ORDINANZA N. 270
ANNO 2012
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Alfonso QUARANTA Presidente
- Franco GALLO Giudice
- Luigi MAZZELLA "
- Gaetano SILVESTRI "
- Sabino CASSESE "
- Giuseppe TESAURO "
- Paolo Maria NAPOLITANO "
- Giuseppe FRIGO "
- Alessandro CRISCUOLO "
- Paolo GROSSI "
- Giorgio LATTANZI "
- Aldo CAROSI "
- Marta CARTABIA "
- Sergio MATTARELLA "
- Mario Rosario MORELLI "
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell’articolo dell’articolo 130 del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia), promossi dal Tribunale ordinario di Roma con quattro ordinanze del 21 settembre 2011, rispettivamente iscritte ai nn. 6, 7, 8 e 9 del registro ordinanze 2012 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 6, prima serie speciale, dell’anno 2012.
Visti gli atti di costituzione di A. G. nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 23 ottobre 2012 il Giudice relatore Paolo Maria Napolitano;
uditi gli avvocati Giampiero Amorelli e Marco Annecchino per A. G. e l’avvocato dello Stato Maurizio Di Carlo per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto che, con quattro ordinanze di identico contenuto, tutte depositate in data 21 settembre 2011, il Tribunale ordinario di Roma ha sollevato, in riferimento agli articoli 3, 24, secondo e terzo comma, 53, primo comma, 111, primo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 130 del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia), nella parte in cui prevede che, in caso di ammissione al beneficio della difesa a spese dello Stato del non abbiente in controversie in materia civile, il giudice, allorché provvede alla liquidazione dei compensi spettanti al difensore, deve tenere conto che questi «sono ridotti della metà»;
che il rimettente precisa di essere chiamato a giudicare sulla opposizione proposta da un avvocato – il quale ha difeso dei cittadini stranieri, ammessi al patrocinio a spese dello Stato, in procedimenti civili aventi ad oggetto il riconoscimento dello status di rifugiato politico – avverso i decreti con i quali, in relazione ai predetti giudizi, sono state liquidate le sue competenze;
che fra le lagnanze dell’opponente vi è quella legata all’avvenuta riduzione delle competenze nella misura della metà, operata ai sensi dell’art. 130 del d.P.R. n. 115 del 2002;
che il rimettente, ricostruite la modalità applicative della disposizione in questione – nel senso che il giudice, effettuata la liquidazione entro il limite degli importi medi previsti in funzione del valore della controversia, deve dimezzare l’importo così determinato ed attribuirlo al professionista solo nella misura così risultante –, ha, preliminarmente, escluso la tacita abrogazione della disposizione censurata per effetto della entrata in vigore dell’art. 2, comma 2, del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223 (Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all’evasione fiscale), convertito, con modificazioni, nella legge 4 agosto 2006, n. 248, il quale prevede che «il giudice provvede alla liquidazione delle spese di giudizio e dei compensi professionali, in caso di (…) gratuito patrocinio, sulla base della tariffa professionale»;
che, in particolare, ad avviso del rimettente la previsione normativa sopravvenuta – resasi necessaria onde chiarire che il meccanismo di liberalizzazione delle tariffe, introdotto dallo stesso decreto-legge n. 223 del 2006, opera limitatamente ai rapporti di natura contrattuale fra professionista e cliente e non laddove la liquidazione intervenga ex officio – non esclude la operatività di altri meccanismi modificativi, fissati dalla legge, atti ad incidere sulla liquidazione tramite tariffa;
che – quanto alla rilevanza della questione nei giudizi a quibus – il rimettente precisa di essere chiamato a sindacare il provvedimento di liquidazione emesso sulla base della normativa censurata che egli, pertanto, è tenuto ad applicare in sede di gravame;
che, per ciò che concerne la non manifesta infondatezza della questione, il rimettente ritiene che la disposizione violerebbe diversi parametri costituzionali: vale a dire gli artt. 3, 24, 53, 111 e 117, comma primo, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6, primo comma, della Convenzione europea dei diritti umani, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848;
che, con riferimento all’art. 3 della Costituzione, espressivo del principio di eguaglianza, ritiene il Tribunale di Roma che molteplici siano i profili di illegittimità costituzionale riscontrabili nella disposizione censurata;
che, essa, infatti, determinerebbe una disparità di trattamento in funzione della natura, civile o penale, del processo in relazione al quale sono stati liquidati i compensi al professionista il cui cliente sia stato ammesso al beneficio del patrocinio a spese dello Stato, posto che l’abbattimento dei compensi liquidati dal giudice non opera in materia penale;
che – non ignaro che analoga questione di legittimità costituzionale già è stata in passato decisa da questa Corte, nel senso della sua manifesta infondatezza, sulla base della incomparabilità fra i due modelli processuali cui fa sfondo la diversità degli interessi coinvolti dai medesimi – il rimettente auspica un superamento di tali decisioni, argomentando che la diversità degli interessi coinvolti non comporta che quelli implicati nei giudizi civili siano di minore dignità ed importanza, potendo, come nei giudizi a quibus, concernere diritti fondamentali della persona;
che, aggiunge, la diversità fra i due modelli processuali, frutto della diversità degli interessi implicati, non giustificherebbe comunque la diversità fra i criteri di remunerazione degli avvocati interessati, in quanto la distinzione fra le situazioni soggettive tutelate riguarderebbe solo le parti dei giudizi non anche i loro difensori che hanno uguale diritto a vedere compensato il proprio impegno;
che, per il rimettente, un’ingiustificata disparità di trattamento sarebbe ravvisabile, nell’ambito dello stesso sistema del processo civile, fra la posizione dell’avvocato che abbia difeso una parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato e quella di chi abbia difeso una parte ordinaria, posto che i criteri di determinazione dei compensi professionali degli avvocati sono ancorati a fattori – quali il valore della controversia, la sua complessità, la quantità dell’opera prestata, la sua qualità nonché il risultato conseguito – per i quali è indifferente se a pagare il compenso sia direttamente il cliente ovvero un terzo, che in questo caso è lo Stato a ciò tenuto dall’esigenza di adempiere ad un dovere di solidarietà sociale;
che sarebbe perciò privo di ragionevole giustificazione lo “svilimento” dell’opera professionale resa dal difensore di soggetto ammesso al patrocinio a spese dello Stato e la “devalorizzazione” delle identiche prestazioni in funzione del fatto che siano prestate o meno in favore di persona ammessa al detto beneficio;
che, prosegue il rimettente, ciò avrebbe altresì l’effetto, stante la minore remuneratività della prestazione professionale offerta in favore di chi sia stato ammesso al patrocinio a spese dello Stato, di restringere il numero degli avvocati cui il non abbiente potrà rivolgersi rispetto a quello da cui potrà attingere il cliente che paghi direttamente il professionista;
che pertanto, chiarisce il rimettente, la minore appetibilità degli incarichi di patrocinio a spese dello Stato per il professionista che esercita in materia civile fa sì che il cliente non abbiente si trovi a poter scegliere il proprio avvocato fra un numero inferiore di professionisti rispetto a quelli da cui può attingere il cliente ordinario;
che tale discriminazione, fondata su ragioni economiche, è, come tale, “sospetta” di illegittimità costituzionale;
che essa, aggiunge il rimettente, non è, peraltro, frutto immediato della disparità economica esistente fra diversi cittadini, ma è la conseguenza del dettato legislativo che, anziché rimuovere gli ostacoli di ordine economico che limitano l’eguaglianza dei cittadini, ne erige uno dove non esisteva, né aveva ragione di esistere;
che il rimettente osserva ancora come la descritta disparità di trattamento può manifestarsi anche all’interno del singolo processo, ove una delle parti sia stata ammessa al patrocinio a spese dello Stato, risultando violato, in tali casi il principio della “parità delle armi” nel processo, garantito dall’art. 111 della Costituzione;
che, ritiene il giudice a quo, le predette violazioni contrastino anche con il dettato dell’art. 24, secondo e terzo comma, della Costituzione, nonché dell’art. 117, primo comma, della Costituzione, stante il contrasto della disposizione censurata con l’art. 6, primo comma, della CEDU, il quale assicura “l’effettività dell’accesso al tribunale” e la “parità delle armi”;
che l’unica finalità rinvenuta dal rimettente nel censurato art. 130 del d.P.R. n. 115 del 2002 è quella di realizzare un risparmio di spesa in favore dell’Erario, finalità che, più volte, la Corte di Strasburgo ha ritenuto insufficiente a giustificare il sacrificio di un diritto garantito dalla Convenzione ;
che, segnala il giudice a quo, la riduzione dei compensi determinata dall’art. 130 del d.P.R. n. 115 del 2002 opererebbe, in maniera del tutto eterogenea rispetto al predetto scopo, anche nel caso di condanna della controparte del non abbiente alla rifusione delle spese giudiziali in favore di questo, in una ipotesi, cioè, in cui non sarebbero, comunque, interessate le finanze dello Stato;
che, per il rimettente, la disposizione censurata violerebbe altresì l’art. 53 della Costituzione;
che, osserva il rimettente, l’utilità economica della attività prestata dall’avvocato, liquidata in base a tariffe legalmente approvate, corrisponde alla somma determinata, in applicazione di quelle, dal giudice;
che da ciò conseguirebbe il credito, da parte dell’avvocato che abbia prestato la propria opera a difesa di un non abbiente in un giudizio civile, della integrale somma liquidata dal giudice;
che di essa, però, egli ne riceve solo una quota pari alla metà, la quale, aggiungendosi alle altre entrate del professionista, va a costituire il suo reddito imponibile, sul quale calcolare la relativa imposta;
che il restante 50% rimane nella disponibilità dell’Erario il quale, pertanto, consegue un beneficio economico equivalente a quello che realizzerebbe ove il professionista, ricevuta integralmente la somma a lui dovuta, ne dovesse riversare allo Stato, in aggiunta a quanto deve versare a titolo di imposta, la metà;
che siffatta attribuzione patrimoniale a favore dello Stato è, per il rimettente, assimilabile ad un’entrata tributaria;
che gli effetti favorevoli per l’Erario di tale meccanismo, secondo la ricostruzione operata dal rimettente, sarebbero ancora più evidenti nel caso in cui la parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato sia risultata vittoriosa in giudizio, poiché in tale ipotesi il giudice, nel condannare il soccombente a corrispondere alle casse dello Stato le spese di lite, non potrebbe che determinarne l’ammontare applicando, senza abbattimenti, le tariffe forensi, con la conseguenza che l’Erario incasserà dal soccombente l’intera somma liquidata dal giudice, ma ne riverserà al difensore della parte ammessa al beneficio solo la metà, trattenendo il resto, fatto che costituisce una vera e propria entrata tributaria;
che, non essendo quest’ultima calcolata in base ad aliquote previste per legge né rapportata al reddito imponibile del professionista e prescindendo il suo ammontare da ogni considerazione in ordine alla capacità contributiva di quest’ultimo o, eventualmente, della parte abbiente soccombente, la norma che la dispone è in contrasto con l’art. 53 della Costituzione;
che in ciascuno degli incidenti di costituzionalità si è costituito, con comparse di identico contenuto, il ricorrente nei giudizi a quibus, contestando in linea di principio la ammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 130 del d.P.R. n. 115 del 2002 in quanto tale norma deve intendersi abrogata per effetto della entrata in vigore dell’art. 2, comma 2, del decreto-legge n. 223 del 2006, convertito, con modificazioni, nella legge n. 248 del 2006;
che, se tale tesi non fosse condivisa dalla Corte, la parte privata si associa alla richiesta di dichiarazione di illegittimità costituzionale;
che è intervenuto nel giudizio, rappresentato e difeso dalla Avvocatura generale dello Stato, il Presidente del Consiglio dei ministri concludendo per la infondatezza della questione;
che la difesa pubblica ricorda, infatti, come la giurisprudenza della Corte abbia già escluso la illegittimità costituzionale della disposizione censurata, osservando che: a) la garanzia del diritto di difesa non esclude che il legislatore lo moduli sulla base di scelte discrezionali non irragionevoli; b) la differente disciplina del processo penale e di quello civile è giustificata dalla incomparabilità dei due modelli processuali; c) la diversità degli interessi in giuoco nel processo penale ed in quello civile giustifica la diversa disciplina della liquidazione degli onorari spettanti agli avvocati che si siano impegnati in essi; d) la circostanza che il difensore del non abbiente nel processo civile sia tenuto a prestare la propria opera per un compenso inferiore ai minimi tariffari, a prescindere dall’avvenuta abrogazione della inderogabilità di questi, non è fonte di illegittimità trovando fondamento in una norma di legge;
che l’affermata menomazione del diritto di difesa della parte non abbiente e la paventata frustrazione del diritto di accesso alla giustizia in condizione di parità delle armi, presuppongono che il difensore di questa, in ragione della minore prospettiva di guadagno, offra una prestazione professionale non adeguata;
che tale dato non può essere sostenuto in via di principio come effetto della norma censurata, rilevando, qualora si verificasse nel singolo caso, sul piano della deontologia forense;
che, in assenza di valide ragioni per discostarsene, l’Avvocatura chiede che siano confermate le precedenti decisioni della Corte;
che la difesa privata ha depositato, peraltro tardivamente, ampie memorie illustrative a conferma delle già rassegnate conclusioni.
Considerato che, con quattro ordinanze di identico contenuto, il Tribunale ordinario di Roma ha sollevato questione incidentale di legittimità costituzionale dell’articolo 130 del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia), nella parte in cui prevede che, in caso di ammissione al beneficio della difesa a spese dello Stato del non abbiente in controversie in materia civile, il giudice, allorché provvede alla liquidazione dei compensi spettanti al difensore, deve tenere conto che questi «sono ridotti della metà»;
che, secondo l’avviso del rimettente, detta disposizione si porrebbe in contrasto con gli artt. artt. 3, 24, secondo e terzo comma, 53, 111, primo comma, e 117, primo comma, della Costituzione;
che, in particolare, il principio di eguaglianza sarebbe violato in ragione del deteriore criterio di determinazione dei compensi spettanti ai professionisti che difendono i soggetti non abbienti, e pertanto ammessi al beneficio del patrocinio a spese dello Stato, nei giudizi civili (recte: in considerazione di quanto dispone l’intitolazione del Titolo IV del d.P.R. n. 115 del 2002 al cui interno è inserito il censurato art. 130: nonché in quelli amministrativi, tributari e contabili), rispetto a quello, più vantaggioso, applicabile ai professionisti che difendono i soggetti non abbienti nei giudizi penali;
che, secondo il rimettente, la disparità di trattamento, sarebbe, altresì, ravvisabile, anche fra difensori operanti nel comune ambito del processo civile (recte: nonché in quelli amministrativi, tributari e contabili), nel diverso criterio di determinazione ope iudicis dei compensi in ragione della circostanza che la difesa sia resa in favore di soggetto abbiente ovvero di soggetto ammesso al patrocinio a spese dello Stato;
che, ancora, sarebbe violato il principio di eguaglianza, poiché, data la minore rimuneratività delle difese svolte nei giudizi civili (recte: nonché in quelli amministrativi, tributari e contabili) in favore di soggetti ammessi al patrocinio a spese delle Stato, questi ultimi si troverebbero a poter scegliere il proprio patrono attingendo da un bacino di professionisti più ristretto di quello da cui possono attingere gli altri litiganti;
che, secondo il rimettente, sarebbero, in tal modo, violati anche: a) l’art. 24, secondo e terzo comma, della Costituzione, stante la derivante violazione del diritto di difesa; b) l’art. 111, primo comma, della Costituzione, data la violazione del principio di “parità delle armi” fra le parti nel processo; c) l’art. 117, primo comma, della Costituzione, in relazione all’art. 6, primo comma, della Convenzione europea dei diritti umani, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, in quanto, in assenza di uno scopo legittimo, sarebbe limitata, per il soggetto ammesso al patrocinio a spese dello Stato, l’effettività del “diritto di accesso al tribunale”;
che, prosegue il rimettente, la disposizione in esame – realizzando un prelievo tributario, nella misura della metà dei compensi liquidabili al professionista che abbia difeso il non abbiente nel giudizio civile (recte: nonché in quelli amministrativi, tributari e contabili), a carico o del professionista medesimo ovvero, in caso di condanna del contraddittore di chi sia stato ammesso al beneficio del patrocinio a spese dello Stato alla rifusione delle spese di lite, di quest’ultimo soggetto – violerebbe l’art. 53 della Costituzione prescindendo il predetto prelievo sia da aliquote predeterminate che dalla “capacità contributiva” dei soggetti incisi;
che i giudizi scaturiti dalla quattro ordinanze di rimessione, data la identità della questione da essi sollevata, debbono essere riuniti per essere definiti con un’unica decisione;
che, preliminarmente, deve essere valutata, sotto il profilo della perdurante rilevanza della sollevata questione di legittimità costituzionale, la incidenza sul presente giudizio della entrata in vigore del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1 (Disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività), convertito, con modificazioni, nella legge 24 marzo 2012, n. 27, che, all’art. 9, prevede, rispettivamente al comma 1, la abrogazione delle tariffe delle professioni regolamentate nel sistema ordinistico (fra le quali vi è la professione forense), e, al comma 5, che «sono abrogate le disposizioni vigenti che, per la determinazione del compenso del professionista, rinviano alle tariffe di cui al comma 1»;
che, tuttavia, precisa il comma 3 del medesimo art. 9 (significativamente inserito in sede di conversione in legge dell’originario decreto), «le tariffe vigenti (…) continuano ad applicarsi, limitatamente alla liquidazione delle spese giudiziali, fino alla data di entrata in vigore dei decreti ministeriali di cui al comma 2» (vale a dire dei provvedimenti con cui sono fissati i parametri di riferimento sulla base dei quali deve essere liquidato il compenso del professionista nel caso di determinazione da parte di un organo giurisdizionale);
che, per ciò che concerne le professioni vigilate dal Ministero della giustizia (fra le quali vi è quella forense), è stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 195 del 22 agosto 2012, per il fine sopra indicato, il decreto ministeriale 20 luglio 2012, n. 140 (Regolamento recante la determinazione dei parametri per la liquidazione da parte di un organo giurisdizionale dei compensi per le professioni regolarmente vigilate dal Ministero della Giustizia ai sensi dell’articolo 9 del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, convertito, con modificazioni, nella legge 24 marzo 2012, n. 27), il quale, per quanto qui interessa, prevede, all’art. 41, che le disposizioni in esso contenute si applicano alle liquidazioni successive alla sua entrata in vigore, fissata, dal successivo art. 42, nel giorno successivo a quello di pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale;
che, pertanto, siffatto ius novum non interferisce sui giudizi a quibus, concernenti liquidazioni di compensi già da tempo operate sulla base della scrutinanda previgente normativa, sicché, quanto al profilo ora esaminato, la questione prospettata dal rimettente è tuttora rilevante;
che, sempre in limine litis, va esaminata la eccezione di inammissibilità della questione – dedotta dalla costituita parte privata nei giudizi a quibus e ribadita di fronte a questa Corte anche in sede di discussione orale – argomentata sulla base della asserita implicita abrogazione della disposizione censurata a seguito della entrata in vigore dell’art. 2, comma 2, del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223 (Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spese pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all’evasione fiscale), convertito, con modificazioni, nella legge 4 agosto 2006, n. 248, secondo il quale «il giudice provvede alla liquidazione delle spese di giudizio e dei compensi professionali, in caso di (…) gratuito patrocinio, sulla base della tariffa professionale»;
che siffatta eccezione va disattesa in quanto è del tutto plausibile l’interpretazione fornita dal Tribunale di Roma nelle ordinanze di rimessione, secondo cui l’indicazione della “tariffa professionale” quale base di calcolo per la liquidazione giudiziale dei compensi spettanti al difensore di chi sia ammesso al patrocinio a spese dello Stato – tale è, infatti, chiaramente l’istituto che il legislatore intende richiamare allorché si riferisce al “gratuito patrocinio”– non impedisce che tale indicazione sia integrata da altre equiordinate disposizioni normative che, senza contraddirlo, modulino, in funzione di specifiche esigenze, il predetto criterio generale;
che la questione è manifestamente infondata, sotto tutti i profili dedotti dal rimettente;
che, con riferimento alla asserita disparità di trattamento esistente fra avvocati i quali, in difesa di soggetti ammessi al patrocinio a spese dello Stato, esercitino il loro ministero di fronte agli organi della giustizia penale, ed avvocati che, invece, operino, in difesa di soggetti aventi la medesima caratteristica, di fronte agli organi della giurisdizione civile, amministrativa, contabile o tributaria, questa Corte osserva che la relativa questione già è stata esaminata e definita nel senso della manifesta infondatezza, sulla base del rilievo che, per un verso, «la intrinseca diversità dei modelli del processo civile e di quello penale non consente alcuna comparazione» fra le discipline ad essi applicabili (ordinanza. n. 350 del 2005) e che, per altro verso, la «diversità di disciplina fra la liquidazione degli onorari e dei compensi nel processo civile e nel processo penale trova fondamento nella diversità delle situazioni comparate» (ordinanza n. 201 del 2006 che, a sua volta, riprende l’ordinanza n. 350 del 2005), laddove è di tutta evidenza che nel rimarcarsi la diversità fra «gli interessi civili» e le «situazioni tutelate che sorgono per effetto dell’esercizio della azione penale» non si vuole affatto alludere ad una gerarchia di valori fra gli uni e le altre, ma esclusivamente alla indubbia distinzione fenomenica esistente fra di loro, tale da escludere una valida comparazione fra istituti che concernano ora gli uni ora le altre;
che, riguardo alla disparità di trattamento fra avvocati che, parimenti operando di fronte agli organi della giurisdizione civile, amministrativa, tributaria o contabile, vedono i loro compensi ridotti della metà nell’ipotesi in cui la liquidazione giudiziale concerna difese apprestate nei confronti di soggetti ammessi al patrocinio a spese dello Stato, questa Corte ritiene di doverla escludere;
che, neppure in questo caso, la diversa disciplina applicabile alle distinte fattispecie, una delle quali, quella relativa ai non abbienti, è connotata da «peculiari connotati pubblicistici» (ordinanza n. 387 del 2004) – che hanno indotto questa Corte a ritenere (sentenza n. 114 del 1964), in vigenza di una precedente formulazione dell’art. 128, secondo comma, del codice di procedura penale, che prevedeva, in materia penale, l’obbligo della difesa gratuita dei non abbienti, non fondata la questione di costituzionalità allora posta con riferimento agli artt. 24 e 35 Cost. in quanto si trattava di una prestazione obbligatoria, radicata nell’art. 23 Cost., che aveva «la sua ragione nell’interesse pubblico» – non riscontrabili nell’altra, esula rispetto al margine di ampia discrezionalità di cui il legislatore gode nel dettare le norme processuali (da ultimo ordinanza n. 26 del 2012), nel cui novero sono comprese anche quelle in materia di spese di giustizia (ordinanza n. 446 del 2007);
che, sempre con riferimento alla violazione dell’art. 3 della Costituzione – questa volta sospettata nella esistenza di una più ridotta platea di professionisti disposta a difendere in sede civile, amministrativa, tributaria o contabile, data la minore rimuneratività di tale attività, i soggetti ammessi al patrocinio a spese dello Stato, rispetto a quella cui può attingere il soggetto ordinario – questa Corte ritiene, per un verso, che la censura sollevata dal rimettente si risolva palesemente nella doglianza avverso un – peraltro solo postulato – inconveniente di fatto non direttamente riconducibile alla applicazione della disposizione censurata ma, semmai, cagionato da scelte professionali del ceto forense;
che, per altro verso, più volte, questa Corte ha escluso la illegittimità costituzionale di disposizioni normative che impongono dei limiti nella scelta del difensore – ora attraverso la individuazione di speciali elenchi da cui attingere (ordinanza n. 387 del 2004; ordinanza n. 374 del 2003) ora determinando al medesimo scopo, ambiti territoriali di riferimento (sentenza n. 394 del 2000) – ogniqualvolta ne sia comunque assicurata una ampia possibilità di scelta, circostanza quest’ultima senza dubbio riscontrabile nel caso di specie, tenuto conto che lo stesso rimettente indica, per il circondario di sua competenza, in alcune migliaia il numero di professionisti abilitati al patrocinio a spese dello Stato;
che l’insussistenza dei predetti vizi di costituzionalità esclude anche la fondatezza delle censure aventi ad oggetto la violazione degli artt. 24, secondo e terzo comma, 111, primo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, data la loro derivazione dalla affermata violazione del principio di uguaglianza;
che, infine, anche per quanto concerne l’asserito contrasto fra la richiamata disposizione legislativa e l’art. 53 della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale è manifestamente infondata;
che, per un verso, deve essere escluso – diversamente da quanto, invece, sostenuto dal rimettente – che, ove sia pronunziata condanna alle spese di giudizio a carico della controparte del soggetto ammesso al beneficio del patrocinio a spese dello Stato, vi sia una iniusta locupletatio dell’Erario, atteso che, anche recentemente, la giurisprudenza di legittimità ha puntualizzato che la somma che, ai sensi dell’art. 133 d.lgs. n. 115 del 2002, va rifusa in favore dello Stato deve coincidere con quella che lo Stato liquida al difensore del soggetto non abbiente (Corte di cassazione, Sez. VI penale, 8 novembre 2011, n. 46537);
che, per altro verso, nel meccanismo attraverso il quale si procede alla liquidazione dei compensi spettanti al difensore che abbia difeso in giudizi diversi da quelli penali la parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato, e che comporta l’abbattimento nella misura della metà della somma risultante in base alle tariffe professionali, non è dato riscontrare alcuna forma di prelievo tributario, trattandosi semplicemente di una, parzialmente diversa, modalità di determinazione dei compensi medesimi – giustificata, per come dianzi dimostrato, dalla diversità, rispetto a quelli penali, dei procedimenti giurisdizionali cui si riferisce – tale da condurre ad un risultato economicamente inferiore rispetto a quello cui si sarebbe giunti applicando il criterio ordinario.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’articolo 130 del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia), sollevata, in riferimento agli articoli 3, 24, secondo e terzo comma, 53, primo comma, 111, primo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Roma con le ordinanze in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 novembre 2012.
F.to:
Alfonso QUARANTA, Presidente
Paolo Maria NAPOLITANO, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 28 novembre 2012.