SENTENZA N. 161
ANNO 2008
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Franco BILE Presidente
- Giovanni Maria FLICK Giudice
- Francesco AMIRANTE ”
- Ugo DE SIERVO ”
- Paolo MADDALENA ”
- Alfio FINOCCHIARO ”
- Alfonso QUARANTA ”
- Franco GALLO ”
- Luigi MAZZELLA ”
- Gaetano SILVESTRI ”
- Sabino CASSESE ”
- Maria Rita SAULLE ”
- Giuseppe TESAURO ”
- Paolo Maria NAPOLITANO ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 2, commi 159 e 161, del decreto-legge 3 ottobre 2006, n. 262 (Disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria), convertito, con modificazioni, dalla legge 24 novembre 2006, n. 286, promosso con ordinanza del 9 luglio 2007 dal Tribunale ordinario di Roma nel procedimento civile vertente tra B.G. e il Ministero delle comunicazioni iscritta al n. 773 del registro ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 46, prima serie speciale, dell’anno 2007.
Visti l’atto di costituzione di B.G. nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 15 aprile 2008 il Giudice relatore Alfonso Quaranta;
uditi gli avvocati Massimo Coccia e Luca Pardo per B.G. e l’avvocato dello Stato Aldo Linguiti per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1.— Con ordinanza del Tribunale ordinario di Roma, in data 9 luglio 2007, nell’àmbito di un giudizio di lavoro diretto ad ottenere «l’immediata reintegra (…) nell’incarico di direttore della Direzione generale per i servizi di comunicazione elettronica e di radiodiffusione del Ministero delle comunicazioni», è stata sollevata questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, commi 159 e 161, del decreto-legge 3 ottobre 2006, n. 262 (Disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 24 novembre 2006, n. 286, per asserita violazione degli artt. 97 e 98 della Costituzione.
Il rimettente premette che il ricorrente nel giudizio a quo è un dirigente viceprefetto aggiunto all’interno dell’unitaria carriera prefettizia ai sensi degli artt. 1, 2 e 34 del decreto legislativo 19 maggio 2000, n. 139 (Disposizioni in materia di rapporto di impiego del personale della carriera prefettizia, a norma dell’articolo 10 della legge 28 luglio 1999, n. 266), il quale ha ottenuto, con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri n. 3775/2005 del 25 novembre 2005, sulla base di quanto previsto dall’art. 19, commi 4 e 5-bis, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), il conferimento dell’incarico di direttore della Direzione generale per i servizi di comunicazione elettronica e di radiodiffusione del Ministero delle comunicazioni per la durata di cinque anni.
Ricevuto tale incarico, il ricorrente è stato posto «in aspettativa senza assegni con riconoscimento dell’anzianità di servizio» con decreto del capo del Dipartimento per gli affari interni e territoriali 8 maggio 2006.
Con comunicazione del segretario generale 4 dicembre 2006 l’incarico in esame è stato anticipatamente revocato «con decorrenza immediata», in applicazione dell’art. 2, commi 159 e 161, del citato decreto-legge n. 262 del 2006.
Ciò premesso, il giudice a quo riferisce che l’art. 19, comma 8, del d.lgs. n. 165 del 2001, come modificato dall’art. 2, comma 159, del decreto-legge n. 262 del 2006, prevede che «gli incarichi di direzione degli uffici dirigenziali di cui al comma 3» (cosiddetti incarichi apicali), «al comma 5-bis, limitatamente al personale non appartenete ai ruoli di cui all’articolo 23» (cosiddetto ruolo unico della dirigenza statale), «e al comma 6, cessano decorsi novanta giorni dal voto di fiducia al Governo».
Inoltre, l’art. 2, comma 161, stabilisce che, «in sede di prima applicazione dell’articolo 19, comma 8, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, (…) gli incarichi ivi previsti, conferiti prima del 17 maggio 2006, cessano ove non confermati entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto».
Infine, si richiama il contenuto dell’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 165 del 2001, secondo cui il personale appartenente alla carriera prefettizia resta disciplinato dal proprio ordinamento pubblicistico, in deroga alle disposizione sulla privatizzazione del rapporto di lavoro.
Alla luce di tale norma, il giudice a quo ritiene che, contrariamente a quanto sostenuto nel ricorso introduttivo del giudizio, il ricorrente non possa considerarsi far parte del «personale (…) appartenente ai ruoli di cui all’art. 23» del predetto d.lgs. n. 165 del 2001 ai fini dell’esclusione dall’àmbito di applicazione dell’art. 2, commi 159 e 161, riguardando tale art. 23 unicamente i dirigenti contrattualizzati ed appartenendo egli, viceversa, alla diversa categoria dei dirigenti della unitaria carriera prefettizia che, pur rientrando nell’àmbito dell’Amministrazione dell’interno, è autonoma rispetto a questa e «si articola nelle qualifiche di prefetto, viceprefetto e viceprefetto aggiunto» (sono citati l’art. 2, comma 1, del d.lgs. n. 139 del 2000, nonché, per la disciplina transitoria, l’art. 34 del medesimo decreto), con conseguente applicazione del proprio ordinamento pubblicistico (art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 165 del 2001).
A conferma di quanto esposto, viene richiamato l’art. 15 del d.lgs. n. 165 del 2001, il quale, nel prevedere l’articolazione della dirigenza contrattualizzata nelle due fasce del ruolo unico, ha espressamente previsto la salvezza delle particolare disposizioni relative, tra l’altro, alla carriera prefettizia.
Ne consegue, ad avviso del rimettente, che, «anche ove sia stato chiamato a ricoprire – come nella specie – un incarico nei ruoli della dirigenza contrattualizzata ai sensi dell’art. 19, comma 5-bis, del d.lgs. n. 165 del 2001, il dirigente della carriera prefettizia mantenga sempre il proprio particolare status pubblicistico (…) il che gli impedisce (…) di ottenere l’equiparazione ai dirigenti contrattualizzati ai fini della inapplicabilità del meccanismo di spoils system».
Nondimeno, il rimettente assume che l’art. 2, commi 159 e 161, del decreto-legge n. 262 del 2006, «modificando il disposto dell’art. 19, comma 8, del d.lgs. 165 del 2001 ed introducendo, anche per gli incarichi di funzioni dirigenziali di cui al comma 5-bis (che in questa sede occupa) un meccanismo di decadenza automatica dall’incarico dirigenziale (analogo a quello introdotto dall’art. 3, comma 7, della legge 15 luglio 2002, n. 145 recante “Disposizioni per il riordino della dirigenza statale e per favorire lo scambio di esperienze e l’interazione tra pubblico e privato”), per gli incarichi di funzioni dirigenziali di livello generale», si porrebbe in contrasto con l’art. 21 del medesimo decreto, secondo il quale la revoca dell’incarico può avvenire soltanto all’esito di una apposita procedura di accertamento della responsabilità dirigenziale.
Sul punto si richiama quanto affermato dalla Corte costituzionale, con la sentenza n. 313 del 1996: la contrattualizzazione della dirigenza non consente alla pubblica amministrazione di recedere liberamente dal rapporto instaurato con un dirigente non generale, in quanto ciò impedirebbe al dirigente stesso di svolgere in modo autonomo ed imparziale la propria attività gestoria.
Tale affermazione si può estendere, secondo il giudice a quo, anche al rapporto instaurato tra pubblica amministrazione e dirigente «cui sia stato affidato, come nella specie, un incarico di livello immediatamente superiore».
Il rimettente fa riferimento, inoltre, a quanto statuito dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 103 del 2007, mettendo in evidenza il passo della motivazione in cui si afferma che il rapporto di ufficio deve essere connotato in modo da assicurare continuità dell’azione amministrativa e che la anticipata cessazione ex lege del rapporto in corso impedisce che l’attività del dirigente possa espletarsi in conformità al canone dell’efficienza dell’azione amministrativa.
Ne consegue, alla luce dei suddetti princípi, che le norme censurate, determinando una interruzione automatica del rapporto di ufficio ancora in corso prima dello spirare del termine stabilito, si pongono in contrasto con gli artt. 97 e 98 Cost.
La questione sollevata sarebbe anche rilevante, in quanto «se da un lato, la norma stessa dovrebbe necessariamente essere applicata al caso di specie (non rientrando il ricorrente tra i dirigenti di cui all’art. 23 del d.lgs. n. 165 del 2001) e precluderebbe l’accoglimento della domanda in questa sede proposta in via di urgenza di condanna dell’amministrazione reclamata alla reintegrazione del ricorrente nell’incarico dirigenziale a suo tempo conferitogli, dall’altro lato, l’eventuale dichiarazione di incostituzionalità della norma stessa (nella parte in cui dispone per legge la cessazione anticipata ed automatica dell’incarico dirigenziale) renderebbe illegittimo il provvedimento di revoca dell’incarico, facendo sorgere in capo al ricorrente il diritto al ripristino dello stesso sino alla sua naturale scadenza».
Il rimettente assume, inoltre, che non sarebbe possibile prospettare interpretazioni costituzionalmente orientate, né estendere il contenuto delle sentenze della Corte costituzionale n. 103 e n. 104 del 2007 alla presente fattispecie.
Infine, si deduce, da un lato, che sussisterebbe il periculum in mora, dall’altro, la circostanza che il giudizio sia stato introdotto con ricorso d’urgenza e non con ricorso a cognizione piena.
2.— Si è costituito in giudizio il ricorrente del giudizio principale, chiedendo che le norme denunciate vengano dichiarate illegittime.
In particolare, egli osserva che l’art. 2, commi 159 e 161, del decreto-legge n. 262 del 2006, avrebbe un contenuto analogo all’art. 3, comma 7, della legge n. 145 del 2002, già dichiarato costituzionalmente illegittimo dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 103 del 2007.
Infatti, «la norma che viene in rilievo nel presente giudizio lega testualmente la cessazione automatica dei detti incarichi non apicali al voto sulla fiducia al Governo, ovvero, in sede di prima applicazione, alla formazione dell’attuale Governo (17 maggio 2006), con ciò rendendo palese la volontà di instaurare un preciso collegamento tra livello politico e livello burocratico».
Nel prosieguo delle argomentazioni, la parte privata richiama i princípi affermati dalla Corte costituzionale con le sentenze n. 313 del 1996, n. 193 del 2002 e, soprattutto, n. 103 del 2007.
3.— È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, eccependo, innanzitutto, la inammissibilità della questione, perché prospettata nell’àmbito di un procedimento cautelare.
Nel merito, si deduce la non fondatezza della questione, atteso che i princípi posti dagli artt. 95 e 97 Cost. riguardano esclusivamente le funzioni dirigenziali di soggetti appartenenti ai ruoli dell’amministrazione.
Secondo la difesa erariale, la norma in esame è volta, inoltre, a conseguire risparmi di spesa, atteso che «il conferimento degli incarichi predetti a dirigenti estranei all’amministrazione centrale comporta un aggravio economico sul bilancio della stessa». Si aggiunge, inoltre, che le disposizioni censurate si sforzerebbero di «trovare il giusto contemperamento tra lo svolgimento della funzione dirigenziale, fondato sulla natura squisitamente fiduciaria dell’incarico tanto più quando, come nel caso contemplato dalla norma l’incarico è stato conferito a soggetti estranei all’amministrazione o comunque non appartenenti ai ruoli dell’amministrazione centrale, e la necessità di evitare un aggravio all’erario pubblico consistente nella retribuzione del predetto dirigente allorquando sia venuta meno la compagine politica che gli aveva effettivamente conferito l’incarico».
Si sottolinea, inoltre, come il fatto che la revoca faccia salvi gli effetti economici dell’incarico dimostrerebbe la natura non sanzionatoria della decadenza, aggiungendosi che una tale previsione non sarebbe necessaria per i dipendenti pubblici incaricati di funzioni dirigenziali non appartenenti ai ruoli centrali, perché la cessazione dell’incarico dirigenziale non avrebbe per loro alcun effetto negativo sulla retribuzione adeguata e sufficiente, essendo essi ricollocati nei ruoli di provenienza.
Infine, la difesa erariale osserva che non potrebbero trovare applicazione i príncipi di cui alle sentenze della Corte costituzionale n. 103 e n. 104 del 2007, in quanto la prima concerneva una ipotesi di «mera decadenza automatica», la seconda riguardava i direttori generali delle ASL.
Considerato in diritto
1.— Il Tribunale ordinario di Roma, in funzione di giudice del lavoro, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, commi 159 e 161, del decreto-legge 3 ottobre 2006, n. 262 (Disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 24 novembre 2006, n. 286, per violazione degli artt. 97 e 98 della Costituzione.
In particolare, il comma 159 – modificando il comma 8 dell’art. 19 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche) – prevede, tra l’altro, che gli incarichi di funzioni dirigenziali conferiti a personale «non appartenente ai ruoli di cui all’articolo 23» cessano «decorsi novanta giorni dal voto sulla fiducia al Governo».
Il comma 161 stabilisce, invece, che i suddetti incarichi, in sede di prima applicazione della nuova normativa, conferiti prima del 17 maggio 2006, «cessano ove non confermati entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore» dello stesso decreto-legge n. 262 del 2006.
2.— In via preliminare, anche ai fini della delimitazione dell’attuale thema decidendum, appare opportuno ricostruire la vicenda oggetto del giudizio a quo.
Al ricorrente, nella sua qualità di viceprefetto aggiunto e, dunque, di «dirigente di seconda fascia del ruolo del Ministero dell’interno», appartenente, come tale, alla categoria del «personale in regime di diritto pubblico» sottratto alla privatizzazione del pubblico impiego (art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 165 del 2001), con decreto del Presidente dei Consiglio dei ministri 25 novembre 2005 e con contratto in pari data stipulato con il Ministro delle comunicazioni, è stato conferito presso quest’ultimo Ministero l’«incarico di direttore della Direzione generale per i servizi di comunicazione elettronica e di radiodiffusione», ai sensi «dell’art. 19, commi 4 e 5-bis» del d.lgs. n. 165 del 2001.
Successivamente, con atto del 4 dicembre 2006, il Segretario generale del medesimo Ministero ha comunicato al ricorrente la decadenza dal predetto incarico, non essendo intervenuto il provvedimento di conferma dello stesso.
Alla luce di quanto sopra, appare evidente che la cessazione della suddetta funzione dirigenziale “non apicale” è avvenuta in applicazione del comma 161 dell’art. 2 del decreto-legge n. 262 del 2006.
Da ciò deve trarsi la prima conclusione secondo cui il comma 159 del medesimo art. 2, pure oggetto di censura da parte del rimettente, non trova applicazione nel giudizio a quo, sicché la questione di costituzionalità avente ad oggetto anche detta disposizione deve essere dichiarata inammissibile per difetto di rilevanza.
L’esame di merito, pertanto, deve riguardare esclusivamente il comma 161, in relazione al quale priva di fondamento si presenta l’eccezione dell’Avvocatura generale dello Stato di inammissibilità della questione, perché sollevata nell’àmbito di un procedimento cautelare. È, infatti, sufficiente osservare che, essendo tale procedimento ancora in corso, il giudice a quo non ha esaurito la propria potestas iudicandi, per cui è incontestabile la sua legittimazione a sollevare in detta fase la questione di costituzionalità della disposizione di cui è chiamato a fare applicazione.
3.— Ciò premesso, va osservato come il Tribunale rimettente censuri il predetto comma 161, assumendo che esso, nel prevedere, con norma transitoria, che gli incarichi di funzioni dirigenziali conferiti al personale non appartenente ai ruoli di cui all’art. 23 del d.lgs. n. 165 del 2001 «cessano ove non confermati entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore» del predetto decreto-legge n. 262 del 2006, si pone in contrasto con gli artt. 97 e 98 Cost., in quanto determina in modo automatico la interruzione del rapporto di lavoro prima dello spirare del termine stabilito per la sua durata.
3.1.— La questione è fondata.
Preliminarmente è opportuno, allo scopo di chiarire la portata della norma denunciata, sul presupposto che vengano qui in rilievo incarichi “non apicali”, fare cenno alle modalità di conferimento degli incarichi di dirigenza generale dello Stato, con riferimento ai soggetti che ne possono essere investiti.
Innanzitutto, i predetti incarichi possono essere attribuiti a personale inserito nel cosiddetto «ruolo dei dirigenti», istituito presso ciascuna amministrazione statale e articolato in due fasce (art. 23 del d.lgs. n. 165 del 2001).
In secondo luogo, le funzioni dirigenziali possono essere conferite, entro il limite del 10 per cento della dotazione organica dei dirigenti appartenenti alla prima fascia dei ruoli di cui all’art. 23, e del 5 per cento della dotazione organica di quelli di seconda fascia, «anche ai dirigenti non appartenenti ai ruoli di cui al medesimo articolo 23», purché dipendenti da “altre” amministrazioni pubbliche (art. 19, comma 5-bis, del citato d.lgs. n. 165 del 2001), vale a dire da amministrazioni dello Stato diverse da quelle nel cui àmbito è collocato il posto da conferire.
Infine, è prevista la possibilità che ciascuna amministrazione attribuisca la titolarità di tali uffici dirigenziali, a tempo determinato, a «persone di particolare e comprovata qualificazione professionale», in possesso dei requisiti specificamente previsti dal comma 6 dello stesso art. 19, cioè a soggetti estranei, all’atto della nomina, alle amministrazioni statali.
In questa sede vengono in rilievo soltanto gli incarichi relativi alla seconda delle tipologie indicate e dunque quelli esterni conferiti a personale dipendente da “altre” amministrazioni pubbliche: il ricorrente, infatti, essendo un dirigente «di seconda fascia» appartenente al personale della carriera prefettizia, e quindi al «personale in regime di diritto pubblico» (art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 165 del 2001), non rientra nel novero dei soggetti inseriti nei «ruoli di cui all’art. 23», né può essere considerato già facente parte, all’atto del conferimento dell’incarico dirigenziale, di nessuna amministrazione pubblica e tuttavia in possesso di particolare e comprovata qualificazione professionale.
3.2.— In tale contesto si inserisce la disposizione censurata la quale, stabilendo, con norma transitoria, che gli incarichi di funzioni dirigenziali in esame «cessano ove non confermati entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore» del decreto-legge n. 262 del 2006, contempla un meccanismo di spoils system automatico e una tantum.
Sul punto, deve rilevarsi che questa Corte, con la sentenza n. 103 del 2007, ha dichiarato la illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 7, della legge 15 luglio 2002, n. 145 (Disposizioni per il riordino della dirigenze statale e per favorire lo scambio di esperienze e l’interazione tra pubblico e privato), il quale prevedeva la cessazione automatica, ex lege e generalizzata, degli incarichi dirigenziali interni di livello generale al momento dello spirare del termine di sessanta giorni dall’entrata in vigore della stessa legge n. 145 del 2002.
La disposizione ora censurata prevede una ipotesi di decadenza che, rispetto alla fattispecie già scrutinata da questa Corte con la citata sentenza n. 103 del 2007, si connota per avere stabilito, da un lato, la cessazione anticipata dall’incarico di dirigenti esterni dipendenti da “altre” amministrazioni; dall’altro, per l’attribuzione all’organo politico del potere di conferma nel predefinito spazio temporale di sessanta giorni delle funzioni dirigenziali di livello generale in corso di espletamento.
Ai fini della risoluzione della questione sollevata, occorre verificare se la sussistenza delle suddette differenze sia idonea ad incidere sulla legittimità costituzionale del meccanismo di decadenza contemplato dalla disposizione censurata e dunque a diversificare la presente fattispecie da quella scrutinata con la citata sentenza n. 103 del 2007.
A tale proposito, in relazione al primo profilo afferente alla natura del soggetto al quale l’incarico sia stato conferito, deve rilevarsi che il rapporto di lavoro che l’amministrazione instaura con soggetti inseriti nei ruoli di cui all’art. 23 del d.lgs. n. 165 del 2001, vale a dire con personale già dipendente dalla stessa amministrazione conferente, rispetto al contratto stipulato con personale esterno dipendente da “altre” amministrazioni pubbliche, si caratterizza esclusivamente per il peculiare atteggiarsi della relazione esistente tra rapporto di servizio e rapporto di ufficio.
Nel primo caso, infatti, l’atto di conferimento dell’incarico ai dirigenti di ruolo e il contratto individuale cui esso accede si innestano, con funzione integrativa, su un rapporto di servizio già esistente con l’amministrazione statale.
Nella seconda fattispecie, invece, l’atto di attribuzione di una determinata funzione dirigenziale e il correlato contratto individuale, avente ad oggetto la definizione del trattamento economico, hanno una loro autonomia, atteso che il personale esterno dipendente da “altre” amministrazioni statali mantiene la propria specifica fonte di regolazione del rapporto base.
È evidente come le descritte diversità strutturali relative alle modalità di conferimento dei suddetti incarichi non siano idonee a determinare, contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa dello Stato, l’applicazione di princípi diversi, sul piano funzionale, in relazione alla distinzione tra attività di indirizzo politico-amministrativo e compiti gestori dei dirigenti.
Anche per i dirigenti esterni il rapporto di lavoro instaurato con l’amministrazione che attribuisce l’incarico deve essere – come questa Corte ha già avuto modo di affermare con la citata sentenza n. 103 del 2007 – «connotato da specifiche garanzie, le quali presuppongono che esso sia regolato in modo tale da assicurare la tendenziale continuità dell’azione amministrativa e una chiara distinzione funzionale tra i compiti di indirizzo politico-amministrativo e quelli di gestione». Nella specie, il rapporto di lavoro dirigenziale in corso, che avrebbe dovuto avere, per contratto, una durata quinquennale, è stato interrotto automaticamente dopo soltanto poco più di un anno dal suo effettivo inizio.
Deve, pertanto, ribadirsi che il rispetto dei suddetti princípi è necessario al fine di garantire che «il dirigente generale possa espletare la propria attività – nel corso e nei limiti della durata predeterminata dell’incarico – in conformità ai princípi di imparzialità e di buon andamento dell’azione amministrativa (art. 97 Cost.)». Tali princípi stanno «alla base della stessa distinzione funzionale dei compiti tra organi politici e burocratici e cioè tra l’azione di governo – che è normalmente legata alle impostazioni di una parte politica, espressione delle forze di maggioranza – e l’azione dell’amministrazione, la quale, nell’attuazione dell’indirizzo politico della maggioranza, è vincolata, invece, ad agire senza distinzioni di parti politiche e dunque al “servizio esclusivo della Nazione” (art. 98 Cost.), al fine del perseguimento delle finalità pubbliche obiettivate dall’ordinamento» (sentenza n. 103 del 2007).
In definitiva, dunque, la natura esterna dell’incarico non costituisce un elemento in grado di diversificare in senso fiduciario il rapporto di lavoro dirigenziale, che deve rimanere caratterizzato, sul piano funzionale, da una netta e chiara separazione tra attività di indirizzo politico-amministrativo e funzioni gestorie.
La seconda differenza, rispetto alla fattispecie già scrutinata da questa Corte con la sentenza n. 103 del 2007, è costituita dal fatto che nella vicenda ora in esame l’organo politico può esercitare il potere di conferma entro sessanta giorni. Anche tale differenza non è, però, idonea, di per sé, contrariamente a quanto sostenuto dall’Avvocatura generale dello Stato, a diversificare le fattispecie in esame e conseguentemente il relativo regime giuridico. Il potere ministeriale di conferma non attribuisce, infatti, al rapporto dirigenziale in corso alcuna garanzia di autonomia funzionale, atteso che dalla mancata conferma la legge fa derivare la decadenza automatica senza alcuna possibilità di controllo giurisdizionale.
Né può essere seguita la tesi prospettata dalla difesa dello Stato, ripresa nel corso della udienza pubblica di discussione, secondo cui la disposizione contenuta nel comma 161 si caratterizzerebbe in modo peculiare rispetto a quella già oggetto di esame da parte di questa Corte, in quanto rinverrebbe la propria giustificazione nell’esigenza di contenimento della spesa pubblica che permea l’intera legge finanziaria, nella quale la disposizione ora censurata risulta inserita.
A tale proposito, deve rilevarsi come il solo fatto che la norma censurata si trovi collocata in un provvedimento legislativo incidente in àmbito finanziario non comporta necessariamente che scopo della nuova disciplina sia quello del contenimento della spesa pubblica, quando – come nel caso in esame – tale finalizzazione non emerga dal testo della disposizione oggetto di censura.
3.3.— Alla luce delle considerazioni sin qui esposte, deve, pertanto, ritenersi che la norma denunciata, prevedendo la immediata cessazione del rapporto dirigenziale alla scadenza del sessantesimo giorno dall’entrata in vigore del decreto-legge n. 262 del 2006, in mancanza di riconferma, víoli, in carenza di idonee garanzie procedimentali, i princípi costituzionali di buon andamento e imparzialità e, in particolare, «il principio di continuità dell’azione amministrativa che è strettamente correlato a quello di buon andamento dell’azione stessa» (sentenza n. 103 del 2007).
Ciò in quanto la previsione di una anticipata cessazione ex lege del rapporto in corso – in assenza di una accertata responsabilità dirigenziale – impedisce che l’attività del dirigente possa espletarsi in conformità ad un nuovo modello di azione della pubblica amministrazione, disegnato dalle recenti leggi riforma della pubblica amministrazione, che misura l’osservanza del canone dell’efficacia e dell’efficienza «alla luce dei risultati che il dirigente deve perseguire, nel rispetto degli indirizzi posti dal vertice politico, avendo a disposizione un periodo di tempo adeguato, modulato in ragione della peculiarità della singola posizione dirigenziale e del contesto complessivo in cui la stessa è inserita» (sentenza n. 103 del 2007).
È necessario, pertanto, garantire «la presenza di un momento procedimentale di confronto dialettico tra le parti, nell’ambito del quale, da un lato, l’amministrazione esterni le ragioni – connesse alle pregresse modalità di svolgimento del rapporto anche in relazione agli obiettivi programmati dalla nuova compagine governativa – per le quali ritenga di non consentirne la prosecuzione sino alla scadenza contrattualmente prevista; dall’altro, al dirigente sia assicurata la possibilità di far valere il diritto di difesa, prospettando i risultati delle proprie prestazioni e delle competenze organizzative esercitate per il raggiungimento degli obiettivi posti dall’organo politico e individuati, appunto, nel contratto a suo tempo stipulato» (sentenza n. 103 del 2007).
L’esistenza di una preventiva fase valutativa, ha puntualizzato la Corte con la suindicata sentenza, risulta «essenziale anche per assicurare, specie dopo l’entrata in vigore della legge 7 agosto 1990, n. 241 (Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi), come modificata dalla legge 11 febbraio 2005, n. 15, il rispetto dei princípi del giusto procedimento, all’esito del quale dovrà essere adottato un atto motivato che, a prescindere dalla sua natura giuridica, di diritto pubblico o di diritto privato, consenta comunque un controllo giurisdizionale. Ciò anche al fine di garantire – attraverso la esternazione delle ragioni che stanno alla base della determinazione assunta dall’organo politico – scelte trasparenti e verificabili, in grado di consentire la prosecuzione dell’attività gestoria in ossequio al precetto costituzionale della imparzialità dell’azione amministrativa».
3.3.— Deve, pertanto, essere dichiarata la illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 161, del decreto-legge n. 262 del 2006, per violazione degli artt. 97 e 98 della Costituzione, nella parte in cui dispone che gli incarichi conferiti al personale non appartenente ai ruoli di cui all’art. 23 del d.lgs. n. 165 del 2001 «conferiti prima del 17 maggio 2006, cessano ove non confermati entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto».
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 161, del decreto-legge 3 ottobre 2006, n. 262 (Disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 24 novembre 2006, n. 286, nella parte in cui dispone che gli incarichi conferiti al personale non appartenente ai ruoli di cui all’art. 23 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), «conferiti prima del 17 maggio 2006, cessano ove non confermati entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto»;
dichiara la inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 159, del predetto decreto-legge n. 262 del 2006, convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge n. 286 del 2006, sollevata, dal Tribunale ordinario di Roma, in riferimento agli artt. 97 e 98 della Costituzione, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 maggio 2008.
F.to:
Franco BILE, Presidente
Alfonso QUARANTA, Redattore
Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 20 maggio 2008.