SENTENZA
N. 83
ANNO
2013
Commenti
alla decisione di
I. Michele Della Morte, Permanenza
in servizio dei docenti universitari e ricambio generazionale: la posizione
della Corte, per gentile concessione del Forum di Quaderni Costituzionali
II.
Francesco Paterniti, La
Corte costituzionale completa di fatto il percorso di reintroduzione
dell’istituto del collocamento fuori ruolo dei professori universitari, per
gentile concessione della Rivista telematica Federalismi.it
III. Paolo De Angelis, Collocamento
a riposo docenti di materie cliniche: commento a Corte costituzionale, 9 maggio
2013, n. 83, per g.c. del Forum
di Quaderni Costituzionali
REPUBBLICA
ITALIANA
IN
NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA
CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Franco GALLO Presidente
- Luigi MAZZELLA Giudice
- Gaetano SILVESTRI ”
- Sabino CASSESE ”
- Giuseppe TESAURO ”
- Paolo
Maria NAPOLITANO ”
- Giuseppe FRIGO ”
- Alessandro CRISCUOLO ”
- Paolo GROSSI ”
- Giorgio LATTANZI ”
- Aldo CAROSI ”
- Marta CARTABIA ”
- Sergio MATTARELLA ”
- Mario
Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità
costituzionale dell’articolo 25 della legge 30 dicembre 2010, n. 240 (Norme in materia di organizzazione delle università, di personale
accademico e reclutamento, nonché delega al Governo per incentivare la qualità
e l’efficienza del sistema universitario), promossi
dal Consiglio di Stato con cinque ordinanze del 28 novembre 2011 e con otto ordinanze
del 2 febbraio 2012 e dal Tribunale amministrativo regionale per il Molise con
due ordinanze del 10 aprile 2012, rispettivamente iscritte ai numeri 42, 43,
44, 45, 59, 78, 117, 118, 119, 120, 121, 122, 191, 224 e 225 del registro
ordinanze 2012 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
numeri 13, 16, 19, 25, 38 e 41, prima serie speciale, dell’anno 2012.
Visti gli atti di
costituzione di F.G., di T.C., di A.A., di M.E., di D.C., di B.O., nonché
l’atto di intervento di M.E. (nel giudizio di cui al r.o. n. 42 del 2012) e
quelli del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito
nell’udienza pubblica del 26 marzo 2013 il Giudice relatore Alessandro
Criscuolo;
uditi gli
avvocati Massimo Luciani per A.A. e M.E., Angelo Clarizia per F.G., T.C. e D.C.
e l’avvocato dello Stato Ettore Figliolia per il Presidente del Consiglio dei
ministri.
Ritenuto in
fatto
1.— Il Consiglio di Stato in sede
giurisdizionale, con le tredici ordinanze di analogo tenore indicate in
epigrafe (r.o. numeri 42, 43, 44, 45 e 59 del 2012, depositate il 28 novembre
2011, e numeri 78, 117, 118, 119, 120, 121, 122 e 191 del 2012, depositate il 2
febbraio 2012), ha sollevato – in riferimento agli articoli 3, 33 e 97 della
Costituzione – questioni di legittimità costituzionale dell’articolo 25 della
legge 30 dicembre 2010, n. 240 (Norme in materia di organizzazione delle
università, di personale accademico e reclutamento, nonché delega al Governo
per incentivare la qualità e l’efficienza del sistema universitario). Detta
norma (sotto la rubrica «Collocamento a riposo dei professori e dei
ricercatori») dispone che «L’articolo 16 del decreto legislativo 30 dicembre
1992, n. 503, non si applica a professori e ricercatori universitari. I
provvedimenti adottati dalle università ai sensi della predetta norma decadono
alla data di entrata in vigore della presente legge, ad eccezione di quelli che
hanno già iniziato a produrre i loro effetti». A sua volta, il citato art. 16
del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 503 (Norme per il riordinamento
del sistema previdenziale dei lavoratori privati e pubblici, a norma
dell’articolo 3 della legge 23 ottobre 1992, n. 421) e successive modifiche ed
integrazioni, stabilisce nel comma 1 che «È in facoltà dei dipendenti civili
dello Stato e degli enti pubblici non economici di permanere in servizio, con
effetto dalla data di entrata in vigore della legge 23 ottobre 1992, n. 421,
per un periodo massimo di un biennio oltre i limiti di età per il collocamento
a riposo per essi previsti. In tal caso è data facoltà all’amministrazione, in
base alle proprie esigenze organizzative e funzionali, di trattenere in
servizio il dipendente in relazione alla particolare esperienza professionale
acquisita dal dipendente in determinati o specifici ambiti ed in funzione
dell’efficiente andamento dei servizi. La disponibilità al trattenimento va
presentata all’amministrazione di appartenenza dai ventiquattro ai dodici mesi
precedenti il compimento del limite di età per il collocamento a riposo
previsto dal proprio ordinamento. I dipendenti in aspettativa non retribuita
che ricoprono cariche elettive esprimono la disponibilità almeno novanta giorni
prima del compimento del limite di età per il collocamento a riposo».
2.— Il rimettente, con l’ordinanza iscritta
al r.o. n. 42 del 2012, premette che è chiamato a pronunciare su un ricorso in
appello promosso da un professore universitario (F.G.) contro l’Università
degli studi Tor Vergata di Roma, per la riforma di un’ordinanza cautelare
emessa tra le parti dal Tribunale amministrativo regionale per il Lazio – Roma,
in relazione ad un provvedimento che ha disposto il collocamento a riposo del
docente per raggiunti limiti di età.
Al riguardo, il Consiglio di Stato
riferisce che, con istanza dell’11 novembre 2009, il professor F. ha chiesto di
avvalersi della facoltà, concessa dall’art. 16 del d.lgs. n. 503 del 1992, di
permanere in servizio per altri due anni. Tuttavia, quando ancora
l’amministrazione non si era pronunciata su tale istanza, era sopraggiunta la
legge n. 240 del 2012, il cui art. 25 aveva statuito l’inapplicabilità del
menzionato art. 16 ai professori universitari.
Per conseguenza, con decreto dell’11
aprile 2011, il Rettore dell’Università indicata, applicando e richiamando in
motivazione il detto art. 25, ha respinto l’istanza di trattenimento in
servizio avanzata dal docente e ne ha disposto il collocamento a riposo.
Quest’ultimo ha impugnato il suddetto decreto con ricorso al TAR per il Lazio,
sede di Roma, chiedendo in via incidentale la sospensione del provvedimento del
Rettore. Il giudice adito, con ordinanza dell’11 ottobre 2011, ha respinto
l’istanza cautelare.
Per ottenere la riforma di tale
ordinanza, il prof. F. ha proposto appello al Consiglio di Stato, deducendo,
sotto diversi profili, l’illegittimità costituzionale dell’art. 25 della legge
n. 240 del 2010, «nella misura in cui preclude ogni possibilità di
trattenimento in servizio dei professori universitari».
Con ordinanza del 26 ottobre 2011 il
Consiglio di Stato, pronunciando in sede cautelare, ha disposto la sospensione
del giudizio per la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale.
Sul punto, al fine di conciliare il
carattere accentrato del sindacato di costituzionalità con il principio di
effettività della tutela giurisdizionale (artt. 24 e 113 Cost.; artt. 6 e 13
della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle
libertà fondamentali), il Consiglio, con l’ordinanza ora citata, ha concesso
una misura cautelare "interinale”, fino alla camera di consiglio successiva
alla restituzione degli atti da parte della Corte costituzionale, «ordinando
all’Amministrazione di ripronunciarsi sull’istanza di trattenimento in servizio
presentata dal ricorrente, alla luce del quadro normativo esistente
anteriormente all’entrata in vigore del citato art. 25 della legge n. 240 del
2010 e, in particolare, dei criteri fissati dall’art. 72, comma 7,
decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (convertito dalla legge 6 agosto 2008, n.
133)».
Ha, poi, ritenuto che la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 25 della legge n. 240 del 2010 sia rilevante e non
manifestamente infondata.
2.1.— Il Consiglio di Stato, con
riferimento al requisito della rilevanza, ha osservato che la norma de qua è senza dubbio applicabile alla
fattispecie in questione, dal momento che l’atto impugnato ha respinto
l’istanza del ricorrente facendo, per l’appunto, applicazione di essa, il cui
chiaro tenore letterale preclude la possibilità di trattenimento in servizio
per professori e ricercatori universitari.
Inoltre, l’applicazione di detta norma,
effettuata dall’università, risulta corretta, non sussistendo spazi per
un’interpretazione diversa. L’eventuale dichiarazione di illegittimità
costituzionale del citato art. 25 avrebbe l’effetto di rimuovere l’ostacolo
normativo all’applicazione dell’art. 16 del d.lgs. n. 503 del 1992, consentendo
al ricorrente di ottenere che l’istanza di permanenza in servizio sia esaminata
(ed eventualmente accolta) dall’università sulla base dei criteri introdotti
dall’art. 72, comma 7, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni
urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la
stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria),
convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133.
La rilevanza della questione non sarebbe
esclusa dalla natura cautelare del giudizio, nell’ambito del quale essa è
sollevata.
Per costante giurisprudenza di questa
Corte, la questione di legittimità costituzionale sarebbe inammissibile per
difetto di rilevanza, qualora essa sia sollevata dopo l’adozione del
provvedimento cautelare, perché, in tal caso, la rimessione alla Corte stessa
sarebbe tardiva in relazione al giudizio cautelare, ormai concluso, e prematura
in relazione al giudizio di merito, in ordine al quale il Collegio, in mancanza
della fissazione della relativa udienza di discussione, sarebbe privo di potere
decisorio.
Tuttavia, per evitare che la legge
sospettata di illegittimità costituzionale possa precludere definitivamente la
tutela cautelare, mortificando le esigenze di tutela immediata ad essa sottese
– il che si tradurrebbe in una palese violazione di fondamentali principi
costituzionali (artt. 24 e 113 Cost.) o sopranazionali (artt. 6 e 13 CEDU) – la
giurisprudenza, nel tentativo di conciliare il carattere accentrato del
controllo di legittimità costituzionale delle leggi con il principio di
effettività della tutela giurisdizionale, avrebbe sperimentato due soluzioni.
La prima consisterebbe nel concedere la
sospensiva, disapplicando la legge sospettata di illegittimità costituzionale e
rinviando al giudizio di merito la rimessione della relativa questione; la
seconda si concretizzerebbe nella scomposizione del giudizio cautelare in due
fasi: nella prima fase si accoglie la domanda cautelare "a termine”, fino alla
decisione della questione di legittimità costituzionale contestualmente
sollevata; nella seconda, all’esito del giudizio di legittimità costituzionale,
si decide "definitivamente”, tenendo conto, per valutare la sussistenza del fumus boni iuris sulla domanda
cautelare, della decisione della Corte costituzionale.
Il Consiglio di Stato, nel prestare
adesione alla seconda soluzione, ritiene che essa sia quella che meno si
allontana dal vigente sistema di giustizia costituzionale e risulti, peraltro,
in linea con l’orientamento della Corte di giustizia dell’Unione Europea in
ordine alla questione, per alcuni versi analoga, dei rapporti tra giudizio
cautelare e questione pregiudiziale, in particolare nel senso dell’articolazione
bifasica di detto giudizio.
Del resto – osserva il rimettente –
anche la Corte costituzionale, con riferimento a questioni di legittimità
sollevate in sede cautelare, ha rilevato in più occasioni che la potestas iudicandi non può ritenersi
esaurita quando la concessione della misura cautelare, come nella specie, sia
fondata, quanto al fumus boni iuris,
sulla non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale,
perché in tal caso la sospensione dell’efficacia del provvedimento impugnato si
deve ritenere di carattere provvisorio e temporaneo, fino alla ripresa del
giudizio cautelare dopo l’incidente di legittimità costituzionale (sono
richiamate le sentenze n. 4 del 2000, n. 183 del 1997,
n. 359 e n. 30 del 1995, n. 367 del 1991
e n. 444 del
1990).
Ad avviso del rimettente, anche il
requisito del periculum in mora
meriterebbe positivo apprezzamento, essendo evidente che il tempo necessario
per la decisione del ricorso nel merito potrebbe arrecare al ricorrente un
pregiudizio grave e irreparabile, anche in considerazione del fatto che
verrebbe a scadere il biennio in relazione al quale egli ha presentato la
richiesta di trattenimento in servizio.
3.— Il Consiglio di Stato ritiene la
questione di legittimità costituzionale non manifestamente infondata.
Infatti, l’art. 25 della legge n. 240
del 2010, escludendo l’applicazione ai professori e ricercatori universitari
dell’art. 16 del d.lgs. n. 503 del 1992, si porrebbe in contrasto con gli artt.
3, 33 e 97 Cost.
Invero, la deroga introdotta dalla norma
rispetto alla disciplina generale di cui al citato art. 16 sarebbe in primo
luogo irragionevole, perché non sorretta da adeguata ragione giustificatrice,
e, comunque, sproporzionata rispetto alla finalità perseguita, nonché lesiva
sia del principio di buon andamento dell’azione amministrativa (art. 97 Cost.),
sia del principio dell’autonomia universitaria (art. 33, sesto comma, Cost.),
nella misura in cui priva le università – discriminandole rispetto a qualsiasi
altro ente pubblico – di ogni potere di valutazione in ordine alla possibilità
di accogliere le istanze di trattenimento in servizio presentate dal personale
docente, anche qualora tale prolungamento risulti funzionale a specifiche
esigenze organizzative, didattiche o di ricerca. In tal modo verrebbe impedito
alle università di dar corso ad una misura organizzativa in tema di provvista
del personale, con danno per l’interesse generale e la dispersione di risorse
preziose.
Inoltre la norma censurata, trovando
applicazione anche nei confronti dei professori e dei ricercatori universitari
che abbiano maturato un’aspettativa giuridicamente consolidata in ordine alla
possibilità di permanere in servizio, risulterebbe lesiva del principio del
legittimo affidamento e della sicurezza giuridica, a sua volta fondato
sull’art. 3 Cost.
Al riguardo, il rimettente ricostruisce
la disciplina generale contenuta nell’art. 16 del d.lgs. n. 503 del 1992, come
modificato dall’art. 72, comma 7, del d.l. n. 112 del 2008, convertito, con
modificazioni, dalla legge n. 133 del 2008, e rileva che detta disciplina
prevede «un sistema nel quale il trattenimento in servizio del dipendente
pubblico non è più rimesso ad un vero e proprio diritto potestativo del
medesimo, della cui scelta l’amministrazione deve limitarsi a prendere atto,
come accadeva, invece, in base all’originaria formulazione dell’art. 16». Come
la giurisprudenza amministrativa avrebbe chiarito, con l’innovazione introdotta
dall’art. 72, comma 7, del citato d.l. (poi convertito), la permanenza in
servizio, oltre l’ordinario limite di età, sarebbe divenuto un istituto
eccezionale, a causa delle generali esigenze di contenimento della spesa
pubblica perseguite con la manovra di cui allo stesso decreto-legge. Pertanto,
la sua determinazione andrebbe sorretta in concreto, se orientata alla
protrazione del servizio, da adeguate giustificazioni.
Rispetto a tale disciplina, diretta a
sottoporre il mantenimento in servizio a rigorose condizioni, la scelta
radicale contenuta nella norma censurata appare irragionevole e, come tale, in
contrasto con uno dei corollari del principio di uguaglianza di cui all’art. 3
Cost. Infatti, non sarebbe ravvisabile un’idonea ragione giustificatrice a
sostegno della definitiva e totale esclusione, per la speciale categoria di
dipendenti pubblici di cui si tratta, di qualsiasi possibilità di trattenimento
in servizio oltre il termine ordinario.
In particolare, non costituirebbe una
valida giustificazione l’esigenza, pure emersa nel corso dei lavori preparatori
della legge n. 240 del 2010, volta a favorire il ricambio generazionale nelle
università. Invero, nella specie non sarebbe in discussione la realizzazione di
tale obiettivo, senza dubbio rientrante nella discrezionalità del legislatore,
ma il bilanciamento che quest’ultimo dovrebbe compiere tra il suo perseguimento
e la tutela di altri valori di primario rilievo costituzionale, i quali possono
essere incisi dalla scelta legislativa.
Nel caso di specie, tale scelta
risulterebbe sbilanciata e sproporzionata, perché, in nome dell’esigenza del
ricambio generazionale, il legislatore non si sarebbe fatto carico delle
negative ripercussioni che potrebbero derivarne sul principio di buon andamento
dell’amministrazione e della tutela dell’autonomia universitaria. Ciò
emergerebbe in modo evidente considerando che gli obiettivi perseguiti dalla
norma sarebbero già tutelati dall’art. 16 del d.lgs. n. 503 del 1992 che, in
seguito alle modifiche introdotte nel 2008, prevede l’eccezionalità del
mantenimento in servizio, «tanto da specificare che esso possa essere assentito
soltanto in presenza di specifici e stringenti presupposti».
Il rimettente ribadisce ancora il
contrasto della norma censurata con i principi di buon andamento dell’azione
amministrativa (art. 97 Cost.) e di autonomia funzionale delle università (art.
33, sesto comma, Cost.), nonché con il principio di affidamento nella sicurezza
giuridica, da intendere quale elemento fondamentale dello Stato di diritto
(sono richiamate numerose pronunce di questa Corte).
3.1.— Nel giudizio di legittimità
costituzionale si è costituita la parte privata (il prof. F.G.) che, con
memoria, ha illustrato la fondatezza della questione, ripercorrendo gli
argomenti svolti nell’ordinanza di rimessione.
Il Presidente del Consiglio dei
ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha
spiegato intervento concludendo per l’inammissibilità o, comunque, per la non
fondatezza della questione di legittimità costituzionale.
Ad avviso della difesa dello Stato tale
questione sarebbe, in primo luogo, inammissibile per difetto assoluto di
rilevanza. A tal proposito richiama la giurisprudenza di questa Corte, costante
nel ritenere inammissibile, proprio per difetto di rilevanza nel giudizio a quo, le questioni di legittimità
costituzionale qualora esse siano sollevate, come nella specie, dopo l’adozione
del provvedimento cautelare. Invero, nell’ipotesi in cui il giudice rimettente
adotti il provvedimento cautelare oggetto dell’istanza, ne deriverebbe
l’inammissibilità delle questioni sollevate, perché «una volta soddisfatto il petitum cautelare dell’istante, vengono
meno le ragioni della rilevanza dell’espunzione della norma di dubbia
legittimità costituzionale ai fini del giudizio a quo».
Ben consapevole di ciò, il rimettente
avrebbe ipotizzato un’ideale scomposizione del giudizio cautelare in due fasi, eleggendo
tale articolazione bifasica del detto giudizio a strada maestra nel caso
concreto. La scelta, tuttavia, non sarebbe convincente, tenuto conto della
particolarità della fattispecie.
Infatti, l’ordinanza di rimessione
avrebbe trascurato di valutare che, nella vicenda sottoposta all’esame dei
giudici, il ricorrente aspirava al mantenimento in servizio per un biennio.
Orbene, l’adozione della teoria della
scomposizione bifasica del giudizio cautelare implicherebbe un doppio vaglio
dell’istanza cautelare da parte del rimettente, intervallato dal controllo di
legittimità della Corte costituzionale. Tale triplo filtro potrebbe dispiegarsi
su un lasso di tempo presumibilmente di alcuni mesi. Ne conseguirebbe che, dal
momento dell’emanazione del primo provvedimento sospensivo a quello della
definitiva pronunzia cautelare, in costanza di sospensione del provvedimento di
collocamento a riposo, il ricorrente otterrebbe, de facto e fuori da un vaglio nel merito della questione, il "bene
della vita” cui aspirava, con una chiara distorsione della fisiologica
dialettica processuale. Più in generale, nei casi in cui l’istante (come nel
caso in esame) miri ad ottenere un’utilità sostanziale di natura temporanea,
l’adozione della teoria della scomposizione bifasica del giudizio cautelare
condurrebbe alla non desiderabile conseguenza dell’attribuzione della stessa
«fuori dall’incardinamento del giudizio di merito con grave pregiudizio alle chances difensive di controparte». Tale
implicazione dell’elezione della teoria della scomposizione bifasica del
giudizio cautelare sarebbe del tutto trascurata nell’ordinanza di rimessione.
Nel merito, l’interveniente deduce la
non fondatezza della questione sollevata dal Consiglio di Stato.
Infatti, con riferimento all’asserito
contrasto della norma denunciata con il principio di ragionevolezza e, quindi,
con l’art. 3 Cost., il rimettente avrebbe dimostrato di non aver compreso
pienamente la ratio dell’art. 25
della legge n. 240 del 2010. La norma sarebbe ampiamente giustificata da rilevanti
esigenze di contenimento finanziario e di razionalizzazione della spesa
pubblica. Essa perseguirebbe l’obiettivo del controllo e riduzione della spesa
pubblica in generale e della spesa degli atenei in particolare, e non si
porrebbe in contrasto neppure con le esigenze di tutela del legittimo
affidamento.
In realtà, analizzando l’evoluzione
normativa in materia, si noterebbe che il legislatore non si è limitato ad
abolire tout court la possibilità di
mantenimento in servizio per i professori universitari, ma avrebbe operato una
graduale riduzione della possibilità di ottenere il mantenimento in servizio
biennale fino alla sua totale eliminazione (sono richiamati l’art. 16 del
d.lgs. n. 503 del 1992, l’art. 72 del d.l. n. 112 del 2008, quale convertito in
legge, e l’art. 25 della legge n. 240 del 2010).
In tale contesto andrebbe considerata la
conformità dell’art. 25 citato all’art. 3 Cost., tenendo conto della gradualità
e della ponderazione della scelta legislativa, nonché della sua finalizzazione
a realizzare il preminente obiettivo di contenimento della spesa pubblica,
elementi tutti che escludono la violazione del menzionato parametro
costituzionale sotto ogni profilo, compreso il principio di tutela del
legittimo affidamento.
La norma denunciata, poi, non si
porrebbe in contrasto con l’art. 97 Cost.
In primo luogo, la censura non sarebbe
adeguatamente motivata. Infatti, il rimettente si limiterebbe ad affermazioni
apodittiche, senza specificare quali siano in concreto le ripercussioni
negative della norma sul sistema universitario.
Inoltre, la non fondatezza della
doglianza sarebbe evidente anche considerando le finalità che l’art. 25 della
legge n. 240 del 2010 intende perseguire. Invero, lo scopo della norma sarebbe
duplice. Da un lato, come si è detto, il legislatore avrebbe inteso realizzare
l’obiettivo del contenimento e della razionalizzazione della spesa degli
atenei. In secondo luogo, la norma censurata mirerebbe a favorire il ricambio
generazionale del personale docente (finalità sempre positivamente valutata da
questa Corte: è richiamata la sentenza n. 990 del
1988).
L’affermazione del rimettente, secondo
cui la scelta del legislatore sarebbe eccessiva e sproporzionata rispetto alla
finalità del ricambio generazionale, si rivelerebbe erronea. A tal proposito,
basterebbe considerare che l’esclusione della possibilità di mantenere in
servizio i professori universitari non impedirebbe che i programmi di ricerca e
didattica, facenti capo ai docenti collocati in quiescenza, possano essere
proseguiti dalla struttura scientifica di riferimento dei professori collocati
a riposo.
In effetti – prosegue la difesa erariale
– l’argomento centrale della questione di legittimità costituzionale
sembrerebbe configurare una mera petizione di principio, restando non
dimostrata la "indispensabilità”, ai fini della trasmissione delle esperienze,
di un docente universitario che ormai si trovi nel biennio conclusivo della
carriera. Basterebbe por mente al contesto di riferimento, quello della ricerca
e dell’università, notoriamente caratterizzato da estrema dinamicità e
mutevolezza, nel quale l’apporto di nuove esperienze sarebbe condizione
necessaria per il progresso della cultura e della scienza.
Infine, neppure il richiamo al parametro
costituzionale, individuato nell’art. 33, sesto comma, Cost., sarebbe fondato.
Ad avviso del rimettente, il principio
dell’autonomia universitaria rischierebbe di essere pregiudicato dall’art. 25
della legge n. 240 del 2010; ma sarebbe vero il contrario.
L’abolizione dell’istituto della
permanenza in servizio sarebbe diretto a consentire alle università, proprio
nella prospettiva del buon andamento e della razionale organizzazione delle
attività accademiche, di programmare queste ultime, tenendo conto della
posizione lavorativa dei propri docenti. L’intento del legislatore sarebbe
quello di consentire alle università, nel pieno esercizio della propria
autonomia, una programmazione certa e a lungo termine delle attività didattiche
ed una più agevole pianificazione dell’attività dei comparti della ricerca e
della didattica, facenti capo ai docenti collocati in quiescenza.
Il richiamo alla sentenza n. 1017
del 1988 della Corte costituzionale, effettuato dal rimettente, sarebbe
inesatto. La citata pronuncia riconoscerebbe alle istituzioni universitarie il
diritto di darsi ordinamenti autonomi, ma non in modo pieno ed assoluto, bensì
nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato. Si tratterebbe, cioè, «di una
autonomia che, come questa Corte ha già avuto occasione di precisare (sentenza n. 145 del
1985), lo Stato può accordare in termini più o meno larghi, sulla base di
un suo apprezzamento discrezionale, sempreché quest’ultimo non sia
irrazionale».
Nel caso in esame la scelta del
legislatore non potrebbe definirsi irrazionale, perché ampiamente giustificata,
come sopra esposto, dal duplice interesse al contenimento della spesa pubblica
ed al ricambio generazionale del personale docente.
Conclusivamente, ad avviso
dell’Avvocatura generale dello Stato, nessuno dei parametri costituzionali
invocati risulterebbe violato.
3.2.— Nel giudizio di legittimità
costituzionale promosso con l’ordinanza n. 42 del 2012 ha spiegato intervento
il prof. M.E., esponendo di essere legittimato ad intervenire perché, pur non
essendo parte nel giudizio a quo, ha
vissuto una vicenda "in tutto analoga” a quella del prof. F.G.
Al riguardo, tuttavia, va rilevato che
il prof. M.E. ha proposto anche un autonomo giudizio cautelare, nel corso del
quale, in sede di appello per la riforma di un provvedimento cautelare emesso
dal TAR Lazio, sede di Roma, il Consiglio di Stato ha pronunciato un’ordinanza
(r.o. n. 191 del 2012, depositata in data 2 febbraio 2012) con la quale ha
rimesso a questa Corte la questione di legittimità costituzionale dell’art. 25
della legge n. 240 del 2010, argomentata in termini identici a quelli esposti
nell’ordinanza n. 42 del 2012 e con riferimento ai medesimi parametri
costituzionali. Sul punto si tornerà più avanti. In questo giudizio di
legittimità costituzionale il medesimo prof. M.E. si è costituito.
4.— Le ordinanze del Consiglio di Stato
r.o. numeri 43, 44, 45, 59, 78, 117 e 118 del 2012, sollevano questioni di
legittimità costituzionale dell’art. 25 della legge n. 240 del 2010, con
argomenti identici a quelli esposti nell’ordinanza n. 42 del 2012 e con
riferimento ai medesimi parametri costituzionali.
Nei relativi giudizi di legittimità
costituzionale ha spiegato intervento il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, adducendo
argomenti analoghi a quelli esposti nel giudizio promosso con l’ordinanza r.o.
n. 42 del 2012.
5.— L’ordinanza del Consiglio di Stato
r.o. n. 119 del 2012 solleva questione di legittimità costituzionale del citato
art. 25 della legge n. 240 del 2010, con argomenti identici a quelli esposti
nelle ordinanze richiamate nei punti che precedono e con riferimento ai
medesimi parametri costituzionali.
Nel relativo giudizio di legittimità
costituzionale è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, esponendo
argomenti analoghi a quelli addotti nei giudizi richiamati nei punti
precedenti.
La parte privata (il prof. A.A.) si è
costituita nel detto giudizio con atto depositato il 10 luglio 2012 e, in
prossimità dell’udienza di discussione, ha depositato memoria illustrativa con
la quale ha insistito per l’accoglimento delle conclusioni già rassegnate in
atti.
6.— L’ordinanza del Consiglio di Stato
r.o. n. 120 del 2012 solleva questione di legittimità costituzionale dell’art.
25 della legge n. 240 del 2010, allegando argomentazioni sostanzialmente
identiche a quelle esposte nelle ordinanze sopra richiamate, con riferimento ai
medesimi parametri costituzionali.
Nel relativo giudizio di legittimità
costituzionale è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha esposto
argomenti analoghi a quelli addotti nei giudizi richiamati nei punti
precedenti.
La parte privata (il prof. T.C.) si è
costituita nel detto giudizio e, in prossimità dell’udienza di discussione, ha
depositato memoria.
7.— Le ordinanze del Consiglio di Stato
r.o. n. 121 e n. 191 del 2012 sollevano questioni di legittimità costituzionale
dell’art. 25 della legge n. 240 del 2010 con argomenti nella sostanza identici a
quelli esposti nelle ordinanze di cui ai punti che precedono e con riferimento
ai medesimi parametri costituzionali.
Il Presidente del Consiglio dei
ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, è
intervenuto nei relativi giudizi, adducendo argomenti analoghi a quelli esposti
negli atti d’intervento sopra richiamati.
Le parti private (il prof. D.C. e il
prof. M.E.) si sono costituite nei detti giudizi e, in prossimità dell’udienza
di discussione, hanno depositato memorie illustrative.
8.— L’ordinanza del Consiglio di Stato
r.o. n. 122 del 2012. solleva questione di legittimità costituzionale dell’art.
25 della legge n. 240 del 2010 con argomenti nella sostanza identici a quelli
esposti nelle ordinanze in precedenza richiamate e con riferimento ai medesimi
parametri costituzionali.
Il Presidente del Consiglio dei
ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, è
intervenuto nel relativo giudizio, facendo valere argomenti analoghi a quelli
esposti negli atti d’intervento sopra richiamati.
9.— Anche il Tribunale amministrativo
regionale per il Molise (d’ora in avanti, TAR), con le due ordinanze indicate
in epigrafe (r.o. n. 224 e n. 225 del 2012) solleva questioni di legittimità
costituzionale dell’art. 25 della legge n. 240 del 2010, in riferimento agli
artt. 3, 33 e 97 Cost., svolgendo argomentazioni di tenore nella sostanza
identico a quelle esposte dal Consiglio di Stato.
In particolare, quanto alle premesse in
fatto, il TAR riferisce di essere chiamato a pronunciare nel merito, dopo avere
accolto le istanze cautelari, sui ricorsi promossi da due docenti contro
l’Università del Molise, per l’annullamento di alcune delibere del Senato
accademico con le quali erano state respinte le istanze dei ricorrenti, dirette
ad ottenere il trattenimento biennale in servizio, e per l’annullamento del
decreto rettorale che aveva disposto il collocamento a riposo degli stessi a
far data dal 1˚ novembre 2011.
Quanto alla rilevanza, il rimettente
sottolinea che la norma censurata deve essere applicata anche quando l’istanza
di trattenimento in servizio sia stata presentata anteriormente all’entrata in
vigore della norma stessa, sicché la disposizione impedisce ai ricorrenti di
ottenere l’esame delle loro istanze di permanenza in servizio. Né la rilevanza
potrebbe ritenersi esclusa dal fatto che il TAR non abbia ritenuto di sollevare
questione di legittimità costituzionale della medesima norma in sede cautelare
(sede nella quale la misura di cautela fu concessa), in quanto la scelta sarebbe
stata motivata dall’esigenza di non precludere definitivamente la tutela
cautelare e di conciliare il carattere accentrato del controllo di legittimità
costituzionale delle leggi con il principio di effettività della tutela
giurisdizionale: concedendo la tutela cautelare, il TAR avrebbe ritenuto di
disapplicare in via "provvisoria” la norma censurata, rimettendo
contestualmente la questione al giudice delle leggi.
Anche la giurisprudenza costituzionale,
in relazione a questioni di legittimità sollevate in sede cautelare, avrebbe
affermato che la potestas iudicandi
non può dirsi esaurita quando la concessione della misura cautelare sia basata
sulla non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale,
in quanto, in tal caso, la sospensione dell’efficacia dell’atto avrebbe
carattere provvisorio e temporaneo.
Quanto alla non manifesta infondatezza,
le ordinanze del TAR molisano ripercorrono le argomentazioni contenute nelle
ordinanze del Consiglio di Stato, sollevando questione di legittimità
costituzionale dell’art. 25 della legge citata per contrasto con gli artt. 3,
33, ultimo comma, e 97 Cost.
Inoltre, il TAR pone in evidenza un
ulteriore profilo di disparità, ineguaglianza e irragionevolezza. L’art. 24,
comma 4, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni sul
collocamento a riposo dei dipendenti dello Stato e sul trattenimento in
servizio oltre i limiti di età), convertito, con modificazioni, dalla legge 22
dicembre 2011, n. 214, riconoscerebbe a tutti i dipendenti, pubblici e privati,
il diritto potestativo di protrarre il periodo lavorativo fino al compimento
del settantesimo anno di età. L’esclusione dei professori e ricercatori
universitari da tale facoltà sarebbe irragionevole, soprattutto perché
l’attività dagli stessi esercitata sarebbe meno usurante di molti dei lavori
materiali svolti da chi potrebbe protrarre la propria presenza al lavoro fino
al settantesimo anno di età, non avendo maturato il periodo contributivo
sufficiente per ottenere una pensione decorosa.
9.1.— In entrambi i giudizi di
legittimità costituzionale promossi con le menzionate ordinanze del TAR per il
Molise ha spiegato intervento il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, svolgendo argomentazioni
analoghe a quelle esposte con gli atti di intervento depositati nei giudizi
promossi con le ordinanze del Consiglio di Stato sopra richiamate e concludendo
per l’inammissibilità o l’infondatezza della questione.
Nel giudizio promosso con l’ordinanza
del TAR per il Molise, iscritta al r.o. n. 225 del 2012, la parte privata (il
prof. B.O.) si è costituita depositando il relativo atto in data 9 ottobre 2012
e, in prossimità dell’udienza di discussione, ha depositato memoria
illustrativa.
Considerato
in diritto
1.— Il Consiglio di Stato in sede
giurisdizionale, con le tredici ordinanze di rimessione indicate in epigrafe,
ha sollevato – in riferimento agli articoli 3, 33 e 97 della Costituzione –
questioni di legittimità costituzionale dell’articolo 25 della legge 30
dicembre 2010, n. 240 (Norme in materia di organizzazione delle università, di
personale accademico e reclutamento, nonché delega al Governo per incentivare
la qualità e l’efficienza del sistema universitario).
Identiche questioni sono state sollevate
dal Tribunale amministrativo regionale per il Molise con le ordinanze iscritte
al r.o. n. 224 e n. 225 del 2012.
In particolare, i rimettenti dubitano
che la norma censurata – escludendo l’eventuale trattenimento in servizio per
un biennio, oltre l’età del collocamento in quiescenza, per i professori e per
i ricercatori universitari che ne abbiano fatto istanza – violi: a) il
principio di buon andamento dell’azione amministrativa (art. 97 Cost.) e il
principio dell’autonomia universitaria (art. 33, sesto comma, Cost.), perché
priverebbe le università, discriminandole rispetto a qualsiasi altro ente
pubblico, del potere di valutazione e di accoglimento delle istanze di
trattenimento in servizio presentate dal personale docente, anche laddove tale
prolungamento risulti funzionale a specifiche esigenze organizzative,
didattiche o di ricerca, impedendo alle università di utilizzare una misura
organizzativa, seppure eccezionale, in materia di provvista del personale e
privando gli atenei di docenti caratterizzati da una qualificazione scientifica
ben difficilmente ripetibile; b) il principio del legittimo affidamento e della
sicurezza giuridica, ai sensi dell’art. 3 Cost., nella misura in cui prevede
che la regola introdotta dalla norma censurata si applichi indistintamente a
tutti i professori e ricercatori universitari, anche a quelli che hanno fatto
legittimo affidamento su una disciplina che consentiva il mantenimento in
servizio per un ulteriore biennio, in quanto erano stati già autorizzati con decreto
rettorale adottato sulla base della originaria normativa dettata dall’articolo
16 del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 503 (Norme per il riordinamento
del sistema previdenziale dei lavoratori privati e pubblici, a norma dell’art.
3 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), con conseguente irragionevole disparità
di trattamento tra situazioni sostanzialmente identiche, essendo esclusi
soltanto i beneficiari di un atto di mantenimento in servizio che abbia già
iniziato a produrre effetti; c) l’art. 3 Cost. per violazione del principio di
ragionevolezza, tenuto conto della disciplina di cui all’art. 16 d.lgs. n. 503
del 1992, quale tertium comparationis,
in relazione alla quale la scelta legislativa appare sbilanciata e
sproporzionata perché, in nome dell’esigenza del ricambio generazionale, il
legislatore non si è fatto carico delle negative ripercussioni che potrebbero
derivarne sui principi del buon andamento della pubblica amministrazione e
della tutela dell’autonomia universitaria (artt. 97 e 33 Cost.): la disparità
di trattamento tra categorie di pubblici dipendenti (i professori e ricercatori
universitari rispetto al restante personale pubblico) si traduce in una
disparità di trattamento anche tra i relativi enti di appartenenza, perché
viene negata alle università, titolari di un’autonomia funzionale
costituzionalmente garantita, ogni margine di autonomo apprezzamento.
Inoltre, secondo il TAR per il Molise
sarebbe ancora violato l’art. 3 Cost. per disparità, ineguaglianza ed
irragionevolezza, in quanto l’art. 24, comma 4, del decreto-legge 6 dicembre
2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il
consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, dalla legge
22 dicembre 2011, n. 214, riconoscerebbe a tutti i dipendenti pubblici e
privati il diritto potestativo di protrarre il periodo lavorativo fino al
compimento del settantesimo anno di età. Pertanto, tutti i lavoratori pubblici
e privati, se intendono beneficiarne, «hanno diritto a tale proroga, tranne i
professori e ricercatori universitari. Tale regime particolare di sfavore verso
i docenti universitari non ha alcuna ragion d’essere, specie se si considera
che il lavoro intellettuale da essi svolto notoriamente è meno usurante di
tante attività manuali, materiali e pratiche di quei lavoratori ai quali,
paradossalmente, si consente di protrarle fino ai settant’anni di età, per la
sola ragione che potrebbero non aver maturato il periodo contributivo
sufficiente a ottenere una decorosa pensione (ragione che, peraltro, potrebbe
riguardare anche i professori e ricercatori che hanno avuto accesso alla
carriera universitaria in età matura)».
2.— Le quindici ordinanze di rimessione
indicate in epigrafe censurano, con argomenti identici o analoghi, la stessa
norma di legge, cioè l’art. 25 della legge n. 240 del 2010. Pertanto, i
relativi giudizi di legittimità costituzionale devono essere riuniti, per
essere decisi con unica pronuncia.
3.— Come esposto in narrativa, il prof.
M.E. ha spiegato intervento nel giudizio di legittimità costituzionale promosso
con ordinanza del Consiglio di Stato iscritta al r.o. n. 42 del 2012,
concernente la posizione del prof. F.G., pur non essendo parte del giudizio a quo. L’interveniente ha motivato la
sua iniziativa assumendo di aver vissuto una vicenda "in tutto analoga” a
quella del detto prof. F.G. Tale intervento sarebbe inammissibile in base alla
costante giurisprudenza di questa Corte, secondo la quale possono intervenire
nel giudizio incidentale di legittimità costituzionale (oltre al Presidente del
Consiglio dei ministri e, nel caso di legge regionale, al Presidente della
Giunta regionale) le sole parti del giudizio principale, mentre l’intervento di
soggetti estranei a questo è consentito soltanto ai terzi titolari di un
interesse qualificato, inerente in modo diretto ed immediato al rapporto
sostanziale dedotto in giudizio e non semplicemente regolato, al pari di ogni
altro, dalla norma o dalle norme oggetto di censura.
Tuttavia il prof. M.E., dopo avere
spiegato il detto intervento, si è anche costituito nel giudizio di legittimità
costituzionale promosso dal Consiglio di Stato con ordinanza iscritta al r.o.
n. 191 del 2012, relativo allo stesso prof. M.E., parte privata nel giudizio a quo. Ne deriva che è venuto meno ogni
interesse alla pronunzia sull’intervento, che deve quindi ritenersi assorbito.
4.— La difesa dello Stato, intervenuta
in ciascuno dei giudizi a quibus, ha
chiesto che la questione sia dichiarata inammissibile per difetto assoluto di
rilevanza.
Al riguardo, essa ha dedotto che la
giurisprudenza di questa Corte sarebbe costante nel ritenere inammissibili,
proprio per difetto di rilevanza nel giudizio a quo, le questioni di legittimità costituzionale, qualora esse
siano sollevate, come nei casi di specie, dopo l’adozione del provvedimento
cautelare. Infatti, «nell’ipotesi in cui il giudice remittente adotti il
provvedimento cautelare oggetto dell’istanza, la questione di legittimità deve
essere dichiarata inammissibile giacché una volta soddisfatto il petitum cautelare dell’istante vengono
meno le ragioni della rilevanza dell’espunzione della norma di dubbia
legittimità costituzionale ai fini del giudizio a quo».
La questione, dunque, nel caso di specie
non potrebbe trovare ingresso, «atteso che, data la concessione del provvedimento
d’urgenza, la remissione alla Corte è tardiva
in relazione al giudizio cautelare e prematura
in relazione al giudizio di merito, in ordine al quale il collegio, in mancanza
della fissazione della relativa udienza di discussione, è privo di potere
decisorio» (sono richiamate le sentenze n. 451 del 1993
e n. 186 del
1976).
Il Consiglio di Stato, consapevole di
tale ragione d’inammissibilità, avrebbe cercato di superarla mediante un’ideale
scomposizione del giudizio cautelare in due fasi: una ante e una post iudicium
di legittimità costituzionale. La difesa dello Stato afferma che: «L’ordinanza
di remissione elegge tale articolazione bifasica del giudizio cautelare a
strada maestra nel caso concreto. La scelta, tuttavia, appare non convincente,
tenuto conto delle peculiarità del caso concreto».
Infatti – prosegue l’Avvocatura – i
ricorrenti avrebbero aspirato al mantenimento in servizio per un biennio.
L’adozione della teoria della scomposizione bifasica del giudizio cautelare
avrebbe implicato un doppio vaglio dell’istanza cautelare da parte del giudice
rimettente, intervallato dal controllo di legittimità della Corte
costituzionale. Questo triplo filtro giurisdizionale potrebbe svolgersi nel
presumibile lasso di tempo di alcuni mesi. Pertanto, dal momento
dell’emanazione del primo provvedimento sospensivo fino a quello della
definitiva pronuncia cautelare, in costanza di sospensione dell’atto di
collocamento a riposo, il ricorrente otterrebbe in via di fatto, e fuori da un
vaglio nel merito della questione, il "bene della vita” cui aspirava, con una
chiara distorsione della fisiologica dialettica processuale. Più in generale,
nei casi in cui l’istante, come nella specie, miri ad ottenere una utilità
sostanziale di natura temporanea, l’adozione della teoria della scomposizione
bifasica del giudizio cautelare contribuirebbe ad attribuire tale utilità
«fuori dall’incardinamento del giudizio di merito con grave pregiudizio alle chances difensive di controparte». Tale
profilo sarebbe stato del tutto trascurato nelle ordinanze di rimessione.
L’eccezione non è fondata.
Questa Corte ha più volte chiarito che
la potestas iudicandi del giudice a quo non può ritenersi esaurita quando
la concessione della misura cautelare sia fondata, quanto al fumus boni iuris, sulla non manifesta
infondatezza della questione di legittimità costituzionale, dovendosi, in tal
caso, ritenere di carattere provvisorio e temporaneo la sospensione
dell’efficacia del provvedimento impugnato, fino alla ripresa del giudizio
cautelare dopo l’incidente di legittimità costituzionale (ex plurimis: sentenze n. 236 del 2010,
n. 351 e n. 161 del 2008;
ordinanza n. 25
del 2006).
Nei casi in esame il Consiglio di Stato,
adito in sede di appello nei procedimenti cautelari, ha sollevato la questione
di legittimità costituzionale dell’art. 25 della legge n. 240 del 2010,
ritenendola rilevante e non manifestamente infondata, e, con separate
ordinanze, ha concesso una misura cautelare "interinale” o ad tempus, «fino alla camera di consiglio successiva alla
restituzione degli atti da parte della Corte costituzionale».
È evidente, dunque, che si è trattato di
una misura avente carattere provvisorio, efficace sino alla ripresa del
procedimento dopo l’incidente di legittimità costituzionale, sicché il giudice a quo non ha esaurito la propria potestas iudicandi, onde ben può
sollevare, in questa fase, le questioni di legittimità costituzionale della
disposizione che è chiamato ad applicare.
Quanto alle due ordinanze del TAR per il
Molise, come risulta da tali provvedimenti, il giudice a quo, dopo aver concesso le misure cautelari richieste dalle parti
ricorrenti, ha trattato le questioni in pubblica udienza ed all’esito ha
sollevato le questioni di legittimità costituzionale del citato art. 25, sicché
per esse non si pone un problema di esaurimento della potestas iudicandi.
4.1.— La tesi della difesa erariale,
sopra riassunta, secondo cui i rimettenti avrebbero trascurato di considerare
le peculiarità del caso di specie, non può essere condivisa.
Invero, essa si risolve nella denuncia
di un asserito (ed eventuale) inconveniente di mero fatto che, secondo la
costante giurisprudenza di questa Corte, non rileva ai fini del controllo di
legittimità costituzionale (ex plurimis:
sentenze n. 117
del 2012, n.
303 del 2011 e n. 329 del 2009).
5.— Nel merito, le questioni sono
fondate.
L’art. 25 della legge n. 240 del 2010
così dispone: «L’art. 16 del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 503 non
si applica a professori e ricercatori universitari. I provvedimenti adottati
dalle università ai sensi della predetta norma decadono alla data di entrata in
vigore della presente legge, ad eccezione di quelli che hanno già iniziato a
produrre i loro effetti».
A sua volta, l’art. 16, comma 1, del
d.lgs. n. 503 del 1992, statuisce: «È in facoltà dei dipendenti civili dello
Stato e degli enti pubblici non economici di permanere in servizio, con effetto
dalla data di entrata in vigore della legge 23 ottobre 1992, n. 421, per un
periodo massimo di un biennio oltre i limiti di età per il collocamento a
riposo per essi previsti. In tal caso è data facoltà all’amministrazione, in
base alle proprie esigenze organizzative e funzionali, di trattenere in
servizio il dipendente in relazione alla particolare esperienza professionale
acquisita dal dipendente in determinati o specifici ambiti ed in funzione
dell’efficiente andamento dei servizi. La disponibilità al trattenimento va
presentata all’amministrazione di appartenenza dai ventiquattro ai dodici mesi
precedenti il compimento del limite di età per il collocamento a riposo
previsto dal proprio ordinamento. I dipendenti in aspettativa non retribuita
che ricoprono cariche elettive esprimono la disponibilità almeno novanta giorni
prima del compimento del limite di età per il collocamento a riposo».
Con riguardo a tale norma va notato che,
con sentenza n.
33 del 2013, questa Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del
combinato disposto degli artt. 15-nonies,
comma 1, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 (Riordino della
disciplina in materia sanitaria, a norma dell’articolo 1 della legge 23 ottobre
1992, n. 421), e 16, comma 1, primo periodo, del d.lgs. n. 503 del 1992, nel
testo di essi vigente fino all’entrata in vigore dell’art. 22 della legge 4
novembre 2010, n. 183 (Deleghe al Governo in materia di lavori usuranti, di
riorganizzazione di enti, di congedi, aspettative e permessi, di ammortizzatori
sociali, di servizi per l’impiego, di incentivi all’occupazione, di
apprendistato, di occupazione femminile, nonché misure contro il lavoro sommerso
e disposizioni in tema di lavoro pubblico e di controversie di lavoro), nella
parte in cui non consente al personale ivi contemplato che, al raggiungimento
del limite massimo di età per il collocamento a riposo non abbia compiuto il
numero degli anni richiesti per ottenere il minimo della pensione, di rimanere,
su richiesta, in servizio fino al conseguimento di tale anzianità minima e,
comunque, non oltre il settantesimo anno di età. La suddetta pronuncia,
peraltro, non incide sulla questione qui in esame, concernente il trattenimento
in servizio di una categoria, quale quella dei professori universitari, la cui
età di collocamento a riposo è già fissata al compimento del settantesimo anno
di età.
Ciò posto, si deve osservare che il
dettato della norma censurata (il cui chiaro significato non si presta a dubbi
ermeneutici) esclude l’applicazione a professori e ricercatori universitari
dell’art. 16, comma 1, del d.lgs. n. 503 del 1992, così precludendo a tale
categoria la facoltà, riconosciuta agli altri dipendenti civili dello Stato e
degli enti pubblici non economici, di permanere in servizio per un periodo
massimo di un biennio oltre i limiti di età per il collocamento a riposo per
essi previsto, previa valutazione favorevole dell’amministrazione di appartenenza,
secondo i criteri nel medesimo art. 16 indicati.
Orbene, tale esclusione si rivela del
tutto irragionevole e si risolve, quindi, in violazione dell’art. 3 Cost.
Va premesso che, come questa Corte ha
più volte affermato, il legislatore ben può emanare disposizioni che vengano a
modificare in senso sfavorevole per gli interessati la disciplina dei rapporti
di durata, anche se l’oggetto di questi sia costituito da diritti soggettivi
perfetti, unica condizione essendo che tali disposizioni «non trasmodino in un
regolamento irrazionale, frustrando, con riguardo a situazioni sostanziali
fondate sulle leggi precedenti, l’affidamento dei cittadini nella sicurezza
giuridica, da intendersi quale elemento fondamentale dello Stato di diritto»
(sentenze n. 166
del 2012, n.
302 del 2010, n.
236 e n. 206
del 2009).
Nei casi in esame non è dato individuare
ragioni idonee a giustificare, per la sola categoria dei professori e
ricercatori universitari, l’esclusione dalla possibilità di avvalersi del
trattenimento in servizio disciplinato dal citato art. 16, comma 1.
Secondo la difesa dello Stato la norma
impugnata sarebbe «pienamente giustificata in vista di rilevantissime esigenze
di contenimento finanziario e razionalizzazione della spesa pubblica». Ad
avviso dell’Avvocatura generale, «se si analizza l’evoluzione normativa in
materia, ci si avvede del fatto che il legislatore non si è limitato ad abolire
tout court la possibilità di
mantenimento in servizio per i professori universitari, ma, proprio per evitare
d’incorrere in censure sotto il profilo della legittimità costituzionale, ha
operato una graduale riduzione della possibilità di ottenere il mantenimento in
servizio biennale fino alla sua totale eliminazione. Dapprima, infatti, con
l’art. 16 del d.lgs. n. 503 del 1992, il legislatore aveva riconosciuto ai
dipendenti civili dello Stato e degli enti pubblici non economici la facoltà di
permanere in servizio per un periodo massimo di un biennio oltre i limiti di
età per il collocamento a riposo. Poi, l’art. 72 del d.l. n. 112 del 2008,
convertito nella legge n. 133 del 2008, aveva previsto che non venisse più
riconosciuto ai professori e ricercatori universitari un diritto soggettivo
alla permanenza in servizio, ma che l’istanza venisse valutata discrezionalmente
dall’amministrazione […]. Infine, con l’art. 25 della legge n. 240 del 2010 è
venuta meno la possibilità, per professori e ricercatori universitari, di
presentare istanza per la permanenza in servizio per un periodo massimo di un
biennio oltre i limiti di età per il collocamento a riposo».
Questa tesi non può essere condivisa.
In primo luogo, la presunta gradualità
dell’intervento legislativo (ammesso che la sua sussistenza possa avere qualche
rilievo ai fini del giudizio di ragionevolezza) in realtà non è ravvisabile.
Invero, l’art. 16 del d.lgs. n. 503 del 1992, nel testo originario, riguardava
tutti i dipendenti civili dello Stato e degli enti pubblici non economici, e,
quindi, anche i docenti universitari. Lo stesso deve dirsi per la modifica
della norma ora citata, compiuta con l’art. 72 del decreto-legge 25 giugno
2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la
semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e
la perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma
1, della legge 6 agosto 2008 , n. 133: anche tale modifica aveva come
destinatari i dipendenti civili dello Stato e degli enti pubblici non
economici, non già i soli docenti universitari, come sembra postulare la difesa
erariale.
Invece, proprio l’art. 25 della legge n.
240 del 2010 ha fatto venir meno per la sola categoria ora indicata la
possibilità di ottenere il trattenimento in servizio, così realizzando anche
una non spiegabile disparità di trattamento in violazione dell’art. 3 Cost.
Quanto all’argomento che vorrebbe
giustificare la norma in questione con «rilevantissime esigenze di contenimento
finanziario e razionalizzazione della spesa pubblica», esso non resiste ad un
sia pur sommario vaglio critico.
In primo luogo, la disposizione di cui
si tratta interessa un settore professionale numericamente ristretto, perciò
inidoneo a produrre significative ricadute sulla finanza pubblica; in secondo
luogo, l’accoglimento dell’istanza di trattenimento in servizio non è
automatico, a seguito dell’intervento normativo realizzato con l’art. 72 del
d.l. n. 112 del 2008 (poi convertito), ma consegue alla valutazione
dell’amministrazione di appartenenza, che decide in base alle proprie esigenze
organizzative e funzionali, considerando la «particolare esperienza
professionale acquisita dal richiedente in determinati o specifici ambiti ed in
funzione dell’efficiente andamento dei servizi»: il che, da un lato, consente
all’Amministrazione di utilizzare esperienze professionali ancora valide,
dall’altro contribuisce a ridurre il numero dei beneficiari del trattenimento;
in terzo luogo, questo impegna un arco di tempo contenuto (al massimo, un
biennio) che non sembra suscettibile d’incidere in misura apprezzabile sulla
spesa pubblica.
Tanto più che lo stesso legislatore ha
ritenuto che il rinvio del collocamento a riposo dei dipendenti pubblici sia
funzionale alle misure di contenimento di tale spesa.
Infine, la norma de qua non può trovare giustificazione sull’interesse al ricambio
generazionale del personale docente, del pari invocato dalla difesa dello
Stato.
Al riguardo, si deve osservare che,
senza dubbio, rientra nella discrezionalità del legislatore l’obiettivo di
favorire il ricambio generazionale nell’ambito dell’istruzione universitaria.
Tuttavia, fermo restando in via generale
tale principio, è pur vero che il perseguimento di questo obiettivo deve essere
bilanciato con l’esigenza, a sua volta riconducibile al buon andamento
dell’amministrazione e perciò nello schema del citato art. 97 Cost., di
mantenere in servizio – peraltro per un arco di tempo limitato – docenti in
grado di dare un positivo contributo per la particolare esperienza
professionale acquisita in determinati o specifici settori ed in funzione
dell’efficiente andamento dei servizi.
In questo quadro si colloca il disposto
dell’art. 16, comma 1, del d.lgs. n. 503 del 1992, nel testo modificato
dall’art. 72, comma 7, del d.l. n. 112 del 2008, poi convertito dalla legge n.
133 del 2008. Detta norma realizza, per l’appunto, il suddetto bilanciamento,
affidando all’amministrazione la facoltà di accogliere o no la richiesta del
dipendente, in base alle proprie esigenze organizzative e funzionali e secondo
i criteri nella norma medesima indicati.
Resta dunque priva di giustificazioni
l’esclusione della sola categoria dei professori e ricercatori universitari
dall’ambito applicativo del citato art. 16, comma 1, quando proprio per tale
categoria l’esigenza suddetta si presenta in modo più marcato, avuto riguardo ai
caratteri ed alle peculiarità dell’insegnamento universitario. La norma
impugnata trascura del tutto tale profilo, introducendo una disciplina
sbilanciata e irrazionale, che si pone in deciso contrasto con gli articoli 3 e
97 Cost.
Pertanto, alla luce delle considerazioni
che precedono, deve essere dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art.
25 della legge n. 240 del 2010.
Ogni altro profilo resta assorbito.
per
questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
dichiara
l’illegittimità costituzionale
dell’articolo 25 della legge 30 dicembre 2010, n. 240 (Norme in materia di
organizzazione delle università, di personale accademico e reclutamento, nonché
delega al governo per incentivare la qualità e l’efficienza del sistema
universitario).
Così deciso in Roma, nella sede della Corte
costituzionale, Palazzo della Consulta, il 6 maggio
2013.
F.to:
Franco GALLO, Presidente
Alessandro CRISCUOLO, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 9 maggio 2013.