.
354 del 1975) – la nuova legge ha aggiunto all’art. 47-quinquies della legge n. 354 del 1975 il comma 1-bis, stabilendo che l’espiazione della
quota di pena richiesta per la fruizione della detenzione domiciliare speciale
possa avvenire «presso un istituto a custodia attenuata per detenute madri
ovvero, se non sussiste un concreto pericolo di commissione di ulteriori
delitti o di fuga, nella propria abitazione, o in altro luogo di privata
dimora, ovvero in luogo di cura, assistenza o accoglienza, al fine di
provvedere alla cura e all’assistenza dei figli». Qualora, poi, sia impossibile
l’esecuzione nella propria abitazione o in altro luogo di privata dimora, la
quota di pena «può essere espiata nelle case famiglia protette, ove istituite».
In questo modo, dunque, la
madre di prole di età non superiore a dieci anni, condannata a pena detentiva
di lunga durata – o anche all’ergastolo – può essere ammessa ad espiare la
frazione iniziale di detta pena in speciali strutture (gli «istituti a custodia
attenuata per detenute madri»), dotati di sistemi di sicurezza "non invasivi”,
comunque non riconoscibili dai bambini, così da ricreare un’atmosfera prossima
a un normale ambiente familiare; o addirittura, se non vi è pericolo di
commissione di ulteriori delitti o di fuga, può evitare sin dall’inizio
l’ingresso in carcere.
7.– Venendo, con ciò, all’odierno thema decidendum,
va anzitutto escluso – in accordo con il rimettente – che la norma censurata si
presti ad una interpretazione costituzionalmente orientata, in base alla quale
la detenzione domiciliare speciale – proprio in ragione della peculiarità della
sua ratio – resterebbe già adesso estranea alla sfera applicativa del divieto
in discussione.
Una simile lettura si
porrebbe in oggettivo e insuperabile contrasto non solo con l’inequivoca
lettera della legge, ma anche con convergenti indici di ordine sistematico.
La detenzione domiciliare
speciale rientra, infatti, tra le misure alternative alla detenzione previste
dal Capo VI del Titolo I della legge n. 354 del 1975, cui il regime restrittivo
è testualmente riferito (con la sola eccezione della liberazione anticipata).
Al riguardo, non gioverebbe
obiettare che la misura in questione è stata introdotta dalla legge n. 40 del
2001 e che, quindi – sebbene inserita ratione materiae nella suddetta partizione normativa – essa
esula dal novero delle misure avute di mira dal legislatore allorché, dieci
anni prima, aveva varato il regime censurato. A prescindere da ogni altro
rilievo, tale obiezione è superata dal fatto che il comma 1 dell’art. 4-bis della legge n. 354 del 1975 è stato
integralmente riscritto dapprima dalla legge 23 dicembre 2002, n. 279 (Modifica
degli articoli 4-bis e 41-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354,
in materia di trattamento penitenziario) e, quindi, dal già citato d.l. n. 38 del 2011, entrambi successivi alla legge n. 40
del 2001. È evidente, dunque, che se il legislatore avesse voluto realmente
affrancare dalla disciplina preclusiva la detenzione domiciliare speciale – già
presente nel sistema a quelle date – non avrebbe potuto fare a meno di indicarlo
nei nuovi testi.
A riprova di ciò, sta anche
la circostanza che quando il legislatore ha inteso sottrarre al divieto misure
alternative alla detenzione ulteriori rispetto alla liberazione anticipata, lo
ha sancito in modo esplicito. Ciò è avvenuto, in specie, con riferimento alla
detenzione domiciliare dei soggetti affetti da AIDS conclamata o da grave
deficienza immunitaria (art. 47-quater, comma 9, della legge n. 354 del 1975):
misura introdotta anch’essa in epoca successiva al varo dell’originario regime
dell’art. 4-bis.
A sostegno dell’ipotizzata
interpretazione "adeguatrice” non varrebbe neppure far leva sull’espresso
richiamo all’art. 4-bis che compare
nel comma 1-bis dell’art. 47-quinquies (aggiunto, come detto, dalla
legge n. 62 del 2011). Tale ultima disposizione nega, in effetti, alle
condannate per taluno dei delitti indicati nell’art. 4-bis la possibilità di espiare presso un istituto a custodia
attenuata per detenute madri, ovvero in forma extracarceraria, la quota di pena
richiesta per l’accesso alla detenzione domiciliare speciale.
Da ciò non può, tuttavia,
desumersi – con argumentum
a contrario – che, in assenza di analogo richiamo, l’art. 4-bis non si applicherebbe alla concessione della detenzione
domiciliare speciale, disposta ai sensi del comma 1 dello stesso art. 47-quinquies. Come rilevato, infatti, anche
dalla giurisprudenza di legittimità (Corte di cassazione, sezione I, 26
novembre 2003-9 dicembre 2013, n. 49366), nel comma 1-bis il richiamo in questione svolge una funzione autonoma e
ulteriormente limitativa: esso impedisce, cioè, in assoluto alle condannate per
i delitti di cui all’art. 4-bis di
espiare la frazione iniziale di pena con modalità "agevolate”, anche quando si
fosse verificata la condizione che rimuove la preclusione all’accesso ai
benefici penitenziari (nella specie, la collaborazione con la giustizia). Per incidens,
va segnalato che tale autonoma limitazione – stabilita da una norma distinta da
quella censurata – resta estranea all’odierno scrutinio di legittimità costituzionale,
il quale verte sul solo divieto di concessione della detenzione domiciliare
speciale dopo l’espiazione della quota preliminare di pena: istanza sulla quale
il Tribunale rimettente si trova, in concreto, chiamato a decidere.
Quale notazione finale sul
punto, si deve rilevare come la conclusione dianzi prospettata corrisponda
pienamente al "diritto vivente”: registrandosi, allo stato, una generale
convergenza di opinioni, tanto in giurisprudenza che in dottrina, riguardo al
fatto che la detenzione domiciliare speciale ricada anch’essa nel perimetro di
operatività della norma censurata.
8.– Scendendo, quindi, all’esame del merito
delle censure, non può essere condiviso, nella sua assolutezza, l’assunto del
giudice rimettente, secondo il quale la detenzione domiciliare speciale
prescinderebbe «da qualsiasi contenuto rieducativo o trattamentale».
Come rilevato tanto da questa Corte (sentenza n. 177 del
2009) che dalla giurisprudenza di legittimità (Corte di cassazione, sezione
I, 7 marzo 2013-19 settembre 2013, n. 38731; Corte di cassazione, sezione I, 20
ottobre 2006-14 dicembre 2006, n. 40736), la misura in questione partecipa, in
realtà, anch’essa della finalità di reinserimento sociale del condannato,
costituente l’obiettivo comune di tutte le misure alternative alla detenzione:
il che è comprovato tanto dal requisito negativo di fruibilità, rappresentato
dalla insussistenza del pericolo di commissione di ulteriori delitti, quanto
dalla disciplina delle modalità di svolgimento della misura e delle ipotesi di
revoca (art. 47-quinquies, commi 3 e
seguenti, e 47-sexies della legge n. 354 del 1975).
Ciò nondimeno, è indubbio
che nell’economia dell’istituto assuma un rilievo del tutto prioritario
l’interesse di un soggetto debole, distinto dal condannato e particolarmente
meritevole di protezione, quale quello del minore in tenera età ad instaurare
un rapporto quanto più possibile "normale” con la madre (o, eventualmente, con
il padre) in una fase nevralgica del suo sviluppo. Interesse che – oltre a
chiamare in gioco l’art. 3 Cost., in rapporto
all’esigenza di un trattamento differenziato – evoca gli ulteriori parametri
costituzionali richiamati dal rimettente (tutela della famiglia, diritto-dovere
di educazione dei figli, protezione dell’infanzia: artt. 29, 30 e 31 Cost.).
Pronunciando su una
questione strutturalmente diversa da quella in esame, ma che vedeva anch’essa
contrapposta la pretesa punitiva statale all’esigenza di tutela del minore,
questa Corte ha già avuto modo di porre in evidenza la speciale rilevanza
dell’«interesse del figlio minore a vivere e a crescere nell’ambito della
propria famiglia, mantenendo un rapporto equilibrato e continuativo con
ciascuno dei genitori, dai quali ha diritto di ricevere cura, educazione ed
istruzione»: «interesse complesso, articolato in diverse situazioni giuridiche,
che hanno trovato riconoscimento e tutela sia nell’ordinamento internazionale
sia in quello interno» (sentenza n. 31 del
2012; in senso analogo, sentenza n. 7 del
2013). A fianco dei richiamati imperativi costituzionali – tra cui,
anzitutto, quello che demanda alla Repubblica di proteggere l’infanzia,
«favorendo gli istituti necessari a tale scopo» (art. 31, secondo comma, Cost.)
– vengono in particolare considerazione, sul piano internazionale, le
previsioni dell’art. 3, primo comma, della Convenzione sui diritti del
fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva in
Italia con legge 27 maggio 1991, n. 176, e dell’art. 24, secondo comma, della
Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea del 7 dicembre 2000, adattata
il 12 dicembre 2007 a Strasburgo. Entrambe le disposizioni qualificano,
infatti, come «superiore» l’interesse del minore, stabilendo che in tutte le
decisioni relative ai minori, adottate da autorità pubbliche o istituzioni
private, detto interesse deve essere considerato «preminente»: precetto che
assume evidentemente una pregnanza particolare quando si discuta dell’interesse
del bambino in tenera età a godere dell’affetto e delle cure materne.
9.– Assoggettando anche la detenzione
domiciliare speciale al regime "di rigore” sancito dall’art. 4-bis, comma 1, della legge n. 354 del
1975 il legislatore ha, dunque, accomunato fattispecie tra loro profondamente
diversificate.
Tale omologazione di
trattamento appare senz’altro lesiva dei parametri costituzionali evocati ove
si guardi alla ratio storica primaria del regime in questione, rappresentata
dalla incentivazione alla collaborazione, quale strategia di contrasto della
criminalità organizzata. Un conto, infatti, è che tale strategia venga
perseguita tramite l’introduzione di uno sbarramento alla fruizione di benefici
penitenziari costruiti – com’è di norma – unicamente in chiave di progresso trattamentale del condannato, sbarramento rimuovibile
tramite la condotta collaborativa; altro conto è che la preclusione investa una
misura finalizzata in modo preminente alla tutela dell’interesse di un soggetto
distinto e, al tempo stesso, di particolarissimo rilievo, quale quello del
minore in tenera età a fruire delle condizioni per un migliore e più equilibrato
sviluppo fisio-psichico. In questo modo, il "costo”
della strategia di lotta al crimine organizzato viene traslato su un soggetto
terzo, estraneo tanto alle attività delittuose che hanno dato luogo alla
condanna, quanto alla scelta del condannato di non collaborare.
La conclusione non muta,
peraltro, neppure se si guarda all’altra e concorrente ratio del regime
considerato, scrutinata in precedenza con esito positivo da questa Corte e
legata più direttamente alla funzione rieducativa della pena. La subordinazione
dell’accesso alle misure alternative ad un indice legale del "ravvedimento” del
condannato – la condotta collaborativa, in quanto espressiva della rottura del
"nesso” tra il soggetto e la criminalità organizzata (nesso, peraltro, a sua
volta presuntivamente desunto dal tipo di reato che fonda il titolo detentivo)
– può risultare giustificabile quando si discuta di misure che hanno di mira,
in via esclusiva, la risocializzazione dell’autore della condotta illecita.
Cessa, invece, di esserlo quando al centro della tutela si collochi un
interesse "esterno” ed eterogeneo, del genere di quello che al presente viene
in rilievo.
È ben vero che nemmeno
l’interesse del minore a fruire in modo continuativo dell’affetto e delle cure
materne, malgrado il suo elevato rango, forma oggetto di protezione assoluta,
tale da sottrarlo ad ogni possibile bilanciamento con esigenze contrapposte,
pure di rilievo costituzionale, quali quelle di difesa sociale, sottese alla
necessaria esecuzione della pena inflitta al genitore in seguito alla
commissione di un reato. Come già rilevato da questa Corte (sentenza n. 177 del
2009), proprio ad una simile logica di bilanciamento risponde, in effetti,
la disciplina delle condizioni di accesso alla detenzione domiciliare speciale
stabilite dall’art. 47-quinquies,
comma 1, della legge n. 354 del 1975: condizioni tra le quali figura anche
quella, più volte ricordata, della insussistenza di un concreto pericolo di
commissione di ulteriori delitti da parte della condannata.
Ma affinché l’interesse del
minore possa restare recessivo di fronte alle esigenze di protezione della
società dal crimine occorre che la sussistenza e la consistenza di queste
ultime venga verificata, per l’appunto, in concreto – così come richiede la
citata disposizione – e non già collegata ad indici presuntivi – quali quelli
prefigurati dalla norma censurata – che precludono al giudice ogni margine di
apprezzamento delle singole situazioni.
10.– L’art. 4-bis, comma 1, della legge n. 354 del 1975 va dichiarato, pertanto,
costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non esclude dal divieto di
concessione dei benefici penitenziari, da esso stabilito, la misura della
detenzione domiciliare speciale prevista dall’art. 47-quinquies della medesima legge.
La dichiarazione di
illegittimità costituzionale va estesa, in via consequenziale, anche alla
misura della detenzione domiciliare ordinaria prevista dall’art. 47-ter, comma 1, lettere a) e b), della
legge n. 354 del 1975: ciò, per evitare che una misura avente finalità
identiche alla detenzione domiciliare speciale, ma riservata a soggetti che
debbono espiare pene meno elevate, resti irragionevolmente soggetta ad un
trattamento deteriore in parte qua. In tale ipotesi, la concessione della
misura rimane comunque subordinata alla verifica della insussistenza di un
concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti: condizione, come detto,
non enunciata in modo esplicito dal citato art. 47-ter, ma che deve comunque ricorrere, secondo la giurisprudenza,
stante l’evidenziata ratio comune delle misure alternative alla detenzione (sentenza n. 177 del
2009).
Ai sensi dell’art. 27 della
legge 11 marzo 1953, n. 87, l’art. 4-bis,
comma 1, della legge n. 354 del 1975 va dichiarato, pertanto,
costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non esclude dal divieto di
concessione dei benefici penitenziari la misura della detenzione domiciliare
prevista dall’art. 47-ter, comma 1,
lettere a) e b), della medesima legge, ferma restando la condizione
dell’insussistenza di un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti.
per questi
motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara l’illegittimità
costituzionale dell’art. 4-bis, comma
1, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e
sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella
parte in cui non esclude dal divieto di concessione dei benefici penitenziari,
da esso stabilito, la misura della detenzione domiciliare speciale prevista
dall’art. 47-quinquies della medesima
legge;
2) dichiara, in applicazione
dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, l’illegittimità costituzionale
dell’art. 4-bis, comma 1, della legge
n. 354 del 1975, nella parte in cui non esclude dal divieto di concessione dei
benefici penitenziari, da esso stabilito, la misura della detenzione
domiciliare prevista dall’art. 47-ter,
comma 1, lettere a) e b), della medesima legge, ferma restando la condizione
dell’insussistenza di un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti.
Così deciso in Roma, nella
sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 ottobre 2014.
F.to:
Giuseppe TESAURO, Presidente
Giuseppe FRIGO, Redattore
Gabriella Paola MELATTI,
Cancelliere
Depositata in Cancelleria il
22 ottobre 2014.