SENTENZA N. 77
ANNO 2018
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO
ITALIANO
LA CORTE
COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Giorgio LATTANZI
Presidente
- Aldo CAROSI Giudice
- Marta CARTABIA ”
- Mario Rosario MORELLI
”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Silvana SCIARRA ”
- Daria de PRETIS ”
- Nicolò ZANON ”
- Franco MODUGNO ”
- Augusto Antonio BARBERA ”
- Giulio PROSPERETTI ”
- Giovanni AMOROSO ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale
dell’art. 92, secondo comma, del codice
di procedura civile, come modificato dall’art. 13 del decreto-legge
12 settembre 2014, n. 132 (Misure urgenti di degiurisdizionalizzazione
ed altri interventi per la definizione dell’arretrato in materia di processo
civile), convertito, con modificazioni, nella legge 10 novembre 2014, n. 162,
promossi dal Tribunale ordinario di Torino in funzione di giudice del lavoro,
con ordinanza del 30 gennaio 2016 e dal Tribunale ordinario di Reggio Emilia in
funzione di giudice del lavoro, con ordinanza del 28 febbraio 2017, iscritte
rispettivamente al n. 132 del
registro ordinanze 2016 e al n. 86 del
registro ordinanze 2017 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica n. 28, prima serie speciale, dell’anno 2016 e n. 25, prima serie
speciale, dell’anno 2017.
Visti gli atti di
costituzione di Antonio Benedetto, della REAR società cooperativa a rl, di Elvira Rasulova, nonché
gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri e della
Confederazione generale italiana del lavoro (CGIL);
udito nella udienza
pubblica del 7 marzo 2018 il Giudice relatore Giovanni Amoroso;
uditi gli avvocati
Alberto Piccinini e Amos Andreoni per Elvira Rasulova, Vincenzo Martino e Amos Andreoni
per Antonio Benedetto, Giorgio Frus per la REAR
società cooperativa a rl e l’avvocato dello Stato
Vincenzo Rago per il Presidente del Consiglio dei
ministri.
Ritenuto
in fatto
1.- Il Tribunale ordinario di Torino ed il
Tribunale ordinario di Reggio Emilia, entrambi in funzione di giudice del
lavoro, con le ordinanze rispettivamente del 30 gennaio 2016 e del 28 febbraio
2017, iscritte al n. 132 del 2016 e al n. 86 del 2017 del registro ordinanze,
hanno sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 92, secondo
comma, del codice di procedura civile, nel testo modificato dall’art. 13, comma
1, del decreto-legge 12 settembre 2014, n. 132 (Misure urgenti di degiurisdizionalizzazione ed altri interventi per la
definizione dell’arretrato in materia di processo civile), convertito, con
modificazioni, nella legge 10 novembre 2014, n. 162; disposizione questa che
prevede che il giudice, se vi è soccombenza reciproca ovvero nel caso di
assoluta novità della questione trattata o mutamento della giurisprudenza
rispetto a questioni dirimenti, può compensare le spese tra le parti,
parzialmente o per intero.
Le ordinanze fanno riferimento a plurimi
parametri in parte coincidenti. Il Tribunale ordinario di Torino richiama gli artt. 3, primo comma,
24, primo comma,
e 111, primo comma, della
Costituzione; il Tribunale ordinario di Reggio Emilia deduce gli artt. 3, primo e secondo
comma, 24, 25, primo comma, 102, 104 e 111 Cost.,
nonché gli artt. 21 e 47
della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a
Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, e gli
artt. 6, 13 e 14 della Convenzione
europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali
(CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con
legge 4 agosto 1955, n. 848, questi ultimi come parametri interposti per il
tramite dell’art.
117, primo comma, Cost.
Entrambi i giudici rimettenti incentrano i dubbi
di legittimità costituzionale della disposizione censurata sulla mancata
previsione, in caso di soccombenza totale, del potere del giudice di compensare
le spese di lite tra le parti anche in casi ulteriori rispetto a quelli ivi
previsti. Il solo Tribunale di Reggio Emilia deduce altresì la mancata
considerazione del lavoratore ricorrente come parte "debole” del rapporto
controverso al fine della regolamentazione delle spese processuali.
2.- In particolare, il Tribunale ordinario di
Torino è investito del ricorso proposto da un socio lavoratore di una società
cooperativa, con mansioni di addetto al controllo ingressi e alla viabilità,
avente ad oggetto, in via principale, la domanda di ricalcolo retributivo in
base ad un contratto collettivo diverso da quello applicato dalla datrice di
lavoro, con conseguente richiesta di condanna della società resistente al
pagamento delle relative differenze retributive; in via subordinata, il ricorso
ha ad oggetto la domanda di condanna della società resistente al pagamento
delle integrazioni contrattuali delle indennità legali di infortunio e malattia
computate con riferimento al contratto collettivo applicato dalla società.
A fondamento della domanda il socio lavoratore
ricorrente ha dedotto che la società aveva fatto applicazione di un contratto
collettivo sottoscritto da organizzazioni datoriali e sindacali non
sufficientemente rappresentative ed ha quindi chiesto l’applicazione, ai fini
della verifica della congruità retributiva, di altro diverso contratto
collettivo, già utilizzato in vertenze similari.
La società si è costituita ed ha chiesto il
rigetto delle domande indicando, sempre ai fini del giudizio di congruità della
retribuzione, quale termine di raffronto, un contratto collettivo ulteriormente
diverso da quello invocato dal ricorrente. Quanto alla domanda subordinata, la
resistente ha osservato che l’esclusione dell’integrazione contrattuale delle
indennità legali di malattia e di infortunio aveva fatto seguito ad una
delibera assembleare del 20 giugno 2011, approvata per garantire la
sopravvivenza della società messa in stato di crisi, in conformità all’art. 6,
comma 1, lettere d) ed e), della legge 3 aprile 2001, n. 142 (Revisione della legislazione
in materia cooperativistica, con particolare riferimento alla posizione del
socio lavoratore).
Ciò premesso, il rimettente, dopo aver disposto
consulenza contabile, ha rigettato entrambe le domande con sentenza qualificata
"non definitiva” e, con separata ordinanza, ha disposto la prosecuzione del
giudizio per la definizione del regolamento delle spese di lite; all’esito di
discussione orale ha sollevato, d’ufficio, questione di legittimità
costituzionale dell’art. 92, secondo comma, cod. proc.
civ., nel testo novellato dall’art. 13, comma 1, del citato d.l.
n. 132 del 2014, quale convertito in legge.
Ad avviso del rimettente si configurerebbe la
violazione dell’art. 3, primo comma, Cost., sotto il
profilo del principio di ragionevolezza, in quanto sussisterebbe una
sproporzione tra il fine perseguito - quello di «disincentivare l’abuso del
processo» - e lo strumento normativo utilizzato, consistito nella «limitazione
estrema ed oltre ogni misura delle ipotesi di compensazione» delle spese di lite.
Mentre il testo, come modificato dalla legge 18 giugno 2009, n. 69
(Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività
nonché in materia di processo civile), era già «del tutto sufficiente a
scongiurare eventuali abusi, da parte del giudice, nell’uso dello strumento
della compensazione contenendo essa già una regolamentazione del tutto rigorosa
ed appropriata».
Il medesimo parametro sarebbe poi violato –
secondo il giudice rimettente - sotto il profilo del principio di eguaglianza,
avuto riguardo alle situazioni contemplate dalla norma raffrontate, quali tertia comparationis, con quelle
escluse, di pari gravità ed eccezionalità, individuate dalla giurisprudenza di
legittimità.
Il tribunale rimettente deduce altresì la
violazione dell’art. 24, primo comma, Cost., in
quanto la riduzione delle ipotesi di compensazione soltanto a due (oltre a
quella tradizionale della soccombenza reciproca) «tende […] a scoraggiare in
modo indebito l’esercizio dei diritti in sede giudiziaria, divenendo così uno
strumento deflattivo (e punitivo) incongruo» nelle ipotesi in cui la condotta
della parte, poi risultata soccombente, non integra casi di abuso del processo,
ma sia improntata a correttezza, prudenza e buona fede.
Parimenti sarebbe violato l’art. 111, primo
comma, Cost., sotto il profilo del principio del
giusto processo, in quanto la disposizione censurata, consentendo la
compensazione nei soli casi indicati, «limita il potere - dovere del giudice di
rendere giustizia, anche in ordine al regolamento delle spese di lite, in modo
appropriato al caso concreto».
3.- Nel giudizio incidentale di legittimità
costituzionale promosso dal Tribunale ordinario di Torino si sono costituite le
parti del giudizio a quo, che hanno depositato memorie.
Il lavoratore socio ha aderito alle censure
mosse dall’ordinanza di rimessione, ribadendo ciò con successiva memoria e
concludendo per la dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 92,
secondo comma, cod. proc. civ.
La società resistente ha rilevato in via
preliminare che la regolamentazione delle spese di lite non è suscettibile di
autonomo distinto giudizio, richiamando a tal proposito l’ordinanza n. 314
del 2008 di questa Corte. Nel merito sottolinea come la disposizione
censurata non costituisca uno «strumento punitivo incongruo», essendo
ragionevole porre, di regola, i costi del processo a carico di colui che lo ha
attivato con esito negativo, e limitare la possibile compensazione delle spese
di lite ad ipotesi tassativamente previste, stante il carattere eccezionale
delle medesime.
È intervenuto il Presidente del Consiglio dei
ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato,
concludendo per l’inammissibilità o l’infondatezza della sollevata questione di
legittimità costituzionale. In particolare la difesa dell’interveniente afferma
la ragionevolezza della individuazione da parte del legislatore, nell’esercizio
dell’ampia discrezionalità di cui egli gode in materia processuale, di ipotesi
specifiche e tassative che giustifichino la compensazione delle spese di lite.
Si tratterebbe di una scelta che non entra in collisione con i parametri
costituzionali che il giudice rimettente assume essere violati e che integrerebbe
il giusto mezzo per conseguire la finalità deflativa al fine di
«disincentivare» l’abuso del processo.
È intervenuta ad adiuvandum
la Confederazione generale italiana del lavoro (CGIL), concludendo per
l’ammissibilità dell’intervento e, nel merito, per la dichiarazione di
illegittimità costituzionale della censurata disposizione.
4.- Il Tribunale ordinario di Reggio Emilia è
investito di una controversia avente ad oggetto l’impugnazione del
licenziamento, azionata mediante ricorso proposto ai sensi dell’art.1, commi 48
e seguenti, della legge 28 giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in materia di
riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita). Si tratta di
una lavoratrice che ha impugnato il licenziamento intimatole in data 30
novembre 2015 dalla Italservizi srl
(poi Agriservice MO srl in
liquidazione) con decorrenza dal 31 dicembre 2015.
In particolare la lavoratrice ha agito nei
confronti di numerosi convenuti (Burani Interfood
spa, Servizi Commerciali Integrati srl, Agriservice MO srl e Burani
Stefano Luigi personalmente ed in proprio), affermando l’esistenza «di un unico
centro di imputazione giuridica o gruppo d’imprese e la contemporanea
utilizzazione della prestazione lavorativa da parte di tutti i convenuti»,
sicché l’intervenuto licenziamento era da porre nel nulla nei confronti di
ognuno dei soggetti chiamati in causa.
Si è costituita, tra le altre parti, la Burani Interfood spa, che ha eccepito, in via preliminare,
l’inammissibilità del ricorso essendo intervenuta il 25 gennaio 2016 la revoca
del licenziamento da parte della Agriservice MO srl (successivamente in liquidazione).
All’esito della prima fase del procedimento (a
cognizione sommaria) il rimettente ha pronunciato un’ordinanza di inammissibilità
del ricorso per carenza di interesse ad agire della ricorrente per mancanza del
licenziamento e, in merito alle spese di lite, ha condannato la lavoratrice al
rimborso di quelle sostenute dalla attuale (almeno formalmente) datrice di
lavoro Agriservice MO srl
in liquidazione, mentre le ha compensate con riferimento alle altre parti
convenute.
Nei confronti del capo dell’ordinanza relativo
alla liquidazione delle spese della fase sommaria, la sola Burani Interfood spa ha proposto opposizione per la mancanza dei
presupposti richiesti a tal fine dall’art. 92, secondo comma, cod. proc. civ. e per l’assenza di motivazione in merito alla
disposta compensazione per le altre parti, censurando infine la disparità di
trattamento rispetto alla Agriservice MO srl.
Nel giudizio di opposizione si è costituita la
lavoratrice per contestare in fatto e in diritto l’opposizione e ha sollevato
eccezione di illegittimità costituzionale dell’art. 92, secondo comma, cod. proc. civ., evidenziando come un’interpretazione rigida di
tale disposizione determinerebbe un’illegittima riduzione della discrezionalità
del giudice nella valutazione degli elementi idonei a giustificare la
compensazione delle spese di lite.
Anche il Tribunale ordinario di Reggio Emilia
chiede alla Corte di dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 92,
secondo comma, cod. proc. civ., nel testo modificato
dall’art. 13, comma 1, del d.l. n. 132 del 2014,
convertito, con modificazioni, nella legge n. 162 del 2014, nella parte in cui
- nelle cause di lavoro o di previdenza, nelle quali l’attore in primo grado è
quasi sempre il lavoratore – non prevede il potere del giudice di valutare «i
gravi ed eccezionali motivi» per compensare le spese di lite.
Ad avviso del rimettente si configurerebbe la
violazione degli artt. 3, primo e secondo comma, 24 e 111 Cost.,
in quanto la disposizione censurata «priva irragionevolmente il Giudice della
essenziale funzione di giustizia, ovvero quella di adeguare la pronunzia alle
peculiarità del modello processuale ed alle condizioni personali e circostanze
concrete del caso di specie»; dà luogo alla manifesta violazione del principio
di uguaglianza sostanziale «che esigerebbe un trattamento differenziato, ma di
vantaggio, per il soggetto più debole e costretto ad agire giudizialmente» per
vedere accertata l’illegittimità del provvedimento datoriale, trattandosi, di
regola, di «controversie a "controprova”»; «esercita di fatto una gravissima
limitazione del diritto all’effettività dell’accesso alla giustizia in danno del
lavoratore», già gravato dagli oneri economici, non detraibili, del pagamento
del contributo unificato, dell’anticipazione delle spese legali e dell’IVA;
limita il diritto all’effettività dell’accesso alla giustizia «in termini di
pesante "deterrenza” in modo proporzionalmente (e vieppiù irragionevolmente)
maggiore per quanto minore sia la capacità economica del lavoratore»; colpisce,
irragionevolmente, anche la parte incolpevole che non ha «abusato» del processo
o che non ha invocato diritti, «che a priori, sapeva essere inesistenti».
Inoltre, sempre ad avviso del rimettente,
sarebbero violati gli artt. 25, primo comma, 102 e 104 Cost.,
in quanto l’intervenuto d.l. n. 132 del 2014
costituirebbe un’ingerenza del potere legislativo su quello giudiziario comprimendo
oltremodo la discrezionalità del giudice.
Il tribunale rimettente deduce poi la violazione
dell’art. 117, primo comma, Cost. in relazione
all’art. 47 CDFUE che esige l’effettività del diritto d’azione e di accesso
alla giustizia e l’equità del processo, «quest’ultima irragionevolmente lesa da
una sanzione che colpisce una parte che non ha "responsabilità” processuale
(nelle cause "a controprova”)»; nonché in relazione agli artt. 6 e 13 CEDU, in
rapporto al «diritto all’equo processo» ed al diritto ad un «ricorso
effettivo», in quanto la modifica dell’art. 92, secondo comma, cod. proc. civ. in chiave specificamente deflativa, rappresenta
un mezzo sproporzionato rispetto allo scopo perseguito.
Altresì sarebbero violati gli artt. 14 CEDU e 21
CDFUE, in relazione al principio di non discriminazione, derivante dal divieto
per il giudice di tener conto della condizione personale del lavoratore, «così
pregiudicandone il diritto di azione proprio in ragione della limitata capacità
economica, anche a prescindere da ragioni di "colpevolezza processuale”».
Il rimettente poi osserva che nel processo del
lavoro sono frequenti le controversie cosiddette "a controprova”, nel senso che
il lavoratore deve introdurle non disponendo di tutti i dati che incidono sulla
legittimità, o meno, del provvedimento datoriale che egli ha già subito e di
cui chiede al giudice il controllo di legittimità, da operare appunto all’esito
dell’assolvimento della prova da parte del datore di lavoro convenuto in
giudizio.
Con specifico riferimento alle controversie di
lavoro, il rimettente deduce inoltre che il lavoratore, per introdurre la causa
in primo grado, deve, di regola, sostenere l’onere del contributo unificato,
l’anticipazione delle spese legali e spesso di quelle per conteggi, oltre
all’IVA sulla prestazione dei professionisti; e tutti questi oneri, come pure
quello eventuale delle spese di soccombenza, non sono detraibili. Al contrario,
il datore, di regola, potrà recuperare l’IVA sulle prestazioni del difensore e
detrarrà dal reddito la relativa parcella, come le spese di eventuale
soccombenza.
In riferimento al principio di non
discriminazione sancito nella CEDU, il rimettente osserva come la
discriminazione vietata dall’art. 14 della Convenzione consista nel trattare in
modo differente, salvo una giustificazione obiettiva e ragionevole, le persone
che si trovano in situazioni simili o analoghe e che una distinzione è
discriminatoria se non persegua uno scopo legittimo o se non sussiste un
rapporto di ragionevole proporzionalità tra i mezzi impiegati e lo scopo che si
è prefissata.
Quanto alla rilevanza della sollevata questione
di legittimità costituzionale, il giudice a quo pone in rilievo che la
lavoratrice, originaria ricorrente nel procedimento per l’impugnazione del licenziamento,
è convenuta in opposizione, dalla società cui non è stato ritenuto
riconducibile il licenziamento, per essere condannata alla rifusione delle
spese processuali sia della prima fase (sommaria), sia di quella attuale di
opposizione; il rimettente afferma che la vicenda riveste una peculiarità
oggettiva tale da rendere difficile una ricostruzione in fatto degli
avvenimenti, per i numerosi passaggi subiti dal lavoratore da una società
all’altra nonché per la necessità di procedere alla ricostruzione delle
trasformazioni e cessioni societarie avvenute, in forza delle quali le plurime
aziende coinvolte, tra loro collegate di fatto o in diritto, hanno cambiato
nome, assetto e composizione societaria, ceduto rami d’azienda ed effettuato
altre intricate modifiche interne.
5.- Nel giudizio incidentale si è costituita la
lavoratrice, depositando anche memoria, ed ha concluso per la fondatezza della
questione.
È intervenuto il Presidente del Consiglio dei
ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato,
concludendo per l’inammissibilità o l’infondatezza della sollevata questione di
legittimità costituzionale. La difesa dell’interveniente svolge sostanzialmente
le medesime argomentazioni già prospettate nell’altro giudizio incidentale, deducendo,
in particolare, che nell’ambito di controversie in materia di lavoro, dove una
delle parti in causa potrebbe risultare economicamente svantaggiata rispetto
all’altra, l’indicazione tassativa delle ipotesi in cui è possibile procedere
alla compensazione delle spese di lite non determina un effetto preclusivo del
ricorso alla tutela giurisdizionale.
Considerato
in diritto
1.– Con ordinanza del 30 gennaio 2016, iscritta
al n. 132 del registro ordinanze 2016, il Tribunale ordinario di Torino, in
funzione di giudice del lavoro, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3,
primo comma, 24, primo comma, e 111, primo comma, della Costituzione, questione
di legittimità costituzionale dell’art. 92, secondo comma, del codice di
procedura civile, nel testo modificato dall’art. 13, comma 1, del decreto-legge
12 settembre 2014, n. 132 (Misure urgenti di degiurisdizionalizzazione
ed altri interventi per la definizione dell’arretrato in materia di processo
civile), convertito, con modificazioni, nella legge 10 novembre 2014, n. 162,
nella parte in cui non consente, in caso di soccombenza totale, la
compensazione delle spese di lite anche in altre ipotesi di gravi ed
eccezionali ragioni, analoghe a quelle indicate in modo tassativo dalla
disposizione stessa, ossia l’«assoluta novità della questione trattata» e il
«mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti».
La questione è stata sollevata nel corso di un
giudizio civile promosso da un socio lavoratore di una società cooperativa, per
ottenere la condanna di quest’ultima al pagamento di differenze di compenso per
l’attività svolta calcolate sulla base delle tariffe del contratto collettivo
ritenute applicabili ai sensi dell’art. 3, comma 1, della legge 3 aprile 2001,
n. 142 (Revisione della legislazione in materia cooperativistica, con
particolare riferimento alla posizione del socio lavoratore), e dell’art. 7,
comma 4, del decreto-legge 31 dicembre 2007, n. 248 (Proroga di termini
previsti da disposizioni legislative e disposizioni urgenti in materia
finanziaria), convertito, con modificazioni, nella legge 28 febbraio 2008, n.
31. In via subordinata lo stesso ricorrente aveva chiesto il riconoscimento di
un’integrazione contrattuale delle indennità previste in caso di infortunio e
di malattia.
Il tribunale, pronunciandosi nell’instaurato
contraddittorio delle parti, ha rigettato, con sentenza qualificata "non
definitiva”, sia la domanda principale che quella subordinata, ed ha disposto
la prosecuzione del giudizio per la definizione della questione residua,
concernente il regolamento delle spese di lite. In tale sede, ha sollevato
d’ufficio la questione di legittimità costituzionale dell’art. 92, secondo
comma, cod. proc. civ., con riferimento ai parametri
suddetti ritenendo che la limitazione a due sole ipotesi tassative della
possibilità per il giudice di compensare le spese di lite in caso di
soccombenza totale sia contraria al principio di ragionevolezza e di
eguaglianza, nonché a quello del giusto processo e comporti un’eccessiva remora
a far valere i propri diritti in giudizio.
Secondo il tribunale rimettente, nella specie,
l’esito della lite, sfavorevole al lavoratore, è dipeso da elementi di fatto
nuovi, non previsti né prevedibili: da una parte una contrattazione collettiva
utilizzata parametricamente dal consulente tecnico d’ufficio per calcolare le
rivendicate differenze retributive, la quale era diversa sia da quella
applicata dalla società, sia da quella allegata dal lavoratore a sostegno della
sua pretesa; d’altra parte una non conosciuta delibera della società che aveva
(legittimamente) sospeso l’erogazione del trattamento integrativo di malattia e
di infortunio, parimenti rivendicato dal lavoratore.
2.- Con ordinanza del 28 febbraio 2017, iscritta
al n. 86 del registro ordinanze 2017, il Tribunale ordinario di Reggio Emilia,
in funzione di giudice del lavoro, ha sollevato analoghe questioni di
legittimità costituzionale della medesima disposizione, per contrasto con gli
artt. 3, primo e secondo comma; 24; 25, primo comma; 102; 104 e 111 Cost.; nonché degli artt. 21 e 47 della Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000
e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, e degli artt. 6, 13 e 14 della
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa
esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, questi ultimi come parametri
interposti per il tramite dell’art. 117, primo comma, Cost.
La questione è stata sollevata nel corso di una
controversia di lavoro avente ad oggetto l’impugnativa di un licenziamento,
promossa con il rito di cui all’art. 1, comma 48, della legge 28 giugno 2012,
n. 92 (Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una
prospettiva di crescita), da una lavoratrice nei confronti non solo della
società che aveva intimato il licenziamento, ma anche di altre società,
sull’asserito presupposto di un unico centro di imputazione giuridica del
rapporto di lavoro, stante la contemporanea utilizzazione della prestazione
lavorativa da parte di tutte le società convenute. La fase sommaria si
concludeva con un’ordinanza di inammissibilità del ricorso per essere stato il
licenziamento revocato. Quanto alle spese di lite il tribunale condannava la
lavoratrice al pagamento delle spese nei confronti della società che aveva
formalmente intimato – e poi revocato – il licenziamento; invece le compensava
tra la lavoratrice e le altre società convenute in giudizio. Avverso questa
ordinanza proponeva opposizione una sola di queste ultime società, dolendosi
della compensazione delle spese di lite e chiedendo la condanna della
lavoratrice, originaria ricorrente, al pagamento delle stesse. Quest’ultima ha
resistito all’opposizione eccependo, tra l’altro, l’illegittimità
costituzionale dell’art. 92, secondo comma, cod. proc.
civ.; eccezione che il giudice dell’opposizione ha accolto promuovendo
l’incidente di legittimità costituzionale con riferimento ai parametri sopra
indicati e muovendo censure analoghe a quelle del Tribunale di Torino, nonché
lamentando che non venga in rilievo la posizione del lavoratore quale parte
"debole” del rapporto controverso.
Secondo il tribunale rimettente l’utilizzazione
delle prestazioni lavorative da parte non solo della società datrice di lavoro,
ma anche di altre società, aveva creato l’apparenza di un unico centro di
imputazione del rapporto di lavoro con conseguente grave incertezza in ordine a
chi fosse il reale datore; sicché non ingiustificata appariva l’evocazione in
giudizio delle varie società interessate.
3.– Le questioni di legittimità costituzionale,
sollevate dal Tribunale ordinario di Torino e dal Tribunale ordinario di Reggio
Emilia, sono in larga parte sovrapponibili e quindi si rende opportuna la loro
trattazione congiunta mediante riunione dei giudizi.
4.– Va preliminarmente considerato che nel
giudizio di legittimità costituzionale originato dall’ordinanza di rimessione
del giudice del lavoro di Torino è intervenuta ad adiuvandum
la Confederazione generale italiana del lavoro (CGIL), aderendo alle
argomentazioni contenute nell’ordinanza di rimessione e chiedendo
l’accoglimento della prospettata questione di legittimità costituzionale.
L’Avvocatura generale dello Stato e la difesa
della società costituita hanno eccepito l’inammissibilità di tale intervento.
L’intervento è inammissibile.
La costante giurisprudenza di questa Corte (tra
le tante, le ordinanze allegate alle sentenze n. 16 del 2017,
n. 237 e n. 82 del 2013,
n. 272 del 2012,
n. 349 del 2007,
n. 279 del 2006
e n. 291 del
2001) è nel senso che la partecipazione al giudizio incidentale di
legittimità costituzionale è circoscritta, di norma, alle parti del giudizio a
quo, oltre che al Presidente del Consiglio dei ministri e, nel caso di legge
regionale, al Presidente della Giunta regionale (artt. 3 e 4 delle Norme
integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale).
A tale disciplina è possibile derogare - senza
venire in contrasto con il carattere incidentale del giudizio di
costituzionalità - soltanto a favore di soggetti terzi che siano titolari di un
interesse qualificato, immediatamente inerente al rapporto sostanziale dedotto
in giudizio e non semplicemente regolato, al pari di ogni altro, dalla norma o
dalle norme oggetto di censura. Pertanto, l’incidenza sulla posizione
soggettiva dell’interveniente deve derivare non già, come per tutte le altre
situazioni sostanziali disciplinate dalla disposizione denunciata, dalla
pronuncia della Corte sulla legittimità costituzionale della legge stessa, ma
dall’immediato effetto che la pronuncia della Corte produce sul rapporto
sostanziale oggetto del giudizio a quo.
Nella specie – essendo la CGIL titolare non di
un interesse direttamente riconducibile all’oggetto del giudizio principale,
bensì di un mero indiretto, e più generale, interesse connesso agli scopi
statutari della tutela degli interessi economici e professionali degli iscritti
– il suo intervento in questo giudizio deve essere dichiarato inammissibile.
5.– Ancora in via preliminare l’Avvocatura generale
dello Stato ha sollevato eccezione di inammissibilità delle questioni di
legittimità costituzionale per mancata interpretazione adeguatrice
della disposizione censurata.
L’eccezione non è fondata.
Entrambi i giudici rimettenti hanno, con
motivazione plausibile, escluso la possibilità di interpretazione adeguatrice della disposizione censurata osservando che il
recente ripetuto intervento del legislatore sulla disposizione censurata, di
cui si dirà oltre, mostra chiaramente che si è inteso restringere sempre più la
discrezionalità del giudice della controversia fino a definire le sole ipotesi
che facoltizzano il giudice, in caso di soccombenza totale, a compensare, in
tutto o in parte, le spese di lite; ipotesi che quindi sono tassative: la
soccombenza reciproca ovvero l’assoluta novità della questione trattata o il
mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti. Non è
possibile pertanto estendere in via interpretativa tale facoltà del giudice ad
altre ipotesi che parimenti consentano la compensazione delle spese di lite.
Tanto è sufficiente per ritenere l’ammissibilità
della questione, anche in ragione della più recente giurisprudenza di questa
Corte che ha affermato che, se è vero che le leggi non si dichiarano
costituzionalmente illegittime «perché è possibile darne interpretazioni
incostituzionali (e qualche giudice ritenga di darne)», ciò però non significa
che «ove sia improbabile o difficile prospettarne un’interpretazione
costituzionalmente orientata, la questione non debba essere scrutinata nel
merito» (sentenza
n. 42 del 2017; nello stesso senso, sentenza n. 83 del
2017).
6.- L’Avvocatura generale dello Stato ha inoltre
eccepito l’inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale per
insufficiente descrizione della fattispecie.
L’eccezione non è fondata.
Entrambi i giudici rimettenti hanno descritto in
dettaglio la fattispecie al loro esame nei termini sopra riportati ed hanno
chiaramente evidenziato la necessità di applicare nei giudizi a quibus la disposizione censurata in ordine alla quale hanno
motivatamente argomentato i loro dubbi di legittimità costituzionale.
Le sollevate questioni di legittimità
costituzionale sono quindi ammissibili, sotto l’indicato profilo, e sussiste
altresì la loro rilevanza.
7.- C’è poi un ulteriore, più delicato, profilo
di ammissibilità concernente le questioni oggetto dell’ordinanza di rimessione
del Tribunale ordinario di Torino, che – come già rilevato - ha deciso con
sentenza, qualificata "non definitiva”, tutto il merito della causa ed ha
riservato solo la decisione sulle spese di lite, in riferimento alla quale, con
distinta ordinanza, ha posto la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 92, secondo comma, cod. proc. civ.
Deve rilevarsi al riguardo che questa Corte
nell’ordinanza
n. 395 del 2004 ha affermato che la regolamentazione delle spese, in quanto
accessoria alla decisione di merito, non è suscettibile di un autonomo
giudizio.
La citata ordinanza ha riguardato una situazione
analoga: quella di un giudice rimettente (di primo grado) che, nel censurare il
medesimo art. 92, secondo comma, cod. proc. civ.,
aveva parimenti deciso, con sentenza, il merito della causa disponendo con
ordinanza la sospensione del processo limitatamente alla pronuncia accessoria
sulle spese legali, perché, ritenendo di dover fare uso della facoltà di
compensarle, ai sensi della citata disposizione nel testo originario, dubitava
della legittimità costituzionale di tale norma, «così come interpretata dalla
giurisprudenza pressoché univoca e costante della Suprema Corte», secondo cui
non vi era alcun obbligo di motivare il capo della sentenza col quale fosse
disposta la compensazione delle spese «per giusti motivi», trattandosi di
statuizione discrezionale, assistita da una presunzione di conformità a
diritto.
Questa Corte ha dichiarato la manifesta
inammissibilità della questione per difetto di rilevanza, affermando che «il
"diritto vivente” in questione […] si risolve in una regola - insindacabilità
della compensazione delle spese non motivata - della quale è diretto destinatario
il giudice dell’impugnazione, e solo indirettamente il giudice munito del
potere (discrezionale) di disporre la compensazione delle spese del giudizio da
lui definito». Sicché il canone dell’insindacabilità della motivazione della
compensazione delle spese di lite, all’epoca ritenuta dalla giurisprudenza di
legittimità, costituiva regola di giudizio per il giudice dell’impugnazione,
legittimato in ipotesi a sollevare la relativa questione di legittimità
costituzionale, ma non già per un giudice di primo grado, quale era il giudice
rimettente. Da ciò, l’inammissibilità manifesta della questione di legittimità
costituzionale.
La Corte però ha poi aggiunto – seppur senza che
ciò costituisse, o concorresse a costituire, la ratio decidendi
della pronuncia di inammissibilità - che il giudice rimettente comunque «aveva
consumato il suo potere decisorio». In ragione di ciò si potrebbe ora sostenere
che anche il Tribunale ordinario di Torino abbia esaurito il suo potere
decisorio dopo essersi pronunciato su tutto il merito della causa, di talché la
questione di legittimità costituzione sarebbe, sotto tale profilo,
inammissibile.
8.- In realtà, la questione è ammissibile anche
sotto questo profilo.
Nel processo civile una sentenza non definitiva è
possibile allorché il giudice di primo grado – qual è il rimettente Tribunale
ordinario di Torino ? limiti la sua decisione alla questione di giurisdizione,
o a questioni pregiudiziali o preliminari di merito, o anche solo ad alcune
questioni di merito impartendo distinti provvedimenti per l’ulteriore
istruzione della causa (art. 279, secondo comma, cod. proc.
civ.). Il giudice infatti può limitare la decisione ad alcune domande, se
riconosce che per esse soltanto non sia necessaria un’ulteriore istruzione e
sempre che la loro «sollecita definizione» sia di «interesse apprezzabile» per
la parte che ne abbia fatto istanza (art. 277, secondo comma, cod. proc. civ.).
Ma se il giudice decide totalmente il merito
della causa, accogliendo o rigettando tutte le domande, emette una sentenza
definitiva, alla quale si accompagna la pronuncia sulle spese di lite, che –
come già rilevato da questa Corte (nell’ordinanza n. 314
del 2008, richiamata dalla difesa della società costituita) – ha «natura
accessoria» rispetto alla decisione sul merito. Non di meno però la decisione
sulle spese di lite ha una sua distinta autonomia nella misura in cui è
possibile l’impugnativa di questo solo capo della sentenza definitiva sicché,
in tale evenienza, il giudizio di impugnazione è destinato ad avere ad oggetto
la sola regolamentazione delle spese di lite.
Questo legame di accessorietà della pronuncia
sulle spese alla sentenza che decida tutte le questioni di merito non è quindi
indissolubile e, in particolare, è recessivo allorché il giudice – come il
Tribunale ordinario di Torino – abbia un dubbio non manifestamente infondato in
ordine soltanto alla disposizione che governa le spese di lite e di cui egli
debba fare applicazione.
Il principio della ragionevole durata del
processo (art. 111, secondo comma, Cost.), coniugato
con il favor per l’incidente di legittimità
costituzionale ? il quale preclude che alcun giudice possa fare applicazione di
una disposizione di legge della cui legittimità costituzionale dubiti –
suggerisce che non sia ritardata la decisione del merito della causa
rispondendo ciò all’«interesse apprezzabile» delle parti alla «sollecita
definizione» di quanto possa essere deciso senza fare applicazione della
disposizione indubbiata (ex art. 277, secondo comma, citato). Del resto, come
argomento a fortiori, può richiamarsi la giurisprudenza di questa Corte che ha
ritenuto, al fine dell’ammissibilità della questione di legittimità
costituzionale, che il potere decisorio del giudice rimettente non venga meno
neppure quando egli abbia, al contempo, adottato la misura cautelare richiesta
da una parte e, con separato provvedimento, abbia sospeso il giudizio cautelare
investendo questa Corte con incidente di legittimità costituzionale proprio
sulla disposizione di cui abbia fatto applicazione provvisoria e temporanea (ex plurimis,
sentenze n. 83
del 2013, n.
236 del 2010, n.
351 e n. 161
del 2008; ordinanza
n. 25 del 2006).
Si ha quindi che, nella specie, non erroneamente
il Tribunale ordinario di Torino non ha sacrificato l’interesse delle parti
alla sollecita decisione del merito – segnatamente, di tutto il merito – della
causa ed ha legittimamente limitato la sospensione del giudizio, obbligatoria
ex art. 23, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla
costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), a quanto
strettamente necessario per la decisione della questione di legittimità
costituzionale.
La pur imprecisa qualificazione, ad opera dello
stesso tribunale, della sentenza che ha deciso tutto il merito della causa,
come pronuncia "non definitiva” anziché "definitiva” ex art. 279 cod. proc. civ., rileva al fine non già dell’ammissibilità della
questione di legittimità costituzionale, ma del regime dell’impugnazione di
tale pronuncia quanto alla possibilità, o no, della riserva facoltativa
d’appello ex art. 340 cod. proc. civ.
9.- Nel merito la questione, sollevata
congiuntamente dal Tribunale ordinario di Torino e dal Tribunale ordinario di
Reggio Emilia, è fondata.
10.– La regolamentazione delle spese processuali
nel giudizio civile risponde alla regola generale victus
victori fissata dall’art. 91, primo comma, cod. proc. civ. nella parte in cui – ripetendo l’analoga
prescrizione dell’art. 370, primo comma, del codice di procedura civile del
1865 - prevede che «il giudice, con la sentenza che chiude il processo davanti
a lui, condanna la parte soccombente al rimborso delle spese a favore
dell’altra parte e ne liquida l’ammontare insieme con gli onorari di difesa».
Quindi la soccombenza si accompagna, di norma, alla condanna al pagamento delle
spese di lite. L’alea del processo grava sulla parte soccombente perché è
quella che ha dato causa alla lite non riconoscendo, o contrastando, il diritto
della parte vittoriosa ovvero azionando una pretesa rivelatasi insussistente. È
giusto, secondo un principio di responsabilità, che chi è risultato essere nel
torto si faccia carico, di norma, anche delle spese di lite, delle quali invece
debba essere ristorata la parte vittoriosa. Questa Corte ha in proposito
affermato che «il costo del processo deve essere sopportato da chi ha reso
necessaria l’attività del giudice ed ha occasionato le spese del suo
svolgimento» (sentenza
n. 135 del 1987).
La regolamentazione delle spese di lite è
processualmente accessoria alla pronuncia del giudice che la definisce in
quanto tale ed è anche funzionalmente servente rispetto alla realizzazione
della tutela giurisdizionale come diritto costituzionalmente garantito (art. 24
Cost.). Il «normale complemento» dell’accoglimento
della domanda – ha affermato questa Corte (sentenza n. 303 del
1986) – è costituito proprio dalla liquidazione delle spese e delle
competenze in favore della parte vittoriosa.
Ma non è una regola assoluta proprio in ragione
del carattere accessorio della pronuncia sulle spese di lite, come emerge dalla
giurisprudenza di questa Corte che ha esaminato un’ipotesi di contenzioso - il
processo tributario prima della riforma del 1992 - in cui non era affatto
prevista la regolamentazione delle spese di lite sì che la parte soccombente
non ne sopportava l’onere e la parte vittoriosa non ne era ristorata. Ha
infatti affermato questa Corte (sentenza n. 196 del
1982) che «l’istituto della condanna del soccombente nel pagamento delle
spese ha bensì carattere generale, ma non è assoluto e inderogabile»: come è
consentito al giudice di compensare tra le parti le spese di lite ricorrendo le
condizioni di cui al secondo comma dell’art. 92 cod. proc.
civ. (disposizione attualmente censurata), così rientra nella discrezionalità
del legislatore modulare l’applicazione della regola generale secondo cui alla
soccombenza nella causa si accompagna la condanna al pagamento delle spese di
lite. Analogamente, con riferimento al giudizio di opposizione a sanzioni
amministrative, questa Corte (ordinanza n. 117
del 1999) ha ribadito che «l’istituto della condanna del soccombente al
pagamento delle spese di giudizio, pur avendo carattere generale, non ha
portata assoluta ed inderogabile, potendosene profilare la derogabilità sia su
iniziativa del giudice del singolo processo, quando ricorrano giusti motivi ex
art. 92, secondo comma, cod. proc. civ., sia per
previsione di legge - con riguardo al tipo di procedimento - in presenza di
elementi che giustifichino la diversificazione dalla regola generale».
Parimenti è stata ritenuta non illegittima una regola di settore che,
all’opposto, escludeva in ogni caso la compensazione delle spese di lite in
ipotesi di accoglimento della domanda di risarcimento del danno esercitata nel
processo penale dalla parte offesa costituitasi parte civile nel regime
precedente la riforma del codice di procedura penale del 1987 (sentenza n. 222 del
1985).
Ampia quindi è la discrezionalità di cui gode il
legislatore nel dettare norme processuali (ex
plurimis, sentenze n. 270 del 2012,
n. 446 del 2007
e n. 158 del
2003) e segnatamente nel regolamentare le spese di lite. Sicché è ben
possibile – ha affermato questa Corte (sentenza n. 157 del
2014) - «una deroga all’istituto della condanna del soccombente alla
rifusione delle spese di lite in favore della parte vittoriosa, in presenza di
elementi che la giustifichino (sentenze n. 270 del 2012
e n. 196 del
1982), non essendo, quindi, indefettibilmente coessenziale alla tutela
giurisdizionale la ripetizione di dette spese (sentenza n. 117 del
1999)».
11.- Muovendo da questa affermata possibile
derogabilità della regola che prescrive la condanna del soccombente alla
rifusione delle spese di lite in favore della parte vittoriosa, vanno ora
esaminate le censure mosse alla disposizione indubbiata dai giudici rimettenti,
che sono centrate proprio sulle possibili deroghe a tale regola. Le quali, da
epoca risalente e per lungo tempo, sono state affidate ad una clausola generale
che chiamava in gioco la discrezionalità del giudice al momento della decisione
della causa. Disponeva infatti il secondo comma dell’art. 370 cod. proc. civ. del 1865: «Quando concorrono motivi giusti, le
spese possono dichiararsi compensate in tutto o in parte». Il secondo comma
dell’art. 92 cod. proc. civ. del 1940 ha ripetuto la
stessa norma derogatoria: «Se vi è soccombenza reciproca o concorrono altri
giusti motivi, il giudice può compensare, parzialmente o per intero, le spese
tra le parti». Nella relazione al Guardasigilli per la redazione del nuovo
codice di procedura civile si espresse l’opzione di dare continuità all’analoga
disposizione del codice di rito del 1865 e, con riferimento alla facoltà
demandata al giudice di compensare le spese di lite, oltre al caso di
soccombenza parziale, anche quando ricorressero «motivi giusti» – che, con mera
inversione testuale sarebbero diventati «giusti motivi» - si evidenziò che
«tale regola […] risponde ad un evidente criterio di giustizia», ritenendo non
«attendibili» alcune osservazioni in senso critico rivolte da una parte della
dottrina contro questa clausola generale, la quale affidava tale criterio
derogatorio, nel momento della decisione della lite, al prudente apprezzamento
del giudice, che era quello che meglio conosceva le peculiarità della causa.
La norma espressa dal secondo comma dell’art. 92
cod. proc. civ., attualmente oggetto delle censure di
illegittimità costituzionale, è rimasta per lungo tempo invariata anche in
occasioni di profonde riforme del codice di rito, quale quella del 1950
apportata con la legge 14 luglio 1950, n. 581 (Ratifica del decreto legislativo
5 maggio 1948, n. 483, contenente modificazioni e aggiunte al Codice di
procedura civile) e quella del 1990 introdotta con la legge 26 novembre 1990,
n. 353 (Provvedimenti urgenti per il processo civile); ma non è rimasta immune
da critiche di parte della dottrina. Ed in effetti, già nella vigenza dell’art.
370 cod. proc. civ. del 1865, un’autorevole dottrina
del tempo aveva denunciato l’abuso nella pratica della compensazione per i
motivi più vari.
Il punctum dolens era la motivazione dei «giusti motivi» che
facoltizzavano il giudice a compensare, totalmente o parzialmente, le spese di
lite anche in caso di soccombenza totale. Il principio di diritto, che era
stato alla fine fissato in una tralaticia massima di
giurisprudenza, affermava che la valutazione dei «giusti motivi» per la
compensazione, totale o parziale, delle spese processuali rientrava nei poteri
discrezionali del giudice di merito e non richiedeva specifica motivazione,
restando perciò incensurabile in sede di legittimità, salvo che risultasse
violata la regola secondo cui le spese non possono essere poste a carico della
parte totalmente vittoriosa (argumenta, ex plurimis, da Corte di cassazione, sezioni unite civili,
sentenza 15 luglio 2005, n. 14989).
Sempre più però si poneva in discussione questo
orientamento giurisprudenziale fino al radicarsi di un vero e proprio
contrasto, poi composto dalle sezioni unite della Corte di cassazione, che
operarono una significativa correzione di rotta affermando che la decisione di
compensazione, totale o parziale, delle spese di lite per «giusti motivi»
dovesse comunque dare conto della relativa statuizione mediante argomenti
specificamente riferiti a questa ovvero attraverso rilievi che, sebbene
riguardanti la definizione del merito, si risolvano in considerazioni
giuridiche o di fatto idonee a giustificare tale compensazione delle spese
(Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 30 luglio 2008, n. 20598).
12.- Intanto il legislatore era intervenuto ed
aveva modificato, dopo quasi centocinquant’anni, la norma in questione
confermando sì la clausola generale dei «giusti motivi», quale presupposto
della compensazione delle spese di lite, ma richiedendo che questi fossero
«esplicitamente indicati nella motivazione» (art. 2, comma 1, della legge 28
dicembre 2005, n. 263, recante «Interventi correttivi alle modifiche in materia
processuale civile introdotte con il decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35,
convertito, con modificazioni, dalla legge 14 maggio 2005, n. 80, nonché
ulteriori modifiche al codice di procedura civile e alle relative disposizioni
di attuazione, al regolamento di cui al regio decreto 17 agosto 1907, n. 642,
al codice civile, alla legge 21 gennaio 1994, n. 53, e disposizioni in tema di
diritto alla pensione di reversibilità del coniuge divorziato»).
La prescrizione dell’espressa indicazione dei
«giusti motivi» nella motivazione della decisione del giudice sulle spese di
lite non apparve però ancora sufficiente a contrastare una tendenza, esistente
nella prassi, al frequente ricorso da parte del giudice alla facoltà di
compensare le spese di lite anche in caso di soccombenza totale. Il legislatore
è quindi intervenuto una seconda volta proprio sulla clausola generale
accentuandone, in chiave limitativa, il carattere derogatorio rispetto alla
regola generale che vuole che alla soccombenza totale segua anche la condanna
al pagamento delle spese di lite. L’art. 45, comma 11, della legge 18 giugno
2009, n. 69 (Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la
competitività nonché in materia di processo civile), ha così riformulato il
secondo comma dell’art. 92: «Se vi è soccombenza reciproca o concorrono altre
gravi ed eccezionali ragioni, esplicitamente indicate nella motivazione, il
giudice può compensare, parzialmente o per intero, le spese tra le parti».
I «giusti motivi» sono diventati le «gravi ed
eccezionali ragioni»: ciò significava che il perimetro della clausola generale
si era ridotto, ritenendo il legislatore, nell’esercizio della sua
discrezionalità - che si è già rilevato essere ampia, secondo la giurisprudenza
di questa Corte - che una più estesa applicazione della regola di porre a
carico del soccombente totale le spese di lite rafforzasse il principio di
responsabilità di chi promuoveva una lite, o resisteva in giudizio, con
conseguente effetto deflativo sul contenzioso civile.
13.- Al fondo di questo contesto riformatore è
la consapevolezza, sempre più avvertita, che, a fronte di una crescente domanda
di giustizia, anche in ragione del riconoscimento di nuovi diritti, la
giurisdizione sia una risorsa non illimitata e che misure di contenimento del
contenzioso civile debbano essere messe in opera.
Da ciò l’adozione, in epoca recente, di istituti
processuali diretti, in chiave preventiva, a favorire la composizione della
lite in altro modo, quali le misure di ADR (Alternative Dispute Resolution), cui sono riconducibili le procedure di
mediazione, la negoziazione assistita, il trasferimento della lite alla sede
arbitrale. Nella stessa linea è la previsione in generale, nel codice di rito
(art. 185-bis cod. proc. civ.), di un momento
processuale che vede la formulazione della proposta di conciliazione ad opera
del giudice, introdotta in generale dall’art. 77, comma 1, lettera a), del
decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69 (Disposizioni urgenti per il rilancio
dell’economia), convertito, con modificazioni, nella legge 9 agosto 2013, n.
98, generalizzando quanto era già stato stabilito, qualche anno prima, per le
controversie di lavoro attraverso la modifica dell’art. 420, primo comma, cod. proc. civ., introdotta dall’art. 31, comma 4, della legge 4
novembre 2010, n. 183 (Deleghe al Governo in materia di lavori usuranti, di
riorganizzazione di enti, di congedi, aspettative e permessi, di ammortizzatori
sociali, di servizi per l’impiego, di incentivi all’occupazione, di
apprendistato, di occupazione femminile, nonché misure contro il lavoro
sommerso e disposizioni in tema di lavoro pubblico e di controversie di
lavoro).
Per altro verso, quando non di meno la lite
arriva all’esito finale della decisione giudiziaria, appare giustificato che
l’alea del processo debba allora gravare sulla parte totalmente soccombente
secondo una più stretta regola generale, limitando alla ricorrenza di «gravi e
eccezionali ragioni» la facoltà per il giudice di compensare le spese di lite.
Questo raggiunto equilibrio è stato però
alterato da un’ulteriore, più recente, modifica del censurato secondo comma
dell’art. 92 cod. proc. civ.
14.- Da ultimo infatti, sull’abbrivio
riformatore cominciato nel 2005, il legislatore, nel 2014, è andato ancora
oltre ed ha ristretto ulteriormente il perimetro della deroga alla regola che
vuole che le spese di lite gravino sulla parte totalmente soccombente: non più
la clausola generale delle «gravi ed eccezionali ragioni», ma due ipotesi
nominate (oltre quella della soccombenza reciproca che non è mai mutata), ossia
l’assoluta novità della questione trattata ed il mutamento della giurisprudenza
rispetto alle questioni dirimenti.
Così ha disposto, da ultimo, l’art. 13, comma 1,
del d.l. n. 132 del 2014, convertito, con
modificazioni, nella legge n. 162 del 2014 (norma che, per espressa previsione
dell’art. 13, comma 2, del decreto-legge citato, si applica ai procedimenti
introdotti a decorrere dal trentesimo giorno successivo all’entrata in vigore
della relativa legge di conversione, avvenuta l’11 novembre 2014). Si legge
nella Relazione al disegno di legge di conversione in legge del decreto-legge
n. 132 del 2014: «Nonostante le modifiche restrittive introdotte negli ultimi
anni, nella pratica applicativa si continua a fare larghissimo uso del potere
discrezionale di compensazione delle spese processuali, con conseguente
incentivo alla lite, posto che la soccombenza perde un suo naturale e rilevante
costo, con pari danno per la parte che risulti aver avuto ragione».
Questo più recente sviluppo normativo, che ha
portato alla formulazione della disposizione censurata, mostra chiaramente che
il legislatore ha voluto far riferimento a due ipotesi tassative, oltre quella
della soccombenza reciproca, rimasta invariata nel tempo, come correttamente
ritengono entrambi i giudici rimettenti.
15.- Però la rigidità di queste due sole ipotesi
tassative, violando il principio di ragionevolezza e di eguaglianza, ha
lasciato fuori altre analoghe fattispecie riconducibili alla stessa ratio
giustificativa.
La prevista ipotesi del mutamento della
giurisprudenza su una questione dirimente è connotata dal fatto che, in
sostanza, risulta modificato, in corso di causa, il quadro di riferimento della
controversia. Questa evenienza sopravvenuta - che concerne prevalentemente la
giurisprudenza di legittimità, ma che, in mancanza, può anche riguardare la
giurisprudenza di merito - non è di certo nella disponibilità delle parti, le
quali si trovano a doversi confrontare con un nuovo principio di diritto, sì
che, nei casi di non prevedibile overruling,
l’affidamento di chi abbia regolato la propria condotta processuale tenendo
conto dell’orientamento poi disatteso e superato, è nondimeno tutelato a
determinate condizioni, precisate in una nota pronuncia delle sezioni unite
civili della Corte di cassazione (sentenza 11 luglio 2011, n. 15144).
Il fondamento sotteso a siffatta ipotesi – che,
ove anche non prevista espressamente, avrebbe potuto ricavarsi per sussunzione
dalla clausola generale delle «gravi ed eccezionali ragioni» - sta appunto nel
sopravvenuto mutamento del quadro di riferimento della causa che altera i termini
della lite senza che ciò sia ascrivibile alla condotta processuale delle parti.
Ma tale ratio può rinvenirsi anche in altre analoghe fattispecie di
sopravvenuto mutamento dei termini della controversia senza che nulla possa
addebitarsi alle parti: tra le più evidenti, una norma di interpretazione
autentica o più in generale uno ius superveniens, soprattutto se nella forma di norma con
efficacia retroattiva; o una pronuncia di questa Corte, in particolare se di
illegittimità costituzionale; o una decisione di una Corte europea; o una nuova
regolamentazione nel diritto dell’Unione europea; o altre analoghe
sopravvenienze. Le quali tutte, ove concernenti una "questione dirimente” al
fine della decisione della controversia, sono connotate da pari "gravità” ed "eccezionalità”,
ma non sono iscrivibili in un rigido catalogo di ipotesi nominate:
necessariamente debbono essere rimesse alla prudente valutazione del giudice
della controversia.
Ciò può predicarsi anche per l’altra ipotesi
prevista dalla disposizione censurata – l’assoluta novità della questione – che
è riconducibile, più in generale, ad una situazione di oggettiva e marcata
incertezza, non orientata dalla giurisprudenza. In simmetria è possibile
ipotizzare altre analoghe situazioni di assoluta incertezza, in diritto o in
fatto, della lite, parimenti riconducibili a «gravi ed eccezionali ragioni».
Del resto la stessa ipotesi della soccombenza
reciproca, che, concorrendo con quelle espressamente nominate dalla
disposizione censurata, parimenti facoltizza il giudice della controversia a
compensare le spese di lite, rappresenta un criterio nient’affatto rigido, ma
implica una qualche discrezionalità del giudice che è chiamato ad apprezzare la
misura in cui ciascuna parte è al contempo vittoriosa e soccombente, tanto più
che la giurisprudenza di legittimità si va orientando nel ritenere integrata
l’ipotesi di soccombenza reciproca anche in caso di accoglimento parziale
dell’unica domanda proposta (Corte di cassazione, sezione terza civile,
sentenza 22 febbraio 2016, n. 3438).
Si ha quindi che contrasta con il principio di
ragionevolezza e con quello di eguaglianza (art. 3, primo comma, Cost.) aver il legislatore del 2014 tenuto fuori dalle
fattispecie nominate, che facoltizzano il giudice a compensare le spese di lite
in caso di soccombenza totale, le analoghe ipotesi di sopravvenienze relative a
questioni dirimenti e a quelle di assoluta incertezza, che presentino la
stessa, o maggiore, gravità ed eccezionalità di quelle tipiche espressamente
previste dalla disposizione censurata. La rigidità di tale tassatività ridonda
anche in violazione del canone del giusto processo (art. 111, primo comma, Cost.) e del diritto alla tutela giurisdizionale (art. 24,
primo comma, Cost.) perché la prospettiva della
condanna al pagamento delle spese di lite anche in qualsiasi situazione del
tutto imprevista ed imprevedibile per la parte che agisce o resiste in giudizio
può costituire una remora ingiustificata a far valere i propri diritti.
16.- Per la riconduzione a legittimità della
disposizione censurata può anche considerarsi che più recentemente lo stesso
legislatore, in linea di continuità con l’azione riformatrice degli ultimi
anni, è ritornato alla tecnica normativa della clausola generale delle «gravi
ed eccezionali ragioni». Infatti, dopo l’introduzione della disposizione
attualmente censurata, il legislatore ha novellato alcune norme del processo
tributario. In particolare l’art. 9, comma 1, lettera f), numero 2), del
decreto legislativo 24 settembre 2015, n. 156 (Misure per la revisione della
disciplina degli interpelli e del contenzioso tributario, in attuazione degli
articoli 6 e 10, comma 1, lettere a e b, della legge 11 marzo 2014, n. 23), ha
sostituito gli originari commi 2 e 2-bis dell’art. 15 del decreto legislativo
31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione
della delega governativa nell’art. 30 della legge 30 dicembre 1991 n. 413) ed
ha, tra l’altro, previsto che le spese del giudizio possono essere compensate
in tutto o in parte, oltre che in caso di soccombenza reciproca, anche «qualora
sussistano gravi ed eccezionali ragioni» che devono essere espressamente
motivate.
Ciò orienta la pronuncia di illegittimità
costituzionale che si va a rendere nel senso che parimenti le ipotesi illegittimamente
non considerate dalla disposizione censurata possono identificarsi in quelle
che siano riconducibili a tale clausola generale e che siano analoghe a quelle
tipizzate nominativamente nella norma, nel senso che devono essere di pari, o
maggiore, gravità ed eccezionalità. Le quali ultime quindi – l’«assoluta novità
della questione trattata» ed il «mutamento della giurisprudenza rispetto alle
questioni dirimenti» – hanno carattere paradigmatico e svolgono una funzione
parametrica ed esplicativa della clausola generale.
Va quindi dichiarata l’illegittimità
costituzionale dell’art. 92, secondo comma, cod. proc.
civ. nella parte in cui non prevede che il giudice, in caso di soccombenza
totale, possa non di meno compensare le spese tra le parti, parzialmente o per
intero, anche qualora sussistano altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni.
L’obbligo di motivazione della decisione di
compensare le spese di lite, vuoi nelle due ipotesi nominate, vuoi ove
ricorrano altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni, discende dalla generale
prescrizione dell’art. 111, sesto comma, Cost., che
vuole che tutti i provvedimenti giurisdizionali siano motivati.
17.- L’accoglimento della sollevata questione di
legittimità costituzionale in riferimento agli artt. 3, primo comma, 24, primo
comma, e 111, primo comma, Cost. – indicati da
entrambe le ordinanze di rimessione - comporta l’assorbimento della questione
in riferimento agli ulteriori plurimi parametri indicati nella sola ordinanza
del Tribunale ordinario di Reggio Emilia (artt. 25, primo comma; 102 e 104 Cost.; nonché, per il tramite dell’art. 117, primo comma, Cost., l’art. 47 CDFUE e gli artt. 6 e 13 CEDU) perché
tutti orientati ad ottenere la medesima dichiarazione di illegittimità
costituzionale.
Residua però il particolare profilo di censura
che fa riferimento alla posizione del lavoratore come parte "debole” del
rapporto controverso; censura che costituisce autonoma e distinta questione,
ridimensionata ma non del tutto assorbita dalla dichiarazione di illegittimità
costituzionale della disposizione censurata.
Il Tribunale ordinario di Reggio Emilia
evidenzia la posizione di maggior debolezza del lavoratore nel contenzioso di
lavoro e chiede che la disposizione censurata sia ricondotta a legittimità
introducendo un’ulteriore ragione di compensazione delle spese di lite che
tenga conto della natura del rapporto giuridico dedotto in causa – ossia del
rapporto di lavoro subordinato – e della condizione soggettiva della parte
attrice quando è il lavoratore che agisce nei confronti del datore di lavoro.
La questione è posta con riferimento al
principio di eguaglianza sostanziale di cui all’art. 3, secondo comma, Cost., che esigerebbe – secondo il giudice rimettente - un
trattamento differenziato, ma di vantaggio, per il lavoratore in quanto
soggetto più "debole”, costretto ad agire giudizialmente, mentre il censurato
art. 92, secondo comma, cod. proc. civ. avrebbe in
concreto l’effetto opposto.
Sarebbero altresì violati, per il tramite
dell’art. 117, primo comma, Cost., anche gli artt. 14
CEDU e 21 CDFUE, in punto di discriminazione fondata, rispettivamente, «sulla
ricchezza» o su «ogni altra condizione» (art. 14 CEDU) o sul «patrimonio» (art.
21 CDFUE).
18.- La questione non è fondata.
Rileva in proposito da una parte il generale
canone della par condicio processuale previsto dal secondo comma dell’art. 111 Cost. secondo cui «[o]gni
processo si svolge […] tra le parti, in condizioni di parità». Per altro verso
la situazione di disparità in cui, in concreto, venga a trovarsi la parte
"debole” - ossia quella per la quale possa essere maggiormente gravoso il costo
del processo, anche in termini di rischio di condanna al pagamento delle spese
processuali, sì da costituire un’indiretta remora ad agire o resistere in giudizio
- trova un possibile riequilibrio, secondo il disposto del terzo comma
dell’art. 24 Cost., in «appositi istituti» diretti ad
assicurare «ai non abbienti […] i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni
giurisdizione».
Nel binario segnato da questi due concorrenti
principi costituzionali si colloca la disposizione censurata che, non
considerando la situazione soggettiva, nel rapporto controverso, della parte
totalmente soccombente, è ispirata al principio generale della par condicio
processuale. Anche le due richiamate ipotesi che facoltizzano il giudice a
compensare, in tutto o in parte, le spese di lite - le quali, a seguito della
presente dichiarazione di illegittimità costituzionale, sono non più tassative,
ma parametriche di altre analoghe ipotesi di «gravi e eccezionali ragioni» –
rinviano comunque a condizioni prevalentemente oggettive e non già a situazioni
strettamente soggettive della parte soccombente, quale l’essere essa la parte
"debole” del rapporto controverso.
Finanche la legge 11 agosto 1973, n. 533
(Disciplina delle controversie individuali di lavoro e delle controversie in
materia di previdenza e di assistenza obbligatorie) - la quale pur conteneva
disposizioni ispirate al favor per questo contenzioso
al fine di agevolare la tutela giurisdizionale del lavoratore, quali quelle che
prevedevano l’esenzione da ogni spesa o tassa (art. 10) ed il patrocinio a
spese dello Stato per le parti non abbienti (art. 11) – non aveva derogato al
disposto dell’art. 92 cod. proc. civ., quanto alla condanna
della parte totalmente soccombente al pagamento delle spese di lite. In ogni
caso per il lavoratore operava la regola generale della condanna della parte
totalmente soccombente al pagamento delle spese di lite, salva la facoltà per
il giudice di compensarle sulla base della già richiamata clausola generale,
all’epoca vigente, dei «giusti motivi». Ed opera tuttora la stessa regola,
salva la facoltà per il giudice di compensarle ove ricorrano, secondo la
disciplina attualmente vigente, le due ipotesi nominativamente previste dal
secondo comma dell’art. 92 cod. proc. civ., oltre – a
seguito della presente dichiarazione di illegittimità costituzionale della
disposizione censurata – anche altre analoghe «gravi ed eccezionali ragioni».
Solo per le controversie in materia
previdenziale proposte nei confronti degli istituti di previdenza ed assistenza
l’art. 9 della legge n. 533 del 1973 aveva sostituito l’art. 152 delle
disposizioni per l’attuazione del codice di procedura civile, disponendo che il
lavoratore soccombente nei giudizi promossi per ottenere prestazioni
previdenziali non era assoggettato al pagamento di spese, competenze ed onorari
a favore degli istituti di assistenza e previdenza, a meno che la pretesa non
fosse manifestamente infondata e temeraria; disposizione questa, peraltro
anticipata, in una portata più limitata, dal dettato dell’art. 57 della legge
30 aprile 1969, n. 153 (Revisione degli ordinamenti pensionistici e norme in
materia di sicurezza sociale) e successivamente estesa anche alle controversie
di natura assistenziale dalla sentenza n. 85 del
1979.
Ma il collegamento dell’esonero con la
condizione di «non abbiente» è stato dapprima prefigurato, come possibile, da
questa Corte (sentenza
n. 135 del 1987) e poi posto a fondamento della dichiarazione di
illegittimità costituzionale dell’art. 4, comma 2, del decreto-legge 19
settembre 1992, n. 384 (Misure urgenti in materia di previdenza, di sanità e di
pubblico impiego, nonché disposizioni fiscali), convertito, con modificazioni,
in legge 14 novembre 1992, n. 438, per aver, tale disposizione, operato
un’indiscriminata abrogazione dell’esonero stesso, trascurando qualunque
distinzione tra abbienti e non abbienti (sentenza n. 134 del
1994); esonero poi ripristinato dall’art. 42, comma 11, del decreto-legge
30 settembre 2003, n. 269 (Disposizioni urgenti per favorire lo sviluppo e per
la correzione dell’andamento dei conti pubblici), convertito, con
modificazioni, nella legge 24 novembre 2003, n. 326, in favore della parte
soccombente che risulti «non abbiente», essendo l’esonero condizionato
all’integrazione di un requisito reddituale significativo della debolezza
economica del ricorrente (ordinanza n. 71 del
1998).
Quindi da una parte la condizione soggettiva di
"lavoratore” non ha mai comportato alcun esonero dall’obbligo di rifusione
delle spese processuali in caso di soccombenza totale nelle controversie
promosse nei confronti del datore di lavoro; d’altra parte nelle controversie
di previdenza ed assistenza sociale, promosse nei confronti degli enti che
erogano prestazioni di tale natura, la condizione di assicurato o beneficiario
della prestazione deve concorrere con un requisito reddituale perché, in via
eccezionale, possa comportare siffatto esonero.
La ragione di tale eccezione in favore della
parte soccombente «non abbiente», e quindi "debole”, risiede nella diretta
riferibilità della prestazione previdenziale o assistenziale, oggetto del
contenzioso, alla speciale tutela prevista dal secondo comma dell’art. 38 Cost., che mira a rimuovere, o ad alleviare, la situazione
di bisogno e di difficoltà dell’assicurato o dell’assistito.
Invece la qualità di "lavoratore” della parte
che agisce (o resiste), nel giudizio avente ad oggetto diritti ed obblighi
nascenti dal rapporto di lavoro, non costituisce, di per sé sola, ragione
sufficiente – pur nell’ottica della tendenziale rimozione degli ostacoli di
ordine economico e sociale alla tutela giurisdizionale (art. 3, secondo comma, Cost.) - per derogare al generale canone di par condicio
processuale quanto all’obbligo di rifusione delle spese processuali a carico
della parte interamente soccombente. Di ciò non si è dubitato in riferimento
all’art. 92, secondo comma, cod. proc. civ. nel testo
vigente fino al 2009; ma lo stesso può affermarsi nell’attuale formulazione
della medesima disposizione, quale risultante dalla presente dichiarazione di
illegittimità costituzionale. Dalla quale comunque consegue che la circostanza
– segnalata dal giudice rimettente – che il lavoratore, per la tutela di suoi
diritti, debba talora promuovere un giudizio senza poter conoscere elementi di
fatto, rilevanti e decisivi, che sono nella disponibilità del solo datore di
lavoro (cosiddetto contenzioso a controprova), costituisce elemento valutabile
dal giudice della controversia al fine di riscontrare, o no, una situazione di
assoluta incertezza in ordine a questioni di fatto in ipotesi riconducibili
alle «gravi ed eccezionali ragioni» che consentono al giudice la compensazione
delle spese di lite.
19.- Né la ritenuta non fondatezza della
questione di legittimità costituzionale è revocata in dubbio dai citati
parametri sovranazionali interposti, che vietano trattamenti discriminatori
basati sul censo.
La considerazione che sovente il contenzioso di
lavoro possa presentarsi in termini sostanzialmente diseguali, nel senso che il
lavoratore ricorrente, che agisca nei confronti del datore di lavoro, sia parte
"debole” del rapporto controverso, giustifica norme di favore su un piano
diverso da quello della regolamentazione delle spese di lite, una volta che
quest’ultima è resa meno rigida a seguito della presente dichiarazione di
illegittimità costituzionale del secondo comma dell’art. 92 cod. proc. civ. con l’innesto della clausola generale delle
«gravi ed eccezionali ragioni». Si sono già ricordate le disposizioni di favore
contenute negli artt. 10 e 11 della legge n. 533 del 1973 (peraltro
successivamente abrogati); ad esse può aggiungersi anche l’art. 13, comma 3,
del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, recante «Testo
unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di
giustizia (Testo A)», il quale prevede che il contributo unificato per le spese
di giustizia è ridotto alla metà per le controversie individuali di lavoro o
concernenti rapporti di pubblico impiego.
Più in generale può dirsi che è rimesso alla
discrezionalità del legislatore ampliare questo favor
praestatoris, ad esempio rimodulando, in termini di
minor rigore o finanche di esonero, il previsto raddoppio di tale contributo in
caso di rigetto integrale, o di inammissibilità, o di improcedibilità
dell’impugnazione (art. 13, comma 1-quater, del d.P.R.
n. 115 del 2002).
20.- In conclusione risulta non fondata la
questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale ordinario di
Reggio Emilia, mirante ad innestare nella disposizione censurata, come deroga
alla regola secondo cui la parte soccombente è condannata alla rifusione delle
spese di lite in favore della parte vittoriosa – oltre alle ipotesi
nominativamente previste dalla disposizione stessa, come integrate dalla
dichiarazione di illegittimità costituzionale nei termini di cui sopra al punto
16. – un’ulteriore deroga centrata sulla natura della lite, perché controversia
di lavoro, ed a favore solo del lavoratore che agisca in giudizio nei confronti
del datore di lavoro.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
1) dichiara
inammissibile l’intervento della Confederazione generale italiana del lavoro;
2) dichiara
l’illegittimità costituzionale dell’art. 92, secondo comma, del codice di
procedura civile, nel testo modificato dall’art. 13, comma 1, del decreto-legge
12 settembre 2014, n. 132 (Misure urgenti di degiurisdizionalizzazione
ed altri interventi per la definizione dell’arretrato in materia di processo
civile), convertito, con modificazioni, nella legge 10 novembre 2014, n. 162,
nella parte in cui non prevede che il giudice possa compensare le spese tra le
parti, parzialmente o per intero, anche qualora sussistano altre analoghe gravi
ed eccezionali ragioni;
3) dichiara
non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 92, secondo
comma, cod. proc. civ., nel testo modificato
dall’art. 13, comma 1, del d. l. n. 132 del 2014, convertito, con
modificazioni, nella legge n. 162 del 2014, sollevate, in riferimento agli
artt. 3, secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, in relazione
agli artt. 14 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950,
ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, e 21 della Carta
dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre
2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, dal Tribunale ordinario di
Reggio Emilia, in funzione di giudice del lavoro, con l’ordinanza indicata in
epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte
costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 marzo 2018.
F.to:
Giorgio LATTANZI, Presidente
Giovanni AMOROSO, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 19 aprile 2018.