SENTENZA N. 117
ANNO 2012
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Alfonso QUARANTA Presidente
- Franco GALLO Giudice
- Luigi MAZZELLA "
- Gaetano SILVESTRI "
- Sabino CASSESE "
- Giuseppe TESAURO "
- Paolo Maria NAPOLITANO "
- Giuseppe FRIGO "
- Alessandro CRISCUOLO "
- Paolo GROSSI "
- Giorgio LATTANZI "
- Aldo CAROSI "
- Marta CARTABIA "
- Sergio MATTARELLA "
- Mario Rosario MORELLI "
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’articolo 3, comma 1, della legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile), promosso dalla Corte di appello di Caltanissetta, nel procedimento vertente tra Morreale Stefania ed altri e il Ministero dell’economia e delle finanze, con ordinanza del 20 aprile 2011, iscritta al n. 191 del registro ordinanze 2011 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 41, prima serie speciale, dell’anno 2011.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 25 gennaio 2012 il Giudice relatore Giuseppe Tesauro.
Ritenuto in fatto
1.— La Corte di appello di Caltanissetta, con ordinanza del 20 aprile 2011, ha sollevato, in riferimento agli articoli 3, primo comma, 24, 25, primo comma, e 111, secondo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 3, comma 1, della legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile), nella parte in cui, secondo l’interpretazione assunta come diritto vivente, «dispone che la competenza territoriale funzionale della Corte di appello determinata ai sensi dell’art. 11 c.p.p. si estende anche ai procedimenti iniziati avanti alla Corte dei conti ed alle altre giurisdizioni di cui all’art. 103 Cost.».
2.— L’ordinanza di rimessione premette che il processo principale ha ad oggetto una domanda diretta ad ottenere l’equa riparazione per l’irragionevole durata di un processo in corso davanti al Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia, proposta inizialmente davanti alla Corte di appello di Palermo; i ricorrenti, avendo quest’ultima dichiarato la propria incompetenza per territorio, hanno riassunto il giudizio davanti alla Corte rimettente.
Secondo il giudice a quo, la giurisprudenza prevalente, di legittimità e di merito, aveva ritenuto che la regola dettata dal citato art. 3, comma 1, concernesse esclusivamente le domande di equa riparazione relative ai processi celebrati davanti alla magistratura ordinaria; per le domande aventi ad oggetto l’irragionevole ritardo dei giudizi amministrativi e contabili la competenza per territorio doveva, invece, essere stabilita ai sensi dell’art. 25 del codice di procedura civile. Siffatto orientamento è stato rimeditato dalle sezioni unite civili della Corte di cassazione che, con ordinanza del 16 marzo 2010, n. 6306, hanno ritenuto riferibile detta disposizione anche ai giudizi di equa riparazione concernenti l’irragionevole ritardo dei processi amministrativi e contabili, enunciando un principio divenuto diritto vivente.
Ad avviso del rimettente, siffatta norma violerebbe anzitutto l’art. 25, primo comma, Cost. La disciplina della competenza per territorio, secondo la giurisprudenza di questa Corte, attiene, infatti, alla nozione di giudice naturale precostituito per legge (sentenza n. 41 del 2006) e le disposizioni che introducono eccezioni alle regole generali di tale criterio di competenza dovrebbero essere ragionevoli, soprattutto qualora rendano più gravoso l’esercizio dell’azione. Il principio di precostituzione del giudice esige, poi, che l’organo giudicante non sia istituito sulla base di criteri fissati in vista di singole controversie e «la nozione di giudice naturale non si cristallizza soltanto nella determinazione di una competenza generale, ma si forma anche a seguito di tutte le disposizioni di legge che possano derogare a tale competenza in base a criteri che ragionevolmente valutino i disparati interessi coinvolti nel processo» (sentenza n. 452 del 1997).
La norma censurata violerebbe il suindicato parametro costituzionale, in quanto prevede anche per i giudizi ex lege n. 89 del 2001 concernenti i processi amministrativi e contabili una deroga della generale disciplina della competenza per territorio che sarebbe priva di ragionevole giustificazione, non apparendo tale al giudice a quo «la ricostruzione teorica ontologicamente unitaria della competenza operata dalle sezioni unite».
Siffatta deroga non sarebbe, infatti, giustificata dall’esigenza di garantire «l’imparzialità e terzietà del giudice», poiché, in relazione a detti giudizi, non può «verificarsi alcuna interferenza tra giudici ordinari e le altre giurisdizioni» e l’art. 11 del codice di procedura penale riguarda «solo i magistrati operanti nell’ambito della giurisdizione ordinaria» (Cass., sez. un. penali, del 15 dicembre 2004, depositata il 13 gennaio 2005, n. 292). Inoltre, questa Corte, con la sentenza n. 287 del 2007, avrebbe fatto proprio l’orientamento contrario all’applicabilità dell’art. 11 c.p.p. ai giudizi di equa riparazione concernenti processi non celebrati davanti ai giudici ordinari. Ad avviso del giudice a quo, detta sentenza avrebbe negato l’ammissibilità dell’estensione dell’art. 11 c.p.p. ed escluso che essa sia costituzionalmente obbligata; comunque, avrebbe affermato che detta disposizione non può comportare «una deroga generalizzata a plurime specifiche regole di competenza, ciascuna adeguata a garantire il pieno esercizio del diritto delle parti di agire e di difendersi in un singolo tipo di controversia». Peraltro, la precedente esegesi del citato art. 3, comma 1, sarebbe stata giustificata dalla considerazione che «il pericolo per l’imparzialità del giudice é talmente ipotetico che è giustificato rimetterne comunque la valutazione alla discrezionalità del legislatore».
L’esigenza di evitare che i giudici ordinari chiamati a decidere le domande di equa riparazione siano prossimi a quelli speciali che hanno definito i processi presupposti neppure sarebbe, poi, garantita dalla norma censurata. L’organizzazione territoriale degli uffici dei giudici non ordinari comporta, infatti, che – come accade, ad esempio, nella Regione siciliana – la sezione regionale della Corte dei conti «copre territorialmente tutti i distretti di Corte di appello ordinari, qualunque Corte d’appello decida sul ritardo»; quindi, i giudici che fanno parte di quest’ultima, «in ipotesi di apertura di procedimenti di responsabilità, saranno soggetti al giudice contabile», con la conseguenza che «nessuno spostamento di competenza, entro il territorio regionale, evita astrattamente l’interferenza stessa», ma incrementa la durata del giudizio. Quest’ultimo risultato si verificherebbe nel caso in esame, poiché la deroga della competenza per territorio della Corte di appello di Palermo in favore della Corte di appello di Caltanissetta comporterebbe, in primo luogo, che la facoltà delle parti di chiedere l’acquisizione degli atti del giudizio presupposto cagionerebbe un ritardo nello svolgimento di tale adempimento, a causa della distanza geografica tra dette sedi giudiziarie; in secondo luogo, determinerebbe la concentrazione dei giudizi di equa riparazione «presso una piccola Corte di appello come quella di Caltanissetta», dato che la gran parte dei giudizi presupposti sono celebrati davanti ad uffici giudiziari (amministrativi e contabili) ubicati nel distretto della Corte di appello di Palermo. L’interpretazione divenuta regola di diritto vivente provocherebbe, quindi, una «disfunzione dello stesso giudizio che deve riparare all’irragionevole durata del processo presupposto», in violazione sia dei principi di ragionevolezza e di ragionevole durata del processo, sia dell’art. 3, comma 6, della legge n. 89 del 2001, poiché l’elevato numero dei giudizi di equa riparazione non permetterebbe alla Corte rimettente di definirli entro il termine stabilito da quest’ultima disposizione.
Ad avviso del giudice a quo, la norma in esame neppure «favorirebbe l’intera diffusione del contenzioso presso tutte le Corti d’appello, alleggerendo il distretto di Roma ove si trovano gli organi di vertice». La circostanza che il TAR per la Sicilia «ha giurisdizione per l’intero territorio Regionale» comporta, infatti, la concentrazione di tutte le domande di equa riparazione concernenti processi celebrati da tale ufficio giudiziario davanti alla Corte d’appello di Caltanissetta. Inoltre, detta interpretazione neanche garantirebbe una riduzione del carico di lavoro della Corte di appello di Roma, in riferimento ai giudizi per i quali «un segmento del ritardo sia relativo al giudizio di cassazione» ed a quello definito dagli altri organi giurisdizionali di vertice.
2.1.— La norma censurata violerebbe anche l’art. 3, primo comma, Cost., poiché la deroga della competenza per territorio stabilita dall’art. 11 c.p.p. non è applicabile neppure ai processi penali concernenti i magistrati amministrativi e contabili e neanche sono stabilite eccezioni alle ordinarie regole di competenza concernenti i giudizi civili dei quali questi siano parte, sicché non sarebbe ragionevole la previsione di una deroga per il solo giudizio di equa riparazione.
Inoltre, essa recherebbe vulnus all’art. 111, secondo comma, Cost. ed al principio di ragionevole durata del processo, dato che la Corte rimettente non sarebbe in condizione di decidere le domande di equa riparazione entro il termine stabilito dall’art. 3, comma 6, della legge n. 89 del 2001 e ciò rischierebbe di dare vita ad un ulteriore contenzioso, influendo negativamente l’elevato numero di detti processi sulla ragionevole durata di tutti gli altri giudizi attribuiti alla medesima.
La norma censurata violerebbe, poi, l’art. 24 Cost., poiché la pregressa esegesi del citato art. 3, comma 1, non ledeva il principio di imparzialità e terzietà del giudice, garantito dall’«appartenenza dei giudici controllori e controllati ad ordini giurisdizionali diversi» (sentenza n. 287 del 2007) e dagli istituti dell’astensione e della ricusazione. Inoltre, essa determinerebbe «uno sbilanciamento, non necessario, in favore dell’interesse garantito dall’art. 108, comma secondo, Cost.» ed una «non giustificata compressione del diritto di difesa sancito dall’art. 24 Cost.», dato che, nei giudizi ex lege n. 89 del 2001, la parte attrice sarebbe costretta ad adire la Corte di appello geograficamente più distante, individuata ai sensi dell’art. 11 c.p.p.
La questione, conclude il rimettente, sarebbe, infine, rilevante, poiché il suo eventuale accoglimento comporterebbe l’incompetenza per territorio della Corte di appello di Caltanissetta a decidere la domanda proposta nel giudizio principale.
3.— Nel giudizio davanti a questa Corte è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata manifestamente infondata.
La norma censurata non violerebbe, infatti, l’art. 25, primo comma, Cost., poiché la scelta con essa realizzata sarebbe ragionevole, tenuto conto delle argomentazioni svolte dalle sezioni unite civili della Corte di cassazione nell’ordinanza n. 6306 del 2010, in larga misura riprodotte nell’atto di intervento. La considerazione unitaria del giudizio presupposto sotto il profilo della competenza garantirebbe, inoltre, un’uniforme applicazione del citato art. 3, comma 1, a tutti i giudizi di equa riparazione e l’esigenza di un giudice terzo ed imparziale. L’interpretazione in esame non sarebbe, inoltre, irragionevole e non si porrebbe in contrasto con l’art. 3 Cost. anche perché le situazioni poste a confronto dal rimettente non sarebbero omologhe.
L’art. 111, secondo comma, Cost. non sarebbe leso, in quanto tale parametro «concepisce un giusto processo come canone “oggettivo”», in virtù del quale ciò che è «imprescindibile è la possibilità di esercizio della giurisdizione a tutela di situazioni meritevoli, ma non l’imposizione di un modello unico e valido in assoluto». La garanzia di imparzialità del giudice, tutelata dalla disciplina della competenza per territorio stabilita dalla norma censurata, sarebbe rispettosa di detto canone e favorirebbe la diffusione del contenzioso, evitandone la concentrazione presso la Corte di appello di Roma ed assicurando in tal modo la durata ragionevole dei giudizi.
Secondo l’Avvocatura generale, sarebbe, infine, infondata la censura riferita all’art. 24 Cost., poiché è «irrazionale ritenere che la violazione del diritto di difesa sussista o meno a seconda che il giudizio presupposto sia [celebrato] dinanzi al giudice ordinario oppure dinanzi a quello amministrativo». L’applicazione di uno stesso criterio di competenza a tutti i giudizi di equa riparazione permetterebbe, invece, «di razionalizzare ed uniformare il riparto, senza in alcun modo comprimere la tutela giurisdizionale del cittadino».
Considerato in diritto
1.— La Corte di appello di Caltanissetta dubita, in riferimento agli articoli 3, primo comma, 24, 25, primo comma, e 111, secondo comma, della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’articolo 3, comma 1, della legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile), nella parte in cui, secondo l’interpretazione assunta come diritto vivente, «dispone che la competenza territoriale funzionale della Corte di appello determinata ai sensi dell’art. 11 c.p.p. si estende anche ai procedimenti iniziati avanti alla Corte dei conti ed alle altre giurisdizioni di cui all’art. 103 Cost.».
2.— Ad avviso del rimettente, detta norma violerebbe l’art. 25, primo comma, Cost., in quanto la disciplina della competenza per territorio sarebbe preordinata a garantire il principio del giudice naturale precostituito per legge, il quale esige che l’organo giudicante non sia istituito sulla base di criteri fissati in vista di singole controversie. Siffatto parametro costituzionale sarebbe leso, poiché la norma censurata, per i giudizi di equa riparazione concernenti l’irragionevole ritardo dei processi amministrativi e contabili, prevede una deroga dell’ordinaria disciplina della competenza per territorio non sorretta da una ragionevole giustificazione, dato che per essi l’esigenza di garantire «l’imparzialità e terzietà del giudice» non renderebbe necessaria l’applicabilità della regola stabilita dal citato art. 3, comma 1, come, peraltro, sarebbe stato affermato da questa Corte con la sentenza n. 287 del 2007. Inoltre, essa provocherebbe un incremento della durata di detti giudizi, in contrasto con la finalità degli stessi, sia a causa della maggiore difficoltà di acquisire gli atti del processo presupposto, sia perché determinerebbe la concentrazione di un elevato numero di processi presso una Corte di appello di ridotte dimensioni qual è quella di Caltanissetta.
La norma in esame recherebbe vulnus anche all’art. 3, primo comma, Cost., poiché la deroga della competenza per territorio stabilita dall’art. 11 c.p.p. non è applicabile neppure ai processi penali che concernono i magistrati amministrativi e contabili e neanche sono previste eccezioni all’ordinaria disciplina di tale criterio di competenza per i processi civili dei quali questi sono parte e, quindi, non sarebbe ragionevole la previsione di una deroga per il giudizio di equa riparazione.
Inoltre, essa si porrebbe in contrasto con l’art. 111, secondo comma, Cost. e con il principio di ragionevole durata del processo, dato che determinerebbe l’impossibilità per la Corte rimettente di decidere le domande di equa riparazione entro il termine stabilito dall’art. 3, comma 6, della legge n. 89 del 2001, e ciò rischierebbe di dare luogo ad un ulteriore contenzioso, mentre l’elevato numero di tali processi influirebbe negativamente anche sulla ragionevole durata di tutti gli altri giudizi ad essa attribuiti.
La norma censurata violerebbe, infine, l’art. 24 Cost., in quanto il principio di imparzialità e terzietà del giudice sarebbe garantito dall’«appartenenza dei giudici controllori e controllati ad ordini giurisdizionali diversi» e dagli istituti dell’astensione e della ricusazione. Inoltre, essa determinerebbe «uno sbilanciamento, non necessario, in favore dell’interesse garantito dall’art. 108 comma secondo, Cost.» ed una «non giustificata compressione del diritto di difesa sancito dall’art. 24 Cost.», dato che, nei giudizi in esame, la parte attrice sarebbe costretta ad adire la Corte di appello geograficamente più distante, individuata ai sensi dell’art. 11 c.p.p.
3.— In linea preliminare, va precisato che il giudizio principale ha ad oggetto una domanda diretta ad ottenere l’equa riparazione per l’irragionevole durata di un processo in corso davanti al TAR per la Sicilia; la questione di legittimità costituzionale è, dunque, rilevante esclusivamente nella parte concernente l’applicabilità della norma censurata ai giudizi ex lege n. 89 del 2001 relativi a processi celebrati davanti al giudice amministrativo.
Inoltre, occorre osservare che le sezioni unite civili della Corte di cassazione, investite della questione dell’interpretazione del citato art. 3, comma 1, hanno ritenuto che il criterio di collegamento stabilito da questa disposizione concerne anche detti giudizi (ordinanza 16 marzo 2010, n. 6307; le ordinanze n. 6306 – richiamata dal giudice a quo – e n. 6308, rese nella stessa data, hanno, invece, deciso la questione della riferibilità di detto criterio alle domande relative all’irragionevole ritardo dei giudizi ordinari definiti in sede di legittimità, benché abbiano anche confermato il principio enunciato dalla prima ordinanza). Siffatta interpretazione costituisce regola di diritto vivente, in quanto enunciata dalle sezioni unite nell’esercizio della propria funzione nomofilattica (sentenza n. 338 del 2011) e, in seguito, costantemente ribadita dalla stessa Corte (ex plurimis, ordinanze 30 dicembre 2011, n. 30111; 31 agosto 2011, n. 17908; 29 novembre 2010, n. 24171). La premessa interpretativa dalla quale muove il rimettente è, dunque, corretta e, costituendo la valutazione se uniformarsi o meno a tale orientamento una facoltà del medesimo (sentenza n. 91 del 2004), la questione di legittimità costituzionale è ammissibile. Essa non mira, infatti, ad ottenere un avallo dell’interpretazione ritenuta preferibile dal giudice a quo, ma consiste nella denuncia del contrasto della stessa con i parametri costituzionali sopra richiamati (tra le più recenti, sentenze n. 293, n. 236 e n. 3 del 2010).
4.— Nel merito, la questione non è fondata.
4.1.— In relazione alle censure riferite all’art. 25, primo comma, Cost., occorre premettere che il principio del giudice naturale deve ritenersi osservato quando «l’organo giudicante sia stato istituito dalla legge sulla base di criteri generali fissati in anticipo e non in vista di singole controversie» (da ultimo, sentenza n. 30 del 2011) e la competenza venga determinata attraverso atti di soggetti ai quali sia attribuito il relativo potere, nel rispetto della riserva di legge esistente in tale materia (ordinanze n. 417 e n. 112 del 2002), come accade nella specie. La regola di determinazione della competenza per territorio relativa ai giudizi in esame è, infatti, stabilita in via generale e preventiva dall’art. 3, comma 1, della legge n. 89 del 2001, disposizione questa che, evidentemente, può e deve costituire oggetto di interpretazione da parte dei giudici; l’eventuale sussistenza di un contrasto in ordine al significato da attribuire alla medesima non può, per ciò solo, farla ritenere lesiva del suindicato principio, come, invece, adombra il rimettente.
Secondo la costante giurisprudenza costituzionale, il legislatore dispone, inoltre, di ampia discrezionalità nella conformazione degli istituti processuali (tra le più recenti, sentenza n. 304 del 2011) e, quindi, anche nella fissazione dei criteri attributivi della competenza, con il solo limite della manifesta irragionevolezza delle scelte compiute (ex plurimis, sentenze n. 52 del 2010; n. 237 del 2007; n. 341 del 2006), che non è violato dalla norma censurata.
La tesi contraria è stata argomentata dal rimettente essenzialmente richiamando la sentenza di questa Corte n. 287 del 2007, della quale ha, tuttavia, offerto una lettura non corretta. Questa pronuncia ha, infatti, deciso la questione di legittimità costituzionale del citato art. 3, comma 1, proposta in riferimento agli artt. 97, primo comma, e 108, primo e secondo comma, Cost., nella parte in cui, secondo l’interpretazione sostenuta dal precedente (allora prevalente) orientamento della giurisprudenza, il criterio di determinazione della competenza per territorio dallo stesso stabilito non era applicabile ai giudizi di equa riparazione concernenti i processi celebrati davanti ai giudici non ordinari. La sentenza, nel dichiarare infondata la questione, ha escluso che detta esegesi recasse vulnus alla «garanzia della terzietà e imparzialità del giudice», ma non ha affatto affermato che essa fosse la sola compatibile con le norme della Costituzione (tanto meno con quelle richiamate dal giudice a quo).
L’interpretazione ora divenuta regola di diritto vivente – censurata dalla Corte di appello di Caltanissetta – è stata, quindi, motivata, sottolineando, tra l’altro, che essa non è impedita, «sul piano lessicale», dall’utilizzo nel citato art. 3, comma 1, «di un termine (distretto) che è proprio della distribuzione sul territorio delle corti di appello», non dei giudici amministrativi. Detto termine può, infatti, «funzionare in modo identico» in relazione a questi ultimi, venendo «in rilievo la sede e non l’ambito territoriale di competenza». Il legislatore ha, quindi, inteso «regolare gli effetti del fenomeno della durata non ragionevole del processo, quale che sia il giudice davanti al quale si svolge», esprimendo la volontà di stabilire una specifica disciplina della competenza per territorio, mediante l’impiego della parola «distretto». La ratio della norma censurata è stata, conseguentemente, identificata in quella di stabilire un’unica regola di disciplina della competenza per territorio, valida in relazione a tutti i processi dei quali si denuncia l’irragionevole durata e, a questo scopo, è stato recepito il criterio di collegamento stabilito dall’art. 11 c.p.p. È stata in tal modo realizzata la concentrazione davanti ad uno stesso giudice dei giudizi ex lege n. 89 del 2001 concernenti tutti i processi celebrati in una stessa sede, favorendo una tendenziale omogeneità di valutazioni in ordine alle ragioni del ritardo ed alla liquidazione dei danni (specie, tra l’altro, nel caso di giudizi seriali, ovvero con pluralità di parti, non infrequenti in materia amministrativa), al fine di soddisfare un’esigenza non garantita dalla pregressa esegesi, divenuta particolarmente pressante anche a causa dell’elevato numero dei giudizi di equa riparazione, «che fa ricadere sul bilancio dello Stato un onere sempre più gravoso».
A conforto della regola di diritto vivente in esame sono stati, quindi, addotti argomenti ulteriori rispetto a quello di garantire l’imparzialità e la terzietà del giudice dell’equa riparazione, idonei a fare escludere la manifesta irragionevolezza della scelta con essa realizzata, anche perché la fissazione di una determinata regola di competenza territoriale bene può essere giustificata dall’esigenza di assicurare l’uniformità della giurisprudenza in relazione a determinate controversie (sentenza n. 189 del 1992).
Le deduzioni del rimettente, secondo le quali la norma provocherebbe «un abnorme allungamento dei tempi di definizione del processo», sia in quanto renderebbe meno agevole l’acquisizione degli atti del processo presupposto da parte di un ufficio giudiziario ubicato in una località diversa da quella dell’ufficio davanti al quale esso è stato celebrato, sia perché determinerebbe un aumento del numero di affari giudiziari attribuiti ad «una piccola Corte di appello come quella di Caltanissetta», sono manifestamente incongrue ed inconferenti rispetto alla censura diretta a denunciare la violazione dell’art. 25, primo comma, Cost. In ogni caso, si risolvono nella denuncia di asseriti (ed eventuali) inconvenienti di mero fatto, che, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, non rilevano ai fini del controllo di costituzionalità (per tutte, sentenze n. 303 del 2011 e n. 230 del 2010; ordinanze n. 290 e n. 102 del 2011).
4.2.— Quest’ultima considerazione conduce a ritenere non fondata anche la questione proposta in relazione all’art. 111, secondo comma, Cost., sostenendo che la norma in esame porrebbe la Corte rimettente nell’impossibilità di definire i giudizi di equa riparazione entro il termine fissato dall’art. 3, comma 6, della legge n. 89 del 2001, con il rischio di alimentare un ulteriore contenzioso e di incidere sulla durata degli ulteriori affari alla stessa assegnati.
Siffatta argomentazione consiste, infatti, nella prospettazione di asserite difficoltà che non discendono in via diretta ed immediata dalla norma in esame, ma deriverebbero da una situazione e da inconvenienti di fatto, irrilevanti in quanto tali ai fini del giudizio di legittimità costituzionale, ai quali va eventualmente posto rimedio (qualora effettivamente sussistano), approntando le idonee ed opportune misure organizzative.
4.3.— Le censure riferite all’art. 3 Cost. non sono fondate, anzitutto perché le considerazioni dianzi svolte hanno permesso di negare la manifesta irragionevolezza della scelta realizzata dalla norma. Inoltre, il giudice che ha celebrato il processo presupposto non è parte del giudizio (civile) di equa riparazione e, quindi, è chiara la diversità (e non comparabilità) di detta situazione con quella costituita sia dal giudizio penale, sia dal giudizio civile avente diverso oggetto, del quale sia, invece, parte il giudice amministrativo. La disciplina dell’art. 11 c.p.p. è, poi, richiamata dalla norma in esame per stabilire una regola di individuazione della competenza per territorio unica per tutti i giudizi ex lege n. 89 del 2001, valida indipendentemente dalla giurisdizione davanti alla quale è stato celebrato il processo presupposto, allo scopo di assicurare, all’esito di un non irragionevole bilanciamento degli interessi in gioco, il soddisfacimento anche delle rilevanti esigenze sopra richiamate, ulteriori rispetto a quella di garantire l’imparzialità e la terzietà del giudice.
4.4.— Infine, anche la censura proposta in relazione all’art. 24 Cost. non è fondata.
Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, siffatto parametro costituzionale è vulnerato quando le norme processuali pongano «condizioni “di sostanziale impedimento all’esercizio del diritto di azione”» (tra le più recenti, sentenza n. 30 del 2011), ovvero prevedano deroghe non ragionevoli della regolamentazione della competenza per territorio (sentenza n. 231 del 1994). Nella specie, la disciplina in esame, all’evidenza, non integra un impedimento di tale natura, e ciò anche alla luce sia della non irragionevolezza delle motivazioni costituenti la ratio della regola divenuta diritto vivente e delle esigenze che essa mira a garantire, dianzi esaminate, sia dei caratteri di semplicità e rapidità che improntano il giudizio di equa riparazione (tenuto conto, altresì, delle agevolazioni previste per il ricorrente in ordine all’acquisizione degli atti del processo presupposto, art. 3, comma 5, della legge n. 89 del 2001).
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 3, comma 1, della legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile), sollevata, in riferimento agli articoli 3, primo comma, 24, 25, primo comma, e 111, secondo comma, della Costituzione, dalla Corte di appello di Caltanissetta, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 maggio 2012.
F.to:
Alfonso QUARANTA, Presidente
Giuseppe TESAURO, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 10 maggio 2012.